Messico e dintorni (come li ho visti io)

di Gianni Giatti –
Questo e’ il cortile interno della posada dove soggiorno. Certo, è piuttosto fatiscente, ma per chi arriva senza prenotazione, ci si può adattare in attesa di un’altra sistemazione, anche perchè il prezzo è conveniente e la biancheria abbastanza pulita.

Per Francisco, un brav’uomo che con la famiglia da una quindicina d’anni la gestisce va bene così e da buon messicano, poco importa se per caso nella camera dove dormi, alla porta del bagno manca la maniglia. Quando ti siedi sul water basta tirare la cordicella e trattenerla magari con i denti, fino a quando non avrai finito.

I trilli che provengono incessantemente da fuori, sono prodotti dai fischietti dei due vigili che si trovano all’incrocio oltre il muro i quali dalle sette del mattino alle otto di sera sollecitano le auto a lasciar libero l’incrocio.

Trovandoci in un rinomato posto di villeggiatura, nell’ attesa che si liberi una camera ad un prezzo equo e sempre nella zona centrale dove ci troviamo, proverò a raccontare come sono arrivato da queste parti lungo un percorso classico fatto ormai da centinaia di persone, ma visto non con l’ottica del turista, ma con l’animo di chi si sente molto vicino a questo popolo.

Sembra incredibile, ma al di là di questo scarno cortile esiste un frenetico e scalpitante mondo.
Negli ultimi anni e’ diventato di moda trascorrere le vacanze natalizie sulle spiagge assolate messicane. Dicono: sono stato in Messico!

Guardandomi attorno però, potrei dire di trovarmi a Jesolo, a Milano Maríttima, a Rimini, o su una delle tante spiagge del mare adriatico. Tutto intorno a me è un miscuglio di lingue, inglese, francese, tedesco e tanti italiani.

Anzi sembra proprio di stare in Italia durante il periodo estivo quando le nostre spiagge pullulano di stranieri. Ci troviamo invece a Playa del Carmen nella penisola dello Yucatán in Messico, in pieno inverno e sotto un sole cocente con temperature che superano abbondantemente i 35º, migliaia di miglia lontani dalla neve e dalla morsa del gelo che sta infierendo su tutta l’Italia.

Lo scopo e’ quello di rilassarci per qualche settimana in luoghi caldi, dopo aver visitato gran parte del Paese, di svernare insomma, come sentivo dire anni fa da persone che se lo potevano permettere, ma a condizioni accessibili anche per chi come noi, preferisce viaggiare per periodi prolungati al prezzo di una vacanza, che le agenzie offrono al massimo per 10 ÷ 12 giorni.

Il viaggio non era cominciato bene. All’aeroporto avevamo trovato il volo cancellato per nebbia, con centinaia di persone nelle stesse nostre condizioni, in attesa di una sistemazione. Poi, come succede molto spesso, una conoscenza al posto giusto, una raccomandazione, ed ecco che possiamo ripartire in serata per Francoforte dove l’indomani prenderemo il volo per Città del Messico nelle prime ore del pomeriggio.

Durante il volo verso la capitale messicana mille pensieri percorrono la mia mente; l’emozione di visitare un nuovo Paese, il primo impatto all’aeroporto.

Mi chiedo se i messicani saranno davvero piccoli con il sombrero tirato sulla testa per ripararsi dal sole all’ombra di grossi cactus come leggevo da piccolo nei fumetti di avventure, o come visti in tanti film, dove personaggi dai coloratissimi costumi vivevano in graziosi villaggi dalle basse case con la bianca chiesetta che spiccava in fondo al paese e il missionario che suonava la campana per richiamare i fedeli alla funzione religiosa. Ecco, questo è ciò che fantasticando mi aspetto di trovare al mio arrivo in Messico.

Dopo tredici ore di volo, Citta’ del Messico si presenta a chi vi giunge in aereo, come una visione spettacolare ma al tempo stesso inquietante. Non le immense praterie disseminate da innumerevoli cactus, ma una sterminata concentrazione di edifici, giganteschi quartieri suddivisi da lunghe arterie. Una distesa di cemento per chilometri e chilometri su di un vasto altipiano posto a oltre 2200 metri sul livello del mare, che costituiscono quella che è considerata la città più inquinata del mondo. Una città di circa 30 milioni di abitanti in continua espansione, al limite dell’inverosimile.

Successivamente quando con un taxi ci spostiamo dall’aeroporto verso il centro cittadino, notiamo le strade quasi deserte per una città abitata da milioni di abitanti. Scopriremo che il fatto è dovuto al giorno festivo e che la gente oggi non lavora. Una volta individuato l’albergo, dopo oltre 24 ore che siamo svegli pensiamo di averne abbastanza per oggi e andiamo a dormire.

MEXICO CITY

Le guide, e chi ha già avuto modo di visitare questa città, concordano che tre giorni sono sufficienti per vedere le cose più importanti.

La Plaza De Tres Culturas, dove facciamo la prima tappa, è così chiamata perchè ospita le testimonianze di tre epoche diverse, le rovine di quella che fu la principale piazza della città azteca, la chiesa di Santiago del XVII° secolo durante il dominio ispanico, e i moderni edifici del complesso residenziale progettati da un architetto italiano.

Proseguendo verso un altro quartiere, visitiamo uno dei più importanti edifici di culto, situato nella vasta Plaza de las Americas, dove nei giorni festivi, decine di migliaia di fedeli assistono alla S. Messa.

Molti sono i fedeli che arrivando da ogni parte del Messico, si portano fino all’altare maggiore attraversando tutta la piazza in ginocchio per esaudire un voto.

La Basilica di Nuestra Senora de Guadalupe, è una moderna e imponente costruzione a pianta circolare in cemento, acciaio e legno. L’immagine della Vergine si trovava fino a qualche anno fa nella Basilica Antigua, e solo per motivi di sicurezza e per consentire alle migliaia di fedeli di poterla venerare, è stata spostata nella nuova chiesa.

Una volta imboccata l’autostrada, ci spostiamo verso un sito archeologico di grande interesse, posto ad un’ora di strada. Durante il tragitto subiamo l’impatto di questo enorme ammasso di costruzioni.

Subito fuori dal centro, è un dedalo di catapecchie costruite senza criterio che vanno espandendosi a macchia d’olio verso le colline e dove si trovi un pezzo di terra da occupare.
Non si può parlare di abitazioni, ma di rifugi privi dei più elementari servizi, costruzioni dove una porta o una finestra in più costituiscono la categoria dell’abitazione, e dove spesso la corrente elettrica arriva da un filo attaccato abusivamente ai pali lungo le strade.

Dopo un’ora di strada e quando la città sembra non finire mai, giungiamo nella valle di Anahuac, dove nelle adiacenze del sito archeologico ci viene illustrato quanto per le antiche popolazioni era importante la pianta dell’agave, che veniva utilizzata in tutte le sue parti per produrre cosmetici, tessuti che venivano in seguito lavorati su grossi telai, e dalla quale infine si otteneva anche un liquore.

Teotihuacán è uno dei più importanti centri religiosi del Messico antico, un’immensa metropoli che nel periodo del suo massimo splendore, era abitata da circa 200.000 persone.

L’edificio più imponente è la Piramide del Sole, costruita a quattro livelli sovrapposti su una base di circa 225 metri per lato e alta in origine 75 metri.

La sua facciata principale è orientata verso il punto esatto in cui tramonta il sole nel giorno del solstizio d’estate, a conferma del culto per il Sole che aveva la popolazione.

La Piramide era interamente coperta di stucco dipinto di rosso e quando il colore si accendeva nella luce fiammante del tramonto il suo aspetto doveva essere insieme grandioso e terribile

Il rettilineo Viale dei Morti – lungo più di 2 chilometri e largo circa 45 metri – include due grandi piazze cerimoniali con piattaforme e altari, una davanti alla Piramide del Sole e l’altra davanti alla Piramide della Luna.

Lungo tutto il tracciato si trovano numerosi templi e palazzi residenziali che all’epoca erano dipinti con colori esuberanti, di rosso, azzurro, verde e giallo, riservati alla casta sacerdotale e ai nobili, che si aggiravano tra queste architetture che oggi sembrano astratte, abbigliate con vesti e ornamenti preziosi.

La Piramide della Luna, posta all’estremo nord del Viale dei Morti, è di dimensioni inferiori a quella del Sole, tuttavia dalla sommità si ha una visione incomparabile sull’immenso viale, sulle piazze, sulle piattaforme scandite dalla geometria delle scalinate e sui palazzi del centro cerimoniale.

Prima di lasciare il sito, approfittiamo del servizio offerto dall’amministrazione ai turisti, che facilmente dimenticano di trovarsi a oltre 2200 m. di altezza.

Lungo la strada del ritorno notiamo come ad ogni incrocio veniamo presi d’assalto da venditori ambulanti, giocolieri e lavavetri che svolgono le loro attività sotto lo sguardo indifferente dei poliziotti di turno addetti al traffico.

Quando nel tardo pomeriggio facciamo rientro in città, nello “zocalo” che di norma in Messico è la piazza principale della città, assistiamo all’ammainare di quella che è considerata la più grande bandiera del mondo.

Lo zocalo di Messico, così viene chiamata la città, è la seconda piazza più grande del mondo, pavimentata nel 1520 nientemeno che da Cortès il conquistatore, il quale non ebbe idea migliore che usare le pietre di uno dei principali templi aztechi. Rimanendo immobili al centro dello “zocalo”, sotto il pennone e con lo sguardo rivolto verso le nuvole che contornano la Catedral Metropolitana, si percepisce l’essenza della città.

Nell’enorme piazza che pullula di turisti, venditori ambulanti, lustrascarpe, danzatori vestiti da antichi aztechi, ci confondiamo rapidamente tra la folla e ci caliamo subito nella realtà del nostro viaggio, passeggiando in lungo e in largo per lo “zocalo”, dove oltre allo smog di questa immensa città, si respira il vero Messico.

TAXCO

Vladimiro, un italiano trapiantato per lavoro da trent’anni in Messico e amico di un componente del gruppo, ci da il benvenuto e ci invita per una escursione. La destinazione è Taxco la città dell’argento nello stato del Guerrero, che raggiungeremo in circa tre ore.

Quando ci mettiamo in marcia, abbiamo una certa difficoltà a destreggiarci nel traffico cittadino molto intenso, e notiamo che qui nessuno si arrabbia, nessuno strimpella ma aspetta pazientemente.

La giornata è grigia, e quando superiamo il passo a 3100 m. la nebbia ci riporta al nostro clima autunnale. Ma Vladimiro dice che non c’è da preoccuparsi, non appena si comincerà a scendere tornerà il sole e con esso il caldo.

Infatti già quando transitiamo per Cuernavaca, la calura comincia a farsi sentire e circa un’ora più tardi quando siamo ancora sopra i 2000 m. ma sembra sia scoppiata l’estate, siamo in vista delle bianche case di Taxco, incastonate su di un promontorio.

La fortuna di questa splendida cittadina arroccata su una collina è dovuta all’apertura da parte degli spagnoli in cerca di stagno, alla prima miniera del centro America.
Invece dello stagno, trovarono però enormi quantità d’argento, che venne sfruttato a fasi alterne, fino agli inizi del ‘900.

