Impressioni d’Oriente

di Saverio Ojetti –
Viaggio in India e Sri Lanka a sette mesi dallo tsunami.

Impressioni d’Oriente (Memorie dello Tsunami e diario dell’India) di
Saverio Ojetti e’ ora anche un libro edito da “Progetto Cultura” per la collana “Un libro in aiuto”. I proventi della vendita di questo libro concorreranno al finanziamento di un progetto di Movimondo in India a sostegno delle “vittime di secondo livello”. Si tratta di piccole comunità che abitano le rive degli estuari e dei delta dei fiumi che bagnano la città di Cuddalore, dove lo tsunami ha provocato ingenti perdite materiali e ha depositato strati enormi di sabbia sul letto dei fiumi, rendendo impossibile la pesca, fonte principale di reddito per le famiglie dell’area. Esse non sono state raggiunte dagli aiuti ufficiali ed internazionali per un crudele paradosso: pur avendo perso tutto, tranne la vita, non vivevano nelle zone travolte dalla grande onda.
Vi invitiamo, pertanto, ad acquistare questo libro che dal 12 maggio 2006 è in libreria. Potrete anche comprarlo presso la sede di Movimondo (www.movimondo.org), richiederlo tramite mail ad info@movimondo.org o direttamente in linea, su Amazon Impressioni d’Oriente – Memorie dello Tsunami e Diario d’India

– Sri Lanka –

Colombo – 07/07 – All’aeroporto scelgo il tassista più convincente, in pochi minuti ero in città. Avevo appuntamento con Davide di fronte all’ambasciata italiana, ma non avevo controllato la posta se non prima di partire. Davide non era lì, ed il cielo cominciava a farsi sempre più scuro.
Il tassista stupito iniziava ad avere un’aria divertita, che di tanto in tanto scoppiava in ghigni sotto i suoi lunghi baffi neri che cominciavo a non sopportare più.
Davide sarebbe arrivato in serata in un paesino a 150 chilometri a sud di Colombo.
Per una manciata di dollari convinco il tassista a venire con me.
Scendendo lungo la strada principale a sud-ovest della capitale, la vivacità del traffico e della gente cominciavano a farsi sempre più evidenti, confondendo i segni del maremoto che prendevano a manifestarsi in tutta la loro violenza.
Sam ha perduto una moglie ed un fratello nello tsunami, vive in un rifugio temporaneo, la sua casa è stata totalmente distrutta. Aspetta i fondi necessari per cominciare una ricostruzione.
Le temporary shelters di legno e lamiera, sono il solo segnale evidente dell’intervento del governo e della comunità internazionale.
Lungo la strada per Matara, a sud di Colombo, tende ed edifici di fortuna si estendono per oltre due chilometri all’interno, tanto quanto le onde di maremoto si sono spinte. La massa di rotaie rosse di ruggine, contorta dalla forza delle acque, appare in tutta la sua violenza come a voler testimoniare il passaggio di una creatura ribelle che si è confusa nella schiuma della propria follia.
Decine di persone morirono in quel tratto. “Le onde si sono trascinate via i vagoni come fossero sacchi di sabbia. Le rotaie si sono letteralmente spezzate e le traverse di cemento sradicate dal terreno”, ha aggiunto Sam, risalito nel taxi dopo aver gettato una moneta nella colonna delle offerte di fronte al tempio buddista.
E’ il primo pomeriggio del 7 Luglio. Hikkaduwa. Piccolo villaggio costiero a poco più di un centinaio di chilometri a sud di Colombo. Una lunga striscia stretta di sabbia dorata, orlata da una infinità di palme da cocco, mi presenta la prima anima di questo paese. Frutti tropicali pendono dagli alberi a pochi passi dal mare nel silenzio e nella tranquillità più assoluta. Non avevo mai visto nulla del genere.
Guardando il mare, per 180 gradi la vista si perde in tanta bellezza e novità, ma un girare di sguardo appena, riporta subito ad una realtà viva ma surreale, attiva ma persa.
Per una manifestazione popolare di protesta politica contro il governo di Colombo, come ultimamente se ne vedono tante, ho dovuto fare una piccola deviazione con Sam verso l’interno, di circa un paio d’ore. La giungla cominciava ad avvolgere l’ambiente, riempiendolo di verde e di umido ad una manciata di chilometri dalla costa. Campi di riso e frutti tropicali, banani e palme da cocco e miriadi di altre piante, vegetavano tutto attorno, scoprendo di tanto in tanto qualche piccolo villaggio di poche case lungo la strada.
Ecco le due anime dello Sri Lanka, la costa con le sue lunghe spiagge ripide e strette e l’interno a pochi passi, che tutto lascia immaginare fuorché al mare. A separare le due realtà tropicali la strada, che letteralmente ne spezza la vita, con la sua lunga e continua fila di costruzioni ammassate a destra e a sinistra come a volerla proteggere dalla foresta che avanza e dall’imprevedibilità di quel mare mosso nel suo moto continuo.

Il maremoto dello scorso Dicembre ha avvicinato, quasi per un attimo fuso assieme le due anime. E’ impressionante considerarlo, ma la vita è ripresa, e lo ha fatto sorridendo, nonostante la tristezza del ricordo vibri ancora umida nelle pupille dilatate della gente che vive lungo la strada principale che porta a Sud.
Unawatuna -11/07 – All’apparenza un villaggio popolato da anime morte, ma poi a guardare bene è pieno di vivi. Più cerco più ne appaiono, brulicando tra le architetture cariate, a centinaia.
Il villaggio in rovina è corroso dai segni del passaggio della grande onda, dall’oceano non ancora stanco e dal sole. Tutto è puntellato da travi. A volte cede un balcone, a volte un davanzale. Rumori sinistri sotto un cielo scuro ed afoso.
“Ero seduto su quella sedia, nella veranda a pochi passi dal mare quando ho visto arrivare la prima onda di tsunami”, racconta incantato Sunil, proprietario di una guest house lungo la spiaggia silenziosa di Unawatuna, mostrando le foto scattate poco dopo l’arrivo della prima delle tre onde distruttrici. “Il maremoto si è portato via mia madre e altre persone che lavoravano per me”, ha aggiunto Sunil. Il suo edificio è crollato, perché la struttura in cemento non ha resistito alla violenza dell’acqua. Ora è tutto ripreso, alcune stanze sono state già ristrutturate, alcune persone lavorano rumorosamente per montare le ultime finestre e assestare alcune travi sul tetto. “Ho rischiato di perdere l’attività, ma ho trovato la forza per ricominciare”, afferma Sunil, chiuso dietro a un sorriso quasi minaccioso, pieno di speranza.
Siamo ufficialmente i primi ospiti della stanza numero 4 vista mare, che ancora odora di vernice e non chiude la porta.
Un uomo rastrella la spiaggia, i detriti sono gli stessi che il mare ha trascinato qui con sé sette mesi fa. Bottiglie di plastica, corde lacere di reti da pesca, pezzi di ebano e tronchi fradici di palma, schegge di barca, cartoni e tessuti di ogni genere.
“Ho perduto mio padre e mio fratello nel maremoto. Stavano riparando la barca a poche decine di metri dalla costa quando sono stati travolti dalla forza delle onde”. Suresh, autista di un rumoroso tuk-tuk non ha potuto seppellire i suoi morti vicino casa, “il mare gli ha trascinati con sé sino ad inghiottirli, non sono più riuscito a trovare i loro corpi”.
