Dalla Toscana alla Puglia in bici

di Pierluigi Cortesi –

L’andare in pensione e il disporre quindi di maggior tempo e minori limiti per pedalare, hanno prodotto paradossalmente l’effetto contrario: dopo un cicloviaggio dello scorso anno in Corsica – peraltro poco più che una riposante passeggiata – non ho fatto uscite impegnative: per tutto l’arco invernale mi sono limitato a qualche breve uscita domenicale e la media del chilometraggio mensile, non ha oltrepassato i 500 km tra uso urbano ed extraurbano. Proprio per superare questo pericoloso trend verso l’ impigrimento fisico e la demotivazione ciclistica, mi sono fatto forza e ho deciso di anticipare alla primavera l’annuale viaggio su due ruote, anche per assecondare un desiderio antico, in parte rimosso ma mai del tutto sopito, di tornare a rivedere dopo tanti decenni la Puglia e, in particolare, i luoghi della mia infanzia, dai quali l’ inconscio timore di ritrovarli troppo cambiati rispetto alla rassicurante fissità della memoria, mi ha tenuto finora lontano.  E’, perciò, con un certa trepidazione (dovuta non solo alla scadente forma fisica) che mi sono apprestato a questo viaggio, che compirò tra l’altro da solo; Alberto, il mio storico compagno di cicloviaggi, infatti, è inderogabilmente preso dai suoi impegni di lavoro.
Il percorso, di poco superiore ai 900 km, sarà concentrato nel solo spazio disponibile di cinque giorni (si tratterà quindi di un raid, ma non di una randonnée estrema: non credo, infatti di potere -né di volere- pedalare più di 170-190 km al giorno) evitando se possibile le strade conosciute e le grandi arterie, tipo l’Aurelia, e preferendo i tratti collinari a quelli pianeggianti (dove non riuscirei comunque ad andare veloce e che si rivelerebbero sicuramente più monotoni).

Per una sorta di condizionamento adolescenziale (quasi un vezzo classicheggiante di liceale memoria) mi piacerebbe ripetere i tracciati delle antiche strade romane: dopo aver sfiorato l’Aurelia e l’Aemilia Scauri presso Cecina, penso di raggiungere a Siena la Cassia e di percorrerne gran parte fino al centro di Roma, da qui prendere la Casilina, tagliare per Benevento, quindi raggiungere la Traiana e l’Appia, e infine, lungo quest’ultima, da Taranto approdare alla meta finale del viaggio, Francavilla Fontana, luogo di un’infanzia lontana quanto mitizzata.

Martedì 18 Aprile
Livorno, via Labriola. Partenza prevista ore 8; partenza reale ore 9, con netto anticipo sul consueto ritardo di 3 ore, anche perché i bagagli sono stati previdentemente caricati il giorno prima. Nonostante “sia di Venere che di Marte…”, l’ottimismo è alle stelle: contro l’ansiosa euforia della partenza nulla possono la lunghezza del percorso (oltre 900 km) da completare in cinque giorni (la finestra temporale lasciata aperta tra Pasquetta e la seguente domenica su cui incombe la festività del contiguo 25 Aprile), la scelta di evitare la pianeggiante Aurelia per la più panoramica Cassia, l’incognita dell’attraversamento di Roma o del valico di passi appenninici sconosciuti, le previsioni meteo (sfavorevoli dopo i passati giorni di bel tempo), ma, soprattutto, lo spauracchio del tonnellaggio complessivo (69 kg il bipede tutto bardato +  21 kg il biciclo in ordine di marcia =  90 kg): è la prima volta che non ho lesinato sull’occorrente da portarmi dietro, cosa che –come la passata esperienza mi insegna- mi avrebbe fatto risparmiare dopo tanti calcoli, rinunce e sacrifici, almeno 30 o 40 grammi… ma ormai è troppo tardi per rimediare.
Evoluzioni sotto casa, per farsi scattare una foto sicuramente indispensabile a futura memoria e poi, prima pedalata e VIA… Seconda pedalata e STOP: il cambio, fatto appositamente registrare la settimana scorsa nel corso di un accurato check-in dal ciclista di fiducia, sgrana proprio sul pignone che prevedo di usare di più, il 21. Necessaria piccola deviazione dal ciclista, che osservando la così poco ortodossa bardatura umano-meccanica (per pudore ho nascosto il velo bianco, stile Lawrence d’Arabia, che dovrebbe proteggermi dal sole) storce un po’ il naso, ma non dice nulla e rimedia al non-fatto.
Quando parto davvero sono le 10 passate; pazienza, d’altra parte il tempo è discreto, a dispetto delle previsioni, e, per una volta, il vento non è contrario. L’entusiasmo fa sì che, nonostante le ripetute autoesortazioni ad una prudente economia delle energie, superi di slancio la salita del Sonnino e raggiunga Castiglioncello in meno tempo di quando corro senza carichi.
Affianco un ciclista alle cui richieste rispondo magnanimamente che sto facendo un modesto viaggetto di un migliaio di Km verso Sud, poi, preso da mania di grandezza, mi metto davanti per consentirgli di procedere in scia con meno fatica; in realtà lui è più leggero di me di almeno  20 kg e 20 anni e non pare assolutamente affaticato, ma la vanagloria esige il suo prezzo: per tenere a lungo i 30 km/h , strabuzzo gli occhi e ho il fiatone, tanto che non mi accorgo nemmeno quando lui cambia direzione. Ora comincio ad avvertire la stanchezza e, dopo essermi dato dello stupido una mezza dozzina di volte, mi impongo di rallentare.



A Palazzi di Cecina, quando imbocco la via per Volterra, a un’ora e dieci dalla partenza, la media si è assestata su oltre 28 km/h: sarebbe ottima (l’avevo preventivata a 24) se non avessi speso tante energie. Inoltre, il vento umidiccio da Est che prima spirava laterale, ora soffia contro, anche se non particolarmente intenso; ma a destare qualche preoccupazione sono soprattutto le nuvole che si addensano verso Sud-Est conferendo un colore plumbeo a quel settore del cielo.
Sosto qualche minuto a Saline per bere e mangiare un boccone e quando un gruppetto di cicloturisti tedeschi mi oltrepassano, mi rimetto in marcia per raggiungerli e scambiare due parole. Buffo come uno che decide di fare un viaggio del genere da solo, cerchi poi continuamente compagnia. Agguanto l’ultimo della fila giusto in tempo per rendermi conto che lo sforzo mi ha portato in zona rossa e di questo passo rischio di non raggiungere nemmeno Volterra; riprendo fiato e lascio svanire davanti a me il gruppetto.
A metà salita i timori meteorologici cominciano a concretizzarsi: cadono le prime gocce, piccole, ma cattive, sferzate da un vento freddo che raffica da varie direzioni. Infilo la mantella già preparata, ma si solleva continuamente ad ogni folata; mi preparo al peggio, facendo mentalmente l’inventario delle protezioni che mi serviranno per coprire marsupio, piedi, borsa anteriore, telefonino, ma non ce n’è bisogno: pur restando plumbeo, il cielo concede una tregua; se non altro è stato un diversivo che mi ha distratto dalla fatica. Impostata l’andatura ad una velocità accettabile, ma non troppo dispendiosa, raggiungo con regolarità Volterra e il colmo della salita, dopo la quale con analoga ripidità comincia il tratto in discesa; ma non sembra durare molto, perché inizia una serie di saliscendi molto pronunciati che alternano tratti a 10 km/h ad altri a 60; la bici comunque sembra comportarsi abbastanza bene: è un po’ pesante da guidare in curva ad alta velocità e qualche ondeggiamento tradisce un imperfetto fissaggio dei bagagli posteriori.
Superate le salite di Castel S. Gimignano e di Colle Val d’Elsa, si scende fino alla parte bassa della città, dove un errore d’interpretazione della segnaletica mi costringe a una inutile deviazione di un paio di km. Riprendo in direzione di Monteriggioni, che costeggio dal basso, vorrei fare una foto, ma il colore spento del cielo mi dissuade e le nubi incalzanti mi spingono ad accelerare: i  20 km tra Colle e Siena offrono scorci paesaggistici notevoli, meno aspri e spogli delle colline volterrane, anche se decolorati dal tempo grigio, ma risultano assai meno agevoli di quel che ricordavo, anche perché il digiuno (sconsideratamente ho saltato la sosta-pranzo prevista a Volterra, sostituendola con un paio di barrette) si fa sentire. A Volterra (m.530 s.l.m.), comprensibilmente la media era scesa a  22.9 km/h, ma ora, anziché risalire, è scesa ulteriormente a 22.3, in conseguenza dei miei errori. Gli ultimi km prima di Siena paiono più duri di quanto in realtà non siano, perciò mi fermo alle porte della città a mangiare un boccone, a bermi un paio di cappuccini e a fare la prima telefonata di rassicurazioni a casa.
Sarà la sosta, saranno i cappuccini, raggiungo di slancio la periferia di Siena e, chieste le doverose informazioni per evitare le peregrinazioni dell’ultima visita ciclistica alla città, raggiungo quasi senza problemi la zona Sud, dove imbocco la Cassia in direzione Buonconvento. Le gambe mulinano tranquillamente rapporti medio-lunghi e la media grazie alla strada trafficata, ma scorrevole e senza vere salite risale a 23 km/h. In realtà quella della velocità e delle medie è una fissazione di cui sono ben consapevole, ma mi è utile per distrarmi dalla fatica o dalla monotonia della pedalata e probabilmente assolve anche la non secondaria funzione psicologica di tenere sotto controllo le ansie, attraverso il confronto tra i dati previsti dalle mie tabelle e quelli reali forniti dal contachilometri.

Sfioro Buonconvento, di cui intravedo rosse mura di mattoni, pareti invase da rampicanti, chiese e torri di origine medioevale, che mi riprometto di visitare in un viaggio futuro, non oggi: la meta prefissata è distante una quarantina di km e il cielo, oltre a mantenersi minaccioso, si sta tingendo di bruno, dato che siamo verso il pomeriggio inoltrato. Calcolo di arrivare nel giro di un’ora e mezzo al massimo; provo ad accelerare, ma il risultato non è pari alla fatica: le gambe, provate dagli strapazzi della giornata, non rispondono; inoltre ha ripreso a spirare un vento contrario fastidioso, anche se non violento, mentre la strada ampia e ben asfaltata, inizia a salire per raggiungere gli oltre 400 m. di S. Quirico d’Orcia.
Le prime gocce sparse di pioggia si trasformano presto in una acquerugiola fine e punzecchiante e poi in una pioggia fitta e obliqua che il vento insinua tra le pieghe della mantella. Ad un ulteriore tentativo di accelerare il contakilometri fa un modesto balzo in avanti fino a  25 km/h , per poi scendere con inesorabile progressione nel giro di un minuto a 20, 18, 16.
Mi metto l’animo in pace e con giobbesca sopportazione mi rassegno a subire acqua, salita e beffardi colpi di clacson delle auto che mi superano, con i passeggeri che si girano a osservare una mantella lucida e svolazzante coronata da un casco e dalla quale a malapena spuntano due ruote mosse a fatica da due zampe pelose e motose.
È ormai sera quando lo stillicidio si avvia a conclusione: il cartello che segnala la deviazione per S. Quirico appare come un miraggio e infonde quel po’ di energie indispensabile per affrontare le rampe che portano al paese: le prime case sono molto più moderne di come mi aspettavo, le vie sono deserte e non riesco a capire dove si trovi il centro: a intuito prendo la strada che sale, dato che nei paesi come questo in genere il centro storico è posto più in alto dei quartieri più nuovi. Trovo finalmente un giovane e gli chiedo dove trovare un Bed & Breakfast o comunque un posto per dormire; frettolosamente quello mi indica la stessa direzione che sto seguendo. Continuo, ma la salita si fa durissima: nonostante il 39 x 28, devo alzarmi sui pedali e penare per evitare di scendere sotto gli 8 km/h e rischiare di cadere per l’asfalto ripido e sdrucciolevole.
Quando finalmente la strada impiana sono in cima a un poggio, non c’è traccia del centro, ma scorgo un muretto su cui si apre un elegante cancello sormontato da un insegna: “Agriturismo-Residence XXX”. Lungo il vialetto interno dei lampioncini a globo illuminano un curatissimo prato all’inglese e mi pare di scorgere una piscina da un lato e lo steccato di un maneggio dall’altro, in fondo un rustico toscano e dei cottages. Tra le auto parcheggiate, SUV, spider e Mercedes. Mica per il probabile salasso finanziario (oddio, magari sì), ma come faccio in un posto come quello a presentarmi in brachette, impataccato, sgocciolante e con tanto di bagagli imbustati? Mi basta e mi avanza per fare rapidamente marcia indietro; ripercorro stavolta in discesa frenatissima la strada e riesco finalmente a raggiungere il centro. Nell’unico bar aperto sanno indicarmi solo hotel fantozziani o miseri tuguri di non meglio identificati affittacamere; passando davanti ad uno dal portone cadente e dai muri malandati non posso fare a meno di pensare alla locanda di “Non ci resta che piangere” ed in effetti non sono dell’umore giusto per ridere: comincio a prendermela con me stesso per non aver provato la bici qualche giorno prima, per non esser partito qualche ora prima, per non essere arrivato qui prima della pioggia e del buio, per non … Poi, la salvezza: uno mi indica, subito fuori le mura, un B&B, “Villa Il Cedro”. Faccio fatica lì per lì, sonato come sono, a trovarla, ma poi vengo ricompensato da un ambiente pulito, asciutto e accogliente, oltre che da uno spazio protetto per la bici; anche il prezzo è più che accettabile: 35 € (se penso alla rapina evitata per un pelo, al Residence…).
