Libia

di Ena Villani –
Dovevamo essere più partecipanti, ma alla fine restammo in quattro (donne), decise, fino all’ultimo: da due mesi prima, incrocio di telefonate in Libia e a Roma, insistenze per ottenere il visto e il timbro in arabo sui passaporti, arrivati a soli 3 o 4 giorni dalla data fissata, Pasqua! Ecco il gran giorno, dopo gli ultimi preparativi, ormai non si può tornare indietro, dico alla parte di me che vorrebbe – ad ogni viaggio – farmi rinunciare: per fortuna prevale poi la scelta giusta. 

Arrivo con molto anticipo alla stazione centrale, mi siedo ad aspettare sulla fredda panchina di marmo accanto al mio bagaglio, poi arrivano le mie compagne di viaggio: due napoletane, (di cui una conosciuta addirittura dall’infanzia, più volte perduta di vista e poi ritrovata-sarebbe stato meglio il contrario!) e una inglese. In treno fino a Roma, proseguiamo per Fiumicino, da dove sono partita tante altre volte, negli anni passati. Al banco della Tunis Air, dove sono i nostri biglietti, fatti dall’agenzìa, arriva l’impiegato: con ritardo: check-in, liberazione temporanea del bagaglio, facciamo un salto al duty-free per le sigarette, poi ci avviamo al nostro”gate”.Telefono a mia figlia, in sottofondo il sibilo degli aerei in partenza e le voci della solita folla multietnica. Sono le 12, si parte, ci sono turbolenze: dopo un’ora e un quarto atterriamo a Tunisi (vi mancavo dal ’92). Senza uscire dall’aeroporto aspettiamo, chiacchierando, il 2° aereo. Il”domestic flight” della Tuninter decolla alle 15, piccolo e rumoroso, in volo – alle 16 (ora locale) si abbassa sull’aeroporto di Djerba. E’ qui l’appuntamento con il mio lontano parente Hamadi, ci conosciamo solo in foto, ma – come d’accordo – lui ha (con molta diligenza) preparato un bel cartello col mio nome, ci troviamo subito! Salutiamo calorosamente colui che ci accompagnerà per tutto questo sospiratissimo giro della Libia: fuori ,al sole, l’amata, calda aria dell’Africa.! Ci guida alla sua berlina blu, sistema i bagagli e partiamo – tutti euforici – “capo su Tripoli”, attraverso la frontiera tunisina di Ras Jedir.Lui – giovane e allegro- ed io abbiamo mille cose da dirci, parliamo in francese (è così nel sud libico, per l’influenza della vicina Algeria): chiedo notizie degli altri familiari, in particolare di Yahya, il fratello del compianto compagno della mia vita. L’auto corre verso Ben Gardane, dove, in fila sul bordo della strada, ci sono gli sventolatori di banconote libiche, per proporti il cambio dei dollari al nero. Un the agli ultimi raggi del sole, in un caffè all’aperto, poi via verso la dogana, dove perdiamo meno tempo del previsto, malgrado la scrupolosa annotazione della matricola di ogni apparecchio foto e video.
Una volta passati in Libia, i controlli lungo la strada saranno sempre frequenti, per tutto il viaggio: Hamadi si è fatto un’abbondante scorta di fotocopie del suo permesso per accompagnarci in giro: ha un’agenzia di viaggio tutta sua, perciò è anche conosciuto molti dei poliziotti di guardia non gli chiedono neanche di mostrare il documento, limitandosi a scambiare con lui i pacifici convenevoli d’uso, le benedizioni di Allah che si alternano in sequenza veloce, sempre uguale. E’ la fratellanza insita nell’Islam, l’informalità, l’immediato familiarizzare nei rapporti interpersonali senza le sovrastrutture del “diaframma” che separa le classi sociali, distanzia fra loro quelli che si sono
appena conosciuti (“ognuno al suo posto”) , se non nascono, col tempo, amicizia e/o confidenza.
E’ ormai sera – siamo in Libia! Per me è un’emozione speciale, arriviamo a Sabratha, ci fermiamo per mangiare un bel cuscus in un ristorante molto illuminato e rumoroso: riprendiamo la strada, sempre chiacchierando animatamente tutti e cinque – infine, eccoci a Tripoli (dov’ero già stata due volte, molti anni fa). Il nostro hotel è “El Waha” (l’oasi), in centro una bella hall, buoni quadri che vado a guardare, per deformazione professionale. Ci danno le camere, io riesco ad abbinarmi con la ragazza inglese, tipo tranquillo, parla poco, le altre due si troveranno meglio, fra loro. Rovesciamento di borse per raccapezzarsi sul contenuto e riordinarlo, uno sguardo; dall’alto balcone, su Tripoli di notte tutta illuminata: si vedono le cinque torri moderne, il mare. Stanche, presto a letto.

Mercoledì 19 aprile – Sveglia e colazione, bella mattinata di sole, rivedo il panorama alla luce del giorno e per me è straordinario essere finalmente tornata in questa città che mi è così cara. Oggi si va a visitare il sito archeologico di Leptis Magna, ad un 50 km.da Tripoli.Lungo la strada, sempre con Hamadi, ci fermiamo ad un bar, per il the (e il “bagno,” ovviamente alla turca). C’è un tenerissimo cuccioletto bianco, che ci gira intorno – diamo anche un’occhiata a un mercatino, sull’altro lato della strada. All’arrivo assaporo un’aria cristallina, fa caldo ma è secco e ventilato, si sta benissimo: la guida locale è Hagi Salah (fra i musulmani si fregia dell’appellativo “haji”chi è stato almeno una volta in pellegrinaggio alla Mecca, lui lo ha fatto addirittura 7 volte!) E’ un simpatico vecchiotto sulla settantina, vestito tradizionalmente, con la lunga camicia bianca che gli spunta di sotto alla giacca all’europea, pantaloni a sbuffo: ha un solo dente residuo! Parla un ottimo italiano. Cominciamo la lunga visita, avvicinandoci man mano al grande arco di Settimio Severo, ora parzialmente ingabbiato perché in restauro: Haji spiega tutto con precisione, servendosi anche di carte topografiche con la ricostruzione della città, come doveva essere alle origini. Proseguiamo, fotografando e video-riprendendo, verso ampi spazi interrotti da selve di colonnati e ruderi: incontriamo rumorose scolaresche, accompagnate da insegnanti severi, qualche giovane maestra su rocamboleschi zatteroni poco adatti alle grosse pietre del lastricato.”How are you?”dicono i bambini, tanto per chiedere, o “Hello!,” poi ridono come matti. Alle antiche latrine, promiscue all’epoca, inevitabili commenti salaci e foto obbligatoria in loco – poi la grandiosa basilica, invasa da frammenti di colonne spezzate, col largo viale dei grandi mascheroni di Medusa, molti dei quali perfettamente conservati. Ecco il podio: come sottrarsi alla tentazione di una foto, arringando una folla.. inesistente? Passiamo accanto alla larga piscina, dove ristagna l’acqua verdastra: il mercato col marmo bianco dei banchi di vendita- sorretto da due delfini quello del pesce-altrove le “misure”per i cereali, per l’olio, con, nella pietra, i segni delle funi che tiravano su i recipienti; la visita continua, sempre nel silenzio degli spazi assolati, qua e là interrotti da una solitaria palma, esteticamente inquadrata in un arco, mossa dal vento..il tutto dura quattro ore- Haji, sorridendo col suo solo dente, ci chiede se siamo contenti della sua guida,ma certo! Mancia e ritorno al punto d’inizio, corsa alle sospirate toilettes, poi il pranzo. Torniamo all’hotel, un po’ di sosta e poi si esce di nuovo, per visitare la Medina: siamo in mezzo al traffico cittadino quando, quasi all’altezza della Fiera, un diciassettenne e zelante poliziotto ferma la macchina, dobbiamo scendere tutti, Hamadi cerca di capire perché, ma quello gli intima solo di seguirlo, con l’auto, alla stazione di polizia.Ci viene suggerito di tornare all’hotel, poi sapremo: piuttosto preoccupate, non ci resta che fare quattro passi sulla larga strada principale, affollata, all’ora del tramonto. Dovunque imperano grandi ritratti di Gheddafi, in tutte le salse, in genere con la testa sempre più in alto e la mascella dura e volitiva (ma ci sono anche edizioni con sorriso abbagliante e accattivante). Passiamo davanti a un macellaio che chiede di essere fotografato (si va a cambiare il grembiule) davanti al suo negozio: espone impressionanti testine di agnello con ancora il pelo e gli occhi. Molti ci interpellano assai cordialmente, con qualche parola di italiano. Arrivate all’albergo, compriamo del the in un piccolo supermercato lì accanto. Nella hall ci raggiunge un amico di Hamadi a rassicurarci, il reato era solo un’innocente pellicola parasole attaccata sui vetri posteriori dell’auto, evidentemente fuorilegge! Il Nostro tornerà, solo a mezzanotte, dopo aver pagato una salata multa, nel frattempo, sempre in ansia, avevamo cenato – non riesco ad avere la comunicazione telefonica con mia figlia, forse perché è un cellulare – andiamo a dormire.

