Da Minsk a Svetlogorsk, passando per Jilihovo

di Marco –
Sopra le nuvole bianche e sfilacciate c’è una superstrada azzurra che porta al sole. Non c’è dubbio: è il classico sole dell’est, pallido e timido. D’un tratto sprofondiamo nelle nuvole e mi accorgo che non sono poi così bianche, ma di un grigio-topo velenoso, come il veleno di Chernobyl. Stiamo per atterrare, all’aeroporto ci sarà Katerina ad attendermi, ma ora, dal finestrino dell’aereo, vedo un immensa distesa di campagna e dacie, dacie e campagna. E’ tutto marrone, anche il verde ha un colore terreo, sembra quasi avere paura a mostrarsi in tutto il suo splendore, come il giallo del sole. Due strade parallele: colori e gente dell’Est. Potenzialità enormi soffocate da un’aria pesante. Ho letto d’un fiato il “reportage” su questo sito sulla Bielorussia: è molto bello, ho pensato che sarebbe stato inutile scrivere di un viaggio quando le tue stesse sensazioni ed emozioni le trovi già descritte così nitidamente in un altro racconto. Ma vorrei lo stesso provare a raccontarvi il mio viaggio, trascorso non in un istituto ma


da Mins a Svetlogorsk, passando per Jilihovo

Sceso dall’aereo e recuperati i bagagli, mi perdo in un lungo abbraccio con Katerina e suo padre, Ghennadi. Prendiamo il bus che ci porterà dall’aeroporto a Minsk in un’oretta di viaggio. La casa è molto piccola: un corridoio di un paio di metri, con il bagno alla sua destra, dove bisogna togliersi le scarpe, per non sporcare i tappeti che ricoprono il pavimento della sala da pranzo, una stanza abbastanza grande che comunica con la camera di Katerina e suo fratello Vitali, ora in Irlanda a lavorare. La cucina è un buco di 5 metri quadrati, con un frigorifero eternamente vuoto e un piccolo balcone che si affaccia su un vialetto alberato poco distante dalla fermata della metropolitana, Pushkinskaya. Ghennadi è un uomo robusto, onesto,dai lineamenti marcati, ma con la pelle un po’ afflosciata sulle guance rosse, i capelli neri con macchie di grigio qua e là e gli occhi piccoli, molto chiari, quasi grigi e luccicanti che tradiscono l’amarezza per una vita andata un po’a puttane. Lo ricordo nel mio cuore come una persona umile, semplice, onesta e dignitosa, a dispetto dei suoi bicchieri di vodka, che lo rendevano bambino e irresponsabile. Da 15 anni è divorziato con Aleksandra, ma questa è un’altra storia. Aleksandra è una bella donna, decisa, un’ingegnere dai capelli tinti biondo-platino, gli zigomi sporgenti, denti bianchi e occhi verdi di cristallo. Una donna che ha sofferto una triste giovinezza in una campagna di Minsk di 40 anni fa, tra fratelli alcolizzati, padre suicida e madre impazzita sotto i colpi di una vita dimenticata. Raissa è bassa, il naso lungo e un sorriso perenne che nasconde un’anima violentata da un pianto amaro.
In quel piccolo palazzo vivevano 6 famiglie, se ricordo bene, e tutti aspettavano di vedere l’italiano. Per me era molto imbarazzante e credo proprio che la mia timidezza sia stata fraintesa con un’apparente superbia. Ma non era così, perché io avevo un rispetto enorme per quella gente, vedendo in loro le sofferenze e le amarezze che anche noi italiani, in tempi non troppo lontani, abbiamo dovuto combattere e sopportare.
Il mio viaggio inizia da qui.



La via principale di Minsk è molto bella, i palazzi, del governo e non, sono nuovi, maestosi, imponenti, e sorvegliano i 17 km del corso principale, attraversati da BMW e Mercedes, con il loro sguardo solenne; le luci illuminano i tanti negozi lussuosi che scintillano lungo il corso: profumerie, gioiellerie, elettrodomestici, abbigliamento, gallerie d’arte, teatri…Una via. Purtroppo ci sono altre centomila strade a Minsk nascoste nell’ombra dell’oblio, avvolte nella nebbia e spezzate dal gelo. Strade sconnesse, strade misteriose, strade percorse da uomini e donne che non ridono mai, strade che puzzano di vodka, strade di maniaci e strade di bambini, strade, comunque strade. E a queste strade non guarda nessuno.