Da queste parti le onde di maremoto non sono arrivate direttamente, ma hanno dovuto fare una leggera rotazione attorno alla costa sud-ovest dell’isola. La forza di propagazione delle acque pare però non aver perduto l’infame potenza.



L’uomo si piega e si arresta per un poco sulle sue ginocchia, di fronte alla natura crudele che si ribella.
“Abbiamo costruito decine di temporary shelters, siamo in procinto di consegnarne altre trenta a breve. Entro Ottobre completeremo la costruzione di almeno 90 permanent house. La gente che ha perso completamente casa non sopporta l’idea di doverla ricostruire più lontana per via della buffer zone. Il governo ora impone regole rigide, anche se poi non sempre tutti le rispettano”, racconta Carlo, responsabile di una ong italiana nella zona di Hikkaduwa. Le Ong internazionali stanno apportando il loro aiuto in maniera piuttosto endemica nell’area ovest. L’accanimento della solidarietà internazionale appare in tutta la sua forza d’impatto con le fragili realtà locali. Le organizzazioni si dividono gli spazi all’ultimo metro, spesso non collaborano tra loro facendo un uso spropositato degli spropositati introiti degli ultimi mesi, con il risultato di infrangere quel sottile equilibrio economico che con tanti sforzi il paese aveva creato. Molti operatori di Ong confermano quanto il loro operato sia troppo invasivo, seppur necessario. Si incontrano nei bar e nei locali riorganizzati alla meglio lungo le spiagge dei villaggi attorno alla città fortificata di Galle. L’influenza inglese è evidente in molte sfumature della cultura e della architettura locale.
Alcune barche donate da organismi internazionali che non dimenticano di sottolineare il proprio nome con adesivi o cartelli colorati, giacciono seminuove lungo il litorale. Ad un confronto rapido con le altre non sembrano molte adatte per il loro modo di pesca.
Unawatuna è un villaggio a circa 180 chilometri a sud di Colombo. Circa 150 persone sono morte qui durante lo tsunami, tra turisti stranieri e gente del luogo. La vita è ripresa ma negli occhi della gente intanto continuano violenti a bruciare ricordi. Dalle loro bocche scure suoni che diventano storie, che riflettono sempre con la stessa luce negli sguardi umidi di chi le racconta.
“Ho perduto la casa. Quando l’onda è arrivata sono corso verso l’interno, con la mia bambina di pochi mesi in braccio. Mia moglie era con me. Mia figlia di sette anni era lontana da casa, non ne ho avuto più notizie”, racconta Jaya, di 50 anni, massaggiatore e cultore della medicina ayurvedica. Per ora vive in pochi metri sotto una struttura di legno. Aspetta che gli ricostruiscano la casa, ora fatica a vivere. Chissà che non lo facesse anche prima. Domani lo aspetto per un massaggio.
Mani che tengono per la mano bambini in divisa, camicia bianca e cravatta rossa, scendono dall’autobus al ritorno da scuola. La vita è la stessa lungo la strada per Matara. Villaggi, poi le case si diradano e la vegetazione ricompare quasi ad inghiottire la strada. E poi riscompare, per lasciare spazio a nuovi villaggi. Sulle fondamenta lisce delle case sventrate, tende o capanne di legno, a non voler abbandonare la sorgente della loro vecchia vita. A pochi metri, mucche che pascolano tra le lapidi che segnano la poca distanza tra la vita e la morte.
Alcuni rifugi temporanei sono costruiti in lamiera, altre in legno ma con tetti in metallo. Il sole quando buca le nuvole infuoca e la gente ha difficoltà a restare chiusa in casa, sguscia fuori, avvolta nelle sua lenzuola colorate, a cercare il riparo di una tenda. Ai più fortunati case di legno e coperture “alternative”, che assicurano un riscaldamento dell’ambiente meno violento.
Tangalla – 11/07 – Fiori viola, bianchi e rosa di buganville colorano e divengono l’anima del diverso. I vestiti delle donne sono meravigliosi. La musica assordante e la varietà dei colori nell’autobus per Matara, quasi confonde nella normalità i rifugi temporanei di legno e metallo a destra e a sinistra della strada. Il mare è a pochi passi. Quel mare che pare quasi conoscano soltanto i pescatori dei villaggi, è ad una decina di metri appena, nascosto dietro le palme e sicuro delle sue acque limpide e mosse.
Negli occhi dei bambini speranza e disillusione. Sanno che la vita qui dalle loro parti è cambiata, ma sanno anche che presto tornerà alla normalità.
Satir è salito sul tetto con i suoi tre figli e la moglie. “Le onde distruggevano tutto quello che incontravano. E’ stato terribile. Mia madre era a pochi passi da me, l’acqua la spazzata via come un frutto marcio, per lei non c’è stato nulla da fare”, racconta commosso Satir che da qualche giorno ha riaperto la sua guest house.
A Tangalla sono morte 78 persone. “Una donna tedesca era uscita da poco per andare in spiaggia. Erano le 9:26 di mattina, non se ne è saputo più nulla”, continua Satir a raccontare mimando la violenza dell’acqua.

La zona che affaccia sul mare per circa un paio di chilometri è stata completamente distrutta. Davvero poche strutture si sono salvate. Tangalla è a poco più di 200 chilometri a sud della capitale. Qui le onde di maremoto hanno battuto sulla costa con tutta la loro forza. Il mare è aperto, nessuna barriera naturale poteva evitare il disastro.
La strada che da Matara prosegue lungo la costa passando per Tangalla, ha subito seri danni, così bisogna fare qualche deviazione all’interno. Più si continua a scendere verso sud-est, più le deviazioni divengono ordinarie. Molti villaggi lungo la costa qui sono irraggiungibili con la viabilità ordinaria.
Alla guest house di Tangalla manca la luce e l’acqua e si sta facendo sera. Sono il primo ed unico ospite della pensione dopo la riapertura, la cosa mi fa sorridere. Spero che il turismo torni presto da queste parti, ma credo che ci vorrà davvero un po’ di tempo. Scrivo alla luce di una candela, avrei voglia che anche da noi il tempo si adattasse a questi ritmi.
“Ho perduto i miei due figli – racconta Deelep, mostrandomi la foto di una splendida bambina e facendo fatica a trattenere le lacrime. – Lei ha due anni, è dispersa da sette mesi, ma non posso accettare l’idea di averla perduta per sempre”. Deelep ha perduto anche la madre nello tsunami, non ha più la casa e vive da Satirt, il giovane gestore della mia guest house. Deelep è pescatore. Oltre i famigliari ha perduto anche la barca. A casa di Satir una moltitudine di bambini riaccende le speranze ma non stempera i ricordi che bruciano ancora con violenza nelle loro menti.
“Alcune barche sono arrivate grazie ai donatori e agli interventi del governo. Ma molti pescatori sono ancora senza. Così non possiamo andare avanti ancora per molto”, aggiunge Deelep, teso in un sorriso scuro dietro i suoi baffi fini.
Tangalla pare spezzata da una linea d’ombra proprio all’altezza della laguna. Negozi, mercato, traffico di mezzi e di uomini lungo la strada esterna di collegamento al villaggio, e poi il non luogo. La negazione reale di una esistenza che prima brulicava lungo le strette vie nelle boscaglia che portano fino al mare.