Giovedì 20 aprile – Si parte, presto, alla volta della “mia”sospirata, mitica Ghadames (una seconda patria sentimentale). Chiacchieriamo animatamente, con sottofondo di musica libica, i chilometri scorrono veloci: fino al nostro traguardo ce ne vorranno 700..il paesaggio diventa, a tratti, semidesertico – intervallato da piccoli villaggi, ognuno con la sua moschea. Riconosco da lontano, come da immagini sognate sui libri, i bianchi tornanti che montano alla città: siamo a Nalut, coi suoi granai trogloditici: è immersa nel sole caldo e luminosa – tutta salite e discese, con scritte arabe in verde sul bianco dei muri, inneggianti alla Giamahirya. L’ombra refrigerante di un bar (dove torneremo per mangiare) coi ventilatori a pale sul soffitto: fuori respiro la salutare, solare aria dell’Africa. Andiamo a vedere i granai: dopo l’antica “porta” di pietra si scende per un sentiero ciottoloso – tutt’intorno le forme rocciose, libere e contorte, i pali infissi a sostegno nei muri, in stile ”sudanese”, le nere bocche aperte e vuote delle finestrelle, dove mettevano il grano. Anfore interrate a metà, uno stretto cunicolo attraverso il quale la gente scappava in caso di guerre: sotto un arco fresco di ombra scura, un guardiano soffia nel suo zufolo. Una piccola moschea vicina, dall’alto il panorama vasto della vallata. Hamadi mi presenta un fotografo locale che mi mostra alcune sue belle immagini di Nalut, mi sento in dovere morale di comprarne qualcuna. A fine visita un’ umoristico reperto: una decrepita “wolkswagen”(solo l’arrugginita carrozzeria residua) infissa nel terreno,con la scritta ”si vende”! Fra i belati di un gregge di passaggio, torniamo al ristorantino, per il pranzo. Dopo l’ottimo the alla menta, si riparte – lungo la strada l’avvicinarsi del deserto è sempre più evidente: facciamo sosta in un bar a Derj (altro nome vagheggiato per anni, ascoltando i ricordi del mio compagno…) il bagno ha una porta di ferro che bisogna mantenere accostata con la mano e fare tutto il resto solo con l’altra! Nel tardo pomeriggio un grande cartellone verde tutto in arabo che annuncia Ghadames mi emoziona al massimo, è un momento che ho sognato per anni, questo! Costeggiamo, a destra, il campeggio I-n-Azaoua, la nuova moschea ed ecco, nel quartiere moderno, la casa di Hamadi, tipicamente araba, con tappeti e bassi cuscini lungo le pareti. Quasi subito arriva, come avvertito da qualche richiamo, Yahya, mio cognato mai conosciuto prima in persona, ma più volte evocato per nome. E’ piccolo e magro, non assomiglia ad Ab, ma è silenzioso, discreto, un po’ timido, una presenza mite e leggera, com’era lui… quest’incontro così significativo mi fa versare qualche lacrima, cerco di controllarmi. Parla solo arabo, ma capisce italiano e francese, vorrebbe che andassi subito a casa sua per farmi conoscere la famiglia, ma rimando a domani, sono troppo stanca! Hamadi mi da una bella stanzetta solo per me (la casa è grande) al piano terra, di nuovo il sollievo di svuotare bagagli, per riorganizzarli: qui resteremo qualche giorno, un po’ di relax! Arriva Souad, la bella moglie del nostro anfitrione – ha occhi intensi, è avvolta in veli colorati – con la loro piccola Dikra, la primogenita, altre donne: ceniamo e poi a letto, per un sonno di pietra.