Una buona doccia calda e la sicurezza di un tetto sono un balsamo per i muscoli e il morale indolenziti. Nel giro di mezzora sono fuori di nuovo: non piove più, anzi il cielo si è aperto e, a Ovest, riflesso dagli strati più bassi di nubi bluastre, un chiarore residuo incornicia lo skyline dei tetti e delle mura corrose dal diluvio degli anni.
Attirato dal colore e dal calore improvviso di un’osteria, entro e provo la specialità (gnocchetti al sugo d’aglio, pomodoro e peperoncino) che mi viene consigliata, a cui aggiungo un contorno di verdure e due fette di torte locali per concludere in bellezza.

È ormai notte piena, quando mi concedo una passeggiata solitaria in questo paese arroccato su un poggio, gradevole nel contrasto tra la modernità della sua pista ciclabile a ridosso delle mura e la rassicurante silenziosa antichità del centro storico, tappa, in passato, di viandanti e romei diretti ai luoghi sacri.
La notte è quieta, mi piace sentirmi un pellegrino fuori dal tempo, immaginarmi un viaggiatore ottocentesco, alla maniera di Stendhal o Goethe, assaporare il fascino un po’ inquietante del viaggio e di ciò che simboleggia, fermarsi a caso in luoghi sconosciuti, centellinare sensazioni nuove di genti, usi, parlate differenti, cogliere nei volti tratti di origine etrusca, araba, normanna, illirica a seconda del luogo e delle suggestioni; camminare soli, senza meta, lungo vicoli ignoti, deserti per l’ora tarda, segnati dal rumore dei propri passi sull’acciottolato.
Ripasso dal bar dove mi hanno indicato il B&B: sta chiudendo e la serranda aperta a metà lascia filtrare sulla piazzetta un rettangolo di luce e i rumori strascicati delle pulizie da dentro, però da un tavolino in piena oscurità mi raggiungono i cachinni e le risa soffocate di ragazze. Hanno un viso, provano sentimenti o pensieri, vivono una vita presente, hanno ricordi passati, che io non conoscerò mai, così come del resto per loro e chiunque altro adesso è qui, io resterò sempre men che un estraneo, che ha sfiorato per un attimo la loro esistenza.
Qualche altro giro ozioso e senza meta per il paese mi aiuta a soddisfare il bisogno di combattere la sensazione di sabbia che scivola via tra le dita, forse l’angoscia latente del tempo che scorre oppure il desiderio di trovare un modo nuovo e personale di conoscere, di interpretare il luogo.
Anche questo (soprattutto questo) è viaggiare: regalarsi minuti, ore, senza l’assillo di obiettivi precisi, obblighi, traguardi; è, sì, macinare kilometri e fatica – correndo quasi senza soste durante il giorno col fruscio della ruota e il bisbiglio alternato dei pedali che come un mantra ipnotico smussano nella mente i pensieri più taglienti – ma solo per riappropriarsi, la notte, della lentezza, del tempo, delle riflessioni, di se stessi, in una specie di esaltazione drogata dalla solitudine e dal silenzio. E poi un viaggio DEVE essere razionale,  avere necessariamente una meta? O piuttosto il suo vero scopo è il viaggio stesso? Caminante, no hay camino: se hace camino al andar; il dove e il come sono solo pretesti. Le avventure picaresche o on the road, le peregrinazioni di Odisseo o dei “Buoni compagni” di J. B. Priestley hanno davvero bisogno di obiettivi concreti? Del resto l’urgenza del partire, ne sono ben consapevole, più che dal bisogno di raggiungere una precisa località o dalla curiosità di conoscere nuovi luoghi è spesso dettata dalla necessità di andare alla ricerca di quella parte di sé ormai imprigionata dagli stereotipi imposti dalla routine quotidiana, dal bisogno, irrazionale, di evadere, fuggire forse, o magari semplicemente dall’ insicurezza, dall’inquietudine del profondo: Coelum non animum mutant qui trans mare currunt…quod petis, hic est: est Ulubris, animus si te non deficit aequus (come diceva il buon Orazio).
Con queste alate citazioni e altri nobili interrogativi esistenziali, vado più prosaicamente a dormire, non senza aver controllato che il mio Ronzinante stia ben al riparo da umidità o scrosci notturni sotto una tettoia e aver sparso per la stanza ad asciugare i panni lavati prima di cena.

Mercoledì 19 Aprile
Sonno un po’ agitato, con gambe indolenzite, qualche crampo notturno e molta sete. Sveglia coi primi (ore 8?) raggi del sole che filtrano dalla serranda; non oso credere ai miei occhi: nemmeno una nuvola; luce e sole a 360°. Nella sala da pranzo una tazza da caffellatte, fette biscottate, burro e varie marmellate fatte in casa mi attendono: subito sopraggiunge la padrona di casa, avvertita dal mio trapestio. Svuoto in un colpo solo la tazza davanti a lei, per farle capire che le dosi di caffè e di latte che mi servono sono in quantità industriale e lei, molto premurosamente, non si fa pregare. Poi, anche per ricompensarla della sua sollecitudine, le chiedo informazioni sul suo paese, che a me pare idilliaco. In pochi minuti tutta l’aura elegiaca che nella mia rappresentazione mentale aveva circonfuso S. Quirico svanisce come per incanto e fa posto ad una realtà assai meno poetica: lei, preoccupata anche per i suoi due ragazzi, mi spiega che buona parte dei giovani del posto sono a rischio disoccupazione, droga (che circola inarrestabile) e devianza manifesta in atti di teppismo, aggressività, intolleranza, senza che possano porvi rimedio né le autorità, né la scuola (che anzi è quasi del tutto assente sul piano del recupero della socialità e dell’educazione alla legalità).
La chiacchierata si protrae per un’oretta buona, ma inizialmente è più che altro un monologo, visto che io mi limito a qualche indifferenziato grugnito di assenso o di meraviglia, tra una fetta di pane e marmellata e una tazza di caffellatte; poi, dopo che lo stomaco mi segnala l’avvenuto riempimento, do anch’io il mio contributo verbale, con un’appassionata perorazione di quello che la scuola dovrebbe essere e spesso non è, spaziando da don Milani alla Moratti, con relativi esempi edificanti tratti dalla mia esperienza personale di alunno prima e di insegnante poi.
È molto tardi – sono le 11,20- quando finalmente riprendo il cammino, ma la giornata è luminosa, nonostante il profilarsi all’orizzonte di qualche nube scura, e l’aria fresca e invitante mi stimola il buon umore. Ridisceso sulla Cassia, affronto infiniti saliscendi su una strada, a tratti stretta, che si snoda in mezzo ai colori vivi della natura: verdi vallate di erba o di grano, sotto l’azzurro intenso di un cielo interrotto qua e là da qualche candida nuvola in movimento. Avverto ripetutamente una sensazione di deja vu, prima di realizzare che si tratta semplicemente dell’affiorare in memoria dell’immagine di uno sfondo del desktop di Windows.
La temperatura sale e ne approfitto per togliermi anche la canottiera gialla d’ordinanza e prendere un po’ di sole alla schiena.
La media oraria, precipitata ieri sera a S. Quirico, si attesta sui 22, poi la Cassia si allarga, sembra farsi più scorrevole anche il fondo stradale e infine inizia un paradisiaco tratto abbastanza pianeggiante in mezzo a distese verdeggianti e non ancora stravolte dalla massiccia presenza dell’uomo. Si corre piacevolmente ora; anche se l’aria si mantiene fresca, il sole pizzica la schiena, perciò aggancio al casco la canottiera che così mi svolazza sulle spalle, dandomi l’aspetto di un Lawrence d’Arabia dei pezzenti. Qualche auto, incrociandomi, saluta allegramente col clacson; invece due ciclisti rigorosamente depilati e “in divisa” mi sorpassano in un attimo, ignorandomi volutamente. Non cerco nemmeno di raggiungerli e viaggiare a ruota (anche perché, pure volendo…).
In compenso, appena inizia la salita dura verso Acquapendente, avvisto due ragazze che arrancano su pesanti city-bike con tanto di borse e borsone. Sono sudate, ma allegre e pedalano di buona lena. Le affianco e scambio due parole con la più giovane, che si arrangia volentieri con l’italiano: sono tedesche, stanno andando da Siena a Roma, ma faranno tappa a Bolsena…
La casualità e, al tempo stesso, l’intensità di questi incontri volanti – vite lontane e diverse che si incrociano per pochi minuti magari, ma talvolta possono unificare il proprio percorso per una vita intera – mi fanno tornare alla mente le sensazioni e pensieri scaturiti dalla lontana lettura de “I buoni compagni” e riaffiora il senso di aleatorietà, mutevolezza, dell’esistenza umana, la consapevolezza che potrebbe bastare un qualunque piccolo insignificante evento a modificare un progetto di vita che un uomo presuntuosamente faber del proprio destino creda di aver pianificato in maniera rigorosa. L’esistenza come frutto di un imprevedibile gioco combinatorio di infiniti elementi instabili… Altrettanto fonte di smarrimento è il porsi fuori dalla immobile certezza della propria identità e cercare di intuire dietro ciascuna delle mille facce sconosciute incontrate ogni giorno una vita quotidiana autonoma e personale, fatta di differenti esperienze, gusti, sensibilità, immaginari, conoscenze…
Saluto le due ragazze che devono rallentare e, raggiunto S. Lorenzo Nuovo, mi slancio giù verso il lago. Al bivio, anziché per Bolsena, svolto a destra verso Ovest e dopo qualche kilometro, più o meno impegnativo, prendo a Sud per il lungolago. La strada è stretta e in condizioni mediocri, ma deliziosa: a destra alberi, siepi e declivi verdeggianti di erba medica o grano tenero; a sinistra le acque del lago che fanno capolino dietro i canneti.
Sono quasi le 15 quando arrivo ad una chiesa romanica, ben conservata, ma chiusa, con di fronte una ex-casa colonica restaurata e adibita a ristorante, dal nome intrigante “Il Purgatorio”. Non ho fame, ma non è il caso di saltare il pranzo e poi il paesaggio è incantevole: oltre un pratino verdissimo e curatissimo, contornato di salici piangenti, sciabordano le acque del lago mentre sullo sfondo si staglia l’isola Bisentina. È tardi, ma non fanno storie e il conto è basso al contrario della qualità del cibo: 9 € per un abbondante piatto di gnocchetti al pesto di mentuccia e una fetta di torta. SMS di prammatica e poi di nuovo in sella.
La stradina diventa ancora più stretta e precaria, con le staccionate di legno incrociato a X che si alternano a cespugli, poi sembra interrompersi in uno spiazzo, tutto occupato da boscaioli che, contando sulla totale assenza di traffico, segano tronchi e rami. Infine all’asfalto si sostituisce lo sterrato e poi un faticoso acciottolato a cui si somma la difficoltà di una salitina con pendenze quasi da Mortirolo. Poi, per fortuna, la strada si normalizza e velocemente, scavalcato Capodimonte, si porta a Marta. Qui, anziché proseguire per Viterbo, devio a destra per Tuscania: la cartina promette una discesa da  313 a  166 m ., ma, come avviene in realtà, le cose stanno diversamente e si affronta una serie di saliscendi tra vallate adiacenti, nella quale prevale la discesa, ma l’illusione di poter procedere a una discreta andatura media (in effetti la trentina di Km dal lungolago a Tuscania viene coperta in poco più di un’ora) porta subdolamente a impegnarsi a fondo pure nelle salite con pendenze non disprezzabili.
Il paesaggio, comunque, risulta gradevole, nonostante la foschia determinata dal caldo pomeriggio quasi estivo; il terreno ondulato da omogeneo e rettilineo si fa più articolato e l’alternanza di vigneti e oliveti cede il passo ad aree più nettamente boscose intorno a Tuscania.