“Oltre alle nostre vite, le onde si sono trascinate via le nostre speranze. Ricominciare è per noi questione di orgoglio e di necessità, di rivincita, per dare un senso a quello che ci è stato portato via”, afferma Satir nel suo volto scuro che vibra alla luce della candela.
Mangio riso misto a pesce e salse piccanti in una foresta di zanzare a caccia di sangue straniero. Osservo la luna, goffa nel suo cerchio imperfetto. E’ la sera del 12/07.

Ella – 13/07 – Lascio la costa. Parto di buon ora per Ella, stazione climatica dell’interno collinare immersa nella foresta tropicale, meta di turisti in cerca di refrigerio e folli passeggiate. La strada comincia a salire costeggiando distese di fogliame di tè. Il viaggio è molto lungo in un autobus strapieno di gente che nel nulla sale e nel nulla scende. Trovo un’ottima guest house. In giro c’è qualche volto chiaro da turista occidentale. Ceno con riso e yogurt. In tv le immagini dell’incidente ferroviario in Pakistan e degli attentati di Londra. La vita di fronte alla realtà non sembra poi così salda.
Kandy – 14/07 – Lascio Ella. Il treno è un ammasso di ferraglie che proviene da est. Salgo in terza classe. L’atmosfera colpisce subito i miei cinque sensi. Una serie di odori, di suoni, di puzze e chiasso penetrano nel mio naso e nelle mie orecchie con una violenza tale ma che presto si fa frastuono piacevole di affascinante novità. Ogni vagone sbatte sull’altro, mentre la locomotiva sbuffa fumo nero arrampicandosi tra le colline di tè e la foresta tropicale. In terza classe la realtà del paese prende sempre più forza man mano che la distanza aumenta. Si comincia a mangiare di tutto, in un odore penetrante di fritto e riso. Frutti tropicali, pani di farine di ceci frittate, ogni vagone si trasforma in un microcosmo di realtà assestanti. Se qualcuno scende alla stazione successiva, chi sale è un suo simile, diverso solo nella sua nuova identità sociale. Tutti si scambiano saluti e sorrisi come da noi solo gli amici di un tempo sanno fare, mentre le distese verdi di tè aprono le valli che perforano le colline.
Occidentale di terza classe, sono il volto di una realtà lontana, un po’ oscura ma sicuramente curiosa. Il posto sulla panca di legno unta e sudicia di cibi colati dalle mani di qualche vecchio vacillante, si fa sempre più stretto e le ore di viaggio si allungano. Si accumula ritardo tra le grida di bambini che si staccano e si attaccano dai seni prosperosi delle madri.
Trincomalee – 15/07 – L’autobus rigonfio di gente e di miseria, lascia la città del Sacro dente alla volta dell’Est. Il villaggio di Trincomalee è al confine del territorio nord-est dell’isola sotto il controllo Tamil. Check point e uomini dell’esercito si fanno sempre più numerosi, a sorvegliare le strade. Sono ad Uppaveli, a circa 15 chilometri a nord del villaggio portuale di Trincomalee. “Da circa una settimana le forze dell’esercito governativo hanno triplicato la loro presenza”, mi racconta Sara, volontaria dell’Unicef. Da domenica si sono intensificati gli scontri a fuoco tra le due parti. Quattro alte cariche della milizia ribelle, le LTTE (Tigri per la Liberazione del Tamil Ealem), sono state uccise. Ne è seguita una rappresaglia. Il 13/07 11 soldato dell’esercito cingalese sono stati feriti, tre in modo grave. La tensione resta altissima, si teme una reale escalation delle violenze.
Non è un buon momento per stare qui, ma il posto è fantastico ed il mio stomaco ne ha vissute di migliori. Ho bisogno di riposo. C’è una simpatica comunità di volontari da tutto il mondo a Trincomalee. Questo mi fa stare in compagnia e mia aiuta a stemperare un po’ di solitudine che ogni tanto appare.
In lontananza si sentono alcuni spari, fuori, sulla strada, un check point ogni 50 metri, il resto sembra una continua trincea in un territorio dove lo tsunami ha strappato alla vita più di 300 persone, distruggendo migliaia di case. Restano i bambini a correre sulle strade tra le carcasse delle vacche al sole. I bambini, l’anima di questo paese. Gioia nei loro volti ingenui e spensierati, sarà dolore quando saranno loro a dividersi gli spazi di questo paese. Sento lo Sri Lanka come il trampolino per l’India. Di fronte a me un camaleonte allunga la sua lingua stretta e strazia la sua piccola preda. Sento un po’ di nostalgia di casa. Attorno è tutto distrutto. Rumore di martello che sbatte su chiodi che andranno a sorreggere la nuova vita che ricomincia.
Ancora spari lungo la linea dei ribelli. Quando smetteranno di farsi la guerra tra di loro.
L’abitudine alla miseria rende inevitabilmente indifferenti ad essa. Lo sono i cingalesi, così come lo saranno, mi avverte Moravia, anche gli indiani.
Ma miseria non è disperazione. La gente qui ha fame ma non per questo fa la guerra. La gente qui non ha dove poter ricostruire la sua nuova famiglia, ma non per questo si combatte. I miei piedi affondano sulla sabbia asciutta. E’ un paese solamente sfortunato, che ha bisogno di prendersi il suo tempo.
Trincomalee – 17/07 – Terzo giorno al French garden di Trincomalee. Questa sera sulla spiaggia vuota si affacciano timidi alcuni cingalesi in abito da festa. Lontane suonano alcune campane a ricordare la nostra Domenica cattolica. E’ la festa di uno dei figli del gestore, scampato per miracolo alla furia delle acque. Spero si rimedi qualcosa per la cena.
Gamin è a casa con il padre, la madre e suoi quattro fratelli, sotto un tetto di paglia e basse mura. Vivono con dignità, hanno valori, hanno cultura, hanno interessi. Vivono la loro povertà come la loro gioia. Gamin lavora in Italia e guadagna bene. Manda i soldi a casa. Stanno costruendo una nuova abitazione ma non cercano nuove realtà sociali.
A Trincomalee è di nuovo mattina. I conti, la colazione l’ultimo bagno. Passo gli ultimi check point e cerco di scattare qualche foto. Non riesco, un militare mi intima di non scattare, faccio come e dice. Mollo gli ormeggi.
Colombo – 19/07 – Ultimo giorno. Ultimo viaggio per lo Sri Lanka, scendo ad ovest verso la capitale. A conti fatti ho le ultime rupie per concludere con un buon pasto cingalese e qualche birra. Domani sarò in India, al varco di una nuova realtà orientale.

– India –

-Sirikali – (19/07 – 27/08) – Una donna in lontananza chiusa nel suo sari rosso fuoco, porta una cesta sulla testa marrone come la via. Intorno campi di riso di un verde così acceso che mai ne avevo visto prima. Questa è la prima immagine dell’India poco dopo essere sceso dall’aereo a Trichy.
I colori di questa terra mi hanno colpito sin da subito, più dei suoi suoni, più dei suoi odori.
L’autobus segue una striscia di asfalto e corre a suon di clacson verso Sirkali, a circa 350 chilometri a sud di Chennai.
Alberi dai cui rami piovono radici come lacrime incontrollabili, riparano dal sole che sbatte con la violenza delle ore più calde. Lascio cadere la penna e raccolgo le immagini negli angusti spazi di un diaframma lento. La fotografia appunta fedele ogni mio passo in una terra unica e sola, cotta dal sole di una calda estate tropicale.