Una volta esaurito il filone, quando la cittadina si trovava ormai in decadenza, un professore americano ebbe la geniale idea di aprire un piccolo laboratorio per la lavorazione dell’argento.

Fu la fortuna di Taxco, poiché il piccolo laboratorio si trasformò ben presto in una fabbrica, e gli apprendisti aprirono con il trascorrere del tempo, le loro botteghe private.

Oggi, con oltre 300 negozi che vendono oggetti in argento finemente lavorati, rappresenta la meta di turisti in vena di shopping, provenienti con delle escursioni organizzate, per lo più dalla vicina Acapulco.

Quando iniziamo a percorrere la salita che ci condurrà alla piazza principale, ci rendiamo subito conto che la cittadina, negozi a parte, è decisamente splendida. Il cielo di un azzurro intenso, contrasta con le coloratissime case e le tipiche insegne dipinte a forti tinte sui muri.

Quando finalmente riusciamo a parcheggiare, raggiungiamo la centralissima Plaza Borda. Notiamo un andirivieni di taxi collettivi (i pulmini che raccolgono diversi viaggiatori), arrivare nel centro cittadino.
Scopriamo che nella splendida Iglesia de Santa Prisca nonostante il giorno feriale, il Vescovo della città sta impartendo il battesimo e la prima comunione ad alcuni bambini.

Alcune composizioni a forma di toro donate dai negozianti del luogo, dedicate a Santi diversi e rivestite di mortaretti, fanno bella mostra fuori dalla chiesa e questa sera dopo una grande festa verranno fatte esplodere.
Lungo la strada del ritorno ci fermiamo a Cuernavaca nello stato del Morelos, patria di Emiliano Zapata. Dedichiamo una breve visita alla cittadina, con un interessante castello costruito sulle fondamenta di una piramide che Cortès rase al suolo, e che in alcuni punti è ancora possibile osservare alcune parti della vecchia costruzione.
Adibita dapprima a prigione e in seguito come palazzo governativo, oggi e’ sede di un museo che espone alcuni reperti relativi alla storia e alla cultura messicana, oltre ad alcuni murales.
Quando ci incamminiamo verso la Cattedrale, notiamo un luogo dove le persone anziane analfabete, si recano per farsi leggere e scrivere lettere e documenti.
La bellissima Catedral de la Asunciòn, ha una serie di caratteristiche che la distinguono dalle altre cattedrali, non è localizzata sulla piazza centrale, ha una sola torre e forma parte di un complesso di costruzioni religiose che testimoniano il passato di questo popolo.
Sulla strada del ritorno, ci fermiamo una mezz’ora nella casa di campagna di Vladimiro dove tra le altre piante che adornano il giardino, troviamo quella del caffè che il guardiano tuttofare sta raccogliendo.
Infine, dopo aver assistito al tramonto ed essere giunti alle porte della citta’, facciamo i conti con il traffico che e’ veramente una cosa spaventosa nonostante le mille arterie e sopraelevate che si intrecciano e incrociano.
Abbiamo impiegato poco piu’ di un’ora per tornare da Taxco che dista 120 km., e un’ora e mezza per raggiungere il centro città nonostante il traffico abbastanza scorrevole.

Il minimo che potevamo fare per sdebitarci in parte con Vladimiro è stato di offrirgli una cena in uno dei più antichi ristoranti della città. Più tardi, parlando dei vecchi ricordi italiani, quattro passi nel centro storico concluderanno la nostra breve esperienza nella capitale messicana.

PUEBLA
Ogni mattina alle sei in punto, nello zocalo avviene l’alza bandiera. La piazza è occupata da anni da operai che si alternano per chiedere al Governo riforme sostanziali per i lavoratori.
Il centro viene presidiato da numerose auto della polizia e dell’Esercito fino a quando una compagnia della Guardia Civil proveniente dal Palazzo del Governo dopo aver raggiunto il pennone e schieratasi, non avrà terminato la cerimonia.
Dopo l’esperienza di ieri, lasciamo Città del Messico di buon’ora per non rimanere imbottigliati nelle lunghe file del centro. Concordato il prezzo con un tassista e che diviso per sei quanti siamo è più conveniente dell’autobus, lasciamo la capitale per iniziare il nostro viaggio itinerante che in tre settimane ci porterà dopo circa 2000 km. sulla bianca spiaggia di Playa del Carmen.
Quasi subito la strada comincia a salire raggiungendo i 3000 m. offrendoci un paesaggio montano. In lontananza notiamo il vulcano Popocatepetl da qualche tempo ritornato in attività, che a intervalli irregolari emettendo qualche sbuffata, caratterizza un bianco pennacchio che si dissolve nell’aria.
La nostra meta è Puebla diventata in breve tempo la seconda città del Messico, ma una volta arrivati e depositati i bagagli in una posada, sfruttiamo la corsa del taxi per farci portare a Cholula, un paesino a circa 12 km., dove la nostra guida parla di una piramide che per grandezza risulta essere la più grande del mondo.
Posta a 2160 m s. m., sorge in un’ampia pianura ed è circondata da grandi coni vulcanici tra i quali spicca il Popocatepetl da poco risvegliatosi.
Dopo aver girovagato in cerca del sito archeologico, ci rendiamo conto che la chiesa che svetta su di una collina e dedicata a S. Antonio, e’ stata costruita proprio sopra la pirámide scoperta soltando nel 1930, e tuttora ricoperta da un manto erboso.
Durante la breve visita del paesino sottostante, notiamo come alcuni ragazzi armati di secchi e stracci, si diano da fare per racimolare qualche pesos, lavando a richiesta lungo la strada, le auto in sosta.
Una breve visita della cattedrale ci fa scoprire che i messicani, servi devotissimi della Beata Vergine, rappresentano l’immagine di Gesù in diversi modi, quasi mai in croce, e sempre in atteggiamenti diversi.
Cholula è poco più di un grosso villaggio, ed è tutto raccolto nel suo piccolo centro che racchiude la cattedrale e la grande piazza principale con i caffè sotto il lungo porticato, ai margini del grande parco ombroso, dove gli studenti si ritrovano all’uscita delle lezioni, e dove noi facciamo la conoscenza delle invitanti bancarelle di frutta esotica che viene servita in grossi bicchieri, e che rappresenta un ottimo e rinfrescante spuntino per tutte le ore.
Ritornati con un traballante mezzo pubblico, ci dedichiamo alla visita della città dapprima a bordo di un bus turistico per avere una visione d’insieme, e poi a piedi ritornando nei luoghi più interessanti.
Situata a soli 120 km. dalla capitale ma non sempre lungo le rotte turistiche, Puebla è la città più colorata del Paese, ricchissima di chiese (la leggenda narra che gli spagnoli ne costruirono 365 una per ogni giorno dell’anno), ed esemplare nell’ambito dell’architettura coloniale messicana.
La visita della città comincia dallo Zocalo dove si innalza la mole della Cattedrale capolavoro del barocco messicano, dall’interno sontuosissimo, ricca di quadri, di altari scolpiti, di mosaici ed intarsi.
In origine fu un convento divenuto famoso per le suore, cuoche rinomate, che diedero origine ad un succulento piatto a base di pollo e mole, una particolare e piccantissima salsa con un centinaio d’ingredienti dal gradevole e dolce sapore di cioccolata.
Trascorriamo oltre due ore ammirando le case dipinte a colori vivaci, le sue chiese, cappelle, balconi ricoperti di piastrelle smaltate e quando siamo sulla via del ritorno notiamo che nel frattempo sta già calando la notte. 
Anche quando ci troviamo a passeggiare dopo cena lungo le animate stradine della zona pedonale attorno allo zocalo, la città è avvolta da una magica atmosfera, circondata da un immenso gioco di luci e ombre che mettono in risalto le costruzioni settecentesche che fanno da cornice alla piazza.
Prendere un caffè al bar nelle prime ore del mattino, è una impresa impossibile in Messico, in quanto i locali aprono molto tardi. Le persone che si recano al lavoro di buon mattino però, possono riscaldarsi con bevande calde lungo la strada dove agli incroci stazionano dei venditori ambulanti con tricicli attrezzati per la vendita di latte e caffè bollenti.
Mentre osservo uno dei numerosissimi cani randagi molto amati dal popolo messicano, in cerca di qualche avanzo per terra, desta tenerezza la bimba seduta su un gradino in attesa che la mamma impiegata del comune e che sta spazzando la strada, l’accompagni a scuola.
Poco prima di lasciare la città, notato un certo tramestio nella piazza principale, notiamo che è in corso anche qui la cerimonia dell’alza bandiera alla presenza del sindaco della città e da una rappresentanza militare, civile e di alcune classi scolastiche.

Oaxaca
Oaxaca la nostra prossima meta, dista oltre 350 km. da Puebla, e non essendo economicamente conveniente con il taxi, proseguiamo il nostro viaggio itinerante a bordo di un bus della compagnia ADO, Autobus De l’Oriente, che con vetture di prima classe e a prezzi convenienti, permette di raggiungere ogni punto del Messico.
Il percorso si snoda lungo un’autostrada a due corsie, che attraversa grandi canyon ad altitudini tra i 2000 e i 2500 m. con interminabili saliscendi, curve e contro curve, sul dorso della Sierra Madre, che copre gran parte del territorio centrale messicano con paesaggi fantastici costituiti da profonde gole e pendii ricoperti da cactus, tra montagne che si sgretolano sotto il sole e alle brevi ma intense piogge.
Dopo circa sei ore di viaggio Oaxaca si presenta a noi distesa in una immensa spianata circondata da montagne che la proteggono dai venti ma al tempo stesso la rendono una città caldissima.
Una volta sopraggiunti al terminal, con un taxi raggiungiamo la posada che la guida indica nei pressi del centro.
L’alloggio tipico coloniale, è formato come del resto la maggior parte delle posade, da un cortile interno in giro al quale lungo una ringhiera si affacciano minuscole abitazioni che oltre al letto, sono dotate soltanto di una sedia per appoggiare gli indumenti. Il prezzo è molto conveniente, ma non bisogna ovviamente far caso se lenzuola o asciugamani presentino grossi buchi, l’importante è che siano puliti.
Mentre il resto del gruppo si riposa, vado alla ricerca di informazioni e alla scoperta delle adiacenze dell’albergo. Un paio d’ore più tardi ci ritroviamo tutti allo zocalo, una piazza straordinaria con al centro un piccolo giardino dove riposare su una panchina all’ombra di giganteschi alberi, e notiamo subito che anche a Oaxaca nonostante si respiri un’aria pura messicana, non c’è ombra di sombreri.
Il perimetro della piazza è formato dal Palazzo del Governo, con altri edifici annessi, e dalla splendida Cattedrale. Sotto le arcate di questi palazzi sorgono moltissimi caffè, ristoranti e chioschi che vendono mezcal, una specie di tequila che viene servita con un verme, ed altri prodotti tipici.
Più tardi, con un bus turistico facciamo il giro della città per scoprirne i punti più caratteristici. Trovandosi la città ad una altitudine di 1600 m., il caldo si fa sentire durante le ore centrali della giornata, ma per fortuna, la leggera brezza che spira lo rende sopportabile.
Sulle strette vie di questa cittadina coloniale si affacciano case basse con grandi finestre protette da grosse inferiate in ferro battuto. Tutta una serie di tonalità pastello che danno una visione quasi fiabesca di questa località.
Oaxaca capitale dell’omonimo stato che si trova nel Messico meridionale, risale al periodo azteco. Vivendo nel corso dei secoli in condizioni di particolare isolamento, gli ha consentito di conservare sino ai nostri giorni quella cultura e quelle tradizioni, oggi orgoglio della città, che si suddivide in due parti: la prima storica e più interessante, l’altra più moderna.
Il giro termina in concomitanza del calar del sole che infiamma le torri gemelle della Basilica della Soledad, attorno alla quale si danno appuntamento coppie di fidanzati e studenti.