Oltrepasso rapidamente la città, di cui sfioro le mura rosso-grigie con la porta che vi si apre nel mezzo e che lascia intravedere strade ed edifici medioevali; ancora una volta mi riprometto di ritornare per una visita un po’ più calma per dare il giusto spazio a queste antiche pietre: i raid come il mio hanno dei limiti evidenti, non concedendo il tempo opportuno per conoscere accettabilmente un luogo e per entrarci in sintonia, così da dire di averlo capito, almeno sommariamente; del resto una toccata e fuga in stile giapponese agli scorci paesistici e ai monumenti del posto (magari per piantarci una simbolica bandierina e poter poi dire: “Qui ci sono stato”) non avrebbe senso, tanto più in luoghi del genere.
In uscita dalla città un primo tornante preannuncia il tipo di strada che si prepara; ne approfitto per fermarmi, tirar fuori una barretta al cioccolato, sciogliere un po’ di sali nella borraccia e scattare la prima foto della mia ridicola fotocamera usa e getta, stile omaggio dei fustini Dixan: inquadro la salita ed uno sperone di roccia di una quindicina di metri che, netto come una torre medioevale, si staglia sulla vegetazione sottostante; mi pare di materiale tufaceo – tutta la zona è di evidenti origini vulcaniche- e il pensiero che abbia resistito all’erosione di acqua e vento nei millenni e abbia visto avvicendarsi, tra gli altri, genti etrusche, romane, barbare (di ogni epoca) muove ad un senso di rispettosa ammirazione.
Il paesaggio aperto di prima si chiude all’interno di colli racchiusi da di una vegetazione confusa, intensamente verde in netto contrasto col rosso del terreno. Salite ripide si alternano ora a discese mozzafiato, in un ciclo che sembra non dover terminare mai.
I rapporti intermedi vengono completamente ignorati: si passa bruscamente dal 39/25 (o anche 28) al 53/13. La media in questo tratto non supera i 22. Il caldo sotto sforzo si fa sentire ed acuisce la fatica, tanto più che l’acqua coi sali è presto terminata e la superficialità nel preparare i bagagli mi ha distratto dal portarmi dietro una seconda borraccia, come una consolidata esperienza avrebbe dovuto insegnarmi.
I  20 km da Tuscania a Vetralla sembrano eterni e raggiungere la tappa è una prova di volontà più che di resistenza fisica; eppure, in altre condizioni, avrei sicuramente apprezzato di più la varietà del percorso, le sue strade strette e deserte, l’alternarsi di sole e ombre, la campagna solitaria, la vegetazione selvaggia; del resto questo tratto fa o non fa parte di quel fascio di strade della Via Francigena che portavano a Roma (e su cui Radio Tre ha organizzato nel 2005 una interessante trasmissione con cronaca in diretta delle varie fasi del pellegrinaggio)?
A Vetralla un provvidenziale passaggio a livello chiuso giustifica, anzi impone, una sosta, che utilizzo per fermarmi a un bar e riprendermi con un provvidenziale cappuccino e un cornetto alla marmellata. Riparto di slancio, ma anche il tratto seguente è uno stillicidio di rallentamenti o di fermate perfino in discesa (se per un ciclista dover frenare e fermarsi per il traffico è odioso, farlo in una discesa è addirittura una bestemmia): stanno rifacendo alcuni kilometri della Cassia e perciò hanno “grattato via” il fondo stradale. Siamo tutti incolonnati, pullman, auto, tir, moto, camper, in una rombante fila indiana quasi immobile, che sembra un dinosauro agonizzante, quasi un simbolo della fine imminente per la civiltà delle macchine.
Si procede gomito a gomito, ruota a ruota, specchietto a specchietto, più lentamente che a passo d’uomo; ma, anche potendo e volendo correre, la massicciata con le sue buche e vibrazioni lo impedisce e ti fa sognare la calma morbidezza della Parigi-Roubaix, che oltretutto non ti asfissia coi gas di scarico; dopo qualche tentativo di slalom in cui riesco a superare solo alcuni mezzi tra i quali un trattore e un pulmino di suore, mi arrendo e stoicamente attendo che passi ‘a nuttata.
Poi, di colpo, la Cassia torna pienamente percorribile e si svuota quasi a dimensione di ciclista. Ora si vola, in mezzo a d un paesaggio nuovamente cambiato che ricorda le immagini ottocentesche della campagna romana: pini, macchie, prati, ruderi, greggi sparse e, seminascosti dalla vegetazione blocchi di tufo che hanno ospitato tombe etrusche o romane, ben visibili dalla strada tra Capranica e Sutri.
Il progetto originario prevedeva di lasciare la Cassia e deviare verso Bracciano, costeggiando il lago, magari fino ad Anguillara e Cesano (la zona dove ho fatto il militare e a cui una sorta di sindrome di Stoccolma mi spinge a tornare) per poi puntare nuovamente verso Roma, ma le informazioni raccolte durante la coda a Vetralla sullo stato della strada e sull’intenso traffico del rientro, nonché la constatazione che il pomeriggio sta ormai volgendo al termine, mi spingono a continuare sulla Cassia. A dir la verità, mi vergogno un poco a preferire la scorciatoia di una superstrada, io che normalmente, per raggiungere Rosignano da Livorno disdegno la breve e pianeggiante via Aurelia a favore delle stradine provinciali tra i poggi, ma mi pare, per oggi, di aver già concesso abbastanza e non mi va di rischiare di far troppo tardi con una “allungatoia” superflua.
La Cassia, diventata ormai una superstrada a quattro corsie, sale e scende di frequente, ma in modo dolce e presenta un fondo perfettamente liscio e scorrevole; sarà la temperatura, che col tramonto si è fatta più fresca, sarà il vento, che una volta tanto soffia a favore, sarà infine la voglia di arrivare (anche se non so ancora dove fermarmi esattamente), fatto sta che la velocità è davvero impressionante rispetto a quella tenuta in questi due giorni: riesco a non scendere sotto i 20 km/h in salita e a superare i 60 in qualche discesa; così la media globale, scesa a 23,2 dopo Vetralla, ora è risalita a 23,9! Quando si dice “le cose che contano nella vita” …
All’altezza del bivio per l’Olgiata, un po’ a malincuore, lascio finalmente la Cassia, con la consolazione di rivedere le stradine immerse nel verde che da Roma, centro idealizzato di libertà e di vita, riportavano al lager di Cesano un infelice allievo ufficiale di complemento. Ma non è tanto la salita, peraltro indicata già dalla cartina, a scoraggiarmi, bensì l’ambiente completamente alterato dall’urbanizzazione e reso irrespirabile dal caotico traffico locale: al posto dei boschi che fiancheggiavano e talvolta avvolgevano la strada, sono sorti centri commerciali, fabbrichette, impianti sportivi dal golf alla pallanuoto, villette a schiera, probabili seconde case, con contorno di piscine o giardinetti coi sette nani, insegne lampeggianti, semafori, parcheggi, bus turistici, 4×4 con ruote da trattore, motorini e quant’altro, con un sottofondo di rumori, luci e movimenti sincopati tali da scatenare crisi epilettiche anche in un cadavere. “Bella mi’ superstrada ”, mi dico; la scelta non è stata delle più felici, ma potevo mai prevedere che questa zona fosse stata tanto trasformata rispetto a come la ricordavo io? Beh, forse sì, considerando che sono trascorsi solo 33 anni!
Oltrepasso la deviazione per le rovine di Veio, sempre sfiorate dai buoni propositi di visitarle “uno di questi giorni” e mai viste; ma non ho il tempo (né la voglia) di fermarmi, adesso, anche perché, ammesso che non ci abbiano costruito un supermercato sopra, a quest’ora sono necessariamente chiuse.
È ormai buio quando alla Giustiniana mi fermo per accendere sotto il sellino la luce posteriore (che però risulta in parte coperta dai bagagli; perciò, per sicurezza fisso al retro del casco un piccolo led lampeggiante che probabilmente serve a poco, ma da vicino fa la sua figura); poi, per la paura di finire sul G.R.A. ormai vicino, perdo la Cassia e finisco sulla via Trionfale.
Tra le varie cartine che mi sono portato dietro manca forse la più utile, quella di Roma; per cui non so in che direzione sto andando esattamente: percepisco di essere diretto verso Ovest o Sudovest in una sorta di orbita antioraria intorno alla città, ma temo di poter partire per la tangente e ritrovarmi in qualche punto fuori mano, magari in aperta campagna, di notte. In uno slancio di giovanil(istico) entusiasmo mi preparo anche a questa eventualità, prefigurando di ripetere qualche eroica dormita del passato in una villetta in costruzione o dentro un’auto in qualche disfattura, ma non riesco ad essere molto convincente. La soluzione migliore, naturalmente, sarebbe quella di fermarsi a chiedere, ma questo tratto di strada sembra un alveare deserto, così come la zona dell’Olgiata pareva caotica: a parte le auto che sfrecciano veloci rasentandomi, non c’è anima viva sui marciapiedi, le poche botteghe sono tutte chiuse e non ci sono pianterreni con gente in giardino o affacciata alle finestre; anche nei casermoni che costeggiano la strada sono incredibilmente poche le luci accese e i segnali di vita.
Mi sorprendo a pensare a una città di zombie dall’ inquietante vita sotterranea, ma poi mi tiro su con un po’ di autoironia, pensando a come potrei apparire io ad uno di loro.
Procedo alla massima velocità possibile (l’ansia ha di buono che ti fa scordare la stanchezza) finché non vedo l’insegna sporca e polverosa (come da copione), ma inequivocabilmente accesa di una pizzeria. Bloccare i freni, smontare di bici e precipitarsi dentro a chiedere informazioni è un tutt’uno: il locale è stretto e lungo, con una luce al neon ballerina, ma non vedo nessuno; a una mia chiamata emerge lentamente dal retrobottega il pizzaiolo, un giovane nordafricano che però non capisce una parola di Italiano. Benedirei la mia recente passione per lo studio dell’arabo se solo sapessi dire qualcosa di diverso da “sono andato alla piscina con mio fratello” o “Mahmud ha bevuto un tè alla menta a Marrakesh”. In un flash di memoria che mi brucia qualche milione di neuroni gli chiedo “Ayna nahnu (dove siamo)?”, ma la pronuncia non dev’essere delle migliori, perché lui mi guarda senza capire. Gli mostro allora la cartina e provo a mimargli un treno per fargli capire che vorrei sapere dov’è la stazione Termini; lui prende la cartina e comincia a rigirarla, senza sapersi orientare, quindi mi indica Ostia, con sguardo interrogativo; infine, letta la disperazione nei miei occhi, con un sorriso tra l’incerto e l’accattivante mi fa “rRuma?!”. Per non mortificarlo oltre, mi sgancio con uno “Shukran” che gli strappa un sorriso più rilassato.
Tento nuovamente con un paio di benzinai aperti per il turno di notte, poi con un chioschetto alimentare e perfino un fioraio, ma lascio perdere, vedendo che sono – sembra incredibile – tutti nordafricani.
Non va meglio quando un barista, finalmente romano, dopo avermi tranquillizzato sul fatto che sono sì fuori mano, ma sempre a Roma, mi snocciola una sequela di nomi di strade, piazze, ponti. Infine un poliziotto mi consiglia a questo punto di continuare a diritto, salire su a Monte Mario e poi discendere al Vaticano. Del resto la via Francigena non prevedeva appunto di lasciare la Cassia all’altezza della Giustiniana, per dirigersi proprio verso Monte Mario (dalla cui sommità il pellegrino poteva scorgere improvvisamente davanti a sé la meta agognata)?. Come Dio vuole, raggiungo le Mura Vaticane e posso dirmi di aver conquistato Roma, ma, pur se il quartiere ha una fisionomia ben diversa da quello più povero della via Trionfale, finora non ho visto né un Bed & Breakfast, né un albergo o pensione abbordabili, ma solo Hotel a 5 stelle.
Un fioraio (anche lui nordafricano, ma con un buon italiano) finalmente mi dà una dritta: “qui vicino, in via Crescenzio, c’è un B&B”. Mi ci fiondo immediatamente e lo trovo anche, ma quando suono nessuno risponde; in compenso sul cancellino scorgo un cartello che non avrei voluto vedere: “FULL – COMPLETO”. Mi arrendo, rassegnato al destino cinico e baro, raggiungo un hotel vicino che, se non altro non ha un’apparenza grandiosa. In compenso il costo è il doppio di quello di S. Quirico; 80 €, ma c’è poco da scegliere alle 9,30 di sera: siamo a Roma e gli scherzi da prete, se non li fanno qui, al Vaticano…
Il portiere, uno slavo a sentire l’accento, è gentile e oltre a farmi ricoverare la bici al sicuro in uno sgabuzzino, mi segnala una vicina pizzeria dai costi contenuti: dalla mia faccia davanti agli 80 € deve aver capito che la mia crisi non era di natura spirituale.
Cena a menu fisso e poi in camera. La stanza è piccola, ma tenuta bene, con telefono, TV satellitare, cassaforte e frigo-bar, però non so che farmene; in compenso mi servirebbe una pomata per le spalle e la schiena; facendo la doccia le sento bruciare: è il sole, per quanto velato, che ho preso tutto il giorno pedalando a torso nudo e che mi ha regalato la solita abbronzatura a pinguino: nero dietro e bianco davanti. Ma la pomata è rimasta a Livorno… Bucato rapido e poi (a mezzanotte passata da un pezzo) a dormire, o almeno provarci, dopo i 190 km odierni.