Venerdì 21 aprile – Mi sveglio alle 6, colazione – e poi si esce nella bella mattinata di sole per andare alla città vecchia, patrimonio dell’Unesco per la sua architettura particolarissima. Ci accompagna la guida locale Mohamed Ibrahim Kut Kut, simpatico uomo maturo, alto, dolce (come quasi tutti quelli dell’interno,del grande Sud). Parla un po’ di italiano – come tutti a Ghadames, si ricorda del mio Ab. di quando lasciò la cittadina natale per andare in Italia non vi tornò mai più (ora, che forse sarebbe stato possibile, è troppo tardi….). Entriamo nell’antica medina, un’alternarsi scenografico di luce e ombra in stradine e cortiletti cinti da muri merlati, ad ogni angolo terminanti con le punte degli ”sharafin” (che dovrebbero tenere lontani gli spiriti maligni). Dietro i recinti si ergono alte e verdi palme, si indovinano giardini..gli archi precedono lunghi corridoi totalmente bui, dove a volte bisogna camminare a tastoni: è la famosa “città inferiore”, fresca, ombrosa, tutta imbiancata, arieggiata: anticamente era riservata agli uomini, mentre le donne circolavano al di sopra, sulle terrazze delle case, comunicanti fra loro. Forse è, in parte, così anche adesso.
E’ un’inestricabile dedalo di viuzze dove chiunque, non del luogo, si perderebbe: ogni tanto incontriamo operai che lavorano al suo restauro: Ab. ricordava, quando era lì da bambino, della gente che vi circolava al buio: ognuno emetteva uno strano”mh-mh” per non scontrarsi con gli altri, incrociandoli, dopo 60 anni il luogo non è cambiato, ciò è affascinante! Dopo una bella scarpinata con le debite soste qua e là per fotografare e video-riprendere, attraverso aperture luminose di cielo blu, percorriamo- stanche e accaldate – un vialetto con al centro un rivolo d’acqua e lunghi tronchi di palma, adagiati per terra: la meta è il bar all’esterno della medina, dove ci concederemo un desiderato the. Da lontano vedo arrivare il primo tuareg (a Ghadames ce ne sono molti) – accanto a me siede la nostra guida, mi dice di essere sposato, 9 figli, ”galante, come da copione”, ma in modo discreto e gentile. La mia ex –amica al solito si lamenta (ma è lei a provocarli -ultime cartucce!..) che gli uomini la insidiano: ci assillerà per tutto il viaggio!. Torniamo nella città vecchia per il pranzo, in una delle belle case decorate a mano dalle donne, in rosso(una volta, mi raccontava Ab., lo facevano con il tuorlo d’uovo). Gli interni sono stracolmi di oggetti coloratissimi e luccicanti, specchi, pentolini di rame, giocattoli, fotografie e scritte coraniche in cornice, tappeti e cuscini multicolori sparsi per terra, come un antro di ‘Ali Baba…..Il tutto, anche se un po’ kitsch, è tipico, carino e vivace, molto accogliente: catturiamo immagini che ci riscalderanno il cuore, una volta a casa.. Ci si allunga per terra sui cuscini, il “sogno arabo” è servito! Sulla stuoia al centro arriva il pranzo, sempre gustoso, coronato poi dal the: una luce da acquario piove dall’alto, c’è pace, relax, il canto degli uccellini entra dalla finestra nel soffitto..un momento magico, lontano dalla forsennata “civiltà”: come nel deserto, rifletto quanto poco basta per vivere in queste latitudini, scegliendo una vita semplice ed essenziale. Questa gente sembra serena e appagata, non è – come noi – satura dell’ inutile frastuono e del nevrotico affanno, tipicamente occidentali. Le compagne di viaggio rimpiangono il vino e il mangiare italiano, forse per inconscia paura di staccarsi troppo dalle loro rassicuranti radici: come molti italiani parlano sempre di ciò che hanno lasciato a casa, invece di “cogliere l’attimo” e assaporarlo con tutte le proprie forze, calarsi in pieno nelle realtà che si è venuti fin qui a conoscere… Nel pomeriggio torniamo a casa e ritrovo mio cognato Yahya che desidera una mia visita a casa sua,la promettiamo per la sera, ma non ce la faremo – insisto perché lo si avvisi (da noi si fa così) che ci andremo senz’altro domani. Usciamo di nuovo per andare a vedere Rà’s el ghoul (“il promontorio del diavolo”) e il tramonto sulla duna – la berlina di Hamadi non è adatta a quel percorso, così lui ci affida a ad Abubaker , che ha una macchina adatta (grandi proteste delle altre perché questa è meno comoda). Cerco di smussare un po’ la figuraccia scambiando qualche frase in arabo (non parla altro) con questo timido autista, che assomiglia un po’ all’attore Serge Reggiani: arrivati là, ci arrampichiamo sul promontorio roccioso, dorato dal sole, dal quale si possono indovinare le lontane frontiere dell’Algeria e della Tunisia. Siamo già nel deserto, vediamo in basso, nella vuota spianata, vari fuoristrada con tuareg e turisti: ci spostiamo ai piedi della grande duna, dove ogni tanto qualche Toyota si diverte a cavalcare in diagonale, velocemente, la sabbia. Il sole cala lentamente, colorando di rosa e malva i monti circostanti: sulla cresta alla sommità della duna le silhouettes nere dei visitatori si stagliano, agitandosi; vocìo lontano e nitido nel grande spazio – come sempre, nel Sahara..seduta sulla sabbia, alla fresca ombra di un cespuglio, provo a rifare il “magico”e difficile disegno delle gazzelle che m’insegnò un amico targui, 11 anni fa, nel deserto algerino. A sera torniamo a casa, cena e poi di nuovo fuori, a vedere lo spettacolo folkloristico , nel largo cortile di una specie di “pro-loco”: C’è già un folto gruppo musicale che suona dal vivo – un faro abbagliante erratamente orientato verso il pubblico quasi ci acceca. I ballerini, (solo giovani uomini) volteggiano agili e leggeri, ogni tanto cambiano costume: le danze sono eleganti ma anche marziali e virili, spesso con i gesti rituali della semina o della lotta. Siamo gli unici spettatori, alla fine ci esortano a unirci a loro nelle danze, accetta solo la solita mattatrice, ben lieta di mettersi in mostra da sola..Finito lo spettacolo, rientriamo, ripassando però prima in un negozio di souvenirs per
curiosare ancora un po’- poi a casa, a dormire.



Sabato 22 aprile – Stamattina andremo al museo, è tornato Mohamed Ibrahim, la guida di ieri alla medina – per accompagnarci – c’è un po’ di venticello e il sole splende, al solito.Entriamo e, nelle prime 3 o 4 sale vediamo reperti vari, la storia di Ghadames, bei manufatti tuareg, costumi tipici su vecchi e stralunati manichini europei, strumenti musicali, vasellame, ecc. E’ meno piccolo di ciò che sembra, questo museo! Segue la visita al vicino villaggio di Tunin, attraverso giardini
costeggiati da piccoli corsi d’acqua: le voci di una mamma e bambino nel folto del palmeto, l’improvviso passaggio di un gregge. La prossima meta è un picnic ai 2 laghi Mezajem: bisogna attraversare una zona pietrosa e desertica, la berlina di Hamadi non è adatta per quel terreno e lui ci propone l’auto di ieri (guidata da Abubaker) che però non piace alle signore, che s’impuntano e lui irritatissimo e, suo malgrado, brontolando, prende ugualmente la sua vettura. Sotto il solleone avanza con cautela (quelle tacciono..), sperando che l’auto non si rompa proprio lì, fra le rocce, dove non c’è anima viva, si vede, a un certo punto, anche un miraggio, lungo il percorso che sembra interminabile – anche per la tensione che lo accompagna. Infine delle basse quinte di vegetazione verde scuro, da lontano, annunciano finalmente l’arrivo ai laghi: sono due, contigui,uno più profondo dell’altro, c’è molta gente. Sulle rive, roulottes e molte tende, le donne da un lato e gli uomini dall’altro: le prime si bagnano vestite (ottimo”trucco”, già visto in Messico, per rimanere sempre freschi); sono quasi tutti studenti e studentesse in vacanza. Vengono a conoscerci, curiosi e timidi, allegramente, tutti vogliono darci la mano: ci offrono squisiti dolcetti e il fatidico the, scambiando con noi euforiche frasi in inglese (e veloci commenti fra loro, in arabo dialettale, che non riesco a decifrare). Vestita semplicemente come tutte, con velo sulla testa, ci saluta una signora che – mi dice Hamadi – è una donna importante nel Paese, amica personale di Gheddafi. Abbiamo il costume da bagno sotto i vestiti, ma un po’ il tempo disponibile è poco e un po’ ci vergogniamo (sono tutti vestiti) anche se l’acqua è fresca e invitante, col caldo! Batterie intere di Coca Cola e aranciata Mirinda sono sistemate a riva, nel secondo lago, davanti a noi, che abbiamo cercato riparo all’ombra del verde: alla nostra destra i giovani maschi sguazzano in acqua o, dentro le tende, cantano, accompagnandosi con percussioni. Di fronte a noi sull’altro lato, donne, ragazze e bambini rispondono, con altrettanti canti e tamburi: Hamadi ha allineato sulla stuoia piatti di metallo e stoviglie – mangiamo con gusto, guardando gli uccellini saltellare sulla riva sabbiosa e minuscoli pesciolini nell’acqua, appena increspata dalla brezza..Sarebbe bello, data la stanchezza, rilassarsi qui, ma bisogna subito andare: dopo il preoccupante tratto desertico dell’andata, ecco(con sollievo) l’autostrada e poi finalmente a casa, per riprenderci un po’. Dopo si esce per lo shopping: si comincia dalle case di alcune donne che confezionano coloratissimi animaletti in pelle , manine di Fatima, lavori in paglia, cestini, ventagli, ecc. Lasciate le scarpe all’ingresso, entriamo:in ogni casa hanno tutte gli stessi manufatti, ne compriamo qualcuno: da una di loro: ci offrono il the, che sorseggiamo, seduti sui tappeti: ogni tanto si affacciano delle parenti, alcune splendide nei loro paludamenti- non oso filmare apertamente, ma la telecamera, che si può poggiare a terra, è rimasta “distrattamente” accesa. La TV blatera per conto suo, fra gli arazzi a tema orientale, che coprono le pareti.Ci congediamo e visitiamo qualche negozio,come quello del calzolaio che confeziona le famose”belghas ghadamsi”,stivaletti e ciabattine per donne di pelle rossa,tutte ricamate con striscioline di pelle multicolori..bellissime..immettibili perché troppo piccole..e molto care!!
E’ il tramonto..l’aria rosata e sonnolenta, le case dorate dall’ultimo sole..Spostandoci in macchina ogni tanto vedo dei tuareg addossati ai muri rossastri della cittadina: uno di loro suonava l’”udh” (liuto), ascoltato da un amico-sarebbe stata una bella foto! Ancora negozi, cerco uno “shesh” (turbante)colorato, non c’è: vedo un bracciale che mi piace, ma il proprietario non lo vende, è l’ultimo rimastogli e serve da modello per l’artigiano che dovrà replicarlo! Stasera mangiamo
fuori, in un grande bar-ristorante in centro, quasi di fronte alla medina: dopo, sedute fuori a fumare una sigaretta, nel relax della sera parliamo in italiano con dei vecchietti arzilli. Hamadi viene a prenderci, porta le altre a casa e poi me a fare un lungo giro di visite ai parenti (oggi è il nostro ultimo giorno a Ghadames). La prima è finalmente la casa di mio cognato Y.che ci accoglie con calore, insieme alla bella moglie,formosa ed euforica e le tre bambine: ci offrono non il the, stavolta, ma caramelle e chewing-gum: siamo seduti sugli onnipresenti bassi materassini rivestiti a fiorami, intorno al tappeto. Hamadi traduce in e dall’arabo domande e risposte che s’incrociano,Y. va a cercare senza trovarle, vecchie foto del mio Ab.- in compenso me ne danno una della mia defunta suocera A, che non ho mai conosciuto: ha gli stessi occhi pazienti e amorevoli di quello che fu il mio compagno: che emozione avrebbe avuto nel tornare qui!…. Anch’io lascio delle foto di Fatima e del mio nipotino, vogliono conoscerli! Prima di congedarci mi regalano 2 bei cesti di vimini, coloratissimi ventagli, altri oggetti da portare a Napoli. Ci salutiamo, molto commossi : una delle bambine parlerà poi a scuola di questa mia venuta dall’Italia) mentre risalgo in macchina intravedo Y. che quasi piange, nascondendosi: era stato in ospedale, mi disse Hamadi, in pericolo di vita perché fumava troppo).In me lui ritrova il fratello mai più rivisto dall’adolescenza- ed io lo evoco in lui..anch’io mi commuovo..ci rivedremo ancora nella vita? Chissà…Visitiamo poi la famiglia di un’anziana donna avvolta in veli colorati:mi abbraccia ripetutamente, altrettanto commossa mi parla in stretto arabo che non capisco, credo che sia una vecchia zia di Y., ricorda Ab molto bene..tutta gente semplice e buona, mi sento molto arricchita dall’incontro con loro. Concludiamo con la casa di una bella ragazza per metà algerina, piuttosto moderna, che potrebbe diventare la seconda moglie di Hamadi, anche se io mi auguro il contrario: per quanto lui mi dica che le due si conoscono e sono d’accordo, che questo è il costume, faccio fatica a immaginare che la prima ne sia proprio contenta! Mi viene in mente ”Vince l’ultima”, il titolo di un mio quadro. Quando torniamo a casa,alle 23, le altre già dormono:vengo a sapere che le donne di casa erano venute per farci indossare i loro tipici costumi e fare delle foto! Mi sarebbe piaciuto molto, ma alle mie compagne la cosa non interessava..no comment!

