Bielorussia

di Alberto Sordi –

Esistono luoghi al mondo che vale la pena visitare, dove ci attendono romantiche spiagge dorate ed acque verde smeraldo, esistono terre dense di storia ed imponenti ricordi di un passato grandioso, esistono popoli dal sorriso facile e dalla cucina piccante, sempre pronti a cantare e danzare, esistono strade che ci porteranno verso mondi scomparsi ed affascinanti, suoni pronti a risvegliare in noi antichi ricordi ancestrali, paesaggi e volti e colori che ci lasceranno senza fiato.Ed esistono luoghi al mondo, dove il sole non spunta mai dalle nubi, dove i colori sono uniformi e la gente non ride mai.
Esistono strade che portano soltanto ad altre strade, dove la campagna è secca e non nasce nulla, dove la storia si è persa ed il passato dimenticato, dove l’unica sicurezza è l’assenza della sicurezza, dove il futuro incombe come una maledizione.
Questo non è un “racconto di viaggio” per vacanzieri, non indicherò alberghi a buon prezzo o ristoranti, monumenti e teatri, non parlerò di folkloristiche tradizioni e simpatiche usanze, perché qui non esistono, o se esistevano sono scomparsi, e comunque non hanno importanza.
Parlerò di una Nazione che una volta era grande, di un popolo che ha perso la speranza e di bambini perduti che nessuno cerca più.

All’aeroporto di Minsk ci attende un piccolo autobus completo di autista ed interprete; non ha portabagagli, così ci stringiamo come sardine, preparandoci borbottando allo scomodo viaggio per Orsha.
La strada è una desolata quattro corsie popolata soltanto da camion e solitarie pattuglie della polizia, circondata da boschi, neve e gruppi di casette di legno col tetto in velenoso eternit. Non ci sono delle vere e proprie strade a collegarle all’arteria principale, e chiedo all’interprete chi ci abiti e di cosa vivano gli abitanti. Evgeni risponde che sono dacie, abitazioni estive di campagna.
Non possono essere tutte dacie, ci sono dei villaggi là fuori, paesini dispersi nella neve ed evidentemente abitati. Insisto nella mia domanda, e mi sento rispondere: “Oh, ci sono anche contadini, e vecchi…”
Vecchi? Cosa significa?
“Nelle città la mafia butta i vecchi fuori dagli appartamenti, per poi rivenderli. Allora si rifugiano in campagna…”
Non riesco neppure a commentare una risposta del genere, rimango silenzioso, sperando che mi stia prendendo in giro.
Ad una ventina di chilometri da Orsha abbandoniamo la strada principale, attraversando gruppi di case e villaggi. L’asfalto è semidistrutto, fangoso, solcato da crepe e pieno di ghiaccio. Superiamo parecchi carri trainati da cavalli, e la gente ci guarda con occhi chiari e severi, camminando lentamente, evitando pozzanghere e mucchi di neve grigia, infagottati in pesanti cappotti e cappelli di pelo. I loro occhi mi penetrano: in tasca ho quattrocento dollari, una cifra che molti di loro non guadagnano neppure in un anno intero…

Orsha doveva essere un centro industriale, ma ora rimangono solamente fabbriche vuote dai vetri rotti e scheletri anneriti di grandi strutture, ricordo di quando esisteva l’U.R.S.S.
I rottami dell’Impero ci circondano, coperti dalla polvere del disfacimento ancora in atto, cavalli trascinano carri carichi di persone, ai semafori auto arrugginite borbottano fumando, e cumuli di eterna neve sui marciapiedi, pozzanghere nelle spaccature dell’asfalto, ed ancora neve dovunque, solamente neve ed aria tagliente.
Siamo a metà aprile: ma la primavera qui, quando arriva?