Giovedì 20 Aprile
Nottata difficile: per la scottatura della schiena, non ho fatto altro che girarmi ora su un lato, ora su un altro; inoltre le gambe al mattino mi sembrano legnose ancor più di ieri alla stessa ora. È la naturale conseguenza per essere partito senza la dovuta preparazione e non aver dosato con intelligenza soprattutto gli sforzi iniziali; ma non me ne preoccupo più di tanto, vuol dire che andrò più piano e, casomai, farò una tappa in più (o almeno questo è quello che mi dico).
Intanto, la prima cura ricostituente è una colazione come Dio comanda. Nella saletta apposita il breakfast è a buffet e ci sono solo io, ma è tutto preparato come se dovesse arrivare un pullman pieno di famelici sollevatori di pesi. Divoro tutto il divorabile, ma con metodo e studiata lentezza, per evitare che tra i vari strati di cibarie nello stomaco si creino degli inutili interstizi. Alternati tra tazze di caffè, latte e cioccolata, e del succo di frutta riesco a far fuori tre panini con burro e marmellata o formaggio, ciotoloni corn flakes o muesli di vario genere e yogurt, un’omelette ed una coppa di macedonia, dimostrando infallibilmente come il legame tra “buffet” e “abbuffata” non sia solo astrattamente etimologico. Solo davanti a un piatto con delle uova sode stomaco e fegato oppongono un netto rifiuto. Per un sussulto di dignità, non insisto oltre, anche perché, dopo essermi preoccupato di riempire la pancia dall’interno, provvedo a imbottirla dall’esterno.
Nel risalire in camera colgo l’occhiata sconcertata del maitre che fissa i tre o quattro bitorzoli a forma di sfilatino e i vari cerchi con le sagome delle marmellatine che deformano la mia pancia, ben più gonfia di quando sono sceso. Ma, non meno dello stomaco, ora, è soddisfatto anche il mio senso di giustizia: mi hanno rapinato 80 €, ma io stamani me ne sono ripresi almeno 50, per cui il costo di 30 € per l’albergo può tutto sommato considerarsi equo.
Dopo le consuete difficoltà e lentezze nel far entrare i bagagli nelle rispettive sacche, verso le 9.30 sono pronto: controllo il conta-km (360,00 km, in 15:00 ore nette, alla media di 24 km/h esatti, discreta, tutto sommato); quindi, controllata la prossima meta, l’imbocco della Casilina a sud della città, parto dopo essermi fatta indicare la strada.
Tempo di arrivare al secondo incrocio e l’ho già persa. La recupero raggiungendo il lungotevere e Castel S. Angelo. Attraverso il ponte e fotografo la fortezza dal centro di una torma di scolaretti interessati più a osservare la mia variopinta bardatura che non a seguire le spiegazioni delle loro insegnanti. Cerco di puntare verso Piazza Venezia a Sud-Est, regolandomi sul monumento del Vittoriano che per qualche tempo riesco a seguire sopra i tetti; ma il traffico intenso e i sensi unici mi costringono a percorsi simili ad arabeschi, resi più penosi da tutti quegli accessori che, al di là dei luoghi comuni, caratterizzano la circolazione a Roma: transito caotico o bloccato, frastuono polifonico e gas di scarico, oltre alle intollerabili vibrazioni per i sampietrini del fondo stradale. Quando posso utilizzo marciapiedi, vialetti, percorsi pedonali… Aggirato il Colosseo e superata via Labicana, arrivo contromano a piazza di Porta Maggiore, da cui ha inizio la via Casilina e al semaforo mi predispongo a scattare, bruciando tutti sulla partenza, per recuperare tempo e media (ora scesa a 23,7) perduti finora nell’attraversamento di Roma. In realtà riesco a bruciare solo le mie energie mattutine.
Il traffico è infernale e spesso così compatto, da non lasciar passare nemmeno una bici e si snoda sotto un sole velato e afoso in una serie interminabile di Stop & Go. Forse non era da scartare l’ipotesi che avevo preso in considerazione prima di partire: saltare direttamente dalla Giustiniana a Torrenova – così da scavalcare tutta l’area compresa all’interno del G.R.A. tra Roma Nord e Roma Sud – utilizzando un treno regionale e la linea A della metropolitana. Ma sarebbe stato necessario arrivare alle porte della capitale almeno un’ora prima, disponendo di una maggior quantità di luce solare e soprattutto lucidità mentale. Inutile recriminare.
Quando, dopo una quindicina di km, il traffico diviene finalmente più fluido, segno che ci stiamo allontanando dall’area metropolitana più interna (in realtà non c’è nulla che indichi una soluzione di continuità tra una zona e l’altra), ecco iniziare una serie di salite e discese a raffica, talvolta impegnative per chi come me viaggia appesantito da bagagli, stanchezza pregressa e caldo: la giornata è afosa e velata e il paesaggio è appiattito in un grigiore abbagliante, in cui linee e colori perdono significato.
Le salite, specialmente nella zona di Labico-Valmontone fanno sudare, ma, viste le scottature di ieri, non mi arrischio a togliermi la canottiera. Dopo Valmontone il territorio si fa un po’ meno urbanizzato e diventa più gradevole, anche se non uguaglia i tratti della Cassia. Sono consapevole, comunque, che le mie valutazioni sono molto soggettive e soprattutto umorali, dipendendo da una serie di condizionamenti fisici e mentali contingenti che potrebbero far variare notevolmente i giudizi a seconda dei giorni.
A Colleferro, un suggerimento inesatto o frainteso mi fa lasciare temporaneamente la Casilina per avventurarmi su una ripida strada in direzione di Segni e solo le provvidenziali indicazioni di un anziano ciclista (di quelli con berrettino, maglione, pantaloni alla zuava fermati da una molletta e vecchia bici da corsa anni ’50) mi riportano sulla retta via.
Da S. Cesareo in poi non ho fatto altro che salire e scendere viaggiando ad una quota che presumo tra i 100 e i 350 m . s.l.m., superando le deviazioni per i centri di Palestrina, Anagni, Ferentino, che evocano luoghi, eventi e personaggi storici che non sempre sono in grado di collocare.
A Frosinone  la Casilina porta direttamente in città; allora faccio una breve sosta per mangiare qualche barretta energetica, rifornirmi d’acqua e, malauguratamente, chiedere informazioni sulla via per Cassino. In coro un gruppetto di persone davanti a un bar mi assicurano che posso benissimo continuare a diritto per raggiungere Cassino, il che è vero solo considerando la sfericità della Terra. Solo dopo qualche km di salita verso Nordest, mi rendo conto che per Cassino dovrei puntare almeno 90° più a Sud. Mi fermo nuovamente per averne conferma e stavolta un frusinate, scusandosi a nome dei suoi concittadini, mi indica la strada giusta che passa per il centro storico. Ripercorro all’indietro, con un diavolo per capello quell’inutile deviazione e con sgomento scorgo il centro storico arroccato sulla collina opposta; ma in realtà la salita è meno terribile di quanto ho temuto ed è seguita da una discreta discesa.
Dopo Frosinone e Ceprano si raggiunge la piana di Cassino; la strada scorre tra ampie distese coltivate a pomodori o adibite a pascolo per mandrie e greggi, come confermano anche i numerosi caseifici che incontro lungo la strada. Questo e la constatazione che l’ora del pranzo è passata da un pezzo, anche se per la verità lo stomaco non manda segnali di fame, mi suggeriscono che la cosa più ovvia è fermarsi a mangiare un panino con pomodori e mozzarella fresca. Non sempre, però, l’ovvietà e la realtà coincidono: tutti i bar, le paninoteche, i negozi di alimentari aperti a quest’ora sanno solo offrire buste di patatine fritte, panini preconfezionati o tramezzini al tonno, al prosciutto, ai wurstel, il che per un vegetariano non è l’optimum. Ne faccio a meno, e neanche poi ne sento il bisogno, come dimostra la media, risalita a  24 km/h grazie ad un’andatura costante sui 26 orari.
Arrivo in vista di Cassino su cui si staglia la mole del monte con l’omonima abbazia. Ancora una volta mi riprometto di tornare “un giorno” a visitarla, ma intanto sono lieto di non dover salire fin lassù anche perché le velature del cielo dapprima si sono condensate in nubi vere e proprie e poi hanno assunto il colorito plumbeo che preannuncia lo scroscio d’acqua.
Questo puntualmente arriva mentre sto attraversando la città. I sacchetti da surgelatore (per le scarpe) una cuffia rosa-chicco (per il marsupio) un guanto da supermercato (per il telefonino) e la mantella, naturalmente, fanno il loro dovere in modo egregio; ma ho tardato ad arrestarmi e quando ho ultimato le misure di protezione antiacqua mie e del mio bolide sono già discretamente inumidito. Decido di non fermarmi e procedo ad andatura molto lenta sotto la pioggia, peraltro fitta, ma non violenta; la cosa più fastidiosa è l’umidità, forse maggiore sotto la mantella di plastica a contatto con la pelle bagnata e sudata, che non al suo esterno. Dopo una quindicina di km, della pioggia rimangono, ai bordi della strada, solo alcune pozze e il verde lucido delle piante.
Finalmente, al confine tra Lazio e Campania, riesco anche a trovare un bar in cui il proprietario e la moglie mi preparano senza problemi, stupiti che io mi stupisca, uno sfilatino di mezzo kg farcito di altrettanto pomodoro e mozzarella locale. Non ce la faccio a mangiarlo tutto, anche perché mi metto a chiacchierare con il gestore che si appassiona al mio viaggio, ma poi si mostra preoccupato quando gli dico che ho intenzione di raggiungere Benevento da Caianello-Vairano lungo la cosiddetta superstrada “della Vallata” che gli risulta vietata alle biciclette e comunque pericolosamente trafficata; perciò mi consiglia di tornare indietro e prendere per Venafro, Isernia e Campobasso, oppure di prendere il treno da Caianello per Benevento. Lo tranquillizzo, optando per questa seconda soluzione, ma in realtà non ho ancora scelto e decido di non decidere, almeno finché non sarò a Vairano.
Riparto sotto un cielo nuovamente grigio, costeggiando distese pianeggianti coltivate a pomodori, ortaggi vari e vite: non per niente questa è zona del mitico Falerno celebrato dai Romani; e romani – o comunque storici – sono i riferimenti o le reminiscenze a cui rimandano tanti dei toponimi di quest’area a cavallo tra Lazio e Campania:  la Tuscolo e Arpino di Cicerone, l’Aquino di Giovenale (e San Tommaso),  la Ferentino e Capua delle guerre annibaliche, l’ Anagni di Bonifacio VIII, o Montecassino con la sua abbazia benedettina e ancora Vairano-Teano e Montelungo, legate alla storia più recente d’Italia.
Raggiungo infine Vairano presso Caianello: sono le 19 e anche se non piove, il cielo è ancora incerto. Nella piazza affollatissima chiedo informazioni a un gruppetto di persone di mezz’età: anche stavolta mi sconsigliano la superstrada. Il problema è che non ci sono in zona alberghi per passare la notte; forse a una ventina di km di distanza…  La Pro Loco è ormai chiusa e il problema non sembra di facile soluzione, poi un tale scorgendo un autobus di linea ha un’idea che mi pare vincente: raggiungere con quel pullman (che è anche l’ultimo della giornata) un paese vicino, Piedimonte Matese, in cui c’è sicuramente la possibilità di passare la notte sotto un tetto. Mi precipito alla fermata, dato che la partenza è imminente, ma l’autista, che è al bar e non sembra aver fretta di ripartire, arriva dopo quasi mezzora d’attesa e subito mi gela dicendo che non sarà possibile caricare la bici se il portellone del bagagliaio è ancora bloccato, come a lui risulta. Figuriamoci se voglio separarmi dal mio bolide: “O tutti e due o nessuno dei due!” gli faccio io, eroico e lui mi guarda alzando il sopracciglio della serie “Sai quanto ci soffro!”. Poi per fortuna il portellone si apre, carico la bici, salgo con altri due viaggiatori e si parte.
Guardando fuori dal finestrino, cerco di capire dove stiamo andando, ma perdo subito l’orientamento: dopo qualche giro nella periferia di Vairano, il percorso si snoda su stradine prima collinari, poi di montagna, sempre più ripide e anguste, ma con poco traffico per fortuna, visto come guida l’autista: sembra ritenersi al volante di una Mini più che di un pullman e affronta a tutta velocità curve strette e senza visuale. Mi accorgo, a un certo punto, che sto viaggiando con entrambe le mani avvinghiate ai braccioli e i piedi ben puntati in avanti, in posizione protetta.