Lo zocalo situato proprio nel cuore di Oaxaca è un luogo di ritrovo molto frequentato grazie al fatto che si presenta come una immensa zona pedonale. Qui si trovano i caffè e i ristoranti sempre affollati sia dalla popolazione locale che dai turisti. Sulla piazza si trovano il Palazzo del Governo, e la Cattedrale, i due principali monumenti cittadini.
La sera la piazza si anima di saltimbanchi, cantastorie, e mille altre persone, perlopiù indigeni che orbitano in cerca di qualche pesos che consente loro di mangiare e sopravvivere sino all’indomani.
Ci colpisce in particolar modo il gran numero di bambini, che poco più che infanti svolgono il loro lavoro di lustrascarpe o piccoli venditori quasi per gioco, comunque mai invadenti se rispondi che la loro povera merce non interessa, anche se, il più delle volte ti stringono il cuore e acquisti da loro qualcosa che non mangerai o non userai mai, certi però di averli in qualche modo aiutati.
Mentre siamo in un ristorante in attesa della cena, desta ammirazione una bambina che seguìta da un nugolo di fratellini, canta “Celito lindo” a squarciagola tra i tavoli, in attesa che qualche cliente la compensi con un uno o due pesos.
Proseguiamo la serata camminando lungo i viali alberati dello Zocalo e della grande piazza antistante la Cattedrale illuminata a giorno, in un clima gradevole e attorniati da decine di coloratissime bancarelle.

MONTE ALBAN
Dopo una riposante nottata, alle sette sono di nuovo in centro per godere del risveglio della città. Quando mi metto in fila per una bevanda calda, scopro che il latte servito non è fresco ma in polvere. Le strade sono un continuo brulicare di gente indaffarata nel ripulire marciapiedi e locali e rifornire negozi e mercati.
Oltre che per il suo folclore, Oaxaca è nota anche per un famoso sito archeologico situato a 2000 m. su uno sperone roccioso circondato da montagne, e che domina la città. Ci inerpichiamo quindi con un piccolo bus lungo una stradina costellata di favelas, fino a raggiungerne la vetta, dove troviamo la coreografia di alcune simpatiche scolaresche in visita alla zona monumentale.
Nato come centro cerimoniale, viene ribattezzato dagli spagnoli Monte Alban derivante da albino, per i fiori bianchi che durante la fine dell’anno rivestono gli alberi della zona trasformandola in una bianca montagna.
Il complesso cultuale emerge come una nave di pietra dalla vallata, delimitato da due alte piramidi e incorniciato da palazzi, piattaforme e un grande campo per il gioco della pelota, tutti costruiti sul ciglio del promontorio.
Il centro cerimoniale ed i palazzi costruiti sul ciglio del promontorio erano frequentati esclusivamente dai sacerdoti e dai nobili della società zapoteca.
Al centro dell’area sacra vi sono numerose strutture in pietra, tra cui un osservatorio, legato alla compilazione del calendario zapoteco che contava 260 giorni.
A ridosso delle piramidi numerose sono le stele raffiguranti immagini di giaguaro e di Cocijo, il dio della Pioggia.
Nel 1932 alcuni archeologi messicani fecero una scoperta clamorosa riportando alla luce una sepoltura, rimasta inviolata: al suo interno trovarono maschere e pettorali d’oro, perle, giade, ossidiane, turchesi, ambre, argenti e cristalli di rocca, miracolosamente sfuggiti alle avide mani dei conquistadores che avevano distrutto e saccheggiata la città. Il tesoro si trova oggi nel Museo Archeologico di Oaxaca.
Nel centro cerimoniale e lungo le pendici del promontorio, durante il proseguimento degli scavi sono state scoperte altre duecento tombe, di cui alcune ancora inviolate, colme di ricchi corredi funerari.
La visita si protrae per oltre due ore mentre il sole che picchia perpendicolare sulle nostre teste nella parte centrale della giornata ci costringe a riparare sotto una delle ombrose piante.
Quando facciamo ritorno in città, scopriamo che esiste un solo autobus che fa servizio verso la nostra prossima meta, viaggia solo di notte, e per questa sera ha solamente sei posti liberi, giusti quanti siamo.
Prenotati i biglietti proseguiamo la visita della città il più a lungo possibile, visto che trascorreremo la notte in viaggio.
La scelta per il pranzo cade in uno dei chioschi del mercato coperto, dai quali escono i forti odori della cucina oaxaquena e dove i colori vivaci sembrano rendere tutto molto più appetitoso. Piatti semplici come pollo in salsa di cumino accompagnati dall’immancabile purea di frioles,.
Il “Benito Juarez” e il “20 de novembre” sono i due più importanti mercati coperti della città. Nel primo, dedicato in gran parte alla vendita del pane e dei dolciumi in genere, trova luogo una serie di piccoli punti di ristoro quasi esclusivamente per quei contadini che arrivano dalla campagna per vendere la loro merce o per acquistare qualche prodotto. I prezzi sono molto popolari, per un piatto caldo e una birra si spendono 20 pesos, meno di un euro e mezzo. Ed è qui che assaggiamo per la prima volta le chapulines, le cavallette e i grilli abbrustoliti in una salsa di chili che sono considerati una prelibatezza.
Proseguendo la visita nel Benito Juarez, rimaniamo sorpresi quando ci troviamo nella zona della carne asada. Anche qui le tinte dominano la scena. Coloratissime verdure fanno da cornice a piatti di carne alla brace in un ambiente reso saturo dal fumo e dall’odore che emanano i numerosi bracieri sui quali stanno arrostendo bistecche e salsicce.
Il secondo mercato è dedicato in parte alla vendita di verdure e frutta esotica delle quali i messicani dato il basso costo, ne fanno un grande consumo, mentre un reparto è dedicato a stoffe e souvenir, di cui la città è conosciuta per la buona produzione di oggetti artigianali. Terminiamo infine, girando tra i banchi delle spezie dalle forti colorazioni che sprigionano piccanti odori nell’ambiente.
All’uscita dal mercato ci imbattiamo in una simpatica figura che ritroveremo in seguito in tante altre città. Si tratta del Dr. Simi, una simpatico omone che passeggia davanti ad una farmacia invogliando i passanti ad entrare per acquistarne i prodotti. Nelle farmacie messicane oltre alle medicine si può acquistare di tutto: dalle sigarette ai francobolli, dai cosmetici ai prodotti per la casa.
Ma Oaxaca è famosa anche per la produzione della cioccolata. Attorno ai due principali mercati, in numerose botteghe dalle condizioni igienico-sanitarie che lasciano a desiderare, ma questo in tutto il Messico è un opzional, lungo la strada si può notare la lavorazione mentre i proprietari invitano i passanti ad entrare e assaggiarne i prodotti.
Prima di ritornare a recuperare i nostri bagagli, facciamo un ultimo giro nella piazza principale che nel pomeriggio è particolarmente affollata.
Notiamo una simpatica forma di protesta di alcune scolaresche durante una lezione a cielo aperto impegnate nello studio della lingua inglese, mentre alcuni cartelli ne reclamano l’insegnamento nelle scuole, al momento assente.
Dall’altra parte della piazza, sotto i freschi platani e le coloratissime bouganville, quando cala il sole si ritrova un piccola folla per ascoltare mentre si sorseggia il quezal, le note di un gruppo di musicisti che intrattengono ogni giorno quanti si trovino a transitare per la piazza.
Veniamo a sapere infine che il due novembre, quando in Italia si commemorano i defunti, in questa piazza c’è aria di festa, si celebra “El dia de los muertos”. La più spettacolare e sentita festa della popolazione indigena nel corso della quale nello zocalo sfilano decine e decine di bambini travestiti da morti, scheletri o con maschere di carta pesta, mentre in ogni locale, albergo o locanda della città, viene eretto un altarino ornato da fiori, frutta, cibo, cioccolata per ricordare i loro cari scomparsi.
Verso sera, pensiamo di aver visto ormai quasi tutto quanto c’era da vedere, e con un taxi raggiungiamo il terminal degli autobus.

Alle nove, quando è ormai notte partiamo alla volta di San Cristobal. Trascorriamo la prima parte del viaggio consumando la cena che ci siamo portati, poi dopo aver svogliatamente assistito ad una parte del film trasmesso sul monitor, ci mettiamo a dormire.

SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS
Per la verità dopo una tenue resistenza, ho convinti i miei compagni a seguirmi lungo la traccia del programma di massima che avevo prestabilito, in quanto non erano molto persuasi di visitare il Chiapas e di viaggiare di notte, dopo aver letto sulla guida che spesso i bus di prima classe vengono attaccati per derubare i turisti.
Naturalmente viaggiando di notte non riusciamo a vedere nulla, ma la planimetria e gli scossoni indicano la prima parte del percorso tutto curve.
Dopo la fermata di Tuzla Gutierrez dove oltre la metà dei viaggiatori scende mentre abbiamo la possibilità di bere un caffè, riprendiamo il viaggio, apprestandoci ad assistere al sorgere del sole.
L’autobus percorre una strada che spesso sfida le leggi delle fisica per le pendenze che raggiunge, mentre sul fondo della valle in lontananza si notano le luci di Tuzla.
Man mano che la luce si diffonde, notiamo uno dei più bei paesaggi finora incontrati. Stiamo entrando nel cuore del Chiapas, lo stato a mio avviso più bello del Messico. Continui saliscendi e ripide salite ad una altitudine di oltre 2500 m. tra boschi di conifere dove a tratti sembra quasi di ammirare il paesaggio dal finestrino di un aereo.
Attraversiamo minuscoli villaggi composti da semplici baracche di legno e muratura, in uno dei quali notiamo già alle prime luci dell’alba gli abitanti con dei colorati costumi affollare il piccolo mercato lungo uno spiazzo ai bordi della strada.
A tratti, l’effetto della nebbia rende il paesaggio ancora più surreale mostrando avvallamenti che come per incanto sembrano essersi trasformati in laghi, fino a quando giungiamo ad una altitudine dove la nebbia rende il percorso molto pericoloso.