Alappuzha, (Kerala) – 30/08 – Un vecchio batte la campana che sorda risuona nella nebbia. Il barcone accende i suoi motori e lento si scosta dalla banchina facendosi strada tra le ninfee che ingolfano il canale. Sono sul battello pubblico per Alappuzha, è il 30 Agosto ed è circa l’una di pomeriggio.
Sono partito da Kollam, è un buon modo per esplorare le lagune interne. Le palme si piegano verso l’acqua mentre le donne sbattono rumorosamente a terra i propri panni e li lasciano asciugare al sole.
Mangalore (Karnataka) – 31/08 – Notte fonda. La pioggia è passata. Il treno lascia la stazione di Kochi e comincia la sua lenta corsa verso Mangalore. 500 chilometri lungo la costa di un Mare Arabico silenzioso impregnato di una nebbia opaca che traspare da luminose lontananze di industrie ormai in riposo. La gente di terza classe si è affrettata ad occupare le ultime panche libere. La mia la lascio ad un uomo al suo terzo giorno di viaggio.
La povertà in questo paese è ricchezza, e la miseria si combatte soltanto con la tolleranza. Mi scavo una cuccia tra due sedili, in un vagone trascinato dagli altri come un carico di bestiame. Il treno è la casa per chi per qualche giorno ha lasciato la strada.
Ammassati in due, tre per cuccetta, sotto una luce fioca e l’aria agitata dai ventilatori in funzione, ombre di uomini stanchi, dormono avvolte nei loro lunghi lenzuoli bianchi. Il viaggio non ha nulla di diverso dall’immobilità. Migliaia di persone si muovono e si spostano in continuazione a tutte le ore del giorno e della notte. Luce ed oscurità setacciano una parvenza temporale di cambiamento. Delimitano il tempo, ma non ne impongono una spartizione forzata.
Donne avvolte nei loro sari, colorano stazioni bagnate dall’umido della notte tropicale, e si agitano in silenzio arraffando le ultime cose prima di salire sul treno. Colpisce la loro discrezione che stempera la loro persistente curiosità verso tutto ciò che è altro.
E’ il viaggio in sé qui a costituire la meta. E’ il viaggio lento sul treno a scartamento ridotto per Oothy, che si inerpica per la giungla tropicale, ansimando come un animale ferito, facendosi varco per riprendere respiro tra le strette valli e le rocce massicce. E’ il viaggio sul battello per Kottayam ed Alappuzha che rompe gli ormeggi e lento scivola tra i canali di una laguna che aspetta ancora qualche pioggia per definirsi totalmente. Unico mezzo di contatto con la realtà limitrofa di villaggi che vivono in una Venezia non meno modesta. E’ il viaggio rumoroso su un autobus di linea, in un gioco continuo di salite e di discese, attraverso le sterminate piantagioni di tè di Munnar e le piantagioni diventano piante, sparse a farsi spazio tra il tek e gli alberi della gomma, per diventare d’un tratto radici di zenzero e frutti di cardamomo dal profumo intenso che circondano il piccolo villaggio di Kumily.
Il viaggio è la notte in treno tra Kochi e Mangalore, quando per un momento ti sei sentito uno di loro saltando sulla carrozza ancora in corsa per accaparrarti l’ultima panca per la notte. E’ la mattina, l’alba che si fa luce tra le palme fitte e la nebbia che sale, fitta, dalle piccole lagune dalle ninfee in fiore, schiacciate dalle forme immense di bufali che riposano immersi nelle acque ferme.
Il viaggio è inerzia, un’inerzia quasi spirituale, di quella spiritualità che qui impregna e da forza ad ogni cosa. Il viaggio è silenzioso e lento, a piedi o in bicicletta attraverso il verde acceso dei campi di riso e tra i sonnacchiosi villaggi di fango e paglia, colorati da sari e da bandiere comuniste. Viaggiare è correre e respirare a pieni polmoni, camminare e poi arrestarsi per un attimo ad ammirare una puja in una piccola cappella del tempio immenso di Tanjore, al suono sordo e stridulo di litanie indù. Viaggiare è immergersi negli odori putridi e fracichi di fritto misto a merda, lento salto tra la vita e la morte, facendosi largo tra monchi e lebbrosi, tra le vacche, le capre e i cani randagi dei bazar del Sud. Mentre tutto è pervaso di religione e di religione affamato.
Il bruco illuminato continua a farsi strada nella nebbia. Direzione nord. Ormai è l’alba. Un’alba piena di umidità che vibra sulle finestre fraciche di un vagone carco, occupato in ogni spazio, che comincia a sputare odori nauseabondi.
Otto del mattino. Stazione di Kasagarod. Il sole si fa largo tra la nebbia e scalda timido le cinque cupole ovali di una moschea che ha qualcosa di Bisanzio. I musulmani sono arrivati fin qui. Si sono spinti per più di tredici secoli fino al sud più profondo di questo immenso stato, lasciando il glorioso segnale del loro passaggio nell’orgoglioso carattere di costruzioni modeste.

Mumbai – 2/09 – Old Goa. Incanto spirituale nella tomba del Santo. Treno per Mumbai. Le tre e trenta di un pomeriggio afoso. Salgo sul vagone letto con aria condizionata, rubo il posto per mezz’ora a chi probabilmente due vagoni più avanti non si è mai seduto. Ragazze alla moda, vestiti stretti e colorati sopra jeans attillati. Musica che vibra fuori dalle orecchie sorde di qualche figlio sordo del suo paese alienato dalla new economy. Caffè, tè, panini, chapaati e cool drinks passano in continuazione, annunciati da camerieri vestiti di tutto punto. Il treno si ferma alla stazione successiva. Sono stanco di questo vagone a compartimento stagno. Lascio la bella gioventù in preda a scegliere suonerie improbabili di telefonini giocattolo. Salgo in terza. Combatto con qualche fumatore disperato che non molla lo spazio d’entrata per sputare il suo fumo amaro. L’aria è irrespirabile, figlia di panche unte di qualche cibo unto, di un paese unto che friggerebbe pure la sua bandiera a strisce, se avesse il nero o il profumo di qualche spezia. Mani ferme, intrecciate e ferite sul ventre fermo di gente silenziosa che vibra lo sguardo al passaggio di qualche nuovo volto.
Il treno viaggia lento da queste parti, con la lentezza di un carico merci. Di là magari è musica su panche morbide. L’India delle contraddizioni viaggia sullo stesso treno. Chiusa e stagnante, umida nella sua aria condizionata nei vagoni centrali. Aperta all’aria che ha sapore di vita e libertà, tra le strette sbarre che fasciano il finestrino e fanno dell’esterno un mondo a strisce.
Sul treno che sputa fumo nero e soffia, trascinando uno dopo l’altro vagoni dove vivono mondi assestanti in ecosistemi indipendenti, viaggia l’India della camicia bianca, sempre pulita e sempre stirata, con il suo collo liso. La vedi nel Sud, scendere illibata e coprire la parte superiore di un lungi altrettanto illibato. La portano i dalit, la portano i contadini dalla bocca rossa di betel. La portano i pescatori, fieri sulle loro zattere che alla sera portano a casa tonnellate di pesce indiano ed arabico. E la porta la gente di qui. Giovani sbandati, manovali, poveri e disperati, al ritorno verso chissà quale sottile arteria della città più popolosa e produttiva dell’India.