Sono le 20 passate, quando scendo alla base di Piedimonte Matese. Salgo in bici e dopo un paio di km giusti e altrettanti “sbagliati” per una deviazione inutile, raggiungo il cuore del paese e l’albergo indicatomi dall’autista. È nella piazza principale del centro storico, accanto al municipio; si tratta di un bell’ edificio antico, ma in buona parte restaurato, con un Internet Cafè sottostante. Immagino che i prezzi siano elevati, ma non posso permettermi di scegliere. Ancora una volta nonostante le buone intenzioni, sono arrivato ad ora troppo inoltrata nel luogo in cui cercare da dormire: in parte dipende dalla maggiore lentezza con cui procedo, rispetto a precedenti esperienze di viaggio, in parte dalla cattiva abitudine a partire sempre più tardi al mattino, in parte dal fatto che, anziché prendere coscienza di questi limiti, cerco di strafare, di forzare i tempi oltre ogni logica, rimandando il momento dello stop finale, pur di fare qualche km in più. Comprendo benissimo le critiche che Alberto mi ha sempre rivolto in occasione delle nostre uscite; mi consolo pensando che, se non altro, sono consapevole dei miei difetti e li riconosco.
La camera, una matrimoniale al secondo piano, ha una bella vista sulla piazza, è molto spaziosa, pulita, fornita di telefono, frigo, TV, con un bagno ampio e accessoriato; posso anche disporre di un locale al piano di sotto in cui tenere la bicicletta al sicuro; insomma non posso volere di meglio, resto perciò a bocca aperta, quando il direttore, su mia titubante richiesta, spara “35 €, colazione compresa”!
Sfaccio i bagagli, disperdendoli per tutta la camera e mi preparo alla doccia, ma prima di infilarmi in cabina, decido di lavare gli indumenti sporchi. Li metto a mollo nel lavandino ed apro il rubinetto dell’acqua calda; aspetto 30 secondi, un minuto, due, ma l’acqua rimane inesorabilmente gelida. Provo con quella della doccia, ma il risultato non cambia: lo sapevo che, dietro le belle apparenze doveva nascondersi una realtà meno felice… Il sentirsi stanco, affamato, infreddolito in questa stanza disordinata e improvvisamente estranea annerisce rapidamente l’immagine rosea di solo pochi minuti fa. Sono incerto se fare ugualmente la doccia, gelata, o prima andare giù a reclamare, però dopo aver perso tempo a rivestirmi e a ridare una parvenza d’ordine sia alla stanza, davvero impresentabile, sia alla mia roba, ancora fradicia nel lavandino. Decido intanto di sciacquarmi almeno il viso e, come d’abitudine, lo faccio aprendo il rubinetto dell’acqua fredda; in una manciata di secondi un getto d’acqua bollente quasi mi ustiona le mani: i simboli del caldo-freddo sui rubinetti erano stati semplicemente invertiti di posizione!
Dopo una mezz’ora di doccia calda ristoratrice, con un aspetto più umano e soprattutto più pulito, mi affaccio sulla strada e inizio la visita notturna della città. Di pizzerie, trattorie o ristoranti aperti, nemmeno l’ombra (d’altra parte sono le 22,30), ma l’escursione è ugualmente piacevole nel silenzio della notte, rotta solo dal regolare ticchettio metallico delle mie scarpe sul selciato lavico delle strade. Vie e piazze sono deserte, ma vi si affacciano, muti testimoni del tempo, muri, balconi e ringhiere del ‘700, senza concessioni alla contemporaneità, non fosse per una serie di manifesti elettorali, prevalentemente riferibili a Forza Italia (che ringrazia per aver raccolto qui la percentuale di voti più alta di tutto il Matese) e a U.D.C. (che, in vivace polemica con l’uscente sindaco di F.I., rivendica, con toni non proprio da alleati, una propria superiorità etica, oltre che elettorale); molto minoritaria la presenza degli altri partiti; quasi del tutto assenti, invece scritte e graffiti sui muri. L’impianto della cittadina, almeno limitatamente al suo centro storico, è settecentesco, con alcuni scorci che potrebbero essere interessanti (l’illuminazione è molto scarsa) tra i vicoli stretti e tortuosi in cui palazzi secolari sembrano sporgersi, con i balconi, l’uno verso l’altro, quasi in una sorta di complicità, di solidarietà di classe; ma forse sono tutte fantasie dettate dall’ora e dallo stomaco vuoto.
Al termine del mio giro circolare, mi ritrovo nella piazza da cui sono partito. Una zona in fondo, più vivace per le luci e i suoni che ne provengono, richiama la mia attenzione: una gelateria ancora aperta e un’accesa discussione davanti alla sede di un comitato civico per le imminenti elezioni amministrative contrastano fortemente con la quieta immobilità del resto di questa piazza fuori dal tempo.
In me, che nel mio vagare non riesco a sentirmi coinvolto in nessuna di queste realtà, riaffiora vivissimo il senso della mia alterità “qui ed ora”, di una netta estraneità a questo ambiente, di un totale (ma non sgradevole) isolamento all’interno della coscienza, con tutto il suo flusso di pensieri, ricordi, ricerche di non-so-cosa e domande senza risposta. Ma anche questa sensazione è una conseguenza diretta dell’esperienza che sto affrontando: in fondo non è soprattutto per questo che si intraprende un viaggio del genere? Non è questa esplorazione interiore nel corso del mio vagabondaggio per l’Italia, il suo motivo d’essere e, nel contempo, il vero viaggio? Almeno in questo il partire da soli offre maggiori opportunità di dialogo e compagnia con se stessi. Sollevato, come dopo aver ripreso i contatti con un vecchio amico perso di vista, rientro in camera.
Dopo aver mangiato quel che avanza dallo sfilatino-mozzarella-e-pomodori, stendo qualche annotazione sulla giornata, facendo il punto della situazione (km odierni  180 a 24,5 km/h di media; km totali  540 in 22 h e  27’ alla media generale di  24 km/h), poi vado a dormire. Anche stavolta è notte fonda e so già che domattina difficilmente sarò in piedi all’ alba, fresco e pimpante come i ciclisti bravi e intelligenti. Beh, se non altro utilizzerò questi miei orari strampalati come scusa per le deludenti prestazioni agonistiche o le eventuali defaillances psicofisiche del mio tour.
Venerdì 21 Aprile
Sonno ininterrotto, ma greve, a macigno: la stanchezza accumulata e solo in parte dissipata col riposo notturno, urge nelle gambe, ma anche nella schiena, nel collo e ai polsi, fino a destarmi ai primi chiarori; cerco di riprendere sonno, ma non vado oltre un incerto dormiveglia; provo allora a rilassare il corpo e la mente per un po’, finché verso le  8, a fatica, mi tiro su a sedere cercando di fare un po’ di stretching, ma i muscoli legati e indolenziti si rifiutano. Non mi resta che alzarmi e scendere a fare colazione. La mancanza di appetito mi fa accontentare di un paio di cappuccini e di un cornetto.
Poi esco sulla piazza, vivificata da un sole luminosissimo nel cielo limpido e dall’aria frizzantina del mattino. Il centro, vivace e chiassoso ora, come era silenzioso ieri sera, brulica di ragazzini che si dirigono a scuola in gruppo o, i più piccoli, accompagnati dalla mamma. La camminata alla ricerca di un giornalaio e di un negozio di alimentari, mi aiutano a svegliarmi.
In un mini-market mi rifornisco in abbondanza di pane, scamorza, pomodori e frutta, che costituiranno il mio pasto di oggi e poi compro una forma di pecorino tipico del Matese da portare in dono ai miei zii; spendo una cifra adeguata, cercando tra l’altro di liberarmi dell’inutile zavorra di monete e monetine che mi occupano il borsellino, però l’alleggerimento del portafoglio non è compensato dall’appesantimento del carico da trasportare (calcolo a occhio di averlo accresciuto di almeno  4 kg ), che oltretutto avrò difficoltà a inserire nei bagagli. Ma la passeggiata, unitamente ad una seconda rata di colazione, mi ha tonificato l’umore, oltre che i muscoli, per cui decido di non preoccuparmi più di tanto e di affrontare un problema per volta: il più urgente, infatti, è quello di decidere quale strada prendere per raggiungere Benevento.
Dopo un paio di persone che mi propongono fantasiosi itinerari “arabescati”, fra i monti, ho la fortuna di incontrare dei vigili i quali mi rassicurano che la superstrada della “Vallata” è sì trafficata, ma non particolarmente pericolosa e, soprattutto, è percorribile dalle biciclette.
Tranquillizzato torno in albergo, finisco di prepararmi, faccio i bagagli, pago il conto e poco dopo le 10 parto.
Raggiungo in discesa prima Alife, poi la superstrada. È un nastro di asfalto abbastanza rettilineo che si inoltra nel fondovalle, lasciandosi ai lati il profilo irregolare delle colline e delle montagne di questo tratto di Appennino. In lontananza il paesaggio, in cui domina il verde scuro, intervallato qua e là dai puntini bianchi delle opere dell’uomo, è gradevole, ma monotono; la stessa strada, nonostante non presenti forti dislivelli e garantisca un fondo discreto, sembra non finire mai e quando provo ad aumentare l’andatura, avverto subito il riaffiorare di una stanchezza ormai cronica, che mi costringe a rallentare. Oltrepasso le uscite per Caiazzo, S. Salvatore, Telese, Solopaca, Guardia Sanframondi, Pontelandolfo e, finalmente, trovo il cartello che indica come prossimo il tratto finale per Benevento. Indica anche che il tratto di superstrada percorribile anche dai ciclisti è terminato, continuare vorrebbe dire immettersi sulla autostrada che da Benevento porta a Foggia o ad Avellino; esco diligentemente dallo svincolo e mi trovo davanti all’unica alternativa: inizio della strada per Pesco Sannita.
Non è la ripida salita che si prospetta da subito, a preoccuparmi, ma il fatto che la strada punta inequivocabilmente verso Nord-Ovest, anziché Sud-Est; controllo sulla cartina e scopro che in effetti, dopo Pesco Sannita il percorso punta su Campobasso o si perde in una ragnatela di stradine provinciali tra i monti; da qualche parte devo aver saltato l’uscita sulla provinciale per Benevento. Controllo sulla cartina, che però in quel punto è illeggibile per le sbavature prodotte dalla pioggia di ieri; allora riprendo lo svincolo per tornare sulla superstrada e cercare più indietro l’uscita giusta. Da una rampa passo ad un’ altra, mi ritrovo al punto di partenza, ci riprovo, attraversando direttamente le corsie (“tanto, non c’è nessuno” mi autogiustifico), ma –sarà il caldo, la stanchezza, la fame, la distrazione o l’ ansia– mi confondo e dopo un po’, invece che a Ovest punto a Est, seguendo la direzione per Benevento.
Tranquillizzato dal fatto che ora la strada è ancora più ampia di prima, anzi ha un bello spartitraffico con tanto di siepe fiorita, prendo velocità su un asfalto perfettamente liscio e scorrevole e vado a 27-29-30 km/h. Qualche auto, sorpassandomi, suona il clacson, io lo interpreto come un festoso saluto e contraccambio con la mano. Tutto contento intravedo in lontananza il colore chiaro delle costruzioni: dev’essere per forza Benevento; finalmente! Oltretutto si trova più in basso e la strada infatti comincia a scendere.
Poco dopo ne ho la conferma matematica: “BENEVENTO” c’è scritto su un cartellone verde pendente sopra la strada e verdi sono le altre segnalazioni di distanze o uscite per Caserta, Foggia… Verde?? Ma non dovrebbero essere in blu? Verde è il colore delle segnalazioni autostradali!. E infatti sono finito sull’autostrada, senza accorgermene, anche perché, non essendo a pagamento, questo tratto autostradale è sprovvisto del casello d’ingresso.
Sono in crisi, sia per l’irregolarità e la pericolosità della situazione, sia per la mia balordaggine: detesto dover dimostrare agli altri e ancor più a me stesso di essere un “torsolo”; ma mi rendo anche conto di quanto siano inutili le recriminazioni; l’unico modo per uscirne (scartata l’ipotesi di scavalcare il guard-rail e darsela a gambe, bici in spalla, per i campi, in cerca di una strada che non si vede), è quello di raggiungere velocemente il prossimo casello, sperando di non essere intercettato, prima, dalla stradale. Attingendo a risorse finora nascoste, evidentemente, e aiutato dal pendio abbastanza favorevole, volo per  5 km, forse 10 (il calcolo di tempo e spazio è impossibile, se si è condizionati da un’ intensa emotività), correndo sullo stretto nastro d’asfalto racchiuso tra la corsia di sosta e il guard-rail, mentre dalle – poche – macchine che mi sfrecciano vicino alcune facce sorprese si voltano a guardarmi.