Alle sette giungiamo a San Cristobal de Las Casas una cittadina posta a 2250 m. nel cuore del Chiapas. Trovato subito un albergo in prossimità del terminal, il desiderio è di riposare qualche ora ma scopro che in un paesino a 15 km. di distanza proprio questa mattina avverrà una coloratissima cerimonia religiosa più mistica che cattolica in favore del Santo Patrono, un boccone troppo ghiotto che anche i miei compagni, chi già sotto la doccia e chi disteso nel letto, non vorrebbero lasciarsi sfuggire.
Noleggiata un’auto in compagnia di Eric el rocho, come si fa chiamare per i suoi rossi e inusuali capelli, ci dirigiamo verso San Juan de Chamula.
Quando scorgiamo il paese dall’alto, Eric si ferma per farci notare il cimitero davanti ad una vecchia chiesa diroccata, dove i colori delle croci sparse in un esteso campo, stanno ad indicare l’età delle persone decedute: il rosa per i bambini, il verde per gli adulti e il blu per le persone anziane.
Mentre stiamo per entrare in paese, ci fa notare quanto la donna non sia tenuta in alcuna considerazione, deve camminare sempre dietro al marito, e non ha il diritto al voto. Eric si raccomanda di non fotografare le persone perché molto suscettibili, ma soprattutto di nascondere la macchina fotografica quando entreremo in chiesa.
Non avendo ancora avuto il tempo di bere un caffè dal nostro arrivo, riusciamo a fare colazione in quello che è considerato l’unico locale che funge da bar, ristorante e spaccio del paese. Ma l’unica cosa che riusciamo a farci servire, sono delle uova con fagioli, comperate appositamente per noi nel mercatino del paese.
La pausa ci consente di catturare alcune immagini di questo insolito paesino. Attorno alla piazza principale, le vie non asfaltate ospitano polli, cani ed altri animali della comunità. I bambini, che comprendono solo il dialetto indigeno, guardano con curiosità chiunque non abbia i loro tratti somatici.
Gli uomini a seconda del grado sociale, indossano un pastrano di pelle di pecora nero, mentre altri di colore bianco, ne indicano il livello più elevato. Le donne come del resto le bambine, sono avvolte da gonne di pelle di pecora nera o marrone e si coprono le spalle con coloratissimi scialli che il più delle volte serve per portare un bebè.
Ci avviciniamo così davanti alla chiesetta ornata da bandierine color pastello per osservarne con meraviglia l’interno, deponendo la telecamera nell’apposita custodia in quanto assolutamente proibito, mentre l’immagine che scorre è dell’unica cartolina trovata, che non riuscirà mai a dare una idea di quanto si trovi oltre la soglia.
Per poter visitare la chiesa e scattare foto della piazza bisogna munirsi di un apposito permesso rilasciato dal Comune. Prima di entrare, Erik ci spiega il perché davanti alla chiesa si trovi un distributore automatico di coca cola. Della bevanda gassata, i chamulani fanno un grande consumo perchè nella loro cosmografia, aiutando a eruttare, scaccia gli spiriti maligni che risiedono nei loro corpi.
Varcato il portone rimaniamo sbigottiti. L’ambiente dentro la chiesa è quanto di più incredibile si possa immaginare, da altissime finestre entrano fasci di luce che squarciano la penombra mentre le candele e i lumini sparsi dappertutto creano un’atmosfera lugubre e al tempo stesso magica.
Il posto principale della chiesa è occupato dall’immagine di San Giovanni Battista venerato dai chamulani ancora prima di Cristo che si trova più in basso. Le immagini dei santi sono circondate da specchi e addobbate con vesti sacre.
Non vi sono banchi ne sedie. Sul pavimento, completamente ricoperto da aghi di pino messi li a purificare, giacciono offerte di cibo: uova, biscotti, polli mentre interi gruppi famigliari pregano inginocchiati o distesi, accendendo davanti a loro piccole candele colorate.
L’aria è così satura dal fumo dell’incenso e di altri odori che è quasi irrespirabile. In un estremo bisogno di contatto con le varie divinità, alcuni uomini e donne cadono in una sorta di vigile trance grazie anche all’effetto tra una preghiera e l’altra di un forte liquore estratto dal mais.

Ci sono i curanderos, che spalmano con uova i corpi dei pazienti, li sfregano con ossa o agitano sopra di essi polli vivi per assorbire la malattia che può inoltre venire espulsa dalla bocca, facendo largo uso di Coca Cola la quale inevitabilmente facilita lo scopo producendo grandi quantità di gas.

Altre pratiche prevedono l’ aspersione  del liquore sulle statue dei santi ai quali viene chiesta l’intercessione per la soluzione di gravi problemi, mentre una speciale accortezza è dedicata al colore delle candele che possono essere: bianche per problemi personali, verdi per l’entità della foresta, rosse per le ferite di sangue, marroni per i problemi di raccolto e nere per il pericolo di morte.
Ma quanto è successo subito dopo il nostro ingresso ci ha scioccati. Una persona del gruppo che entrata con la machina fotografica in mano ha scattata una foto dell’interno contravvenendo alle rigidissime regole di questo popolo, è stata assalita dalle donne indigene che la indicavano agli uomini di guardia rischiando per la sua stessa incolumità.

Fatte intervenire due guardie armate di arrugginiti archibugi, sempre all’interno della chiesa è iniziata una lunga trattativa di scuse con la popolazione mentre Eric che ci accompagnava pregava i non interessati di allontanarsi per non irritare ancora di più quanti si erano avvicinati, e rimanendo con la persona sotto accusa la consigliava di continuare a scusarsi.
Per gli indigeni la macchina fotografica è considerato un elemento del male capace di rubare loro l’anima. Nessuno si fa fotografare, e un cartello posto proprio all’ingresso del villaggio mette in guardia gli sparuti gruppi di turisti che si sono avventurati fino a qui che è severamente vietato scattare foto. Figurarsi fotografare i loro santi. Dopo mezz’ora di trattative accompagnate da sentite scuse e la consegna del rullino, grazie alla mediazione di Eric riusciamo a lasciare il paese.
Ci avviamo quindi verso Zinancantan il paese dove avviene la cerimonia religiosa. In paese è assolutamente proibito fotografare la cerimonia esterna, e le uniche immagini sono state riprese da lontano su di un promontorio.
L’ambiente è ancora più invasato, gruppi di giovani eccitati sotto l’effetto della tequila scorrazzano in su e in giù per il paese sopra i furgoni della polizia locale, non si sa bene in cerca di che cosa.
Riusciamo a vedere scene incredibili di gran sacerdoti locali avvolti in pittoreschi mantelli scambiarsi innumerevoli inchini e strette di mano mentre tutto intorno è un continuo sparo di mortaretti e lancio di fuochi artificiali in pieno giorno.
Mentre ci allontaniamo dalla piazza, diamo uno sguardo indiscreto alle abitazioni lungo la strada. L’ambiente non è molto cordiale e quando incrociamo gli sguardi del popolo vestito a festa ci rendiamo conto di essere degli intrusi. Pertanto facciamo ritorno verso l’auto.
Ritornati a San Cristobal, dopo un paio d’ore di riposo e quando i raggi del sole cominciano ad affievolirsi, ci dedichiamo alla visita della graziosa cittadina.
San Cristóbal de Las Casas, sembra essere fuori luogo in questa parte del sud-est messicano. Un decennio di insurrezione zapatista ha riempito i nostri telegiornali e le cronache, di immagini piene di passamontagna, di mitra e di indios dai volti celati.
La città che oggi accoglie i turisti, ha lasciato solo qualche piccola traccia di tutto ciò. Vista dallo Zocalo, il cuore del centro storico, San Cristóbal dà il senso di una città tranquilla dove ci si può veramente riposare.
Le vie in giro al centro formano una zona pedonale con case basse e colorate tipiche coloniali, con alberghi e piccole botteghe che vendono un po’ di tutto: dal pane alla scheda telefonica.
Intorno a una delle più vecchie chiese, ha luogo un mercatino permanente ricco di bancarelle che vendono artigianato variopinto e dove si incrociano una confusione di lingue e tratti somatici.
Mamme ancora minorenni, ma soprattutto i loro bambini, vendono lungo le strade piccoli souvenir, sigarette o dolciumi, mentre altri spensieratamente si inventano i giochi più strani.
Nella grande piazza antistante la cattedrale e di lato al Palazzo del Governo, sotto una grande croce una famiglia cerca di attirare l’attenzione dei passanti protestando per le condizioni in cui vivono i contadini del Chiapas.
Verso sera, visitando una chiesa, notiamo che sono in corso dei preparativi. Veniamo a sapere che alle sette ci sarà la cerimonia chiamata quinse agnos o quindici anni. Decidiamo di attendere e all’ora stabilita ecco apparire i partecipanti della festa.
In Messico il detto: “buttare la casa dalla finestra”, equivale al nostro modo di dire: non badare a spese. I messicani non badano certo a spese quando si tratta di cerimonie, e quella dei Quince Agnos, o 15 anni, è importante quanto quella del matrimonio. Le famiglie si svenano per celebrare i 15 anni delle loro figlie femmine, che a questa età vengono presentate alla Società e possono quindi sposarsi. Ciò avviene regolarmente, e l’anno successivo si ritrovano già madri del primo di una lunga schiera di bambini.
Tali cerimonie avvengono di sera e le giovani sono accompagnate all’altare dai fratelli che nell’ordine di età staranno poi al loro fianco, seguiti in seconda fila dai genitori. Naturalmente a seconda delle possibilità, ci saranno decine e decine di invitati, e la cerimonia sarà accompagnata da un semplice organo suonato da un famigliare oppure da un gruppo di suonatori.
Oggi sabato, nel giro di un’ora abbiamo avuto l’opportunità di assistere per qualche minuto ciascuna a tre di queste cerimonie, notando tra l’altro lo sfarzo di una svoltasi nella Cattedrale con centinaia di invitati, e quella più modesta tenutasi in una chiesetta, ma tutte dello stesso valore spirituale.
Trascorriamo la serata in uno dei più rinomati locali del centro dove assaporeremo alcuni piatti della cucina locale accompagnati dalle note dello xilofono che intona vecchie musiche messicane.
CANYON SUMIDERO
Davanti alla chiesa fin dalle prime ore del mattino viene distribuito del latte caldo alle persone che si apprestano ad assistere alla prima santa messa domenicale. Subito dopo la funzione religiosa, un gruppo di fedeli segue l’effige della Madonna che viene trasportata per le strade della città mentre alcuni ragazzi fanno esplodere dei mortaretti al suo passaggio.

Oggi abbiamo in programma una escursione in barca lungo un canyon a circa un centinaio di km. da San Cristóbal. Ripercorriamo praticamente a ritroso parte della strada fatta in salita da Tuxla Gutierrez di notte.

La strada in forte discesa, è naturalmente molto pericolosa, e lo dimostrano le numerose croci che vi si incontrano sul ciglio di profondi precipizi. Scendiamo velocemente quindi di quasi duemila metri incontrando paesaggi meravigliosi e notando le piccole baracche di legno dove vivono i contadini, seminascoste nel verde.

Quando siamo all’altezza del canyon, l’autista si ferma appositamente per noi lungo l’autostrada che attraversiamo velocemente dirigendoci verso l’imbarcadero.

Dopo aver indossato i giubbetti di salvataggio partiamo con una lancia a motore verso il canyon. Si viaggia a forte velocità sobbalzando sulle onde provocate da altre lance in senso contrario. Dato il giorno festivo, con noi viaggiano molti messicani, provenienti dalle zone limitrofe.

Lungo il fiume la vegetazione è delle più varie: salici, palme, sugheri ed eucalipti. Il pilota della lancia ogni tanto accosta il natante alle sponde per mostrarci alcune specie di uccelli: aironi, cicogne ecc. e tra i quali spiccano per il loro colore nero corvino alcuni avvoltoi.