La discrezione mista alla curiosità nella vivacità e nella familiarità degli indiani del sud, scende, stazione dopo stazione, mano mano che il treno sale ed i vagoni si riempiono di silenzi maleodoranti, di sguardi furbi e sospettosi di miseri mendicanti che fanno sfoggio delle loro mancanze, dei loro arti monchi, delle loro teste grosse e delle loro piaghe su una pelle secca e corrosa, la loro sola ricchezza.
La miseria è tremenda, molto più della povertà e provoca effetti dissacranti. La miseria suscita pietà, sentimento complesso, l’unica arma è la tolleranza, ma se la miseria non suscita tolleranza, allora ecco che appare l’indifferenza che causa il più tremendo di tutti i mali moderni. La carità è una figlia muta della tolleranza, non è sua sostituta ne sua rivale, ma spesso da essa si dissocia, e come una figlia che rinnega il proprio padre, acquista la propria indipendenza e dimentica le proprie virtù.
E’ in questo treno che il Sud si perde, che i suoi colori sfumano mano mano che le palme si fanno sempre più rare ed il verde delle campagne sempre più scuro. La stazione di Mumbai si lascia immaginare filtro e setaccio dell’India. Di quell’India che va perdendo la sua tradizione ed il suo valore man mano che questo treno sale, bruciando chilometri ed energie. Dell’India di noi occidentali, dell’India dal miliardo e duecento milioni di abitanti.
Distilleria di acque forti che con i loro motori rombanti ed inquinati, schizzano sputando nero, con una puntualità spaventosa fino alle viscere più profonde di questo universo multiculturale e multietnico.
Il treno è fermo da un po’ alla stazione di Sawantwadi, posso riattivare la circolazione ferma dal ventre in giù per le panche dure di quel legno duro che ha ormai smesso di respirare.
Precedenza ad un altro treno che viaggia verso Sud. Dietro le sbarre, chiusi come in gabbie decine di volti ammassati uno sull’altro, paiono guardare con lo stesso sguardo che si muove lento nello scrutarsi allo specchio di una notte che viene. Il treno riprende a stento la sua corsa. La vita nel vagone numero 7, 2C, pulsa al ritmo metallico e regolare del cambio di rotaia.
Nell’oscurità che scende, spinta da nuvole scure cariche di pioggia, una forma rosa con una capra stretta attorno ad un legaccio, porta a casa i suoi bufali; un’altra, questa volta di un rosso fuoco tanto acceso che quasi pare emanare calore, persa nel verde di un campo di riso, si fascia la testa ed alza incuriosita lo sguardo.
Sono in viaggio da stamattina e non ho visto bambini. Senza i loro volti, i loro sorrisi, le loro voci, questo paese appare diverso, privo della sua anima, di quel collante che stringe a sé la sua identità smarrita.
Il treno si ferma all’ennesima stazione, leggo e scrivo. Ad un tratto giro lo sguardo e nella panca accanto dietro una grande borsa azzurra, gli occhi scuri e vibranti di una bambina. Avrà tre anni, pare sola, si guarda attorno con un’aria familiare. Questo paese, in questo treno, ha ritrovato almeno per un attimo la sua identità. Qualche minuto ed arriva il padre, avrà avuto vent’anni, mi sorride, le stringe un braccio e la porta via. Il ragazzo che era seduto di fronte a me intanto aveva infilato una mano nella tasca dei suoi pantaloni sudici, sotto la camicia illibata. Tira fuori una cartuccia arrotolata da cui comincia a fuoriuscire un polveroso odore di tabacco antico e sminuzzato che va a confondersi con l’odore di piscio che arriva a ventate da dietro le spalle. In una pasta bianca di calce, tritura e mischia il tabacco, allarga il labbro inferiore e lo affonda con l’indice nel profondo, alla radice della gengiva. Finisce la sua folle impresa. Comincia il rito un uomo alla sua destra. Anche questa è religione.
Religione di un India che si perde in se stessa, che si fa largo tra gli sputi e le merde di vacca che invadono le strade. La religione qui cammina sulla sola gamba dello storpio; dorme avvolta negli stracci bianchi umidi del vecchio steso accanto al tempio; si nutre della salsa unta che bagna i chaapati unti cotti sulle strade dal carbone che brucia in un bidone arrugginito, pisciatoio di quartiere di cani rabbiosi. Urla, dietro le note assordanti di una litania pomeridiana, sopra la cantilenante preghiera del muezzin; si contorce nei ventri ubriachi di cognac lungo le strade; si veste di rosa, di verde di rosso e di azzurro; si lava nella pompa d’irrigazione di una piantagione di riso. La religione qui si condensa nell’umido la sera ed entra nelle case e brucia come aria viva nel fuoco della chula che bolle l’ultimo tè. Si nasconde dietro la parte superiore delle labbra coperta da baffi scuri della popolazione del Sud. E’ induista, è musulmana, è janseista, buddista e cristiana. E’ mezzaluna e stella, è Ganesh dalla testa d’elefante, è Shiva o Parvati; è le sacre scritture o il Cristo in croce.
La religione respira e si perde in un universo di dettagli che danno forma ad ogni cosa, che danno vita ad ogni forma.
Sale una donna con cesto enorme di banane dolci e gialle, mentre la luna a spicchi fatica ad uscire fra le nuvole grigie. Banane squisite ma roba solo per la terza classe. Se solo lo sapessero in quel compartimento stagno, pochi vagoni più la, forse cambierebbero il loro biglietto.
Fermo la fame con tre panini all’olio con frittata di patate e salsa piccante, l’uomo dei panini copre i restanti nella cesta con un panno umido di calore quasi fosse una coperta e si ferma a parlare con un vicino. C’è una sottile varietà nelle alternanze che muovono questa propensione culturale al fraterno e all’amichevole. A volte è come se tutti si conoscessero come vecchi amici lontani per poche ore, altre volte compare violenta l’identità dell’indifferenza. E’ il sistema delle caste che ha discriminato, separato, irrimediabilmente condizionato i rapporti tra gli appartenenti ad identità sociali differenti, ma unito visceralmente non solo alla parvenza di un destino comune ma nel profondo del rispetto più umano l’un l’altro. E’ una percezione personale, complessa da assodare, ma in tanti dettagli la ritrovo e continuo ad annotarlo.
In uno straccio sudicio si arrotola tra la latrina e lo scompartimento un uomo sordo. La porta sbatte ad ogni curva e ad ogni curva apre a nuovi odori.
Victoria station. Le 6 e trenta della mattina. La grande cattedrale gotica apre il suo ventre ai vermi maleodoranti e carichi di calore. Paiono pellegrini in coda ad aspettare di giungere all’altare per la benedizione finale. Centinaia di uomini scendono e salgono in una notte piena di buio che tarda a farsi da parte.
Sotto le vele di arcate ogivali supini dormono uomini donne e bambini ammassati e confusi in una stessa forma.
Gli indiani hanno una capacità impressionante di addormentarsi in ogni stante ed in qualsiasi luogo.