Alla prima uscita, mi precipito fuori dall’autostrada con un profondo senso di sollievo. Se non altro, ho recuperato un po’ di tempo, come dimostra il fatto che la media è risalita a 24,5 km/h: i continui controlli della media tradiscono non tanto il desiderio di compiere un’impresa agonistica rilevante (a questa velocità, con questo carico e a questa età sarebbe insieme velleitario e patetico), ma ancora una volta il bisogno di conferma, quasi di rassicurazione, che tutto sta procedendo secondo le previsioni, nel migliore dei modi.
Giro intorno ad una rotonda, incerto tra le varie indicazioni, riferite tutte a zone di Benevento (sono a ridosso della periferia Nord o Nord-Est del capoluogo, questo è sicuro, ma in quale punto esattamente e in che direzione devo muovermi?) o di paesi vicini; poi provo a orientarmi con l’aiuto del sole e di Padre Pio (un cartello che indica Pietrelcina, mi convince, per un’ampia gamma di ragioni, ad andare nella direzione opposta).
La scelta si rivela corretta e raggiungo un punto meno periferico e più frequentato della città.
Sosto presso un distributore per chiedere informazioni: il gestore presso una pompa sta parlando con un conoscente, mi fermo a un paio di metri, attendendo rispettosamente che finisca di chiacchierare, ma lui, pur vedendomi con la coda dell’occhio in chiaro atteggiamento di richiesta, non mi prende in considerazione. Stufo di aspettare mi rivolgo a un “ragazzo di bottega” di una sessantina d’anni che sta ramazzando non si sa cosa presso il garage del distributore. Alla mia domanda, tenendo deliberatamente lo sguardo fisso sulla scopa che spazza l’inesistente, anzi, proprio cercando di dare ad un invisibile sorvegliante l’impressione di non parlarmi per niente, biascica tra i denti qualcosa come: “Addimannate a chillo. Addimannate a chillo…” e con un’ impercettibile smorfia della bocca mi indica il gestore. Sorpreso ed incuriosito, mi riavvicino alla pompa e dopo qualche secondo di sterile attesa mi faccio avanti e chiedo all’uomo che sta sempre parlando: “Scusi, la strada per Fogg…” non mi lascia nemmeno terminare e fa: “Andate semp’ a dritto”; “Sì, ma per…”; “Semp’ a dritto!” e ritorna a chiacchierare. La scena mi pare degna di una commedia di Eduardo o meglio di una gag di Totò, anche se la curiosità antropologica sta cedendo il passo all’irritazione. Non ho voglia di discutere e seguo comunque il suo consiglio, anche perché la maggior parte delle auto si muove comunque in quella direzione.
Altra rotatoria, con informazioni varie, ma tutte prive di significato per me. Fermo un signore su un’auto il quale molto gentilmente, dopo avermi spiegato che sono fuori strada, mi suggerisce un percorso fatto di una mezza dozzina di svolte a destra, altrettante a sinistra e poi ancora due ponti, una strada larga, un fiume, due rotonde, tre semafori… provo a farmelo ripetere, ma non riesco a memorizzare oltre la seconda svolta a destra. Provvidenziale mi appare una camionetta dei carabinieri, che stanno facendo la multa ad un automobilista. Premurosamente da parte loro (e con sollievo da parte dell’automobilista) si soffermano a spiegarmi che ho, sì, sbagliato ancora direzione, ma che posso rimediare salendo verso la parte alta della città, seguendo le indicazioni per la Questura fino ad arrivare ad un’ ampia rotatoria in Piazzale Vittime del Terrorismo (nomen omen), da cui è facile imboccare direttamente la via per Foggia.
Ripercorro parte della strada già fatta e mi inerpico su per una salita ben accentuata e resa estenuante dal caldo, dai gas di scarico del traffico e dal peso dei bagagli (ingigantito dalla pletorica scorta di cibarie che mi sto trascinando dietro). Raggiunto il fatidico Piazzale, col quale mi sento in qualche modo in sintonia, trovo anche la segnalazione per Foggia, ma, ammaestrato per una volta dall’esperienza, noto subito anche il colore verde-autostradale del cartello ed ho il buon senso di chiedere a un ragazzo se sono sulla strada giusta. Quello si mette a ridere: “Ma a quanto currite? Tenite nu motore nascosto?” Da qui Foggia si raggiunge solo con l’autostrada! “Ma se me l’hanno detto i carabinieri… L’avranno visto, no?, che sono in bicicletta?” Lui alza eloquentemente gli occhi al cielo e poi mi spiega pazientemente il percorso per uscire fuori da quella sorta di labirinto, neanche fossi nella Casbah di Marrakesh.  Comincio a maledire questa – per me – Maleventum e la sconfitta di Pirro e i Longobardi che non distrussero la città e chi dà le informazioni sbagliate e chi non le capisce e chi va in bicicletta anziché in aereo e chi… Poi sconsolato, mi rimetto in sella e in meno di un quarto d’ora finalmente imbocco la via giusta.
Subito una bella discesa veloce mi ridà un po’ di ottimismo e di sollievo dal caldo (per evitare altre scottature stamani non mi sono tolto la canottiera gialla, che ora è fastidiosamente inzuppata di sudore); ma in breve la strada prende a salire prima con un incerto falsopiano, poi, dopo il bivio per Paduli, con una pendenza più costante e pronunciata. Non mi rassegno a questa andatura ridotta e pesto sui pedali; la conseguenza è che  500 m. dopo ho il fiatone, i battiti vanno in fuori giri e la spia rossa segnala il punto di ebollizione.
Grondante di sudore, debbo rallentare per forza, mentre l’afa cresce e la mancanza di qualunque alito di vento non allevia certo il senso di caldo opprimente. Provo a mangiare qualcosa, ma non ho fame, le barrette energetiche, che in altri tempi mi sarebbero parse una ghiottoneria, ora mi sembrano fatte di segatura pressata e appiccicosa e mi disgustano solo al pensiero; provo lo sfilatino, ma, nonostante la caciotta, è troppo asciutto. In compenso mi salvano momentaneamente dalla sete alcuni pomodorini provvidenziali e la frutta comprata a Piedimonte. La borraccia, che mi sono dimenticato di riempire a Benevento, invece, è praticamente vuota e non ci sono in vista fontane, né bar o distributori in cui rifornirsi.
Scolo le ultime gocce, invocando dentro di me un po’ d’acqua. Quasi in risposta, l’acqua arriva, ma dal cielo: poche beffarde stille preannunciano un temporale estivo: girandomi indietro scorgo nere nubi temporalesche addensarsi a Ovest e raggiungere ormai Benevento alle mie spalle. Per sfuggirle, cerco di stabilizzare il passo ad una velocità non troppo bassa (siamo nell’ordine dei 15 km orari), ma nemmeno tanto alta da esaurire le ultime energie. Con lo sguardo vado scrutando lungo la strada la presenza di case, stalle o altre costruzioni in cui cercare riparo in caso di temporale, ma il panorama non offre altro che prati, colline, qualche area boscosa, campi coltivati probabilmente a grano, ampie distese colorate di giallo (colza, forse?) e solo in lontananza qua e là isolate costruzioni.
Intanto il caldo e l’umidità aumentano in misura insopportabile, ma probabilmente è solo una percezione soggettiva acuita dalla sete e dalla stanchezza. La strada non è nemmeno particolarmente ripida o tortuosa, ma sembra destinata a salire sempre, anche se, in realtà, intorno non ci sono cime aspre o elevate. Quando poi mi trovo davanti un lungo rettilineo che mi prospetta altri 10-20 minuti di salita e di sofferenza, sto per cadere vittima dello scoraggiamento; ma è allora che sopravviene il miracolo: sulla strada appare un distributore con annesso un piccolo bar. Lo raggiungo di slancio, senza nemmeno che mi costi troppa fatica; non solo il bar è aperto, ma c’è pure un muretto abbastanza largo da potercisi sdraiare, oltretutto all’ombra e con una fontanella vicino. Bevo a piccoli sorsi, mi sciacquo faccia, testa e mani, bevo, mi bagno braccia e gambe in fiamme, bevo ancora, riempio la borraccia di acqua e sali e finalmente mangio un po’ di pane e caciotta.
Poi, sazio e soddisfatto, incurante delle nubi che sembrano aver ripreso l’inseguimento, mi sdraio sul muretto per rilassare i muscoli indolenziti dalla fatica e dalla disidratazione.
Qualche goccia isolata mi riporta alla realtà; il tempo di un cappuccino e di un succo di frutta e via di nuovo verso Est. Dopo poche centinaia di metri, per fortuna la salita concede una tregua e la discesa seguente sembra interporre una minima distanza di sicurezza tra me e il temporale che gioca a rincorrermi come il gatto col topo. Quasi sdraiato sul manubrio per assumere una posizione più aerodinamica possibile, volo giù per la vallata, poi ancora una alternanza di salite e discese finché raggiungo, ai piedi di Savignano Irpino il bivio tra la via per Foggia e quella per Matera. La differenza in km tra i due percorsi è pressoché nulla; ma il primo, dopo il bivio, tende a scendere regolarmente verso Castelluccio dei Sauri e Cerignola lungo il torrente Cervaro per poi affrontare qualche dislivello sui 3-400 m. (la cartina non lascia intuire di quale grado di difficoltà) nelle Murge orientali; mentre la via per Matera, dopo una salita impegnativa a quota 700 con qualche ulteriore strappo fino a  850 m. (ma io mi trovo già a  480 m.), mi consentirebbe un percorso più vario e interessante; e poi il valico dell’Appennino non può essere considerato serio se non si superano almeno i 600 m. Con ragionamenti più o meno fasulli di questo tenore e confortato dall’ennesimo cappuccino, imbocco la salita per Savignano.
È sicuramente dura, considerate le condizioni di carico, ma l’entusiasmo, l’aria finalmente fresca e ventilata la fanno sembrare meno pesante dei falsopiani di una o due ore fa. L’acquazzone qui c’è già stato, come mostra l’asfalto bagnato, ma dal cielo non scende più che qualche goccia isolata. Le gambe girano rapide e regolari che è una bellezza; così nella brezza frizzante del pomeriggio tornante dopo tornante raggiungo Savignano, povero, ma grazioso paesino arroccato a picco sulla vallata sottostante; poi percorro un lungo crinale da cui si scorgono sulle creste vicine file di torri eoliche, impegnate a pieno regime a sfruttare i venti che tra questi monti soffiano costantemente, ma anche ad alimentare polemiche e contrasti tra sostenitori convinti della necessità di diversificare le fonti energetiche e oppositori, preoccupati dell’impatto ambientale che indubbiamente si viene a produrre. In effetti questi giganti, che roteando le loro pale fanno venire in mente l’impari lotta di don Chisciotte contro i suoi mulini a vento, dominano e condizionano il paesaggio, su cui si stagliano in maniera inconfondibile. Mi rendo conto che la scelta aerogeneratori sì – aerogeneratori no è tutt’altro che semplice e indolore.
Finalmente, anche se non c’è alcuna segnaletica a indicarlo, entro in Puglia, come testimonia anche il nome del paese successivo, Monteleone di Puglia. Sfioro il paese, di cui noto solo le povere case addossate in salita le une sulle altre e mandrie di pecore che pascolano sui prati lungo la strada, con qualche cane pastore che, vedendo passare una specie di uomo-macchina svolazzante (il telo messo a proteggere i bagagli sbatacchia rumorosamente sotto le raffiche di vento) abbaiano o mimano l’inseguimento e l’attacco.
Mi sento euforico, ricco di energie, più di quando al mattino sono partito, ottimista, di buon umore. È la sindrome della stalla vicina che mette le ali ai piedi al mulo; anche se in realtà mancano oltre  250 km al traguardo, il solo fatto di essere arrivato in Puglia, di aver superato l’Appennino, di aver scalato questi  850 m (queste sì che sono salite serie), di ammirare un paesaggio lucido di pioggia, aperto e luminoso, nonostante il cielo cupo, mi riempie l’animo di un entusiasmo quasi infantile, che mi fa scordare, o meglio guardare con indulgenza gli sforzi e lo scoramento che l’hanno preceduto. Mi piace pensare al ciclismo come a una metafora etica della vita, dato che nessuna discesa è possibile senza una salita, magari faticosa, che la preceda; mentre sacrificio o sofferenza non sono mai sterili, ma dànno un significato, un senso di pienezza e un valore di premio a qualunque conquista.
Mi lascio alle spalle Monteleone e punto su Accadìa. Il percorso è in discesa e la strada è sufficientemente ampia da permettere velocità elevate, ma ad una curva affrontata a quasi  60 km/h , il fondo sconnesso e la presenza di terra e piccola ghiaia per poco non pongono drammaticamente termine alla mia avventura. Procedo con maggiore prudenza, consapevole che in questa come in un altro paio di occasioni precedenti l’ebbrezza della velocità, la stanchezza unita alla distrazione o la superficialità nel sottovalutare gli ostacoli o gli imprevisti mi hanno esposto stupidamente a inutili rischi.