Un’altra sosta si necessita sotto altissime piante per vedere alcune scimmie rincorrersi tra i rami. Dopo aver superato il punto più profondo, dove le pareti scoscese raggiungono i 1200 m., scrutando in lontananza individua qualcos’altro di interessante, e dopo aver messo il motore al minimo ed essersi avvicinato ad una sponda, ci fa notare alcuni coccodrilli immobili al sole.

Altre curiosità lungo il percorso sono rappresentate da una piccola grotta dove una stalattite a forma di cavalluccio marino pende a mezza altezza, e un’altra detta dei colori, per via di alcune colate dovute ad infiltrazioni piovane e dove una statua della Madonna domina sul fiume.

Un altro dei punti interessanti è l’Arbol de la Navidad, chiamato così proprio perché la forma assunta dalla roccia modellata dall’acqua, è quella di grosse fronde e rami simili all’abete.

Dopo oltre un’ora, arriviamo infine al giro di boa del nostro percorso in corrispondenza della grande diga costruita nel 1980, la cui centrale idroelettrica alimenta tutta la regione circostante

CHIAPAS DE CORZO

Un messaggio via cellulare di due ragazzi conosciuti a Città del Messico ci avverte che oggi a Chiapas de Corzo, un paesino a qualche chilometro dal canyon, ci saranno dei festeggiamenti in onore del Santo patrono.

Con un piccolo taxi quindi dove entriamo stipati in sette compreso l’autista, raggiungiamo indisturbati il centro del paese. Data l’ora, il pueblo si trova a mangiare lungo gli stand allestiti attorno alla Cattedrale.

Camminando per raggiungere il centro del paese, sbirciando dentro le abitazioni notiamo che bambini e adulti, si stanno mascherando con lo stesso tipo di costume.

Per le vie del centro la popolazione sfila suonado e ballando. Gli uomini indossano dei coloratissimi costumi. Sul volto portano una maschera che raffigura il Patrono Santo Domingo, coperta da un copricapo spugnoso a forma di fungo, mentre la rappresentanza femminile fa bella mostra di appariscenti e sgargianti abiti a fiori camminando per le strade in festa.

La cattedrale è aperta al pubblico che scorre all’interno soffermandosi a deporre grossi mazzi di fiori sui vari altari.

Tutto intorno alla chiesa è un luogo di ristoro con grossi bracieri sui quali si arrostiscono polli e grossi pezzi di maiale. La gente mangia e beve in un clima festoso accompagnata dalla musica diffusa da grossi altoparlanti.

Dopo un paio d’ore mentre non pochi sono quelli senza voce per avere inneggiato al Santo, lasciamo la festa e saltiamo su uno scassatissimo bus locale, che ci lascia più o meno nello stesso punto dove siamo arrivati.

Trascorsa una mezz’ora, riusciamo a bloccare un autobus di linea, che una volta individuati come stranieri, si ferma e ci fa salire nonostante non vi sia alcuna fermata lungo il percorso. Guardando dal finestrino sulla via del ritorno, notiamo come i contadini riescano a coltivare il mais a queste altitudini e in zone addirittura pietrose.

Ritornati a San Cristobal vengo seguito da un bambino che chiede di potermi lucidare le scarpe. Sono tentato di regalargli i cinque pesos. In Italia sarei arrestato per sfruttamento del lavoro minorile, qui invece aiuto un bambino a guadagnare dignitosamente qualche soldo perchè possa mangiare e dare una mano ai suoi genitori nonostante abbia soltanto otto anni.

GUATEMALA

La nuova settimana comincia con una levataccia. La strada principale è già trafficata mentre la giornata si preannuncia molto calda. Dopo una fugace colazione e caricati i bagagli, partiamo verso la nostra nuova destinazione.

A dire il vero, per diversi motivi tra i quali l’insicurezza e la stanchezza, c’è stata un pò di sofferenza nel fare accettare ai componenti del gruppo questa trasferta. Ma ieri sera, dopo aver contrattato per un pullmino e raggiunta una intesa sancita da una cena in uno dei più rinomati locali di San Cristobal, eccoci in viaggio verso il Guatemala.

Il primo tratto di strada verso la frontiera che dista circa 200 km., a causa del caldo e la ristrettezza degli spazi, si rivela piuttosto faticoso, anche per lo scarso interesse paesaggistico, costituito all’inizio da sottoboschi che si vanno sempre più diradando lasciando spazio a pianure assolate.

Lungo il percorso attraversiamo un solo grosso centro dove l’attenzione viene attratta dalla chilometrica fila davanti alla banca, di persone che ne attendono l’apertura. Per il resto solo alcune case che costituiscono piccoli villaggi ai bordi dell’unica via verso il Guatemala.

Quando ci fermiamo per il controllo di eventuali clandestini o armi a bordo qualche chilometro prima del confine, il paesaggio in lontananza ritorna a farsi interessante, ma non abbiamo il modo di contemplarlo perchè siamo ormai a ridosso della frontiera.

Le auto messicane non possono oltrepassare la frontiera del Guatemala. Ne sanno qualcosa gli sprovveduti turisti stranieri che privi di informazioni, noleggiata un’auto in Messico si sentono rifiutare il transito e sono costretti a lasciarla al confine, noleggiandone una dalla parte opposta o devono rinunciare tornando indietro.

Cio’ avviene anche per i pullmini delle agenzie che una volta arrivati, scaricano i passeggeri che dopo aver ottenuta l’immigrazione, attraversano a piedi la frontiera e si dirigono verso altri mezzi che i corrispondenti guatemaltechi mettono a disposizione oltre la sbarra.

Una volta varcato il confine ci troviamo all’improvviso in una sorta di enorme mercato permanente dove gli abitanti dell’una e dell’altra parte hanno la possibilità di acquistare merci destinate alla grande distribuzione interna. Numerose sono le persone che tra le bancarelle, si offrono per cambiare dollari ed euro.

Il primo impatto con il nuovo Paese ci lascia un pò perplessi. Il fatto è dovuto forse alla stanchezza, al caldo, alla discarica a cielo aperto incontrata non appena lasciata la zona di confine a ridosso delle abitazioni, e le quattro ore di viaggio che ancora ci attendono prima di giungere a destinazione.

Ma ben presto il nuovo paesaggio da subito molto interessante e le spiegazioni che Gustavo, il nostro nuovo autista e tour operetor ci sta dando su quanto troveremo e visiteremo nei prossimi giorni, riporta su di giri l’atmosfera all’interno della vettura che arranca lungo ripide salite.

Subito ci fa notare a lato della strada, davanti alle modeste abitazioni i contadini stendere il caffè ad asciugare su capienti stuoie. La pianta germoglia lungo le scarpate della carreggiata che a queste altitudini risulta essere di ottima qualità.

Il percorso tutto curve e disseminato di croci si snoda in una sorta di canyon lungo l’unica strada camionabile, stretta e con numerosi rallentamenti che fungono da deterrente per chi volesse correre.

Man mano che saliamo di quota il paesaggio montano si colora sempre più di tinte accese, e quando raggiungiamo il passo posto a 3200 m. siamo in prossimità di un villaggio, punto di confluenza e smistamento dei coloratissimi mezzi di trasporto nazionali che si diramano verso ogni angolo del Paese.

Superato il passo cominciamo a scendere, ma resteremo comunque oltre i 2000 m. Gustavo ci fa notare quello che sarà il nostro punto di riferimento, un vulcano di oltre 4000 m. in attività, uno dei quattro che circondano il luogo dove siamo diretti e che stiamo aggirando lungo l’unica grande arteria che attraversa le montagne.

Durante l’interminabile discesa verso il lago un fatto curioso è rappresentato dai cani, in attesa sul ciglio della strada, di qualche boccone lanciato dalle auto in corsa. I messicani, amanti di tali bestiole, acquistano appositamente del cibo che gettano loro per sfamarle. Notiamo infine che da svariati chilometri, tutto il percorso è adornato da fiori violacei: i chichen, che originano i nomi di alcuni villaggi che attraversiamo.

Verso le cinque, dopo dieci ore di viaggio soste comprese arriviamo in vista del lago Atitlan, una delle maggiori attrazioni e luoghi di villeggiatura del Guatemala a circa 150 km. dalla capitale. Ci soffermiamo per dare uno sguardo panoramico sotto di noi e a quella che sarà la nostra base per i prossimi quattro giorni.

Quando poco più tardi arriviamo a Panajacel le donne del gruppo si lanciano alla ricerca di un albergo. Sarà Lilla ad avere la meglio sull’albergatore al quale dopo una estenuante trattativa, gli strapperà per 42 Euro a coppia in totale, un soggiorno per quattro notti con internet gratuito.

ATITLAN

Panajacel che i guatemaltechi hanno ribattezzata Gringotenango o luogo di stranieri per l’alto numero di forestieri che vi si sono insediati, è costituita da una strada lunga poco più di un chilometro, dove vengono svolte le varie attività e dove scorre la vita tranquilla della gente del luogo.

Alle prime ore del mattino nel centro del paesino affluiscono le corriere dalle località limitrofe per lo scambio dei passeggeri diretti per lavoro verso i grossi centri.

Ma ciò che rende più vivace l’atmosfera del luogo sin dal mattino, sono i nugoli di scolari che affollano la strada a piedi o in bicicletta per recarsi a scuola. Alcuni di essi; i più piccoli accompagnati in bilico sulle due ruote dai genitori, altri, la maggior parte, arrivano da soli.

Il cancello della scuola, costituita da un grande piazzale attorno al quale si affacciano minuscole aule, apre puntualmente alle sette per consentire ai ragazzi di giocare e scaricare tensioni prima dell’inizio delle lezioni.

Ma altrettanto puntale è il custode che nel richiudere l’inferiata, impedisce l’ingresso a quei bambini che anche per solo un minuto, a causa dei più svariati motivi arrivano in ritardo, e che con grande delusione restano esclusi dagli studi.

Ieri sera con Gustavo abbiamo concordato per un pacchetto di escursioni dei posti più interessanti quali: la visita di alcune comunità sulle rive del lago, il trasferimento ad Antigua e un’escursione a Chichicastenengo, un piccolo paese dove due volte alla settimana si svoge un coloratissimo mercato.

Per dare un’idea dei costi in questo luogo di villeggiatura, basti pensare che la barca che abbiamo noleggiata con tanto di capitano e rimarrà a nostra disposizione tutto il giorno scorrazzandoci da un punto all’altro del lago è di 24 euro da dividere in sei.

Le acque di Atitlan, immensa conca posta fra tre vulcani, venivano venerate dai Maya che lo considerano tuttora un luogo sacro. Lungo il suo perimetro sono sorti paesi dalle comunità più disparate: insediamenti hippy, centri di meditazione, roccaforti maya e comunità spirituali, convivono confrontandosi tra una riva e altra.

La prima località che tentiamo di visitare è San Marco, un paesino con un’unica strada ripidissima, e lungo la quale si può solo andare a piedi in quanto non esistono macchine che possano trasportarci.

Ma dopo aver camminato mezz’ora tra piante di avocado e banani, lungo una salita che ci toglie il respiro, notando il paese ancora lontano, all’ennesima curva dalla quale osserviamo uno splendido panorama, ci fermiamo a prendere fiato e ritorniamo verso la barca con l’intento di proseguire verso paesi situati su alture più lievi.