Lascio il bagaglio al deposito per qualche ora prima di ripartire. La città è vuota, dorme ancora in un silenzio afoso. Cammino stanco, senza meta. I miei muscoli si muovono per volontà divina. Mano mano che cammino la luce sale e masse informi sotto stracci sudici lungo i cigli delle strade sotto carri e ventri di buoi, cominciano ad agitarsi, ad elevarsi, a stirarsi. Lascio spazio ad incontri occasionali. Arrivano i primi giornali. Osservo i più mattinieri scoprire i propri carichi, preparare le merci nel cuore pulsante del centro economico di questa metropoli.
Percorro in treno la linea suburbana fino a Burvali, chilometri e chilometri di bidonville che bruciano al sole, ricordano il passaggio di un monsone massiccio. Capanne di legno e lamiera e stracci di plastica a separarle dalle piogge improvvise, si stagliano a perdita d’occhio, osservate dalla carcassa di qualche edificio altissimo che pare come un cormorano in mezzo alla palude. Più di 1000 persone sono morte qui qualche giorno fa, trascinate via dalle piogge monsoniche che hanno invaso tutto. La vita di questa gente è appesa ad un filo, sottile ed incerto quanto un bollettino meteo, restano ora le malattie epidemiche a sconvolgere quello che è rimasto in piedi.
L’odore che sale e che penetra nelle narici è bestiale. Cibi fracichi imputriditi e arrostiti dal sole, marci di un tempo glorioso che fu in qualche immensa padella d’olio bollente. Maiali navigano in fiumi di immondizie, vacche oziano venerate all’ombra delle ultime palme. Tutto questo è religione.
E religione si fa devozione . Una donna prepara fasci di erba accovacciata sotto il flaccido collo di una vacca. La gente getta una moneta, prende il fascio e lo dà in pasto alla bestia mai sazia. La devozione a volte è fede. Fede dentro una monetina lanciata in fretta al tempio; nascosta dietro uno chador o dentro un burqua; tra le dita che si muovono disegnando in aria il segno della croce al passaggio di fronte ad una chiesa; tra le spighe di riso gettate nella bocca delle bestie sporche lungo le strade.
Il treno attraversa parte della linea suburbana di Mumbai, capanne e temporary shelters continuano a segnare il territorio. L’effetto non è tanto nella struttura ai limiti delle più precarie condizioni igienico-sanitarie. Dopotutto se ne vedono tante di situazioni del genere, soprattutto al Sud, dovute anche al passaggio dell’onda di maremoto dello scorso Dicembre. Quello che qui è impressionante è la quantità, i numeri, centinaia di migliaia di persone vivono in queste condizioni. Un tappeto di uniformità fatta di plastica e lamiera, dove nulla confonde la massa umana che lentamente sopravvive, fino al verde della boscaglia che d’un tratto al di qua del fiume, comincia a correre sola senza interruzione fino alle colline. Il treno ora non è più segno e certezza di vita, ora pare un intruso, figlio di un mondo già lontano. L’uomo, anche questa volta, si sottomette impotente alla natura, e ne ammira in silenzio le sfumature più violente.
Udaipur, (Rajasthan) – 04/09 – Le note sorde dal tempio di Vishnu accompagnano un tramonto che riflette dorato sulle architetture di marmo e granito del palazzo del maragià. La città comincia ad avvolgersi nella sua vesta nuova, la più sublime, attorno alle acque del lago che vibrano sotto un vento sottile. Al centro di esso, come una perla a galla nel mare, la residenza estiva, bianca quanto la penna di un gabbiano. In lontananza, sopra la collina il palazzo dei Monsoni residenza discreta durante la stagione delle piogge. Il dorato si fa arancione, poi giallo, di lampioni sparsi ad illuminare vicoli sempre più silenziosi. Le donne hanno finito di lavare i panni sotto le finestre della mia stanza, mentre gli uomini si affrettano a tuffarsi nelle acque del lago per l’ultimo bagno. Lascio spazio alla fotografia, non sono in grado di descrivere tanta bellezza. L’orgogliosa Udaipur. Porta sud di questa regione straordinaria, ha resistito alla furia dell’invasione musulmana. E’ una città fiera, come la sua gente.
Un gruppo di uomini battono tamburi e suonano trombe davanti a ragazzi che danzano in processione. Segue un donna, sdraiata nel suo catafalco di morte, sorretto da quattro giovani, tra i più robusti. Poche ore e lo stesso suono si ripete. Gli stessi tamburi e le stesse trombe scuotono un’aria umida che sale dal lago. Ancora ragazzi che danzano, invasati, in processione. Accenno anch’io qualche passo al ritmo di tanto frastuono. Questa volta è un matrimonio e lo sposo è a cavallo, coperto da lunghe corone di fiori. Monete all’aria ad augurare buona fortuna nello spirito di Ganesh. La processione è lenta, dura ore. Si conclude con un’abbondante cena di spezie e chapaati piccanti. Anche questa è religione.
L’uomo della nostra cultura ha terrore della morte ed aspira all’immortalità civile e spirituale. L’uomo qui ha invece terrore della vita. La vita è commedia a cui occorre partecipare, come un passaggio attraverso il tempio, per poi ricongiungersi alla realtà soprasensibile. L’uomo induista aspira perciò alla negazione della vita stessa, pratica lo yoga, lo scopo è l’ascesi, il nirvana.
L’induista resta attaccato alla vita per una sorta di spirito di conservazione, ricorda Moravia, ma non trova conforto in questo nella religione e nella filosofia. Aspira all’annullamento totale e definitivo di essa, che altrimenti per il concetto di metempsicosi, non avrebbe mai fine. E questa concezione è per l’europeo paradosso e tentazione. Le due culture da entrambe le parti hanno subito tante contaminazioni. La scienza ed il progresso in India potrebbero lasciare trasparire l’idea di un sopravvento della concezione europea, ma invece finiscono per apparire solamente delle rumorose ed invadenti novità. Rumorose, al suono della preghiera scandita dal battere del legno improvvisata dalla bambina monca nel treno per Ahmedabad; Bagnate, dall’umido muso della vacca che ti spinge ad affrettarti tra le ripide viuzze di Udaipur; Trattenute, dalle preghiere delle donne al suono di campane sorde tra odori nauseanti di incensi amari nelle cappelle del tempio di Tajore; Osservate dagli occhi pieni di vita e attese dai sorrisi bianchi in volti scuri dei bambini agitati dell’asilo di Palayar.
Stasera sarà ancora festa ad Udaipur. Raggiungo Sanil e Ravi per un giro in “Vespa” ed una cena a casa di amici. Sono con loro da due giorni, approfitto della loro ospitalità. Mi sembra di conoscerli da una vita.
“La storia intera dell’India, si spiega con lo sforzo costante di togliere ogni terribilità alla morte”, appuntava Moravia.
E se gli indiani abitassero Venezia? Allora Venezia sarebbe la più grande e meravigliosa lavanderia comunale del mondo. Le acque della sua laguna prenderebbero vita. Le donne vi sciacquerebbero le proprie teste e sbatterebbero lungo le rive i propri sari colorati. Gli uomini si sbarberebbero ritrovandosi mossi nel proprio riflesso tra i canali opachi ed i ragazzi si getterebbero dai pontili e dalle arcate dei palazzi nella laguna gonfia, con i loro saponi ed i loro schiamazzi.