All’uscita della metro c’è il McDonald’s, ma ci sono anche le signore anziane che vendono fiori raccolti in chissà quale sperduta campagna bielorussa; vicino all’ingresso di uno dei negozi più lussuosi di Minsk c’è un barbone che chiede l’elemosina, mentre bambini vestiti di stracci corrono e gridano sotto le luci di un’apparente benessere. E’ il risultato della contraddizione tra la voglia di apparire e la fragilità di essere; l’esaltazione della non-politica, l’elogio agli interessi personali a scapito dell’individuo, il tutto creato a regola d’arte con i media asserviti al potere: una televisione che canta, balla, ride, gioca e si diverte, mentre l’80% dei giovani vuole scappare via da un paese che non garantisce un futuro vivibile, incantati dalle ricchezze d’Italia e d’America. Già, l’America, modello di democrazia, dove sei libero di fare tutto, dove puoi guadagnare addirittura 30 dollari al giorno, quando in Bielorussia 30 dollari li fai in 15 giorni. Ho parlato con alcuni ragazzi che sognano di andare in America e quando ho provato a dire loro che i sogni potrebbero incontrare realtà molto diverse, loro mi hanno risposto: “Tu che faresti al posto mio?”…Come dargli torto?
Le stazioni della metro sono tenute benissimo, molto pulite e ordinate. Ci sono gruppi di ragazzi che suonano divinamente pezzi difficilissimi organizzandosi con violini, pianoforte, chitarre e batteria, altri che suonano una fisarmonica, ma anche qui, nella metro, non un sorriso, non un bacio tra giovani, solo occhi tristi e sguardi bassi.
Irina è una ragazzina di 13 anni che viene in Italia con Tania, la bambina che noi ospitiamo, e vive in internato a Minsk. Decidiamo d andarla a salutare e rimango piacevolmente colpito dall’organizzazione e dalla pulizia di quell’edificio: un ampio ingresso con accoglienti poltrone rosse, una grossa pianta al centro che colora di verde un ambiente pulitissimo. Irina dorme con sua sorella Sveta in una piccola camera da letto al secondo piano, carica di peluche e di giocattoli, molto ordinata e piena di vita. Sono rimasto stupito da questa organizzazione, perché mi avevano descritto gli internati come luoghi invivibili, sporchi e malandati, invece mi sono trovato davanti un’ottima struttura…ma forse avevo visto solamente uno delle migliaia di internati bielorussi, peraltro a Minsk, ignorando quello che avrei visitato in seguito a Svetlogorsk, ma sto correndo troppo.

L’aria è molto pesante: i grandi palazzi di cui parlavo prima sembrano soldati orgogliosi che difendono le tortuose vie di una città fragile, un occhio indiscreto mi segue costantemente durante le mie passeggiate, allontanandomi da luoghi che non posso visitare…è una sensazione stranissima quella che ho provato per le strade di questa città, avvolta da una cortina di mistero, sembra quasi che la vera vita di Minsk si svolga di notte…mi ricorda un po’ il fascino oscuro di una Firenze maledetta. Questa capitale europea, massacrata da guerre e crimini nazisti, è piena di monumenti dedicati ai caduti in guerra, un terzo della popolazione: in ogni parco, in ogni piazza, ci sono statue in marmo o in bronzo che raffigurano angeli-bambini, madri che aspettano in lacrime i loro figli, nomi scritti in cirillico su enormi lastre di marmo. Non mancano monumenti a poeti come Pushkin oppure a personaggi storici come Lenin, di cui qualche statua è rimasta.