L’ Hotel Orsha odora di polvere e vecchia muffa. I letti sono sfatti, le coperte strappate ed umide, le stanze mal riscaldate, dai rubinetti dei bagni esce un’acqua salata e dal forte contenuto di ferro, praticamente imbevibile. Si mantiene con gli italiani in visita agli orfanotrofi, occasionali viaggiatori di passaggio e, soprattutto, con i clienti delle prostitute.
Biondissime, con stivali neri dal tacco altissimo, impellicciate ed ingioiellate, frequentano il ristorante dove tentiamo di consumare tranquillamente la nostra cena, ma verso le nove di sera partono con la musica dal vivo. Ad un volume oltre i limiti della distorsione, ci vengono propinate diverse composizioni di locale musica pop, completamente assurde, dalla forte componente melodica e con la base ritmica e gli arrangiamenti fatti in fotocopia. A noi tremano i polsi, ma evidentemente piacciono parecchio alle ossigenatissime bionde presenti, che si lanciano in una serie di balletti da balera anni ‘70, ma quando la “band” tenta di cambiare genere, ed attacca l’arpeggio di “Hotel California”, la pista si vuota immediatamente.
Torniamo in albergo con lo stomaco sottosopra ed i timpani rovinati: questa zona del mondo non è mai stata famosa per la cucina ed il rock…

Il mattino dopo ci separiamo dal resto del gruppo, dirigendoci verso l’orfanotrofio di Vitebsk, un’ottantina di chilometri più a Nord.
Ci accompagna Leonida con una vecchia Lada fuoristrada. Parte a razzo, parla e noi non capiamo nulla di ciò che dice. Interpretando a orecchio un discorso fatto un po’ in scarso inglese ed ancor più scarso italiano, riusciamo ad afferrare che non è un semplice autista, ma il marito della direttrice, nonché insegnante dell’istituto (Internat) dove siamo diretti. Dopo quasi due ore arriviamo a Vitebsk, città di 300.000 abitanti con un centro dalla struttura quasi occidentale ed una periferia orripilante, di cui vediamo solo una rapida teoria di palazzi. L’Internat è a 20 chilometri dalla città, circondato da boschi e grandi pianure (innevate…), con un villaggetto di piccole case a fargli da contorno.
Dentro è caldo, e siamo ben presto circondati da una nuvola di bambini che urlano: “Ciao, come stai?” (quasi tutti passano una parte dell’anno presso famiglie italiane,), mentre Vera, la direttrice, ci accoglie con grandi sorrisi, ma non parla che il Bielorusso, e la situazione comincia a farsi imbarazzante. Fortunatamente arriva Irina, insegnate d’inglese all’università di Vitebsk, ed interprete “ufficiale” della zona.



Hanno bisogno di tutto: scarpe per bambini, detersivi, carta igienica, medicinali, vestiti, aspirapolvere. L’unica cosa che, per fortuna, non manca, è il cibo. Certo, per i nostri standard europei, e soprattutto per i nostri difficili e raffinati gusti italiani, non hanno nulla, e quel nulla è pure cattivo. Mangiamo alla mensa dell’istituto insieme ai bambini, ma praticamente osserviamo una dieta stretta di biscotti e formaggio (portati dall’Italia). Quello che ci danno non riusciamo a mandarlo giù: pesce senza condimento, zuppa di rape, contorno di rape, insalata di rape, da bere succo di prugna, oppure tè.
I bambini intorno sciamano ed urlano, servono in tavola, ci salutano con rumorosi “ciao!”, ridono e corrono; gli insegnanti sono sempre presenti, e li controllano senza essere pedanti. Fanno ciò che possono, trattandoli al meglio delle loro possibilità, sono gentili, hanno sempre pronta una carezza, una parola, un gesto.