Domenica 23 aprile – Oggi è Pasqua: sveglia alle 4 e partenza alla volta di Germa, più di 1000 km.a sud: lascio con dispiacere la cameretta – sul tavolo metto qualche “peluche”in regalo per la piccola Dikra e un mio catalogo: la macchina già fila nell’oscurità, i radi negozi e case hanno, di notte, luci fortissime che restano sempre accese per illuminare il buio pesto. Pare che Gheddafi abbia concesso qui l’energia elettrica gratis: c’è la luna – cantiamo per tenere sveglio Hamadi alla guida, intanto man mano rischiara. All’alba segue l’aurora, sempre ingoiando chilometri sul rettilineo: nel deserto, ai bordi dell’asfalto, vagano cammelli selvatici – E‘ ormai giorno e continuiamo a correre, si comincia a vedere qualche sperduto villaggio, poi, all’ora di pranzo ci fermiamo a Brak (o oltre). Si mangia in un ristorante all’aperto e poi subito via, nel caldo feroce: passiamo Sebha:oltre Germa,un the al primo campeggio Alfaw e poi finalmente quello sospiratissimo nostro, di Erawan, dove arriviamo nel pomeriggio. Somiglia allo”Zèribas”di Djanet (Algeria), è ben organizzato: il mio bungalow, il N°10, è ampio e arioso, tutto imbiancato anche all’interno, una finestrina triangolare al fondo, i 2 materassini sono poggiati su un muretto basso che gira tutt’intorno alle pareti – la porta (simbolica!) è di rada paglia e, meraviglia delle meraviglie, il pavimento è..sabbia! C’è la luce elettrica e una presa per ricaricare la batteria della telecamera. Continuo, fortunatamente, a dormire con la compagna inglese, malgrado le bizze insopportabili della rompiscatole: un bel sonno, poi doccia rinfrescante, mentre si fa sera: Fuori, bella aria di campagna, lontani cani che abbaiano: dopo un giretto orientativo si va a cenare in uno stanzone poco illuminato, con lunghi tavoli – vi si aggira un gatto elemosinante. Dalla finestrina nel muro ci passano un ottimo pollo, che però è, al solito, subito criticato: dopo cena andiamo alla “boutique”del campeggio(sempre senza vedere altri ospiti), ne avevamo intravisto qualcuno, dove saranno? Lì troviamo tre fratelli del Niger – alti,euforici e cordiali- che vendono bellissimi gioielli tuareg in argento: monili vari, piccole selle da cammello, fennec e gazzelle stilizzate- tutto bello, ma caro! ”Les italiens” dicono ridendo – pare che siamo gli unici a contrattare sempre sul prezzo: io ne faccio il pieno, solo visivo, con la telecamera, anche se mi costa un “p‘tit cadeau” in danaro. Poi ce ne torniamo ai bungalows, nel vento della sera, è splendido smuovere la sabbia coi piedi scalzi, giù dal letto! Buonanotte, Sahara.