Dopo Accadìa la strada scende molto ripida e faccio fatica a frenare la bici che ad ogni uscita da un tornante sembra voler aggredire rabbiosamente la discesa per vendicarsi degli stenti patiti nelle tante salite. Sono felice di non dover affrontare questo stesso percorso in senso inverso (anche se so di essere portato durante la discesa a immaginarmi ingigantite le difficoltà in salita del medesimo tratto, forse per una sorta di scaramanzia). Le mani, indolenzite dal continuo azionare i freni per passare dai  50 km/h ai  15 in pochi secondi, si riposano solo una buona mezzora dopo, quando raggiungo la piana sottostante all’altezza di Candela.
L’aria è tornata calda, ma non afosa e il cielo si è rischiarato, ridonando nitidezza di linee e vivacità di colori al paesaggio, che è nuovamente mutato: la pianura davanti, dominata ora dal verde di macchie, cespugli, siepi, erbe incolte e perfino qualche canneto palustre, si perde monotona all’orizzonte, interrotto solo dalle colline su cui sorge Candela e dal nastro sopraelevato dell’autostrada diretta a Canosa.
Raggiunta la rotatoria da cui si dipartono le direttrici per Foggia, Cerignola e Melfi, scelgo quest’ultima e imbocco un’ottima superstrada che in lieve discesa mi conduce verso Sud. Pedalo a velocità decisamente sostenuta e la media generale riconquista e supera i fatidici  24 km/h crollati dopo Benevento. Ormai, mi dico, i 25 alla fine del viaggio sono una realtà a portata di mano. E accelero per portarmi a Lavello, o poco oltre, in tempo utile per cercare da dormire, fare una doccia, cenare e finalmente andare a dormire presto, almeno stavolta, per recuperare il sonno perduto e cercare di partire abbastanza presto domani.
Ma evidentemente è stato disposto diversamente, da qualche parte: al confine tra Puglia e Lucania, pochi kilometri dopo Candela il dubbio che la superstrada su cui mi trovo si interrompa con una deviazione (la cartina di cui dispongo la dà in ancora costruzione, ma è piuttosto datata) mi spinge a chiedere informazioni a un ciclista che incrocia in senso contrario. Nessuno dei due rallenta, ma, in quei pochissimi secondi di faccia a faccia, ottengo la rassicurazione che cercavo; poi, però, mi sento chiamare, mi giro e lo vedo che, scavalcato il guard-rail, mi fa cenni disperati perché lo aspetti. Appena mi raggiunge, mi domanda di poter fare un po’ di strada con me, perché ha da chiedermi alcune informazioni indispensabili per un suo progetto imminente: ha infatti ravvisato in me il prototipo del cycloturista primigenius (animale rarissimo da queste parti, se non già estinto, a quanto afferma) a cui chiedere ragguagli su percorso e tappe, abbigliamento ed alimentazione, strumenti, tecniche e meccanica per poter raggiungere nientemeno che Vienna.
Lo scopo, oltre a raggiungere colà una gentil donzella, è quello di smaltire facilmente (?) una ventina di kg di troppo, accumulati in un anno di vita assolutamente sedentaria; oltretutto è un anno esatto che non solo non sale su una bici, ma non ha svolto nessuna attività fisica per conservare un po’ di forma. Infatti nonostante la sua mtb sia scarica di bagagli e noi procediamo a velocità moderata, ha il fiatone e dopo un po’ dobbiamo rallentare “Sai, ho già fatto una ventina di Km – mi dice – e comincio ad essere parecchio stanco”. Cerco di dissuaderlo spiegandogli che per Vienna si tratta di fare a occhio e croce oltre 1500 km e che lui ha bisogno di un allenamento un po’ graduale e mirato, diciamo un paio di mesi, per lo meno, prima di affrontare un’impresa così impegnativa, ma lui risponde che, certo, mica pensa di partire domattina, bensì … fra tre giorni; inoltre non pensa di fare, almeno i primi tempi, 200 km al giorno, ma meno della metà; infine ha già notevolmente ridotto le sue ambizioni di viaggio, dato che la ragazza, se ho capito bene, è lituana e, bontà loro, hanno deciso di incontrarsi a metà strada soltanto. Visto che nel suo incosciente candore è irremovibile, cerco di distribuirgli pillole concentrate di saggezza ed esperienza, condite con inviti alla morigerazione e alla prudenza esposti con aria paterna e professorale (anche se dentro di me non posso non dirmi “da che pulpito…”).
Intanto sta scendendo la sera e Domenico – questo è il suo nome – ha ulteriormente rallentato, ma non mi sento di interrompere le mie “lezioni private” e procediamo poco più che a passo d’uomo come un vecchio filosofo e il suo più giovane discepolo sotto i portici della Stoà. A un tratto, passando sopra le giunzioni di un viadotto, colpisco violentemente uno spigolo metallico con la gomma posteriore che scoppia; e sì che l’ allievo aveva rispettosamente avvertito il maestro.
Sosta forzata per il cambio gomma; Domenico ne approfitta per tirare il fiato e integrare le nozioni teoriche con un po’ di attività pratiche. La camera d’aria, pizzicata dal cerchione in quattro punti, è da buttare; Domenico me la chiede e la conserva religiosamente come un cimelio o una reliquia proveniente dal Santo Sepolcro; poi si sdraia sul muretto a lato della strada. Io, terminata la sostituzione, vorrei ripartire subito, visto che il sole è tramontato da un pezzo e non ci sono centri urbani nelle vicinanze, ma non me la sento di abbandonare sul ciglio della strada il mio compagno di viaggio, semidistrutto dalla stanchezza per aver fatto poco più di una trentina di km.
È lui a prendere l’iniziativa: a Palazzo S. Gervasio, il suo paese, possiede un miniappartamento che non usa mai e mi offre di dormire lì la notte; è vero che è fuori mano rispetto alla strada prefissata, ma non di molto e dista appena una quindicina di km. Io non vorrei, mi schermisco un po’, ma lui non mi sta a sentire e col telefonino chiama prima Michele “Accendimi lo scaldabagno nell’altra casa, per favore”, poi Peppe: “Ci vediamo da te, per mangiare un boccone, stasera; porto un amico”, poi Luigi e qualche altro: “Sono sulla superstrada con un compagno di viaggio, ma non ce la faccio a rientrare; puoi venire tu o Giuseppe a prenderci? No, non con l’ambulanza, ché due biciclette non c’entrano, venite col furgone…”
Io sono trasecolato sia per il fatto che Domenico, come un giovane boss, si avvalga di una rete di persone pronte a esaudire tutte le sue richieste, sia perché disponga addirittura di ambulanze; ma il mistero è presto chiarito: lui e gli altri sono un gruppo di amici i quali hanno organizzato un’associazione di volontariato, che prevede anche l’assistenza e il trasporto per i malati. Non so cosa fare: a quell’ora, in quel luogo, in quella situazione è tutto così strano; oltretutto, ora che è buio completo, comincia a fare fresco e il sudore ghiacciatomi addosso mi fa venire i brividi; lui invece preferisce non muoversi ed aspettare lì che lo vengano a prendere. Stabiliamo perciò che lui resti lì in attesa, mentre io andrò avanti pedalando per scaldarmi, finché non mi avranno raggiunto col furgone.
Non trovo le bretellone riflettenti, ma quelle già presenti sulle tasche della bici, unite ai catarifrangenti e alle paillettes da danza del ventre sottratte a moglie e figlia, sono sufficienti; naturalmente accendo la luce anteriore e il led posteriore; poi, per cautela ne aggiungo un altro al retro del casco; non vedo granché, ma l’importante di notte è essere visti .
Riparto dunque e pedalo ad alta velocità, anche se l’oscurità più completa mi impedisce di misurarla sul contakilometri. La campagna è immersa in un silenzio quasi magico; le auto per strada sono rarissime – per fortuna – e l’unico rumore estraneo alla natura addormentata è il fruscio delle ruote. Dai campi proviene un leggero odore di terra smossa o umida, con un incipiente sentore di primavera. Puntini di luce radi e tremolanti per la lontananza tradiscono qua e là la presenza di casolari o piccoli centri in alto su qualche poggio al confine con le stelle più basse del cielo. Già; il cielo e il suo pigolio di stelle: come la dea Mut il firmamento sembra avvolgere la terra con le sue ali stellate. Com’è diversa, pur nella medesima solitudine, la notte in campagna da quella della città. È sorprendente in momenti come questi, il senso di pienezza, di pace, di sicurezza che la notte regala proprio in virtù del suo non mostrare le cose.
Sto viaggiando da almeno un quarto d’ora, ma solo adesso mi rendo conto che con Domenico abbiamo dimenticato di scambiarci il numero del telefonino; inoltre le luci posteriori si sono molto affievolite ed è possibile che mi abbiano superato senza vedermi. Un cartello annuncia fra poche centinaia di metri un’uscita dalla superstrada: devo decidere in fretta se continuare o deviare, rischiando in ogni caso di perdere definitivamente i contatti e proseguendo per conto mio alla ventura finché le forze reggono o non incontro un centro abitato o comunque qualche buco in cui rintanarmi per riposare qualche ora.
Dovrei essere arrabbiato con me stesso, ma l’imprevisto mi ha messo di buon umore e ricaricato di energia combattiva. E, in effetti, l’ottimismo viene premiato: sullo svincolo c’è ad attendermi un furgoncino con Domenico e due suoi amici. Carico anche la mia bici e poi ripartiamo. Chiacchieriamo come vecchi amici fino al paese, arroccato su un pianoro allungato e strettissimo (al centro è largo, tra uno strapiombo e l’altro, meno di 50- 100 m .); poi ci fermiamo proprio davanti alla seconda casa di Domenico: a piano terra è un monolocale enorme in cui c’è di tutto: divano-letto, tavoli, cyclette e altri attrezzi ginnici, scatoloni, mucchi di riviste, gagliardetti del Milan…
Preparato il letto vado a fare la doccia, mi metto il vestito buono (che è, poi, l’unico che ho oltre ai pantaloncini da bici) e aspetto che torni Domenico. Arriva con alcuni amici, stanno vicino ad un’ ambulanza (quella della loro associazione) che ospita un malato, un cardiopatico in attesa di essere ricoverato, ma il medico non si vede e il malato aspetta senza che succeda nulla e che nessuno si mostri preoccupato. Quando, mezz’ora dopo, partiamo in auto, mi viene il sospetto che lui sia destinato a restare nell’ambulanza per tutta la notte.
Facciamo un ripetuto giro panoramico del paese, poi passiamo dalla sede dell’associazione, dove un nutrito gruppo di giovani è ancora impegnato a lavorare nonostante l’ora; Domenico me li presenta tutti e mi descrive le singole attività: fanno di tutto dall’assistenza a malati e anziani all’organizzazione di spettacoli teatrali o di internet point, all’allenamento di squadre di calcio o altri sport, alla stampa di periodici locali. Nonostante le più disparate idee politiche, sono tutti amici e oltre che dal fatto di lavorare gratis sono accomunati da un forte affiatamento e spirito di collaborazione.  E questo del volontariato attivo è l’unico modo, in un paesino del Sud che non offre niente, per sfuggire alla noia quotidiana, alla routine, ai percorsi obbligati quanto vuoti degli svaghi abitudinari: “struscio” sul corso-televisione-discoteca-partite di calcio…
Infine di nuovo in auto; io propongo di andare a mangiare un boccone da qualche parte (vorrei almeno offrirgli la cena), ma Domenico è irremovibile: con le sue telefonate da manager ha disposto diversamente. Siamo diretti nella campagna sottostante, dove in una masseria ci aspetta Peppe che ha improvvisato una spaghettata al sugo con tonno (non ho il coraggio né la maleducazione di accampare le mie scelte vegetariane) e una mega insalata di lattuga e pomodorini del suo orto. È una cena un po’ tardiva, visto che inizia vicino alla mezzanotte, ma è deliziosa e ristoratrice per il corpo, quanto per l’animo lo è la conferma del senso di ospitalità genuino e spontaneo che ancora sopravvive nei piccoli centri, soprattutto al Sud.
Tra bevute, chiacchiere, ricordi, discussioni su Berlusconi e sui problemi del nuovo governo o della politica agricola, si supera la mezzanotte e passa un’altra ora prima di essere tornati in paese ed esserci dato appuntamento per domattina alle 8,30. A questo punto debbo ammettere che per me riuscire a dormire ad ore “cristiane” è una pura e semplice chimera.
Vado a letto con appena la forza di spogliarmi e, senza bisogno di leggere per addormentarmi, crollo rapidamente in un sonno profondo.

Sabato 22 Aprile
Sveglia del telefonino alle 7.30, ma alzarsi è una faticaccia; mi ci vuole mezzora per riuscire a farlo e sciogliere i muscoli con un po’ di stretching ed altrettanto per essere presentabile.
Quando mi affaccio fuori, c’è un sole che spacca le pietre, l’ambulanza col moribondo è sparita (sarà ormai morto, ricoverato, guarito?), in compenso c’è Domenico col suo gruppo di amici (ogni volta ce n’è di nuovi; dubito che ci sia nel circondario qualche giovane o meno giovane che non gli sia amico).