Durante il trasferimento, complice la bellissima giornata calda la cui brezza del lago rende ancora più piacevole, notiamo le stupende case che facoltosi uomini di affari e politici, possiedono sui punti più belli attorno al lago.

Lungo le sponde vediamo donne impegnate nel fare il bucato mentre alcune ragazze senza fare troppo caso alla nostra curiosità, si lavano i neri e lunghissimi capelli nelle acque del lago.

Poco più tardi, giungiamo nel paesino di San Pedro che orde di hippy, tra gli anni 60’ e 70’ hanno invaso stravolgendone l’aspetto.

L’atmosfera che troviamo a San Pedro è molto diversa. Arrampicato su di un pendio scosceso, circondato da piantagioni di caffè e con il vulcano omonimo che incombe, San Pedro ha un’apparenza meno solare. Una sola strada si inerpica per la salita mentre un sole cocente picchia quasi perpendicolare sulle nostre teste.

I vari paesi disseminati attorno al lago, sono collegati via terra da strade percorse dai caratteristici autobus multicolore che una volta arrivati nel centro dei villaggi devono districarsi tra innumerevoli manovre che gli esperti conduttori dimostrano di saper affrontare con abilità.

Camminiamo tra negozietti di articoli di artigianato locale e odori di platanos, le banane che una signora sta cocendo sulla griglia e che non resistiamo dall’assaggiare, fino a raggiungere la piazza principale dominata dalla chiesa in stile coloniale, al centro della quale si staglia una inconfondibile statua raffigurante un simpatico San Pedro che tiene in mano le chiavi del paradiso.

All’uscita, notiamo alcuni uomini vestiti con pantaloni che arrivano al ginocchio, con delle righe verticali bianche e blu, camicia bianca e cappello con una grossa falda, e che rappresentano i costumi che un tempo indossavano coloro i quali ancora oggi vengono chiamati i dottori, i discendenti dei maya che officiano messe e praticano riti propiziatori.



Uno sguardo degno di attenzione viene dedicato al piccolo mercato che ogni giorno si svolge nel paese dove sostiamo per rinfrescarci con una spremuta di arance e frutta tropicale. Quì abbiamo avuto modo di conoscere l’ospitalità della gente del posto quando fatta richiesta di una toilette, una ragazza non ha esitato nel farci accomodare nella sua modesta abitazione.

Dopo circa due ore ritorniamo all’imbarcadero dove arrivi e partenze si alternano continuamente. Una volta a bordo il nostro capitano punta la piccola ma veloce imbarcazione verso il villaggio di Santiago.

Durante la nostra visita a San Pedro, abbiamo scoperto che lavarsi nelle acque del lago è una consuetudine non solo per la gente del luogo, ma anche per i turisti, in quanto l’acqua non arriva nelle abitazioni povere, mentre quella cosiddetta purificata viene venduta in grossi contenitori da 30 e più litri.

A duemila metri di altitudine l’aria è tersa. Nel cielo azzurro si stagliano i contorni dei crateri dei vulcani che si rincorrono lungo il perimetro del lago, intorno un’esplosione di verde, piantagioni di caffè, canneti. La brezza che arriva dal lago à davvero piacevole, anche perchè è quasi mezzogiorno e nonostante l’altitudine fa molto caldo.

Quando stiamo per raggiungere il porticciolo di Santiago notiamo in lontananza una moltitudine di persone concentrate in una parte della spiaggia ai piedi del paesino. Osserviamo che a distanza di pochi chilometri i costumi sono diversi da quelli di San Pedro. Il nostro amico guatemalteco ci informa, che gli indumenti identificano il gruppo e la comunità da cui proviene chi lo indossa; pertanto l’abito tradizionale dai vivaci colori si presenta diverso di villaggio in villaggio.

La curiosità ci porta a scoprire che il pueblo, il popolo di un villaggio dell’entroterra è arrivato sin qui per una cerimonia battesimale nelle acque del lago.

Oggi non è un giorno festivo e nemmeno la ricorrenza di festività. Il popolino si mostra molto cordiale con noi, le persone si lasciano fotografare volentieri, e rimangono addirittura sbalordite nel rivedere i loro visi felici sul monitor della telecamera.

Ci rendiamo conto che per loro è un grande giorno di festa. Per dare risalto all’avvenimento, gli uomini si lasciano fotografare con i piedi nell’acqua dove è avvenuto il battesimo, da un fotografo fatto venire al seguito del popolo.

Più tardi festeggeranno con un grande picnic, mentre i grossi camion con i quali sono arrivati verranno adibiti a luoghi dove riposare prima della partenza.

Proseguiamo verso il centro di Santiago anche qui lungo una stradina in leggera salita fino a raggiungere lo zocalo, la piazza principale, attraversando alcune vie dove un mercato viene improvvisato ogni giorno lungo i marciapiedi.

Molto caratteristici sono i costumi indossati dalle varie etnie che convivono in questa zona, e lungo la stradina che dal lago sale verso il centro del paese, se ne possono distinguere in un ampio campionario.

Nella chiesa di Santiago di Atitlan, sono conservate alcune statue lignee prodotte da artisti locali. Tra queste si trova la figura di Gesù, ravvisata come un cowboy con tanto di stivali. Ciò che ci ha più colpiti però, è stata la particolare venerazione verso San Giuda, sotto le cui spoglie in realtà si manifesta una temuta divinità locale chiamata Maximón, che durante la settimana Santa viene portata in processione, con gran dispiacere del prete locale che nulla ha potuto negli anni, per sradicare questa credenza. 

Quando lasciamo Santiago, si è già levato lievemente lo Xocomil, il vento che nel primo pomeriggio spira regolarmente e incomincia ad increspare la superficie delle acque. Ci portiamo quindi dalla parte opposta del lago, e quando raggiungiamo il villaggio di S. Antonio, l’aria intorno a noi emana un forte odore di cipolla.

Il mistero viene subito svelato alla vista dei numerosi terrazzamenti coltivati tutti a cipollotti, ingrediente indispensabile per quasi tutte le ricette della cucina locale.

L’aumentare delle onde sul lago, ci induce però a rinunciare alla visita del paese preferendo rientrare per godere del caldo sole sulle rive di Panajacel.

Rimessi i piedi a terra, ci mettiamo alla ricerca del ristorante sul mare ove trascorrere la serata. Seguirà una passeggiata tra le bancarelle dei negozi a cielo aperto lungo la via principale che a quest’ora si anima per il rientro dei turisti dalle varie escursioni.

La vita notturna a Panajacel infine, è costituita da una breve passeggiata tra le luci dei ristoranti e bar, mentre la popolazione locale si riversa sulla strada per mangiare un boccone presso i chioschi illuminati che emanano appunto, un forte odore di cipolla fritta.

ANTIGUA

La nostra seconda escursione è dedicata alla città di Antigua. Partiamo con le prime luci dell’alba in quanto la nostra meta dista tre ore di auto dal lago. Le distanze in Guatemala come del resto in Messico vengono colmate con enormi perdite di tempo non tanto per i chilometri, quanto per i rallentamenti dovuti alle “Topes” le particolari cunette in cemento.

Lungo la strada contadini dai volti assonnati attendono un mezzo di passaggio per recarsi al lavoro nei campi.

La Panamericana, è l’unica arteria che proveniente dal Messico, attraversa il Guatemala e conduce alla capitale. E’ particolarmente trafficata, e molto spericolati si dimostrano i vari conduttori di camion e auto, ma soprattutto quelli di autobus che effettuano sorpassi da brivido per giungere in orario.

Centinaia sono le croci ai bordi della nazionale a testimonianza di gravi incidenti, uno in particolare avvenuto poco tempo fa, quando un autobus precipitato lungo le ripide scarpate ha provocato la morte di 31 persone di cui la metà bambini.

Lasciata la strada nazionale e imboccata una strada sterrata, alle nove, con leggero ritardo dovuto all’intenso traffico, giungiamo in vista di Antigua. Il primo impatto con la periferia ci mostra una fotocopia di San Cristobal del Chiapas con le stesse case basse e colorate.

Gustavo ci racconta che le strade e le piazze sono tutte lastricate con lava basaltica, frutto di una grande eruzione nella prima parte del 1700.

Le giornate ad Antigua una bella città in stile coloniale, provata dai continui terremoti che nel corso del tempo ne hanno messo a dura prova la resistenza, si passano nel “parque central”, la piazza principale, che nei giorni di festa si riempie di venditori venuti dai villaggi circostanti. Per le strade acciottolate i bambini lustrano le scarpe, mentre la gente si raduna nei caffé dall’architettura coloniale, tutti dotati di chiostro interno con colonne e fontane.

La sua posizione, fra i tre imponenti vulcani: Agua, Fuego e Acatenango, è superba, ma l’ubicazione suona come un avvertimento continuo. Già fortemente provata, dopo aver subito la demolizione di molti dei sontuosi edifici dalla magnifica architettura, risalenti a quando Antigua era una ricca capitale spagnola, mirabile è stata la capacità di resistere e rinascere della città, che ha saputo ripopolarsi lentamente, ricostruire e conservare i suoi tratti caratteristici.

Oggi molte imponenti rovine sono conservate e aperte al pubblico, e sono parte integrante di una città che deve confrontarsi quotidianamente con la minaccia accresciuta nella sua bellezza dall’ulteriore fascino della decadenza.

Alle spalle della piazza principale si trova la zona del mercato. In un grande spiazzo vengono allineati i numerosi autobus provenienti da ogni parte del Paese. Qui la gente si ritrova per la spesa giornaliera in quanto non esistono piccoli negozi di generi alimentari al dettaglio, ed essendo situato nel centro è facilmente raggiungibile da ogni angolo della città.

Durante il nostro soggiorno, visto che non abbiamo molto tempo a disposizione, noleggiamo un paio di truck truck, i taxi a tre ruote che per le loro piccole dimensioni si destreggiano molto bene tra le sobbalzanti e strette vie.

Dopo aver fatto un giro sommario della cittadina, lungo una strada polverosa, raggiungiamo una collina dalla quale possiamo ammirare sotto di noi il paesaggio circondato dai tre vulcani.

Nel pomeriggio continuiamo la visita del centro con i suoi vecchi palazzi coloniali, non trascurando di curiosare tra i banchi di un grande negozio di artigianato locale, ove acquistare qualche ricordo.

Attendiamo quindi sulle panchine assolate della piazza centrale, l’arrivo di Gustavo che puntuale alle quatttro si presenta a prelevarci per ripartire subito verso Panajacell.

Il viaggio di ritorno lungo la Panamericana si trascina lento lungo le colonne di veicoli che emettendo gas di scarico nell’aria producono una sorta di nebbia irrespirabile.

L’unica nota positiva durante le quattro ore del tragitto è data dal bellissimo tramonto dietro le alture dei vulcani con i colori infuocati che emergono dai cumuli di nuvole addensatesi sulle acque del lago.
Mentre cala la notte pensiamo che domattina saremo di nuovo lungo questa rotta per la prossima escursione. Siamo quindi concordi di non fare troppo tardi questa sera, e dopo cena andare subito a letto.
I ristoranti di Panajacell lungo la strada sono tutti a cielo aperto. Normale quindi che i cani, peraltro non invadenti e attirati dai profumi delle cucine, aspettino a distanza debita che qualcuno tiri loro qualche boccone che non tarda ad arrivare.