Lunedì 24 aprile – Dopo essermi svegliata una volta alle 4, mi ri-sveglio con il canto del gallo: silenzio, cinguettìo di uccellini, che pace! Scrivo a un mio caro amico nel.. contiguo Sahara(algerino)a soli 70 km.da qui! Metto un po’ di sabbia nella busta per testimoniare che sono lì di persona: andiamo alla posta e finalmente, dopo tanti tentativi, riesco a parlare con mia figlia,per rassicurarla. Raggiungiamo poi l’altro camping, l’ “Alfaw”,con i bungalows rotondi, a forma di“tucul”:su una terrazza coperta prendiamo il the, di fronte a un nutrito gruppo di guide tuareg, tutti intabarrati nei loro veli, perlopiù bianchi.Si scambiano vigorosi saluti, parlano animatamente e cerco di individuare qualche parola del loro “tamasheq”- ognuno di loro guiderà il proprio gruppo nel deserto- un pullmann rosso a due piani aspetta lì dirimpetto, accanto ai fuoristrada. Ripartiti alla volta della vicina Ghat, corriamo fra sagome di roccia che spuntano dalla sabbia ocra- una di esse, sulla destra, sembra una città fantasma, con guglie e pinnacoli: l’asfalto, spaccato dal calore, ci costringe a ogni tanto a deviare dall’autostrada e percorrere tratti sabbiosi. Si arriva a Ghat mentre il muezzin sta chiamando alla preghiera, cerchiamo e troviamo l’hotel El Kalaa(“la fortezza”,o “la cittadella”) e il sollievo della sua hall fresca e ombrosa, dopo il sole torrido e abbacinante di fuori. Anche qui ci sono quadri e begli oggetti di artigianato sahariano: Hamadi è seduto sui divani con un giovane tuareg (è Khammou, che ci accompagnerà poi nel deserto).All’imbocco del corridoio, uno specchio con tre oblò, rivestito di lana blu-viola con lunghissime frange…Ci danno le stanze, finalmente la camera… che ci accoglie con una bella notizia: sul vetro della finestra(che dà su un giardino a piano terra) italiani di passaggio hanno riparato una rottura con del nastro adesivo, sul quale hanno scritto”attenti ai topini!”. Finora avevamo incontrato solo qualche innocuo scarafaggio campagnolo nelle docce, che restava immobile al suo posto,(impaurito da noi,giganti!) per cui uno si rassegnava a conviverci pacificamente. L’albergo abbondava pretenziosamente in moquettes e parati di stoffa, un po’ assurdo con l’abituale torrido clima desertico,tanta sabbia tutt’intorno….meglio l’ essenziale e areato campeggio! Usciamo a mangiare in un bar- ristorantino, subito dopo, sotto il sole, la visita di Garama (l’antica Germa,capitale dei Garamanti), grigia cittadella di fango disseccato: qua e là sono sparsi dei tratti di piccoli binari per i carrelli necessari al restauro. Fino a un certo punto ci accompagna Hamadi, sostituito poi da una guida locale: la vecchia medina è meno suggestiva di quella di Ghadames, anche se al tramonto il sole la indora, migliorandola- in vista del Forte (“El Kalaa”) ci viene chiesto se vogliamo montarvi, ma nessuno ne ha voglia! All’uscita, mentre ci riposiamo un po’, un “targui”si accoccola di fronte a noi, a pochi metri e ci osserva attentamente in silenzio, alla fine mi chiede una sigaretta che gli offro volentieri. Dopo la visita alla medina ci aspetta un’altra trottata nella calura, lungo la principale (ed unica)arteria che taglia Ghat, con Hamadi, che è arrivato nell’auto di un amico, fresco come una rosa: per fortuna il sole è al tramonto- dopo la foto ad un antico pozzo fatto con tronchi di palma, ci incamminiamo. I tuareg “si sprecano”, ve ne sono dappertutto, spesso sugli scalini davanti alle porte di negozi o delle numerosissime agenzie di viaggio, la cui pubblicità è costituita da simpatici cartelloni dipinti a mano:con ingenuo stile “naif”- promettono escursioni nel deserto, con palme e cammelli..La strada è un interminabile rettilineo di radi edifici a un piano, con belle porte in ferro decorate a colori contrastanti: l’aria ora è respirabile..passa velocissimo un camion gremito di ragazzini che ci salutano urlando allegramente. I negozi non hanno insegne, ma sui muri esterni è dipinto, sempre in stile primitivo, ciò che vendono: le varie marche di sigarette, elettrodomestici, ecc.(a Ghat potrei avere molte commissioni?!) Alla fine della galoppata c’è un mercato dove compriamo degli”shesh”(lunghi turbanti)colorati da mettere nel deserto: è quasi buio- chiedo di
sedermi un po’ e il bel proprietario del negozio mi offre una sedia, all’aperto- e commenta delicatamente la mia stanchezza: ”madame,c’est le temps que passe”. Indimenticabile, istintiva gentilezza e nobiltà d’animo di chi sa trovare parole di comprensione che non feriscono….E’ ormai sera,torniamo, alquanto distrutte – per fortuna ci raggiunge l’auto di Hamadi guidata dal cugino e ci “raccoglie”, riportandoci alla base. In un negozio riesco a comprare – meglio che a Germa – il bel bracciale tuareg d’argento, leggerissimo e il “tera(out)”, (“lettera,amuleto) quadrato con fiocchetti neri ai lati. Cena all’albergo e poi in camera: gli..animaletti habituès della doccia sono sempre là, immobili – in fondo basta ignorarli: una volta a letto, spenta la luce, con terrore, intravedo la nera silhouette del preannunciato topino rotolare velocissimo giù dal mio bagaglio! A parte il sonoro ronfare della mia compagna, con questa preoccupazione in più, ”dormo” con meno di un occhio solo……