L’acqua qui è fonte di vita nuova. Di purificazione e di rigenerazione. Pozze d’acqua e piccole fontanelle quasi asciutte dal sole tropicale, sono ovunque. Sono nelle vie, nelle più buie, nelle più putride. Nei templi, nei cortili dei palazzi, alle stazioni. La loro acqua sporca è religione. Acqua delle fogne aperte che scorre lenta e putrida ai lati delle strade, lungo gli ingressi delle case e dei bazar. L’odore di quell’acqua spacca le narici ed accende nuove sensazioni mai provate prima. Una mucca ci infila dentro il suo muso umido e molle, alla ricerca di qualche foglia di banano unta.
E’ la mescolanza degli odori con i colori e con i rumori del più piccolo dei vicoli dei villaggi di questo paese, a presentarne lo spirito vitale. E mi tornano alla mente le slums di Mumbai, dove tutto è cento volte tanto, dove gli odori diventano irrespirabili ed arrivano fino allo stomaco. Dove i colori si fanno sempre più tristi e le luci sempre più opache. La linea di demarcazione tra la vita e la morte, non l’ho mai vista così sottile.
Jaisalmer, (Rajasthan) – 07/09 – Alla stazione ferroviaria di Jodhpur, una massa informe di uomini donne e bambini è sdraiata dappertutto. Paiono i morti l’indomani su un campo di battaglia. Un odore nauseabondo sale dai binari. Sale nelle narici, scende nella gola si ferma, non va più via. Sono pellegrini, vanno al tempio di Osiyan. La stazione ancora una volta si presenta come il non luogo. Non è il posto delle partenze e degli arrivi, è qualcosa di più. La vita brulica ovunque, negli anfratti più sordidi che in occidente sarebbero meta solo di qualche coraggioso topo. Si mangia e si danza al ritmo delle corde di una sitar appesantite dall’umido.
Viaggio con Levanhia, rappresentante di commercio, ricco di interessi dal buon inglese.
Nella nebbia densa di un mattino ancora buio, prende forma nel deserto la sagoma di Jaisalmer. Straordinaria fortezza che pare creata dalla fantasia di un bambino, si staglia massiccia a sud della stazione. E’ una sorpresa silenziosa, ancora dormiente. Le mura, le torri, le arcate senza finestre del palazzo del maragià, guardano lo scuro deserto che corre verso il confine con il Pakistan.
Pushkar, (Rajasthan) – 10/09 – Cerco di fare un po’ di chiarezza in una serie infinita di sbiaditi ricordi. Chi sono tutti questi uomini scuri sotto una veste bianca. Pushkar è un luogo sacro, sede dell’unico tempio dedicato a Bhrama, il dio creatore, di tutta l’India. Fiori ed incensi colorati avvolgono Shiva e Ganesh rappresentati nei modi più svariati. Gli oli ungono le forme falliche di pietre ogivali, racchiuse in sudice celle. Che cosa aspetta questa folla di turbanti arancio, brulicante lungo le scale dei ghats, agitandosi lenta come un bruco tra le rive strette del lago. La pioggia spazza le strade ed i vicoli del grande bazar, trascinando nelle acque già grigie del lago sacro, tutto lo scarto ed il sudiciume di questa città. La gente qui bagna le esili membra dei propri cari e poi ne getta orgogliosa le ceneri e la gente ci si lava, come a volerne attingere le essenze al suono di campane.
Questo luogo è religione. La religione qui fa sopravvivere. Anima le vie dove tutti sono consapevoli della stessa verità e dove tutti vivono per essa allo stesso modo. La fede è devozione. Devozione di baciarsi il dito e poi toccarsi con esso la fronte, al passaggio di fronte al tempio, mentre cani randagi e vacche sacre paffute del Nord, orinano e leccano l’unto di questi templi, simbolo per ciascuno di soddisfazione votiva.
Ricordo gli occidentali di Goa, seduti con le gambe intrecciate sulla sabbia guardando fissi per ore un orizzonte che non c’è, chiusi nei loro silenzi estatici nella volontà di esternare la loro nuova appartenenza. Ne sorridono di loro i vecchi di qui dietro le loro grandi barbe bianche, segnano la rinuncia ad una vita concessa per un passaggio, ma non hanno più nulla da predicare. Vivono di un pugno di riso e dell’ultimo pugno di riso moriranno nel nome di Brhama, sotto il ventre flaccido della vacca con cui hanno vissuto in simbiosi, senza toccarsi mai. Le vacche qui non sono solo vacche, come gli uomini qui non sono soltanto uomini. La naturalità di tutto questo è sconvolgente. La purezza terrena dei gesti mista a quella aerea degli odori, spiazza per la sua spontaneità. Il tempo è fermo, scandito solamente dall’alternarsi del giorno e della notte. Mentre i bambini restano l’essenza e lo scopo di questo destino comune. Cosa ne sarebbe di questo paese senza i suoi bambini. Sarebbero tutti lungo le rive del Gange ad attendere la nuova vita.
“Questo paese del nucleare, che ad ogni casa dei panciuti signori di Mumbay regala bollette da pochi spiccioli; del partito del Congresso e di quello Comunista; della dinastia Ghandi-Neru, non considera il diritto umano una priorità, ma bensì una noiosa pratica da sbrigare”, mi racconta Levhania una sera a cena a Jaisalmer. E’ da dieci giorni ormai che mangio solo Chaapati, comincio a non poterne più. Compro Papaya e biscotti di riso e leggo per la terza volta Paolo Rumiz.
La generazione di Levhania, di Sunil, di Ravi, di Suresh e Ratchmiganda, così come quella di Sara, di Lavania, di Aruna e di Yashika, è una generazione internazionale che ambisce alla competizione e sogna la vittoria. E’ gente in gamba cosciente e colta. Mantiene le tradizioni dei propri padri, guardando in una foto gli occhi della donna o dell’uomo che sposerà, la fede ed il rispetto per la propria religione, per i propri fratelli, navigatori incerti in un destino comune. Parlano lingue diverse da sud a nord, hanno difficoltà ad orientarsi per questo immenso paese, ma hanno le stesse certezze e nutrono le stesse speranze.
La povertà fa parte del tessuto sociale. E’ incondizionatamente legata ad esso ne è un aspetto, seppur il più grande, il più evidente. Ma il concetto di essa è distante da quello che abbiamo assunto in occidente. La povertà è uno status pari agli altri, a cui non è semplicemente concesso concedersi troppi lussi. Ci si aiuta se di animi nobili o si convive, nell’indifferenza, se di animi vili, al pari della fauna animale che pascola tra i vicoli bui e le pozze aride. La carità è silenziosa, quasi un diritto chiederla. Assicura la sopravvivenza ma non la compromette. La povertà qui non aspira. Vive di se stessa e di se stessa muore. Una rupia dopotutto non si nega a nessuno.
E’ quasi sera. L’acqua del lago di Pushkar è bianca, quasi morta. L’acqua non scorre, è mossa dal vento che quasi la sfiora per il terrore di toccarla. Mentre tutto sembra essere figlio della terra, fatto di essa e ad essa destinato a ricongiungersi. Invece la propensione al cielo, come le architetture del tempio di Tanjore, di Sirikali, di Trichy e di Madras; come i falli di granito unti e chiusi nelle loro piccole celle, lungo la via del bazar di Pushkar e di Kochi, paiono appartenere ad una realtà lontana, astratta, sospesa tra le sette mani di Shiva.