“30 Dollari al mese, questa è la mia paga” ci dice Irina. “Fino all’anno scorso, il mio stipendio (in Rubli) valeva intorno ai 120 Dollari, ma la svalutazione ha ridotto drasticamente il potere d’acquisto della nostra moneta. Pensate che un paio di scarpe costa 15 USD, un chilo di carne 5 USD, e capirete che vivere non è facile. Io conosco molto bene l’inglese, ma lo stipendio dell’Università non è certo sufficiente per campare, ed allora ho iniziato a lavorare come interprete per gli americani, aiutandoli nelle adozioni, poi tenendo lezioni private d’inglese ai “businessman” di Minsk . Quella è gente con molti soldi, e mi paga fino a 10 USD per un’ora di lezione.”
Tutto questo lo dice in un italiano fluente e senza incertezze. Siamo meravigliati della sua padronanza della nostra lingua, e glielo diciamo.
Sorride e continua. “Non sono molti gli stranieri che arrivano in Bielorussia. Giusto qualche americano per le adozioni, qualche tedesco… poi siete arrivati voi italiani. Arrivate in parecchi, ed ho imparato la vostra lingua per conto mio, ed ora faccio da interprete anche per voi.”

Siamo invitati a cena da Vera e Leonida. Insieme a noi (ovviamente) anche Irina, e Ludmilla, responsabile degli orfanotrofi della regione.
La casa è in legno, piccola ma calda, situata nel villaggio che circonda l’Internat. Vera è emozionatissima, ed ha preparato una tavola imbandita con tutto ciò che possono darci: tartine con uova e salmone, salame affumicato, patate, insalata e, sorpresa!, una bottiglia di vino. In nostro onore hanno pure scovato una confezione di caffè italiano.
Chiaramente, prima, durante e dopo il pasto, vodka a volontà.

Ludmilla è alta, magra e con uno sguardo severo, che mette soggezione.
“Quando la Russia era un’unica Nazione” dice “gli orfanotrofi non erano così pieni. Le cose non costavano come adesso, ed io potevo permettermi di andare in ferie sul Mar Nero una volta all’anno. ora invece niente ferie, e si mangia a fatica…”
E’ nostalgica, i bei tempi dell’U.R.S.S. le sono rimasti appiccicati addosso, come le è rimasta la paura del Grande Nemico Americano.
“Un tempo c’erano due grandi blocchi: l’U.R.S.S. da una parte, gli U.S.A. dall’altra, e si controllavano a vicenda. Ora l’America non ha più nessuno a contrastarla, può fare quello che vuole. Non capisco come facciate ad essere così tranquilli! Possono attaccarvi quando vogliono…”
E’ terribilmente convinta di quello che dice, e le nostre assicurazioni in merito non la convincono neanche un po’. Come possiamo spiegarle che, praticamente, l’America ci ha già conquistati da un sacco di tempo?
Parla parecchio Ludmilla, e ci sommerge di domande: da quanto guadagniamo a come è organizzato il nostro stato, da che cosa si dice e si sa della Bielorussia alla nostra Religione ed il concetto di Destino.
Ecco, una cosa che ci lascia pensierosi, è la sua visione del futuro: è già scritto, la Bielorussia è destinata a vivere in povertà, e qualsiasi sforzo per cambiare la situazione è destinato al fallimento.

Che differenza fra la triste e nostalgica Ludmilla e l’elegante Irina. Lei ha contatti ed amicizie in America ed in Italia, viaggia molto e ne è evidentemente soddisfatta.
“Quando studiavo non avrei mai pensato di poter uscire dalla Bielorussia. Ho abitato sei mesi in America e tre mesi in Italia, inoltre ho appena vinto un concorso per studiare Internet in America. A me piace viaggiare e conoscere gente, ed ora che ho queste possibilità, non me le lascio di certo sfuggire.”