25 aprile, martedì – Stamattina si riparte, questa volta per il deserto dell’Akakus: portiamo i bagagli nel giardino, al cui centro c’è una fontana a forma di stella- fuori l’albergo due fuoristrada sono pronti a partire – riconosco Khammou, il targui che parlava ieri con Hamadi. Alto, minuto, con baffetti e uno “shesh” candido- sotto gli occhiali da sole, un gran sorriso- è lui il capo spedizionenell’altra auto c’è Mustapha, cugino di Hamadi e il giovanissimo Othman. Caricano i bagagli su una delle grosse Land Cruiser, io mi arrampico sulla prima, davanti, a fianco del “capo”, che subito inserisce-deciso- una piacevole cassetta di musica tuareg: le altre stavolta non osano protestare, come fanno di solito: si parte. Prima sosta in un negozio dove M. cerca un abito tradizionale maschile con collo a pistagna: c’è un somalo che parla in perfetto italiano e il sarto che lavora dal vivo, con gesti rapidi e precisi, sulla sua vecchia Singer. Mi accorgo che siamo allo stesso mercatino di ieris era: ripartiamo, dritti verso l’Akakus, i locali naturalmente dicono che quello libico è più bello di quello algerino. Ma è molto simile..eppure in qualche modo diverso dai circuiti mitici dell’Algeria..forse è solo colpa del tempo che è passato. Strano sentimento, dopo undici anni ritrovare il Deserto.. durante tutto questo tempo lo avevo sempre sospirato ed ora c’ero! Cavalcando la sabbia, il familiare rumore di ferraglie sul retro della vettura,con l’incessante chiacchiericcio, sempre pieno di allusioni piccanti, delle tre sul sedile posteriore,alla vista dei pinnacoli di roccia! Prima sosta in un vallone, ho messo il mio shesh viola-azzurro, solo qui posso avvolgerlo intorno alla testa come ho imparato laggiù..Hamadi accenna appena qualche passo di danza, al suono della cassetta rimasta in funzione: intorno, l’aria calda e secca, spazio, vento…le rocce sulla sabbia arancione e rosa, il silenzio..si scherza, foto tutti insieme, ormai ricordiamo i nomi di ‘Othman, il più giovane e di Mustapha, cugino di Hamadi, che ha studiato a Sebha, dice di conoscere G.B.Vico e Caravaggio! Riprendiamo il cammino, ecco la duna “Ta- Kharkhuri”, poi dei cespugli verdissimi sulla sabbia rossa, per terra lunghe macchie di sale riflettono l’azzurro del cielo.. Ci fermiamo per la prima<<gaila>>(sosta del pranzo): è un bel posto, tipo Tikbaouine(=le due spade”, in Algeria); all’ombra di una enorme parete rocciosa vengono parcheggiate le due auto, si scende. C’è una pietra piatta con strani incavi perfettamente tondi, certo fatti dall’uomo preistorico:i nostri accompagnatori cominciano a preparare da mangiare, noi a turno cerchiamo un po’ più in là un anfratto nascosto per la sospirata liberazione idraulica! Nel deserto è così, tutto”en plein air”! Io ne trovo una incorniciata dalla roccia sovrastante, approfitto anche per filmare e fotografare la magìa di un paesaggio senza linee rette, se non le forme libere e capricciose della Natura, modellate dal sole e dal vento…alle pareti ci sono anche dei caratteri “tifinagh”(la lingua del Sahara)che cerco di decifrare, ma è difficile. Si mangia, i ragazzi hanno cucinato i”macaroni”,breve relax, poi si riparte. Hamadi ha messo uno shesh verde come la sua tuta moderna: attraversando canyons di roccia, alla ricerca di pitture rupestri, tracciate con il rosso sanguina e, a volte, qualche tocco di bianco. Forme di animali ed uomini, che i remoti cacciatori del Neolitico tracciavano sulle pareti per propiziarsi una buona caccia, raffigurando l’animale che speravano di catturare. Qui c’è l’eco e gridiamo tutti, per ascoltare le nostre voci nel vuoto immenso che ci circonda. Al grande arco naturale di Asafeggiar facciamo la classica foto di gruppo: alla successiva sosta per i graffiti incontriamo un gruppo italiano (in fondo c’è un itinerario dei siti ben noto alle guide locali che accompagnano i visitatori). Un gradevole uomo brizzolato e magro (tipo Sterling Hayden)mi saluta con affetto caloroso, protettivo: guardandomi intensamente mi dice ”chissà, forse ci incontreremo ancora in un’altro viaggio..”..così fosse! Ma non saprò mai il suo nome..né ciò avverrà! Stanno già per andare via: un maturo e bel tuareg,con uno splendido shesh color malva (che gli ruberei volentieri!)mi abbraccia, come se mi avesse addirittura riconosciuto! Ha dei baffi all’insù,un bel volto vissuto, brunito dal sole: la spaziatura fra gli incisivi che è,in genere,segno di fortuna..gli occhi bistrati dal kohl. Per qualche motivo ho colpito l’immaginazione di questi improvvisati amici per pochi minuti, li ho inteneriti e poi se ne vanno… addio!…Avrei voluto trattenervi, parlare un po’ con voi, prendere insieme il the dell’amicizia, ma nel deserto spesso è così, ci si lascia sempre troppo presto… e ognuno via, senza neanche conoscere il nome dell’altro.
Dopo aver incrociato una donna e un bambino nomadi, sbucati dal nulla, arriviamo ad un pozzo molto affollato con turisti che si lavano: si fa scorta di acqua e si riparte: più in là un gruppo di alti cammelli proietta lunghe ombre nel tardo pomeriggio. Khammou, con la sua gandoura blu va fra di loro, si avvicina ad un piccolo bianco, li blandisce con familiarità atavica: è l’immagine più classica che si potrebbe mai vedere o immaginare, del Sahara. Per terra il vento fa rotolare le leggerissime sfere secche della colloquintide. Al tramonto ci fermiamo per il primo bivacco ad Al Aweinat. In mezzo alla duna, col vento si montano le tende, si accende il fuoco per il sospirato the corroborante e per il pasto serale. Per le necessità fisiologiche non c’è altra possibilità che scendere la duna abbastanza da rendersi invisibile a chi sta in cima! Sperando che non venga a qualcun altro la stessa idea, ma le guide sono molto discrete ed ancora più pudiche di noialtri. di spazio ce n’è a volontà! Khammou, inginocchiato sulla sabbia, prepara con un gran sorriso la “taghella”, il pane tuareg che mette poi a cuocere nella brace. Mentre si fa lentamente sera, si scherza e si ride, M, parlando delle sue figlie, stuzzica Mustapha, il prof di psicologia: ”offrimi 100 cammelli per sposarne una” – e lui: ”no,sono troppi!”… e via così, col più trito scherzo nei viaggi in Paesi arabi. E’ sceso quasi il buio, che non è mai tale del tutto, vista la miriade luminosissima dei miliardi di stelle, che illumina quasi a giorno la cupola blu del cielo.
Mangiamo intorno al fuoco, urla liberatorio in coro, risate, lazzi: Khammou batte il tempo sul bidone di plastica, cantando “Tenerè, ya Tenerè”, la voce risuona limpida e giovane nel silenzio che ci circonda, poi si mette a ballare, imitato dagli altri. Un vento leggero e fresco, il gusto profumato di menta del the bollente, sapientemente e lungamente schiumato nei bicchierini, alla luce di una torcia: nel centellinarlo dico, come si usa fare, alla “loro” maniera, “iknà” (è fatto = bene). Le stelle, ti basta stendere la mano e ti pare di poterne cogliere, a grappoli: lo spettacolo è talmente grandioso, le rocce intorno argentate dalla luce fredda… Siamo solissimi nell’immensità: solo l’essere tutti insieme ci salva dal terrore! Abbastanza stanchi da avere sonno, si entra nelle tende:io resisto per poco nella mia e di G:, dal respiro molto pesante: il mio sonno troppo leggero mi obbliga ad uscire e sistemarmi”à la belle ètoile”, (come dormono i tuareg, scavandosi nella sabbia un po’ di incavo per il corpo).Chiusa nel sacco a pelo,ho le stelle per soffitto: mentre cerco di prendere sonno, silenzioso e gentile, Othman, che se n’è accorto, mi porge premurosamente una coperta: nel deserto la notte è molto fredda.