Tra occidentali ci si guarda appena, dietro gli sguardi un velo sottile quasi di minaccia, per aver contaminato per un attimo la realtà in cui ci si era immersi, con la voglia e la necessità di tenersela tutta per sé. Questa terra a volte appare come un quadro, bello, colorato, dentro una grande cornice. Un quadro non ancora completo, nel quale puoi prendere parte se lo desideri o osservare silenzioso ed attento, nel timore di incoscienti contaminazioni.
A Pushkar si comincia o si finisce di solito l’esperienza indiana. Inizia per chi, arrivato a Delhi ha come meta il sud o la regione, finisce per chi invece viene da sud e viaggia verso Delhi, come me. Ed è ancora il treno a scandire le ore di un tempo che si è perso a Mumbai. Ancora terza classe. Niente riserve indiane, cerco il flusso umano.
Ricordo i viaggi in moto tra i villaggi del Sud, mentre gli odori, i più svariati mi venivano incontro in processione. Ricordo l’umido della mattina, il fritto dei bazar, la frutta marcia al sole, il riso tagliato, lasciato sulla strada per essere battuto. Un vecchio è seduto sul ciglio della strada fermo sulle sue ginocchia, avvolto nel suo grande turbante arancione aspetta. D’un tratto balza, allunga la sua lunga mano ossuta come un geco la sua lingua, a raccogliere qualche moneta che scivola, quasi per caso dalle tasche dei passanti. Elemosina non per sé, ma per quell’oscuro disegno divino che lo vuole in vita, per completarne un percorso altrettanto oscuro. Poche rupie per tenersi in vita fino al momento propizio voluto dal destino.
Questo paese non bisogna solo guardarlo, va ascoltato, annusato, in silenzio. I canti, le urla, sotto i ritmi assordanti delle litanie dai templi; il vociferare continuo dei bambini che non è mai pianto; gli odori, forti dei vicoli che bruciano le narici ed entrano fino allo stomaco; delle vacche da latte, dei porci, dei cani, bestie di tutti; l’odore di quegli incensi che ovunque lasciano il loro sapore amaro e destano i sensi; i bidi, i chilum fumanti di Pushkar; la mescolanza di qualsiasi cosa che a questo mondo emani odore delle stazioni, che colpisce alla testa e si condensa nella gola. Si risvegliano i miei sensi, assopiti da tempo nella monotonia regolare di un occidente che ha smesso di odorare, che ha smesso di ascoltare ritmi diversi da musiche passate.
Delhi -14/09 – Mi sveglio, è notte, raccolgo le mie cose e scivolo via come un gatto randagio tra i vicoli ancora bui di questa città. E’ l’unico modo per lasciare Pushkar che altrimenti ti tratterrebbe a sé e non ti lascerebbe più andar via. L’alba comincia a premere dalle colline opache di nebbia, l’acqua del lago inizia a tremare, cominciano i primi bagni di uomini scalzi sopra al gelido marmo.
L’aria umida appiccicosa di Delhi sale fin dentro le ossa. La pioggia batte e tutto s’allaga. Pozze d’acqua malata che tutto confonde, tutto mescola e tutto amalgama. Ostruisce le strade, allaga i marciapiedi, inonda i vicoli dimora dei senzatetto. Dove saranno ora queste anime bianche? Dove avranno trascinato le loro fraciche membra? La miseria di questo paese riflette alla luce fioca del lampione, su queste pozze oscure che s’allagano sempre più. Scende sorda al suono d’ogni goccia, che sbatte sulla plastica e s’infila nelle tende dei rifugi, delle slums dove vivono a migliaia, stipati come profughi del proprio paese, a pochi passi dal cuore economico che pulsa a ritmi frenetici, di questa città. Poche volte in questo paese la miseria mi è apparsa. Per un attimo ho cercato di darle una spiegazione, un altro nome. Ora mi bagna le ossa in questa anonima stanza, mi inumidisce la fronte e mi porta via il sonno.
Delhi. Immenso bazar. Sede di ambasciate e dimore borghesi. Il parlamento avrebbero prima o poi dovuto farlo da qualche parte. Sede di rappresentanza di una intera nazione, dalle aiole e i prati all’inglese lungo le vie dritte. Il resto è polvere. A volte manca l’asfalto, a volte è troppo. La gente non sorride più, non guarda, non ascolta, è assorta nel caos del traffico cittadino. Risciò a motore, risciò umani, macchine, taxi, autobus, mezzi pesanti, carri di buoi, carri spinti da dieci, venti braccia, si ammassano lungo le strade nelle ore di punta occupandone ogni minimo spazio.
La minaccia del capitalismo è incombente. A molti fa gola, bussa negli immensi portoni dei grandi alberghi, si insinua nei vicoli più bui come merce dalle grandi firme, ma poi s’arresta di fronte ad una testa che non ne concepisce l’uso, che consacrata alla propria incondizionata sicurezza filosofica e spirituale, segue i suoi lenti ritmi di progresso ben guardandosi le spalle. Mentre a sinistra bussa il mercato cinese e a destra l’invadenza delle incertezze politiche.
Respingendo l’invasione del football e di Hollywood a colpi di cricket, lascia l’economia nelle mani di chi in fondo c’è l’ha sempre avuta, mantiene fedele i ricordi del passato coloniale ma festeggia solenne la festa dell’indipendenza. L’India vive delle sue contraddizioni. Quello che si avverte qui è un grande senso di bilico precario. A volte la sensazione che ciò che era va cambiando, a volte invece tutto sembra dondolare in un equilibrio perenne, immodificabile come nel Sud. La rottura di questo equilibrio l’ho percepita a Mumbai e l’ho vissuta a Delhi, turista per la prima volta e non più straniero.
I negozi portano i nomi delle grandi firme internazionali e sono a centinaia a Connaughut Place, cuore commerciale della grande metropoli. Si passeggia sotto i portici bui. Qualcuno entra, altri comprano, pochissimi. I negozi vivono, gli bastano pochi spiccioli. La gente che anime queste vie è ancora la minoranza. Sono in pochi a chiedere l’elemosina a Connaughut Place, o la voce non si è ancora sparsa o l’elemosina si sa, non è roba da ricchi. Ci si annoia tremendamente, la vera India è ormai lontana. Non resta che qualche blando tentativo di ricercarla con qualche infinita passeggiata verso Chandra Chowck o qualche corsa in risciò verso Karol Bagh. Ma anche qui la gente pare cominci a sentire il profumo della ‘’grande abbuffata’’, così si prepara per non voler essere da meno, per non sentirsi esclusa. Anche questo dunque è religione. Quella religione che gonfia le pance e abbassa gli sguardi a terra. Il turista è fonte di reddito: “non lasciartelo sfuggire!”, urla l’autista di un risciò nell’era della new economy. E mentre la sete nel Bar 101 è ormai sedata, e le saracinesche cominciano a sbattere a terra lucchettoni luccicanti, a pochi passi, decine di corpi, iniziano a sdraiarsi sulle isole spartitraffico umide, volute dagli inglesi ed attendono la notte che viene.
Vuoi sapere come la penso? Credo che questo sottile equilibrio tra presente, passato e futuro che ancora si registra in questo paese in ogni cosa, non reggerà a lungo.
– 17/09 – Lascio Delhi, orrenda città in progress disordinato, massiccia rappresentazione di quell’India ormai a noi più vicina. Specchio ottuso dell’anima vera di questo paese che pare essere scesa in corsa prima dell’arrivo del treno alla Victoria Station di Mumbai.

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