Ogni tanto Leonida, insegnante di storia, cerca d’interrompere la discussione, dicendo che ammira profondamente la nostra cultura, che Roma è stato un faro di civiltà, ed hai voglia a fargli notare che sono passati un mucchio d’anni, lui insiste.
E’ un nostro fan sfegatato, insite per alleggerire il discorso e riempie continuamente i bicchieri di vodka. Ad un certo punto tira fuori una fisarmonica, suonando (e cantando) una melodica canzone sulla sua Patria. Avrebbe anche la pretesa di farci cantare “O sole mio” (ossessione che noi italiani ci portiamo dietro in ogni parte del mondo), poi esegue una fortunatamente rapida carrellata di canzoni italiane: Albano & Romina, Celentano, Ricchi e Poveri, Toto Cutugno… Come faccio a spiegargli che ha appena eseguito alcune tra le più brutte canzoni del morente millennio?
Meglio lasciarlo nelle sue illusioni, sorrido ed applaudo…
La cena prosegue tranquillamente, con Vera, preoccupatissima di essere una perfetta padrona di casa, che ci inonda di scuse per la povertà di ciò che ha potuto offrirci.
“Se fossimo in Italia” afferma “sarei andata a fare un salto in un centro commerciale, ed avrei fatto tutto in un attimo. Ma noi siamo poveri, e possiamo offrirvi solo povere cose.”
E’ imbarazzante, insistiamo nel dirle che è tutto buonissimo ed anche troppo abbondante, ma continua a chiedere scusa per tutto…

Ci avviamo a piedi verso l’Istituto, accompagnati da Vera.
Il paesaggio è quasi irreale, camminiamo nel buio rischiarato dalla luna e dall’intenso riflesso dei suoi raggi sulla neve. C’è silenzio, tanto silenzio quanto mai ne ho sentito, la neve dura sotto i nostri passi attenti, e Vera ancora si scusa per la loro povertà ed il nulla del loro villaggio.
Perché Vera? Sembra di essere a casa di Babbo Natale, l’aria è purissima e limpida, tutto è tranquillo, è bellissimo essere qui.
Per una sola settimana.

Anche oggi nevica. Turbinando grossi fiocchi si depositano sulle nostre orme, ricoprendole.
Anche oggi nevica, ed il lago ghiacciato alle spalle dell’Istituto ha l’aspetto di una pianura, una piccola valle incastrata fra alti argini. Ci accorgiamo di stare camminando sull’acqua solo dopo un po’, quando vediamo un foro praticato da qualcuno per pescare: sotto di noi non c’è la terra, ma settanta centimetri di ghiaccio, ricoperto da un croccante strato di neve.
Anche oggi nevica, e camminiamo muti sulla distesa d’acqua gelata, osservando le tracce lasciate da altre persone: in distanza un uomo estrae una grossa trivella manuale, pratica un foro ed inizia a pescare.
Anche oggi nevica. Turbinando grossi fiocchi si depositano sui fori per la pesca e sui nostri passi, ricoprendoli. Ma domani, o più tardi, qualcuno tornerà qui, e riaprirà il foro, ricominciando a pescare.
Il cielo è grigio e carico di nubi: domani nevicherà.

La nostra stanza è un porto di mare: bambini vanno e vengono continuamente, bussano, scappano, entrano, mangiano qualcosa, ascoltano lo stereo messoci gentilmente a disposizione. Siamo l’attrazione dell’istituto, e la cosa non ci dà fastidio, anzi.
Giochiamo con loro, parliamo, ascoltiamo le loro storie.

Victor è stato in Italia un paio di volte, e parla la nostra lingua.
“Ho sedici fratelli” ci dice “otto qua in Internat, ed otto più grandi fuori. I miei genitori sono vivi, abitano a 200 km da qui. Io alle volte scrivo loro, e promettono di venire a trovarmi a Natale, io aspetto, ma non viene mai nessuno.”
Victor ha lo sguardo intelligente, apprezza la musica italiana, e ci meraviglia quando mette nello stereo un suo nastro: Ruggeri, Fiorella Mannoia, Queen…
“Io qui sto bene” continua “mangio tanto e bene, sto al caldo. A casa c’erano quattro letti per tutti i fratelli, e non si mangiava tutti i giorni. Sono cinque anni che non vedo il resto della mia famiglia, ma è meglio così. Se papà e mamma venissero a trovarmi, quando vanno via io piango… voglio bene a papà e mamma, senza di loro non ci sarei neppure io.”
Victor dice questo con sguardo triste e voce ferma, fissandoci negli occhi.
Victor ha 13 anni.

 

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