26 aprile, mercoledì – Sveglia la mattina presto, come sempre, appena fa giorno: facciamo colazione su una stuoia rossa ai primi raggi del sole nascente. G. si è offesa del fatto che io non abbia dormito in tenda con lei, come se lo avessi fatto apposta per sottolineare il suo russare! Questo viaggio purtroppo sarà caratterizzato da non pochi conflitti e recriminazioni, velenosamente sollecitati dalla gongolante rompiscatole M. cerca di pacificare gli animi: Khammou ha messo uno shesh nero: accesi i motori delle 4×4, si parte, per andare a vedere nuove pitture e graffiti. Dopo varie soste si arriva alla “zèriba” (capanna di paglia)di un vecchio tuareg: per filmarne l’interno,con vari attrezzi e oggetti artigianali, devo pagare qualche dìnaro libico. Nessun’altra ritiene che valga la pena di farlo: si accoccolano intorno al vecchio, che tira fuori da un sacco di juta un “dob” (lucertolone), tenuto al guinzaglio: la povera bestia assapora qualche momento di relativa libertà, poi viene rimessa nella sua prigione.Il tuareg, solo gli occhi saettanti e furbi fuori dal velo, ridacchia, parlando nel suo “tamasheq”, forse fa battute, scambia coi nostri accompagnatori – come sempre nel deserto – le ”issalane” (le notizie). Guardo con cupidigia il grande e bellissimo, pesante “tera” quadrato d’argento, coi folti fiocchi neri ai lati,appeso al suo collo. Ripartiamo e arriviamo all’arco naturale di Ti-n-galega, sullo sfondo di una duna quasi rossa: foto e riprese sono d’obbligo! Incontriamo un gruppo di quella che, a distanza, sembra una carovana di tuareg su cammelli, con gandoure e shesh tipici, ma sono invece solo turisti ”de luxe”! Stanno nel campo vicino accampamento di Awiss, dove si mangia ad una tavola imbandita,le tende sono arredate con gusto..ecc-quasi come non lasciare l’Europa! Il mio ex amico Djaba ne fa parte, ma ora non c’è, si trova in un’altra zona desertica,il Messak (Mellet=bianco o Settafet=nero), accompagnando un gruppo. Quando lo conobbi era un semplice giovanissimo cuoco dei nostri circuiti algerini: ora vive in Italia, ha una agenzia di viaggio tutta sua ed è molto sicuro di sé.
Attraversiamo una spianata pietrosa, denominata familiarmente ”Sandstora”,come mi dice Hamadi:ecco una duna rosa, detta”Oua-n-kasa”. Ecco un altro pozzo, solita folla e fuoristrada: facciamo la”gaila”del pranzo sotto degli alberi, a Talouaut, non lontano dal pozzo.M. si è fatta male ad un piede, si appoggia ad 1 improvvisato bastone, “firmato”da Khammou: proseguono visite a pitture e graffiti,tallonando altri gruppi che li hanno appena lasciati. A questo punto, con grande infelicità, credetti di aver finito le video-cassetttine disponibili della mia telecamera..(non era così, ma me ne accorsi con rabbia solo al mio ritorno a Napoli !!…).Ne avevo portate ben 7, ma erroneamente avevo richiuso lo sportellino di protezione anche per altre 2 o 3, pensando di averle già utilizzate! Non era così, ma nei viaggi queste cose succedono, quando bisogna spostarsi più volte e fare spesso tutto in fretta! Per tutto il resto del viaggio soffrirò, non potendo più riprendere..e confidando sulla successiva e normale condivisione di immagini fra i partecipanti, che segue ad ogni viaggio.Ma non sarà così.. mesi dopo, ho rischiato addirittura la vita in un incidente d’auto,per poter recuperare delle riprese altrui fatte in Libia.. prima che, dopo aver lungamente sofferto e pregato di avere una copia del resto del film, finalmente M.si è decisa a farmela fare, con misterioso e inspiegabile ritardo. Un viaggio pieno di sgradevoli sottintesi e inconfessate speranze andate deluse…
Verso sera arriviamo al 2° bivacco, riparato da una quinta concava di rocce, il luogo si chiama <<Ti-“n-’Adada”, (“il dito”, per la forma dei pinnacoli, simili a quelli di una mano). Finalmente possiamo liberarci, in ogni senso, rinfrescarci! Metto il mio leggerissimo vestito nero, tipico delle donne “targuìe”, (mi fu regalato a Djanet): Khammou urla il suo personale “oh-la-la-la-la-lalà!” di entusiasmo, apprezzandomi. ”Ce soir on danse!” dice… bene!
Chiamo Hamadi in disparte e gli chiedo se stanotte posso dormire nell’auto, dietro i sedili posteriori, l’indomani si scatenerà l’inferno fra le mie rissose compagne di viaggio, per questa mia richiesta: dicono che ci dorme lui, normalmente, nella macchina – ma io non intendevo minimamente attentare alla sua virtù! Desideravo solo stare un po’ più riparata, essendo impossibile dormire nella tenda con C. Incurante dei loro blateramenti Hamadi, per il grande riguardo che ha nei miei confronti, mi consente senz’altro di dormire al chiuso: per una notte lui potrà adattarsi nell’altra auto, con gli altri accompagnatori. La sera comunque si ripetono canti, scherzi e risate nel buio, rischiarato dalla lucente notte sahariana: la cena, il the, le danze, alla luce delle torce, poi a dormire. Ultima notte nel deserto.
Giovedì 27 aprile – Risveglio, colazione, sterili proteste per la mia notte nell’auto… poi le rotture di scatole rientrano: si parte. Usciamo, ahimè! dall’Akakus, ritroviamo il camping Alfaw (quello dei tucul rotondi) a Ghat, dove prendiamo un the: salutiamo con dispiacere Khammou, con ’Othman e Mustapha e le 2 Toyota, non senza scambiarci gli indirizzi. Proseguiamo verso Serdeles con la vettura di Hamadi: c’è gran vento e polverone, che lui chiama “la fanette”,. è in arrivo il ghibli.
Si torna al nostro camping Erawan di prima,a Germa – stavolta ho il bungalow N° 9, sempre con la zèriba di paglia intorno. Pranzo nello stanzone lungo, poi una sospirata siesta. Alle 16, con Hamadi, di corsa e col caldo, visita alle rovine dell’antica città di Garama (da cui i mitici Garamanti). Dopo Hamadi ci affida ad un giovane autista grasso e timido (parla solo arabo) che, col suo fuoristrada, ci porta ai due laghi di Mandara (“la rara”) e ‘Omm el mà (“la madre dell’acqua”). Per arrivarci si attraversano impressionanti, immense dune arancione con grandi dislivelli: è un saliscendi da brivido, un’altalena, le discese ripide specialmente fanno paura, ma il nostro accompagnatore è molto bravo le affronta in modo deciso. Con un certo sollievo arriviamo finalmente in vista del 1° lago: la superficie è tutta incrostata di sale, un po’ angosciante per il suo immobilismo, l’acqua ferma, proseguiamo verso il 2° lago, riattraversando però un’altra serie di dune: bellezza che ti lascia senza respiro – e paura al tempo stesso – sono il cocktail esaltante che rende il deserto indimenticabile. Ed ecco la meraviglia. ’Omm el mà’ è un luogo splendido, contornato di palme, acqua verdina trasparente, di cui il vento increspa leggermente la superficie in piccole onde regolari: la sabbia rosata e soffice, dalle tondeggianti forme epidermiche contrasta col verde della vegetazione. L’autista vi si sdraia di fronte, ha lasciata inserita la cassetta di musica araba nell’auto e si gode la sosta rinfrescante e rilassata. Era prevista in origine una notte qui, ai bordi del lago, sarebbe stata favolosa, ma Hamadi ha cambiato programma (ufficialmente perché ormai non c’erano più materassini e tende, lasciati coi fuoristrada), evidentemente seccato dalle polemiche insopportabili e inopportune di cui non si conosce la precisa ragione, ma si può intuire…certe aspettative sono andate deluse, forse è mancato un prevedibile (?) ”souvenir” sentimentale di cui poter parlare o ricordare al rientro? Ne avranno parlato fra loro, chissà….
Mentre mi godo la vista dell’acqua invitante vengono verso di noi 3 bei tuareg coi cammelli sellati, assieme a qualche turista, ci passano accanto senza fermarsi. Dopo un tempo troppo breve per l’incanto di questo luogo, riprendiamo la via del ritorno, sempre riaffrontando le difficoltose salite e discese delle dune. Torniamo al campeggio, liberazioni e docce, un’altra visita,troppo frettolosa, ai nigerini venditori di gioielli, (non riesco a comprare gli orecchini da regalare a mia figlia). Cena con Hamadi al nostro tavolo e poi ognuno al suo letto. Un momento di panico per me, non trovavo più la carta verde obbligatoria per il passaggio in Libia e il biglietto aereo del ritorno!!! Ma poi c’è tutto, pfuiii!!… Quasi senza dormire affatto, alle 4 di notte si riparte per Tripoli.

Venerdì 28 aprile – E facciamo anche quest’altra lunga tratta, quasi 1000 km! Mangiamo allo stesso caffè con la balaustra celeste dell’andata, dove c’era il cagnolino bianco, un bel narghilè in esposizione – un po’ prima di arrivare in città, sostiamo a Gharian: lungo la strada vendono delle terrecotte molto belle, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta! Ci sono servizi di piatti, bicchieri, tazze, vassoi:tutti decorati con magnifici colori e di gran gusto, motivi originali, fra il tradizionale ed il moderno.Ma pesano..ed è impensabile potersi caricare anche di queste! Mi limito a 2 vasetti piatti, di cui 1 a forma di libro aperto, coi versetti del Corano: li pago un po’ cari, ma mi piacciono. Hamadi si lamenta che si è rotto il semiasse della sua macchina quando quelle lì hanno preteso di andare ai laghi Mezajem con la sua berlina, nel deserto pietroso,all’andata. Arriviamo a Tripoli verso le 18: l’albergo è un altro, si chiama” Al bahr al abiad al mutawassit” (il mare bianco mediterraneo”). Ho la camera 444, sempre con C.; giù nella hall ci sono sedie rosse di plastica, io e Hamadi ci sediamo, aspettando lungamente comunicazioni telefoniche a cui tenevo molto, ma che alla fine risulteranno impossibili,come quasi sempre, in Libia. Cena e poi, tutti stanchi, a letto.