CHICHICASTENANGO

Anche quella di oggi si preannuncia una bella giornata. La temperatura mite sin dalle prime ore del mattino invoglia ad una passeggiata lungo la riva di Atitlan per scorgere i primi momenti di vita del nuovo giorno. Sulla via del ritorno verso l’appuntamento per la colazione, incontro i bambini che accelerano il passo prima che il cancello della scuola si chiuda davanti a loro.

Alle otto partiamo per Chichicastenango, che forse per il nome, mi aspetto sia una delle escursioni più interessanti trattandosi di visitare un mercato, cosa che mi affascina sempre. Dopo aver percorso la ripida salita che ogni giorno attuiamo per allontanarci dal lago, una volta lasciata la caretera panamericana, veniamo fermati per un controllo.

Questa volta non si cercano armi o droga, ma frutta. Si frutta, di ogni genere che in questa zona non si può portare per paura vi si introduca insieme una particolare mosca che distrugge i raccolti delle campagne circostanti.

La strada è un continuo saliscendi in una zona boschiva, fino a quando al termine di una ripida cima notiamo incastonato il paesino di Chichicastenango, il centro della numerosa comunità degli Indios maya. Il nome del luogo che deriva da chichen, il fiore violaceo che nasce lungo tutte le strade del Guatemala significa: il paese dei chichen.

Non appena scendiamo dal pulmino, veniamo attorniati da alcuni bambini lustrascarpe che ci chiedono di poter lavorare, ma dovendo camminare per strade sterrate, garantisco loro che lo faremo prima di ripartire. Uno di questi Tomàs, si raccomanda di cercarlo prima di andare via e di non dimenticare il suo nome. Sarà la mia ombra in quanto, mi seguirà ovunque facendosi notare di tanto in tanto per ricordarmi la promessa.

Normalmente Chichicastenango si presenta al turista come un paese molto povero, dove l’alcolismo è una delle piaghe dilaganti che aumenta la desolazione di una comunità, quasi esclusivamente Maya, che si erge isolata dal mondo. Diverso è il clima nei giorni del mercato che ha luogo ogni giovedì e domenica, con orde di turisti che scendono da autobus scintillanti, brusio di schiamazzi e macchine fotografiche.
I contadini e gli ambulanti arrivano già la sera prima fin quassù a piedi affardellati lungo le erte salite, stracarichi sulla schiena dei pali che serviranno per montare le tende dove esporre la mercanzia.
Nella piazza antistante il Comune, occupano i portici insieme a intere famiglie che a gruppetti si dividono il colonnato, dove si apprestano a cucinare e cercano la migliore sistemazione per deporre le coperte e trascorrervi la notte. Alcuni banchetti, sorta di trattorie molto economiche, forniscono “tortillas”, tacos e “carne asada”.

All’alba, con i pali accatastati si costruiscono i banchetti sui quali vengono appesi dei teli. Sui banchi disposti al centro della piazza allestiti dai venditori meticci ad uso e consumo dei turisti, si espongono le maschere di legno dipinte che servono per danze e riti e rappresentano il serpente o il giaguaro, le statuette di pietra, i vasi d’argilla, i tessuti, i cappelli, le borse di stoffa, e poi le tortillas, le spezie, le verdure ecc. Vi si può trovare di tutto, un folclore che tuttavia non sminuisce la suggestione del mercato ma anzi ne accresce il colore e il fascino. Eccoli, gli Indios di Chichicastenango, che trasformano la piazza in un magico brulicare di oggetti; i vari gruppi indigeni segnalano con costumi e colori inconfondibili l’appartenenza al proprio villaggio.
Notiamo con curiosità che si vendono anche grosse pietre che sbriciolate e ridotte in polvere una volta mescolate all’acqua servono ad ammorbidire il granturco.
Ma ciò che più affascina in questo piccolo luogo di associazione, sono le due chiesette nascoste dai banchi e disposte una di fronte all’altra ai punti estremi della piazza; la prima dedicata a San Tomàs il patrono del paese, la seconda del Calvario.
Nella chiesa del Calvario che ai lati dell’altare presenta due serie di croci di varie dimensioni appoggiate alle pareti, e che apparentemente ha le sembianze di un qualsiasi luogo di culto sacro, si può fotografare con discrezione dall’esterno.
Di tutt’altro tenore è il luogo religioso dedicato al Santo Patrono dove all’interno è assolutamente vietato fotografare per non rubare gli spiriti delle divinità.

Sui gradini della chiesa succede di tutto; si brucia l’incenso di resina di copale, alcune donne entrano ed escono in continuazione in ginocchio, altre vendono fiori da deporre sugli altari, un vecchio recita alcune preghiere e parole magiche in onore dell’antico calendario maya e dei propri antenati agitando una sorta di turibolo, prodotto con una scatola di latta bucherellata, mentre alcuni lustrascarpe si danno da fare per racimolare qualche pesos.

Il capo di una numerosa famiglia dopo aver bivaccato e propiziati alcuni riti davanti ad un fuoco, si lascia spulciare prima di entrare in chiesa.

Poco più tardi una guida autorizzata che parla anche un po l’italiano, mi avverte che sulla montagna sacra si sta svolgendo una ceremonia maya con cadenza mensile. Bisogna però affrettarsi perchè è di breve durata. Contrattato il prezzo mi fa strada accompagnato da uno dei suoi sette figli Tomàs che come lui e quasi tutti gli abitanti maschi portano il nome del patrono.

Antichissimi riti sopravvivono nelle coscienze dei Mashenos, gli abitanti del luogo, conosciuti per le loro credenze e cerimonie pre-cristiane, e Chichicastenango è oggi il palcoscenico di una festa di popolo intrisa di misticismo pagano, un’orgia di colori e di emozioni.

Inerpicandoci lungo un sentiero tortuoso, circondato da una lussureggiante vegetazione, arriviamo dopo venti minuti e con il cuore in gola in cima alla collina. In uno spiazzo troviamo su quello che è considerato dai maya il santuario della Pascual Abaj, la pietra del sacrificio, un idolo dal volto di pietra, attorno al quale sono disposti tanti piccoli altari, uno per ogni dio: del sole, della terra, dell’acqua, del mais e dei terremoti.

Aghi di pino, fiori, liquori, dolciumi, sigarette e coca cola vengono offerti al dio della terra. Due dottori dirigono la cerimonia cantilenando litanie. I due sciamani danno inizio alla pratica che dovrà favorire salute, raccolto e scacciare eventuali forze nemiche ad una famiglia che sta pregando dietro a loro.

Dopo aver attirato le forze negative su di un gallo passandolo intorno al corpo del capo nucleo familiare, l’animale viene sgozzato e offerto ai vari dei affinchè lo preservino dalle malattie e siano generosi con il raccolto.

Mentre i capi in preghiera cantano scandendo in una nenia i giorni della settimana ingraziandosi il dio della terra, la guida mi racconta che a Chichicastenago esistono circa 300 dottori tra i quali anche molte donne, discendenti diretti dei maya, i quali oltre a praticare esorcismi e atti divinatori, celebrano matrimoni durante i quali viene tagliata con un colpo di machete la testa di due galli portati in sacrificio dagli sposi.
Se il corpo dell’animale decapitato offerto resta immobile la donna può rifiutare lo sposo che nel maggiore dei casi fino a quel momento non ha mai conosciuto, mentre se il gallo senza testa si agita sbattendo le ali, sarà un segno premonitore di una vita felice.

Quando faccio ritorno lungo il sentiero dal quale si scorge in lontananza un coloratissimo cimitero, vengo preceduto da uno scoiattolo che sembra farmi strada. Alla fine del percorso ritrovo Tomàs il lustrascarpe che mi chiede di poter fare il suo lavoro perché di li a poco deve andare a scuola. Naturalmente è una bugia perché lo rivedrò ancora molto più tardi, ma faccio finta di credergli per fargli guadagnare qualcosa. Ovviamente la scuola esiste anche in questo sperduto paesino, ma è frequentata perlopiù dai figli delle persone importanti e facoltose del luogo.

Fra tanta miseria non manca inoltre un grande albergo perchè a ‘Chichi’ riescono a convivere il turismo con la tradizione antica e gli dèi precolombiani. Questo luogo, che per il turista è spesso solo pretesto di banale shopping e folklore, è invece patria di quella profonda spiritualità condensata nell’antichissimo testo (il cui manoscritto venne ritrovato proprio a Chichicastenango) nel quale si racconta la nascita del mondo.

Qui sostiamo in attesa dell’ora in cui Gustavo verrà a prelevarci, mentre fuori le trattative di vendita vanno pian piano spegnendosi per il rientro dei turisti verso i luoghi di destinazione.

Pian piano anche i contadini arrivati dalle zone limitrofe lasciano il luogo mentre noi facciamo ritorno verso Atitlan.

Ritorniamo in tempo per veder tramontare il sole dietro i vulcani che si specchiano sul lago. Quando ci dirigiamo verso il porticciolo notiamo quanto poco basta ad alcuni bambini per divertirsi; a cavallo di una bottiglia vuota di plastica si lasciano scivolare sorridenti lungo una discesa.

Mentre il sole cala lentamente oltre le alture, pensiamo che anche la parentesi Guatemala sta per tramontare. Domani infatti ci attende il viaggio a ritroso verso il Messico.
RITORNO A SAN CRISTOBAL
Con le prime luci del nuovo giorno carichiamo i bagagli. Poi per l’ennesima volta risaliamo la ripida strada verso Sololà. L’ambiente che stiamo lasciando ci è ormai familiare, il lago con i vulcani, le auto sovracariche di contadini che si recano nei campi o ai mercati , gli autobus colorati che sfrecciano ecc..