Nel rientrare in casa noto un’iscrizione, che mi mette in allarme e che ricollego alle frammentarie notizie ricevute ieri sera da Domenico; poco dopo comunque è lui stesso che me ne dà conferma: l’abitazione è stata originariamente il ritrovo di un Milan-club, poi è diventata la sede locale di Forza Italia. Il fatto di aver dormito in una dependance, sia pure molto decentrata, di Arcore inizialmente mi turba un po’, poi, ripensando alla risposta di fra Cristoforo al sagrestano di Pescarenico, “Omnia munda mundis”, riesco a superare lo shock e a considerare la cosa da un punto di vista ironico e divertito.
Mentre aspetto registro i dati relativi al percorso di ieri: 185 km in 8 ore alla media di 22,9 km orari.
In auto andiamo, in gruppo, a fare colazione in un bar; tra caffè, brioches e commenti bonariamente irridenti alle velleità ciclistiche di Domenico, passa un’altra ora. Anche questo senso del tempo così slow e tutt’altro che frenetico, lo spazio per la convivialità e le chiacchiere in pieno relax, esprimono scale di valori o una concezione stessa dell’esistenza completamente differenti (ma vorrei dire più umane) rispetto a quelle cui siamo generalmente abituati; ma mi rendo conto che questi giudizi che si rifanno al luogo comune “Sud = spontaneità, naturalezza, calore e Nord = artificiosità, freddezza” costituiscono una generalizzazione e un pregiudizio simili a quello del buon selvaggio che non rendono giustizia agli aspetti positivi e negativi presenti in entrambi i mondi, sempre che abbia ancora senso parlare di due mondi diversi, oggi in tempi di globalizzazioni.
Al termine della colazione, mi avvicino di soppiatto alla cassa per cercare di pagare io, ma non c’è niente da fare: il “pagatore” di turno l’ha già fatto -o lo farà- e comunque non è nemmeno lontanamente pensabile che <<un ospite vada ad un ristorante o al caffè e possa tirar fuori del denaro>>.
Tornati in paese, faccio i bagagli, mi faccio spiegare la strada e, dopo aver fatto a Domenico le ultime raccomandazioni sul suo folle raid ciclistico, gli strappo la promessa di tenermi al corrente delle sue avventure e di farsi vivo, se al ritorno dovesse capitare dalle mie parti.
Parto e dopo una breve sosta ad un bar alle porte del paese per l’integrazione della colazione con l’ennesimo cappuccino (ormai sono diventato cappuccino-dipendente; il fatto è che -sia autosuggestione o realtà- ogni volta dopo averne bevuto uno mi sento più carico di energie), scendo giù nella vallata sottostante in direzione di Spinazzola, lasciandomi alle spalle i bivi per località mai visitate, eppure rese familiari da quei frammenti di citazioni classiche che un liceo-lager ha impresso indelebilmente nella mia memoria, come formule indispensabili per la sopravvivenza, e che ancora a distanza di 40 anni riaffiorano automaticamente alla coscienza: Venosa (Lucanus an Apulus anceps, nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus), Banzi (O fons Bandusiae splendidior vitro) o Acerenza (caelsae nidum Acherontiae).
Entro nuovamente in Puglia e, aggirata Spinazzola, con qualche saliscendi mi dirigo a discreta velocità verso Gravina. La giornata è calda e assolata; non solo non posso togliermi la canottiera, come vorrei, ma ora devo in qualche modo coprirmi le braccia, fino ad oggi rimaste sempre esposte al sole, tanto da presentare fastidiose scottature. Non ho di meglio per coprirle che la fascia salvasudore, che avvolgo alternativamente al gomito più esposto al sole. Dopo Gravina, a fatica riesco a imboccare la “Tarantina” o Appia antica, strada stretta, ma rettilinea che conduce direttamente a Castellaneta. Un’unica breve sosta per il pranzo, presso un casello ANAS abbandonato e in rovina. Manca quasi completamente la segnaletica e più di una volta ho la sensazione di aver sbagliato rotta, anche perché gli unici cartelli che incontro mi indicano solo deviazioni per Santeramo da un lato e Matera dall’altro e sempre alla stessa distanza; ma per fortuna sono sulla strada giusta.
Raggiungo Castellaneta, che niente sembra ricollegare oggi al mito di Rodolfo Valentino. È l’ultimo centro a trovarsi ad una certa altitudine: dalla sommità della città la strada precipita letteralmente verso il basso, bruciando quasi 200 m . di dislivello in un paio di km. Con queste pendenze non è difficile volare a 70 km/h ; potrei anche superarli senza forzare, ma il vento laterale che soffia irregolare e qualche vibrazione della bici mi dissuadono.
Lasciatemi alle spalle le Murge occidentali e raggiunta la piana, imposto un’andatura regolare che mi permette di raggiungere prima Palagiano e poi, a Massafra, la strada che porta diretta a Taranto. Da qui mi ero proposto di puntare a Sud attraversando il ponte girevole e passando dal centro prima di deviare ad Est verso Francavilla, ma poi il timore del traffico, col suo trambusto, gas di scarico, rumori, mi fanno anticipare la deviazione a Est, prendendo la E 90, la superstrada Taranto-Brindisi, che, mi piace immaginare, dovrebbe in qualche modo ricalcare il percorso dell’Appia Antica.
Le auto sono poche e il fondo scorrevole, potrei arrivare a destinazione in meno di un’ora e mezzo, ma non mi interessa annullare in una corsa fine a se stessa questi ultimi kilometri; anzi ora, dopo tanto correre, ho bisogno di andare piano per fiutare l’aria, i colori le forme di ambienti che hanno fatto parte della mia infanzia, di gustare ogni momento del ritorno, che è molto più del rivisitare un luogo dove si è stati in passato, è IL passato, che si libera delle ragnatele del tempo e riprende vita, è il “fanciullino” che si ridesta da un lungo sonno e ricomincia a parlare il linguaggio irrazionale di emozioni antiche. È il ritorno tout court, il nostos mitico del ritorno alle origini e alla propria identità, quello che da Omero in poi è ben radicato nell’immaginario collettivo del mondo occidentale, quello che è parte inscindibile nella parola “nostalgia”.
Lascio ora la E 90 per attraversare il lungo ponte che taglia in due il Mar Piccolo e mi fermo a metà per scattare un paio di foto e finalmente mi dirigo verso S. Giorgio, Carosino, Francavilla.
Ormai respiro aria di casa, riconosco le case squadrate e intonacate a calce nei paesi e le masserie isolate in campagna, il paesaggio ondulato, il colore rosso del terreno, i maestosi ulivi secolari, i vigneti a tendone, i muretti a secco, la fragranza degli odori primaverili, della terra smossa, ancora bagnata: è incredibile la potenza evocativa degli odori, con tutta la catena di associazioni e ricordi che mette in moto. Vorrei rallentare ancora per meglio assaporare tutto questo o forse per un timore oscuro di arrivare e –com’ è inevitabile– trovare cambiato tutto quello che i ricordi mi rendono più caro.
Quando il sole a metà pomeriggio comincia ad abbassarsi, rendendo più contrastati e saturi i colori del cielo, della terra, delle piante e delle case, arrivo a Cantagallo, una volta caratterizzata solo da boschi, uliveti e macchie, ora fortemente urbanizzata e dominata dal bianco delle seconde case. Ed è sull’ultimo pendio, in fondo alla strada che scende diritta fra gli ulivi che finalmente vedo Francavilla, assai più ampia di trent’anni fa, adagiata sulla pianura, con la Chiesa Madre ben riconoscibile grazie alle maioliche lucenti della grande cupola.
In un quarto d’ora la raggiungo, cercando inutilmente di individuare dei punti di riferimento nella mappa della memoria. Le vie intasate dalle auto e i nuovi, anonimi, palazzi, non mi dicono nulla, mi lasciano indifferente o infastidito; le facce della gente che sciama sui marciapiedi o tra le auto hanno un’espressione uguale a quella di qualunque altra città… Poi l’onda d’urto delle emozioni diventa improvvisamente travolgente, quando individuo le chiese e i palazzi del centro, il corso principale coi suoi basoli lavici irregolari o la piazza coi suoi caffè e la fontana. Nella gara tra ricordi e riconoscimenti i primi hanno la meglio: dov’è finito il glorioso cinema Schiavoni (“Ventimila leghe sotto i mari”, il primo film che io ricordi)? O il vecchio mercato? O la distesa di “giarginischi” di Nino Chianura? O i Corrieri dei Piccoli della “Cartolibraria” Resta? Da cosa è stato sostituito il vecchio, buio, polveroso bar “Rubino” (“un gelato 3 lire ! “)? O cosa si vende ora al posto dei mitici panini multistrato di Lisandro? E nella casa, dalle scale strette e ripide, della anziana, incurvata, pia sig.na Elodia chi abita? E chi nella casa che fu dei nonni?
Alla scomparsa di una persona ci si può anche adattare, ma alla sparizione di un angolo di mondo per noi significativo, fermato nella memoria in maniera immutabile come su una lastra fotografica, è difficile rassegnarsi. Ma mi sorprende ugualmente il pianto muto e irrefrenabile che emerge dal profondo, quasi che in tanti anni avesse atteso questo momento per venire allo scoperto. Strana e inattesa conclusione per un viaggio iniziato con spensierata leggerezza.
Il traffico è ora tanto ossessivamente intenso, che per avanzare devo procedere a piedi: centinaia di auto, con a bordo al massimo due persone, si spostano più lentamente che a passo d’uomo, in uno stop and go nevrotico e insensato, tanto più in una piccola città, non perché spinte da qualche impellente necessità o per raggiungere una località lontana, bensì solo per girare tra le viuzze del centro, in una sorta di “struscio” motorizzato, tanto che spesso gli occupanti di una macchina fanno conversazione attraverso i finestrini aperti con quelli di un altro mezzo che viene in senso inverso.
Raggiunta la porta a Nord sulla via per Ceglie, imbocco il viale della Madonna delle Grazie, che individuo solo per esclusione, tanto è cambiato: la strada è stata divisa in due corsie, riducendo l’ampio spazio a disposizione dei marciapiedi, la vegetazione un tempo fitta ai due lati della via si è ridotta per dar luogo a una quantità di villette, cosicché, perso l’aspetto di campagna suburbana, adesso quest’area è diventata un quartiere cittadino a tutti gli effetti, come dimostrano anche le strade, le piazze, i negozi, le palestre che sono stati costruiti dove una volta c’erano vigneti. La casa di Ronzo, il mezzadro, o il sentiero di Virgilio (cosiddetto perché la leggenda vuole che Virgilio l’abbia percorso nel suo viaggio verso Brindisi e la Grecia ) chissà dove sono finiti.
Individuo a fatica la casa degli zii, ma stavolta so bene che è inutile frugare tra i ricordi, peraltro ben vivi: la villetta (di colore rosso sbiadito e coperta di buganvillee, con le sue improbabili bifore gotiche e la merlatura ghibellina che tanto avevano suggestionato la mia fantasia infantile), è stata abbattuta da un pezzo, per far posto a una grande villa moderna, quasi avveniristica; solo il nome è rimasto: “villino Alice”. Ma non vedo più le aiuole fiorite che la nonna curava personalmente, né le piante di cappero che si insinuavano nelle fessure dei muri. Anche il vecchio palmento, dove una volta strappai il permesso di pigiare anch’io l’uva coi piedi nudi, è stato abbattuto e così pure il berceau, in cui andavo a spiare le partite a tressette del nonno con gli amici o, per San Pietro, a reclamare la mia parte di cassate e bocconotti disposti geometricamente sulla guantiera d’argento; non sono stati risparmiati il noce, sotto cui costruivo la mia “tenda” di canne, né gli alberi di aranci, fichi, ciliegi, susini, albicocchi, meli, peri, che con i più esotici melograni, melocotogni, gelsi, kaki, nespoli, costituivano per me un favoloso giardino dell’Eden: tutto sparito. Con chi trovare il coraggio di ricordarlo, superare il pudore di parlarne? Domattina, forse, quando farò un salto al cimitero (quello, almeno, sarà rimasto come lo rammento); ma non è irragionevole, per uno che non crede, sentire il bisogno di parlare a delle tombe?
Esito davanti al cancello. Solamente ora il viaggio è veramente terminato: rientrati i fantasmi nelle loro stanze segrete, resta la semplice, concreta, piatta realtà dell’oggi. Le rendo onore trascrivendo gli ultimi dati relativi al raid: su strada, percorsi oggi 180 km in 6 ore e mezzo a 26,6km/h di media; in tutto il viaggio, percorsi 905 km alla media di quasi 25 km/h in 37 ore di pedalata, suddivise in 5 giorni; “dentro”, percorsi 50 anni di vita…
Poi, finalmente, suono il videocitofono.

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