Sabato 29 aprile – La mattina si esce per andare al Museo, sito nel Castello (“As-saraj al hamra” più o meno “il serraglio rosso”) sulla attuale piazza Verde, all’inizio del lungomare. Cioè dove dovevamo venire all’arrivo, quando poi sequestrarono l’auto di Hamadi. Entriamo, bisogna lasciare telecamere e macchine fotografiche all’ingresso, a meno di non pagare una bella cifretta: al 1° piano bellissime statue grecoromane, provenienti da Sabratha e Leptis Magna, mosaici, ecc. Al 2° piano ci sono le arti e tradizioni popolari:costumi tipici, magnifici gioielli antichi che rimpiango di non poter riprendere (né M. lo farà, pur avendo pagato il permesso di usare la telecamera). Un grande “diorama”del deserto, con capanne tuareg, la ricostruzione della camera degli sposi in una casa libica: il manichino di lei accanto al letto, quello di lui più lontano, che guarda altrove, immobile.
Con Hamadi, sorridendo,li compiangiamo, in un certo senso! Il 3° piano è tutto dedicato alla rivoluzionie di Gheddafi del 1° settembre del ’69: tra le foto esposte cerco invano una traccia del mio antico amico che fu qualcuno, per un certo tempo, ma poi non se ne è saputo più nulla….
Finita la visita al Museo, ecco lì accanto l’arco di Marco Aurelio che, con il Castello, è la più classica e vecchia immagine di Tripoli. Ab me ne parlava sempre, con nostalgia, nei suoi ricordi lontani. Visitiamo la moschea Gurgi, un guardiano vecchiotto dai capelli tinti di nero ci apre l’antica porta chiusa a chiave dall’esterno: l’interno è molto decorato, si cammina in silenzio sui tappeti, respirandovi un’aria di raccoglimento.Poi comincia quasi una corsa sotto il sole nei mille vicoli della Medina: si comincia dalla zona dei cesellatori, con un gran martellare di lamiere:ai muri sono appoggiati grandi puntali di cupole e minareti con in cima l’ “hilàl” (la mezzaluna).E’ molto affollata, come in tutti i sùq i mercanti siedono davanti ai loro negozi, stracolmi di merci di ogni genere, fortemente illuminati, se nei passaggi coperti, oppure al sole, bancarelle con scarpe da donna “da cerimonia”, con la zeppa e la”trousse”in tinta (colori pastello o vivaci, piuttosto “kitsch”). Vestiti, tappeti, belle stoffe damascate, gioielli, narghilè, assolutamente di tutto. Una incessante cavalcata attraverso tutto questo, col caldo. In una vetrina adocchio un diadema che è la copia (falsa) di quello algerino (vero) che mi fu rubato della cui perdita non mi davo più pace il prezzo è accessibile, Hamadi riesce a spuntare un ulteriore sconto e me lo compro, ne sono felice. Pranziamo in un rumoroso e vivace ristorante che esiste da 2000 anni, mi dicono, nella Medina, io prendo l’”haraimi” un tipico piatto di pesce in salsa rossa e piccante che avevo già assaggiato una volta, pollo con patate, ecc. Sono a pezzi, si esce e ricomincia la corsa, in cerca dei datteri-compro anche una specie di chewing-gum” ante litteram” insapore, Ab. mi diceva che la masticavano da piccoli a Ghadames negli anni ’30! Ed una ”taghìa” bianca,il cappellino a tamburello maschile, di cotone. Peccato non aver preso anche quello nero, invernale, di lana. Subito dopo c’è la visita di Sabratha, l’altra città archeologica, dove dormiremo anche l’ultima notte in Libia. Addio Tripoli, speriamo arrivederci… Arriviamo ed entriamo nell’area degli scavi, da lontano già si vede la sagoma del teatro, indorato dal sole pomeridiano. Sullo sfondo,il blu del mare, percorso dai venti, piuttosto agitato. La rompiscatole cerca di sparare le ultime cartucce, si sbatte per fare colpo, ma non so se sia poi riuscita o no ad aggiudicarsi qualche piccolo trofeo, forse no. La facciata del Teatro è spettacolare: perfettamente conservata nei secoli, sembra finta tanto è scenografica, tutta di ocra e d’oro, contro lo smalto blu del cielo e del mare. Ci sediamo in cima alla scalea, in alto: in un angolo del palcoscenico, all’ombra, un ragazzo suona l’<<’udh>>..le note si sentono perfettamente, nello spazio acustico del teatro sono un completamento struggente della perfetta atmosfera del luogo. Poi scendiamo a visitare il resto, la casa di Leda e del cigno, una bella statua di Apollo (commenti triti e ritriti), una bella. famosa statua femminile,le immancabili latrine. A visita finita, andiamo all’albergo, che è piccolo e moderno: facciamo finalmente i conti del viaggio con Hamadi, che li aveva sempre rimandati, quasi come se non volesse farsi pagare i suoi servigi in terra libica. Forse riesco a dormire da sola, questa volta,ci sono stanze a volontà. C’è tensione, cose non dette, sta per finire questo bel viaggio, un’aria di promesse immaginate, ma non mantenute: ho proprio questa sensazione.

Domenica 30 aprile – Ultimo giorno, si torna verso la frontiera tunisina, con i vari controlli,ogni tanto, lungo la strada:è una bella mattinata di sole.Dopo il passaggio della dogana, a Zarzis ci fermiamo per mangiare dei dolcetti con il the, poi, tristemente, verso l’aeroporto. Lì ci sediamo tra la folla ad aspettare il nostro aereo del ritorno: Hamadi si trattiene per un bel pò, seduto accanto a me, parliamo tanto, ci dispiace separarci.poi se ne va, dopo i saluti, senza voltarsi. E’ quasi una liberazione all’incontrario. L’aereo arriva in ritardo, bisogna correre, il mio bagaglio è pesante, senza carrello, si è pure mezzo sfasciato. Guardandomi con odio, suo malgrado, la rompiscatole mEna Villanii presta il suo nastro adesivo per ripararlo. Ci alziamo in volo verso Tunisi, dove bisognerà poi ancora correre per prendere la coincidenza del 2° aereo per Roma. Solcando le nuvole, l‘atmosfera ovattata, le musichette in sordina, stiamo ancora una volta lasciando l’Africa. Arrivate a Fiumicino riesco finalmente a telefonare a mia figlia, per rassicurarla con “tutto bene, sono a Roma”. La rompiscatole resta lì in città per incontrare le sue figlie, così d’ora in poi si respirerà meglio!
Una ennesima corsa per acchiappare il treno per Napoli, sul quale mi addormento, distrutta! Il controllore mi sveglia, per il biglietto.
All’arrivo nella mia città finalmente me la prendo comoda lungo l’interminabile marciapiedi della stazione: le altre 2, M. e C. sono già ovviamente corse avanti, io non ce la faccio: andate pure, ci saluteremo domani per telefono, penso. Invece mi aspettano in fondo al marciapiedi, apprezzo la ”finezza”. Le figlie di M. sono venute a prenderle (abitano nello stesso palazzo di C.), io mi avvio per prendere un taxi. Dal finestrino, dopo il 2° tunnel, rivedo la scuola che sta alle spalle di casa mia, rieccomi! Più morta che viva, dopo la giornata pesante, mi trascino i bagagli fino all’ascensore, apro la porta di casa. Qui richiamo Fatima, ci andrò domani a riprendermi Niki,la mia amata cagnetta, che è stata da lei in questi giorni.
Stamattina ero in Libia, è incredibile questa contrazione del tempo e dello spazio che ci fa quasi saltare da un continente all’altro, nell’arco di una giornata! Ed ora restano i ricordi, i volti,le voci, i luoghi, i chilometri percorsi, suoni, odori, sapori, viaggio sentimentale nella nostalgia del mio compagno scomparso. Un altro tassello prezioso che si è aggiunto, malgrado alcune negatività, nella trama della vita: restano i souvenirs, le musiche, foto e video a farmi rivivere, ancora oggi, come se fosse ieri, questo significativo e intenso viaggio in Libia.
(Ena Villani, settembre ‘ 2006)

Potete vedere altri dipinti di Ena Villani nel suo sito personale

Nel web di Ena sono pubblicati anche materiali del maestro Gennaro Villani – www.enavillani.com

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