Dal ponte che si affaccia sul piccolo fiume che bagna Minsk si scende giù fino alla riva, dove tavolini di bar all’aperto si incrociano con disco-pub con musica commerciale ad altissimo volume, dove giovani coppie noleggiano vecchi pedalò scivolando su un’acqua colorata dalla luce dei lampioni e da un cielo favoloso, dove straccioni ubriachi si contendono posti per dormire sulle panchine di ferro, dove uomini soli gridano ad alta voce e ragazzi in gruppo preparano una gita in Paradiso, dove bambini biondi chiedono l’elemosina e ragazze bellissime coccolano generose bottiglie di vodka, per iniziare a scaldare la notte del cuore, dove il suono di un flauto solitario si mescola a quello di una chitarra vicina…dove…ad un tratto, su per una leggera salita…spunta la città vecchia: il quartiere più antico di Minsk, ricostruito dopo la guerra grazie alle descrizioni degli anziani sopravvissuti. E’ una zona molto ricca, piena di vicoli geometricamente perfetti, rettangolari e con una pavimentazione di pietre color rosa antico, che riprende la tonalità rosa pastello della maggior parte delle case del quartiere. Questi alloggi sono quasi tutti a due piani, riservati all’èlite bielorussa, abitati da una o due famiglie, tinteggiati all’esterno con colori pastello: albicocca, celeste,verde pallido,violetto, con finestre bianche da cui trapelano luci accese, che illuminano le tende di lino che lasciano intravedere un interno sfarzoso, tipico dell’Est.
La burocrazia mi ha costretto per alcuni giorni a girare per gli uffici di Minsk, all’interno di vecchi palazzi malandati. Molto spesso gli uffici erano chiusi, ma noi entravamo lo stesso e attendevamo in sala d’aspetto, nella speranza di riuscire ad ottenere il mio benedetto certificato medico. Enormi stanze vuote e fredde tracciavano il perimetro di un qualcosa di inavvicinabile, come se in quegli uffici vuoti qualche fantomatico Bush od Osama stesse decidendo il futuro del mondo. In quegli atri parlavamo sottovoce, intimiditi (almeno io) da bionde donne tutte d’un pezzo che facevano avanti e indietro quasi sembrassero soldatesse in borghese. L’atmosfera si faceva ancora più triste quando entravamo negli uffici e i funzionari non mostravano mai un sorriso o un’espressione cordiale, ma solamente freddezza e diffidenza…

A poche decine di chilometri da casa di Katerina c’è il mercato: un formicolio incessante di uomini e donne che si intrecciano tra centinaia di chioschi bianchi e azzurri, che sembrano funghi giganteschi cresciuti su un’immensa colata d’asfalto. A 5 metri l’uno dall’altro, i chioschi sono costruzioni in legno ed eternit imbottiti di prodotti di ogni tipo, ma ognuno con una sua “specializzazione”. Dalle minuscole finestre di questi “trulli bielorussi” si intravedono saponette, spazzolini, macchinucce, fermacapelli, occhiali, sigarette, cioccolatini, fiori finti, posate, tovaglioli, radio, cassette, mentre, nei lunghi e stretti corridoi formati dalla disposizione dei chioschi si ammassano le cose più grandi: dai giocattoli alle piante, dai tavolini alle pentole. Dall’altro lato del mercato, la parte più nuova, lunghi capannoni ospitano anziane signore che vendono vestiti, mentre vecchie bancarelle arrugginite espongono frutta importata da Turchia e Bulgaria, un lusso per molti bielorussi, ma che qui si concede a prezzi più bassi.
Non ci sono, nel mercato, i prodotti tipici bielorussi, che abbondano nei negozi di Minsk: oggetti di cristallo, tovaglie di lino fatte a mano, quadri di varia misura che rappresentano paesaggi di boschi e laghi, realizzati dai detenuti in carcere con piccole pietre naturali multicolori, matrioske di tutte le grandezze e piccole bambole in legno che indossano vestiti caratteristici delle donne di campagna: c’è quella che sforna il pane, quella che raccoglie l’acqua nel pozzo, quella che cuce a maglia, quella più anziana che dondola sulla sedia…solo donne, niente uomini…la discreta testimonianza di una realtà tenuta a galla dal coraggio e dalla concretezza di mogli e madri ormai indipendenti dai loro uomini ostaggi dell’alcool.
Sotto le stelle oscurate di questo cielo imperscrutabile ci dirigiamo verso casa, per prepararci al viaggio di domani.
Minsk si sta svegliando. Stamattina non c’è il solito grigio ad affollare il cielo, ma tra le nuvole bianche e compatte posso scorgere pezzetti di cielo azzuro-est. Katerina ed io trascorreremo un week-end dai suoi zii di campagna. Arriviamo alla stazione intorno alle 8.00. Marina è già lì ad aspettarci con le sue buste piene di cose da mangiare da portare ai suoi genitori. Saliamo sul pullman, un mezzo vecchio e arrugginito con i sedili scomposti, accompagnati da una musica bielorussa che richiama alla mia mente quei documentari di qualche anno fa che riempivano i miei pomeriggi: ora ne sono un protagonista affascinato. Marina è la cugina di Katerina: ha 30 anni, laureata in psicologia, lavora sia come segretaria in una scuola elementare, sia come educatrice per un associazione che si occupa dei bambini orfani e disagiati, per 70 dollari al mese. Una fortuna che le vale un appartamento di quattro mura, con il bagno in comune con tutto il condominio, nella zona più degradata di Minsk. Ma deve ritenersi davvero fortunata per essere riuscita ad ottenere questa casa, perché lei ha la salute gravemente danneggiata dalla vergogna di Chernobyl e così ha il diritto ad un immobile concesso dallo Stato. Durante il viaggio, Marina mi racconta che si trova spesso a contatto con famiglie distrutte e, essendo lei la responsabile, molte volte è costretta a togliere la patria potestà a genitori che hanno testa e cuore completamente dissolti nell’alcool. I bambini saranno affidati agli internati fino all’età di 18 anni, per poi ritrovarsi per le strade di Minsk a ripercorrere le orme dei loro genitori. Un circolo vizioso causato dall’assenza di politiche sociali di una “dittatura mascherata”.
Dopo un paio d’ore di viaggio arriviamo a Jilihovo, periferia di Minsk. C’è il fratello di Marina, Alec, ad aspettarci alla fermata del bus. Non c’è nessuno in giro, solo campagna e boschi bianchi. Saliamo sulla sua vecchia Skoda e, in un quarto d’ora, arriviamo a casa dei suoi genitori. Sono lì ad attenderci, fuori dalla recinzione in legno della loro abitazione. Ci accolgono con l’ospitalità tipica di un Est ferito e dignitoso e, nell’ingresso, ci togliamo le scarpe, come da tradizione. La casa è grande, l’atrio dà accesso a tutte le camere: una grande cucina bianca, il bagno, la stanza da letto dei genitori di Marina e un salone con mobili scuri, soprammobili di cristallo e tappeti rosso scuro con decorazioni color oro e verde che danno un’aria solenne a tutta la stanza. Alec mi conduce nel giardino della casa, dove coltivano pomodori, patate, verza, peperoni e cetrioli; c’è un’altalena per le sue bambine costruita con tavolette di legno e pezzi di corda legati al tetto del loro ripostiglio. Intorno c’è una quiete assoluta resa più dolce da un verde immenso: sembra di sfogliare le pagine di un libro. Raissa, una donna dai lineamenti dolci e dalla pelle dura e logorata dal lavoro nei campi, ci chiama per il pranzo. Sulla tavola c’è di tutto: salame, piselli, purè di patate, pomodori, cetrioli, manzo, verza, riso, cereali, pollo, e una squisita bevanda di un bianco sfumato nell’acqua dal sapore dolce e penetrante: un succo che i contadini ricavano dai tronchi di betulle che popolano i boschi di quelle campagne. Marina prepara il dolce: crèpes ripiene di ricotta e semi di papavero. Dopo il pranzo abbondante, Katerina ed io decidiamo di fare una passeggiata in campagna. Ai lati dell’unica strada asfaltata ci sono gli edifici pubblici di Jilihovo: la scuola elementare, con le sue mura scolorite e rovinate dal gelo e dalla pioggia, e le altalene traballanti; l’ufficio postale, con i vetri delle finestre rotti e pezzi di intonaco che si staccano dalle pareti; la sede del sindacato, ormai chiusa da quasi un anno. Imbocchiamo una stradina sterrata con ciuffi d’erba sparsi qua e là e grandi alberi sui lati che sorvegliano le case, se così posso chiamarle: tronchi d’albero disposti uniformemente l’uno sopra l’altro con grossi pezzi di lamiera a fungere da tetto. Due splendide bambine giocano all’interno di uno sghembo steccato che circonda una di quelle abitazioni; mi fermo ad osservarle: hanno tute vecchie rattoppate e maglioni di lana sfilacciati e i capelli di grano che ondeggiano in balia di un leggero vento di maggio. Proseguendo per quella stradina mi soffermo, incantato da un paesaggio unico: non ci sono case, né strade, ma solo alberi e fili d’erba che si estendono fino ad incontrare l’azzurro in quella linea che separa la terra dal cielo, la realtà dalla fantasia. Una ragazzina venuta fuori da chissà quale posto incantato ci passa accanto salutandoci, mentre, con il suo vestito a fiori, raccoglie erba secca in un cesto di rami intrecciati, intrecciati come le incredibili circostanze che la vita ti scaraventa nell’anima e tu ti ritrovi senza parole in una magnifica parte del mondo di cui ignoravi l’esistenza. Un lieve tramonto inizia a colorare gli alberi di melo che stanno concedendosi bianchi e nudi alla sera, così decidiamo di tornare indietro. Tornati a casa, ci sediamo nel salone a bere del tè. “Che lavoro fate?”, chiedo ai genitori di Marina. Raissa lavorava nel sindacato, prima che chiudesse: stipendiata dallo Stato, negli ultimi 8 mesi di lavoro, è stata pagata con lo yogurt; è disperata, dice che riescono a mangiare solo grazie all’orto che coltivano nel loro pezzo di terra. Piange. Nikolai, invece è il responsabile di tutta la produzione degli allevamenti di Jilihovo; anche lui è stipendiato dallo Stato: l’80% della produzione mensile viene lavorata e venduta a Minsk dal governo a prezzi molto elevati, mentre il restante 20% costituisce la sua paga.
Dicono che per andare avanti fanno forza su un antico detto bielorusso: “Non fermarti un attimo, altrimenti non sai se l’attimo seguente avrai la fortuna di poterti fermare”. Benvenuti a Jilihovo, campagna di Minsk.

Torniamo a Minsk per qualche giorno, per poi ripartire subito, destinazione Svetlogorsk, 400 km a sud della capitale, nella regione di Gomel, ai confini con l’Ucraina: una delle zone più colpite da Chernobyl. Qui vive Tania, una bambina di 10 anni che ospitiamo in Italia durante i 3 mesi estivi, grazie all’associazione “PUER”. Tania vive con sua nonna paterna (Babucka Anna) e suo fratello Serghei: i genitori sono in carcere per furto e uso e spaccio di droga, ma ora suo padre sta trascorrendo un periodo di prova a casa, così ho avuto modo di conoscerlo; sua madre, invece, il periodo di prova lo passa in convento. Dopotutto non è molto difficile trovare queste situazioni familiari a Svetlogorsk, una città di 80000 abitanti con il triste primato di essere la più malfamata della Bielorussia. Come si arriva in questa città? In 5 ore di autobus, attraversando il Sud della “Russia Bianca” tra stazioni abbandonate, chioschi malandati, cimiteri desolati, case sperdute e paesi….paesi di cui mi sembra di aver già letto il nome ne “La Tregua” di Primo Levi, come questa Sluzk, teatro di una delle innumerevoli soste durante il tormentato ed umiliante viaggio di ritorno dai campi di concentramento…e mi sembra quasi di vedere quegli uomini distrutti e annientati aggirarsi per queste sperdute campagne e sento brividi di Storia percorrermi la pelle…ma questa è un’altra Storia….
Babucka Anna, Serghei e Tania ci aspettano alla stazione. Ci salutiamo e andiamo dritti verso casa, abbastanza distante, una ventina di minuti a piedi. Un paio di anziane signore siedono a fare la maglia davanti al portone della vecchia palazzina a tre piani che ospita l’appartamento di Tania. Saliamo le scale fino al terzo piano, dove il gatto Murka ci dà il benvenuto e un vecchio e fragile portone di legno aperto ci separa dalla casa: uno stretto corridoio ad angolo ci porta prima in un’ampia camera da pranzo che scivola in due minuscole camerette dove ci accolgono due letti cortissimi, mentre l’altra metà del corridoio termina nella cucina, molto stretta, con un vecchio fornello, un frigorifero ingiallito e un paio di mensole scorticate a fare compagnia ad un tavolino rettangolare e smunto. Tra la cucina e il primo pezzo di corridoio c’è il bagno, in condizioni penose: sporco, arrugginito, con fogli di quaderno al posto della carta igienica ed un’ostia di sapone su un lavandino scrostato e scolorito.
Babucka Anna ci prepara subito qualcosa da mangiare, mentre Serghei mi spiega tutte le sue costruzioni e i suoi lavori fatti a mano, mi fa vedere i suoi giocattoli con orgoglio e Tania gioca a fare la signorina con Katerina. Ad un tratto torna Valery, il padre di Tania e Serghei: era stato a coltivare il piccolo pezzo di terra che possiede sua madre e che lui cura in questo periodo di prova per dimostrare di non essere più tossicodipendente: ha il viso rosso fuoco, i capelli corti e lisci castano chiari, è basso e robusto, con pochi denti, il viso allungato e gli occhi spalancati e lucidi. Dice che presto tornerà ad essere una persona normale e si occuperà dei suoi due bambini. Babucka Anna dice che ormai lei non ha più speranze per il figlio, già troppe volte è rimasta delusa dalla sua ambiguità, dalle sue promesse non mantenute e spera di vivere abbastanza per poter crescere i suoi nipoti. Dice che Valery e sua moglie Marina vivevano bene fino a 7-8 anni fa, con una casa di loro proprietà, senza problemi di droga, fino a quando il fratello di Marina non è andato a vivere con loro, perché aveva guai con la giustizia e allora la disperazione si è insediata nelle radici della serenità della famiglia, avvelenandola, come fa un serpente con la sua preda…e così la nonna è riuscita ad ottenere la patria potestà dei due bambini, evitando loro l’incubo di un’infanzia e adolescenza in internato.
L’internato di Svetlogorsk è a pochi passi da casa di Babucka Anna: un edificio abbastanza grande, a tre piani. Tania e Serghei ci fanno strada per andare a trovare Ania, una bambina che viene in Italia con il nostro gruppo. Ci accoglie una ragazzina di 17 anni, molto gentile, che ci dice di aspettare nel cortile; decine di ragazzi corrono e urlano in questo cortile sgangherato, con l’erba alta, pezzi di vetro sparsi qua e là, alberi spogli, aiuole senza fiori e un cancello arrugginito a delimitare i confini di un destino incontrollabile. Ragazzi e ragazze si insultano a vicenda, gridando a squarciagola parole per me incomprensibili, mentre altri giovani affacciati alle finestre sbiadite delle loro stanze raccolgono scarafaggi in vasetti di vetro per poi buttarli addosso ai loro compagni che si picchiano rotolando sulla breccia delle stradine di quel cortile.
Una figura bassa e dinamica ci si avvicina e ci invita ad entrare attraverso un portone decrepito: è la maestra di Ania. Salendo le scale, le pareti sverniciate e fradice fanno da sfondo ad un quadro molto più buio, fatto di gradini sconnessi, passamano divelti, cartacce dappertutto, macchie giallastre su un pavimento appiccicoso ed un tanfo di piscio nauseante che ci accompagna fino al secondo piano dove Ania condivide la sua camera con Sveta, la sua migliore amica. Sul comodino ci sono caramelle senza carta appiccicate, pettini, fermagli, quaderni e un paio di scarpe, mentre la carta da parati che copre le pareti è quasi tutta umida e strappata. Ania e Sveta sono due bambine dolcissime e molto buone, decidiamo di andarle a prendere nel pomeriggio. Uscendo dall’internato, la maestra ci dice che noi abbiamo visto solamente la parte che si può vedere della struttura, ma ci sono altre cose nascoste agli estranei. Quella strana sensazione di mistero mi avvolge ancora e adesso ho avuto la conferma che non è solo una mia effimera sensazione, ma qualcosa di più, è una realtà, anzi, tante realtà nascoste agli occhi di chi non sa e non deve sapere, né vedere.
Non c’è che dire, gli internati bielorussi non sono poi tenuti così bene come quello di Minsk.

Nel pomeriggio con Tania, Serghei, Sveta e Ania, visitiamo Svetlogorsk: la parte più nuova della città ci aggredisce con i suoi palazzoni lunghi e grigi che si stagliano in un cielo che sembra sanguinare sotto le coltellate di questi signori del cemento, impassibili e freddi, che ospitano migliaia di persone. A pochi passi c’è l’ufficio postale, che separa la zona nuova da quella più vecchia, molto più gradevole, con un parco immenso pieno di giochi per bambini e di verde, con la piazza principale, dove vigila il palazzo comunale, abbellita da una fontana che si illumina di sera con gli zampilli colorati che ballano a ritmo di musica durante le giornate di festa, con statue di personaggi importanti del luogo a incorniciare un disegno urbanistico davvero gradevole.
Allontanandoci da questa zona ci avviciniamo alla Chiesa, in classico stile ortodosso, tondeggiante all’esterno e molto sfarzoso all’interno, con icone e quadri dai colori sgargianti. Durante la messa una donna grida una preghiera incomprensibile, di cui io riesco a capire solamente le ultime parole, cantate: Alleluia, alleluia. Sembra che nessuno si preoccupi di lei, la lasciano fare, disperata, in balia di chissà quali tormenti scende le scale urlando e prendendosela con qualcuno, forse con un Dio misterioso che le ha bucato le vene e rubato la mente.
Ci dirigiamo verso il fiume, sostando in un negozio di gelati, “Lakomka Plus”, dove i bambini sono attratti da dolci gelatinosi, dal colore fosforescente, contenuti in bicchieri di plastica e dal sapore gommoso e fluido allo stesso tempo. Sulla riva del fiume due donne scalze si stendono sull’erba macchiata di fango e bevono birra ascoltando a tutto volume della musica orribile dall’autoradio di una vecchia macchina parcheggiata dietro di loro. Il fiume trasporta rami secchi, buste di plastica, una quantità enorme di bottiglie di birra e un’acqua verde molto sporca che impallidisce anche gli alberi del boschetto al di là della riva.
Dopo aver riaccompagnato Ania e Sveta in internato, torniamo a casa, dove ci attende una cena abbondante prima di dormire, ché domani si parte alle 6.00 per tornare a Minsk.
Ci viene a svegliare Valery alle 5.00, lui è pronto per andare nell’orticello a coltivare pomodori e patate, mentre babucka Anna ci prepara una buona colazione con tè e marmellata da spalmare su un dolce simile al nostro ciambellone, ma farcito di semi di papavero. Fuori è ancora scuro, l’aria si addensa dall’esterno sulle finestre appannate, mentre (parafrasando De Gregori) la luce dei lampioni si riflette sulla strada umida e la foschia minaccia un’altra giornata grigia.
Serghei si sveglia e mi chiama tutto insonnolito, non vuole che vado via, ma capisce che dobbiamo salutarci, mi fa andare vicino al suo letto e, con due occhi immensi, che ancora non avevo conosciuto, mi prende la mano e me la stringe forte, dicendomi “Prendi, Marka”…
Giunti alla stazione, ci salutiamo con Valery che ci ha accompagnato, e saliamo sul bus…le flebili luci di quella città si allontanano sempre di più, lasciando il posto a lunghissimi rettilinei fiancheggiati da boschi di betulle distratti da un’alba di fumo grigio… torno ai miei pensieri e stringo forte nel mio cuore un braccialetto di cuoio e uno di fili intrecciati fatti a mano, un portachiavi a forma di delfino con gli occhi che si muovono e una fascetta per i capelli di colore blu, con farfalle rosse disegnate…gli occhi di Serghei scrutano la mia anima

…e la mia anima scruta in questa terra incommensurabile, bianca di neve, bianca di tronchi di betulle, bianca di foschia, bianca di stanze vuote…la “Russia bianca”, parte del mio cuore…

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