Ben presto ci ritroviamo sopra i 3000 m. ad osservare le vallate coltivate a mais, velate da una sottile nebbia trasparente, mentre il sole già alto incomincia a scaldare.
Dopo tre ore di viaggio giungiamo a Huchuetenango, una sorta di crocevia dove confluiscono i numerosi e pittoreschi autobus, che strombazzando arrivano, scaricano e ricaricano persone e merci, per poi ripartire avvolti in nuvole di fumo nero rilasciato dalle loro marmitte.
In mezzo a tanta confusione, mentre Gustavo provvede al rifornimento del mezzo di trasporto, non crediamo ai nostri occhi quando ci troviamo di fronte a un distributore automatico di caffè caldo.
Una volta ripreso il viaggio, lungo la strada incontriamo dei contadini, taluni con una mucca, altri con una pecora o un maiale, altri ancora con un tacchino o un pollo, che si stanno recando verso un villaggio nel quale ogni venerdi in un apposito mercato, dopo lunghe trattative venderanno i loro animali.
Altre curiosità incontrate durante il percorso sono date dalla propaganda elettorale che viene fatta scrivendo sulle rocce lungo tutte le strade, mentre risulta simpatica l’iniziativa di alcuni venditori ambulanti che approfittando dei lavori stradali in zone isolate, riforniscono i viaggiatori incolonnati di bibite, gelati e panini.
A mezzogiorno siamo in vista della frontiera con il Messico. Ormai siamo pratici del posto e una volta scaricati i bagagli e salutato Gustavo, ci dirigiamo a piedi verso la sbarra che divide i due Paesi. Tutto il resto è una formalità che sbrighiamo in pochi minuti. Dall’altra parte ad attenderci c’è la solita vettura che ci aveva portati sin qui all’andata.
Dopo un paio di chilometri veniamo fermati ad un posto di blocco per il controllo di eventuale importazione di frutta. Non abbiamo capito bene se la mosca che distrugge i raccolti sia messicana o guatemalteca. Il viaggio prosegue comunque senza intoppi fino all’arrivo a S. Cristobal che raggiungiamo verso le quattro del pomeriggio.
Prima di partire per il Guatemala, avevo notato una caratteristica chiesetta lungo una scalinata, una specie di piccolo santuario che mi ero riproposto di visitare al ritorno. Mi accorgo però che il luogo a parte qualche pennellata di calce, si trova nel più completo stato di abbandono.
La chiesa è inagibile e tutto attorno sta sorgendo una sorta di baraccopoli con costruzioni abusive prive delle più elementari norme di sicurezza e servizi.
Mi fermo comunque qualche minuto per osservare la città sottostante infuocata dai raggi del sole che sta volgendo verso il tramonto.
In serata, dopo aver discusso in quale ristorante concludere la nostra permanenza nel capolugo, ci ritroviamo attorno al tavolo di un caratteristico locale dove oltre che a commentare la breve esperienza appena vissuta, parleremo delle nostre prossime tappe e dei siti archeologici che incontreremo.
PALENQUE
Le strade di S. Cristobal nelle prime ore del mattino sono percorse dai cani randagi in cerca di qualche avanzo lasciato dalle numerose famiglie degli emigranti che questa notte hanno dormito sui marciapiedi attorno allo zocalo, per non perdere il proprio turno nella lunga fila davanti alla banca.
Alle 10 infatti apriranno gli sportelli dove mogli e sorelle potranno ritirare le paghe inviate dai loro famigliari emigrati per lavoro in tutto il paese ma soprattutto nel sud del Messico in continua espansione, in quei luoghi con molta richiesta di manodopera dal Chapas, che in parte viene imposta per legge.
A quest’ora davanti alla cattedrale la famiglia di turno di un contadino si prepara ad una forma di protesta esponendo alcune lenzuola con la richiesta di garanzie per tutta la categoria, e che la scritta indica stare peggio degli animali, ai quali un boccone nel piatto non viene fatto mancare.
Mentre si avvicina l’ora della partenza e mi avvio verso il terminal, passando davanti al palazzo del Governo noto alcuni ragazzi in fila che si apprestano a rispondere alla chiamata per il servizio di leva.
Davanti ai murales nei pressi della stazione dei bus ci ritroviamo tutti. Dopo aver dispensata qualche merendina ai bambini più piccoli che ci ripagano con un grosso sorriso e acquistati alcuni chili di mandarini dalle loro mamme, ci avviamo verso il nostro bus.
Mentre le prime case di S. Cristobal si allontanano, penso che la gente del posto non abbia tutti i torti nel non lasciarsi fotografare per paura che la loro anima venga rubata. Per quanto mi riguarda sto portando con me il sorriso e l’espressione a volte sperduta, dei numerosi bambini che ho incontrato, dei loro volti innocenti che nel breve attimo in cui incrociano il tuo sguardo, hanno già espresso la loro richiesta.
Il viaggio da San Cristobal verso Palenque scorre attraverso il Chiapas sempre con un paesaggio tipico di montagna, lungo una strada stretta e costellata da continue curve.
I 180 chilometri che dagli attuali 2200 m. ci porteranno al livello del mare, verranno coperti in cinque ore per le oltre 200 cunette che sono state poste lungo il percorso estremamente pericoloso.

Dopo tre ore di viaggio ci fermiamo per una pausa pranzo in un’area di sosta di un piccolo centro. Una volta scesi di oltre mille metri notiamo che la temperatura è diventata quasi insopportabile anche per l’improvviso sbalzo dovuto al passaggio dall’aria condizionata del bus.
Proseguiamo quindi ancora per oltre due ore attraversando vallate caratterizzate da una natura rigogliosa. Man mano che scendiamo di quota notiamo grandi piantagioni di banani. Lungo la strada i contadini del luogo sono impegnati nella stesura del caffè che viene fatto essicare ovunque ci sia uno spazio piano, mentre donne e bambini sono impegnati nel trasporto di pesanti gerle di legna che verranno accatastate e usate per cucinare.
Per il turista, Palenque è una città di passaggio costituita da una grande strada di circa un chilometro che termina nella piazza principale davanti ad una chiesa. Giungiamo nel tardo pomeriggio quando fervono i preparativi di un matrimonio.
A differenza che da noi, in Messico è la sposa ad arrivare in chiesa con largo anticipo sullo sposo. Il caldo umido è opprimente mentre all’interno sono state avviati tutti i ventilatori. E forse a causa di questi che mentre gli sposi stanno per fare il loro ingresso, l’interruttore non regge il carico e rimaniamo per una buona mezz’ora al buio, mentre il sacerdote imperterrito continua al lume di candela la cerimonia.
Ma la sorpresa più grande si è verificata nel momento in cui è ritornata la luce. Ci siamo ritrovati davanti a due coppie di sposi; in quel momento si stavano sposando contemporaneamente la mamma e la figlia.
Nella piazza antistante, luogo di aggregazione sociale, nel frattempo l’organizzazione comunale ha allestito un palco sul quale si esibiscono personaggi dello spettacolo e cantanti che con un fracasso indescrivibile proprio sotto le finestre del nostro albergo, intrattengono gli abitanti in questo torrido fine settimana.
Palenque: il sito archeologico
La nottata è trascorsa quasi insonne. Per il gran caldo, con le finestre spalancate abbiamo sopportato il frastuono della musica, il rumore delle auto, i clacson e alle prime luci dell’alba il cinguettio di migliaia di uccelli sulle piante sottostanti. Lo sbalzo di temperatura inoltre ha causato ad alcuni di noi qualche leggero mal di pancia.
Palenque è il crocevia di diverse escursioni, e sede di uno dei più importanti siti archeologici del Messico, situato a sei chilometri dalla città.
Vi giungiamo a bordo di un taxi immergendoci completamente dentro la giungla, e al nostro arrivo per via della giornata festiva, sul luogo si trovano già numerose comitive.
Quello che sino ad oggi è stato riportato alla luce di Palenque, ribattezzata dagli spagnoli e il cui nome significava “casa fortificata”, è solo una minima parte di una città che si estendeva all’interno della giungla in ben 15 chilometri quadrati, tutto il resto si trova ancora sepolto da una natura incontaminata.
I suoi edifici più importanti, come il Gruppo della Croce, il Tempio delle Iscrizioni e il Palazzo, sono tutti databili ad un periodo tra il VII e la metà dell’ VIII secolo, quando la città e i suoi sovrani dominavano un vasto territorio.
La città presenta uno stile architettonico di particolare bellezza, e doveva apparire grandiosa al tempo del suo massimo splendore, con le piramidi dipinte di rosso avvolte dal verde cupo della vegetazione.

Dalla cima della piramide del Tempio delle Iscrizioni, il mondo sottostante appare lontano: l’immensa gradinata sparisce e lo sguardo spazia sull’antico territorio di Palenque, dove domina la foresta tropicale, i cui rami più alti talvolta si aprono per far emergere le cime di altre piramidi. Certo il cielo doveva sembrare loro vicino e i sacerdoti maya si sentivano sicuramente a stretto contatto con le divinità che lo abitavano.

Il Palacio, edificio residenziale del sovrano, si articola in numerose stanze divise da spessi muri, lunghi corridoi e ampi cortili ed è fornito di impianti di scolo collegati all’acquedotto della città dove venivano raccolte le acque piovane.

Numerosi templi hanno struttura simile: sono elevati su piccole piramidi, sovrastati da merlature, ricoperti da rilievi in stucco, sia sulle pareti sia sul tetto.

Negli anni Cinquanta la Piramide delle Iscrizioni svelò un segreto: nelle sue viscere era sepolto un grande sovrano, forse quel Kin Pacal che aveva regnato su Palenque per settant’anni e che qui riposava assieme al suo tesoro di giada. La scoperta fu fondamentale per la conoscenza del mondo maya, poiché fino ad allora si era creduto che le piramidi fossero solamente edifici per il culto e non anche monumenti funebri.

Seguendo un percorso all’interno della giungla arriviamo in un altro edificio dove sono conservati alcuni stucchi nel colore originale dell’epoca, raffiguranti il re Pakal.

Dal punto di vista architettonico Palenque presenta caratteri unici, come i tetti inclinati a mansarda, che avevano forse la funzione di proteggere i delicati rilievi a stucco collocati sui muri esterni, mentre edifici singolari come la torre del Palacio o il Tempio delle Iscrizioni con la tomba nascosta, confermano, l’originalità della cultura artistica di Palenque.

Trascorriamo tutto il giorno all’interno del sito archeologico riprendendo la visita dopo un breve riposo all’ombra delle altissime piante, ammirando tra l’altro una vegetazione esuberante per qualità, dimensione e colore.

Una volta ritornati in città non posso fare a meno di andare a curiosare in quello che in lontananza sembra essere un parco giochi dai mille colori, mentre in realtà si tratta di un cimitero.

Percorriamo a piedi la via centrale della città semideserta, curiosando tra le vetrine chiuse per il giorno di festa. La popolazione come ieri, si trova tutta nella piazza principale a festeggiare.

Prima di buttarci nella confusione del centro, ci soffermiamo davanti alla bottega di un incisore intento a disegnare su pelle di mucca, i personaggi e divinità che hanno caratterizzato la civiltà Maya.

A quest’ora il cielo è sorvolato da migliaia di uccelli che fanno rientro nei propri nidi tra le piante che adornano la piazza. Veniamo colpiti più volte dagli escrementi dei volatili, mentre la gente del luogo ormai abituata da non farci più caso, vedendoci alquanto irritati per il disagio ci lancia sorrisi di comprensione.

Seduta su un muretto una giovane donna, ricama una tovaglia mentre allatta un neonato. Noto con una certa curiosità che nella cesta che espone, oltre a qualche dolciume vende sigarette che vengono acquistate singolarmente dai passanti.

Nella piazza c’è proprio tutta la popolazione che mangia beve e si diverte, e come noi cerca almeno un pò di refrigerio. Chi non sembra accorgersi del caldo, sono i bambini la cui unica preoccupazione è quella di giocare e divertirsi.
AGUA AZUL
Quella che viene definita la maledizione di Montezuma, ha colpito Graziella che oggi non ci potrà seguire nella visita alle cascate.
Il programma suddiviso in tre tappe ci porterà a visitare un piccolo torrente che scendendo dalla montagna a seconda delle altitudini genera alcune cascate prima di assumere la consistenza di un fiume le cui acque dal colore azzurro gli conferiscono l’appellativo di agua clara.
Dopo soli 20 km. Facciamo sosta in un punto dove il fiume Misol-Ha gettandosi in una pozza di acqua limpidissima, crea una cascata di 32 m.

Veramente straordinario è l’ambiente attorno alla cateratta, completamente circondata da una giungla impenetrabile. Si può raggiungere il salto d’acqua lungo un piccolo sentiero piuttosto ripido e scivoloso, che passa accanto ad alberi giganteschi e permette il giro completo fin dietro la cascata.
Dopo una breve sosta ci spostiamo di qualche chilometro dove il fiume Mi Sol Ha formatosi dalle cascate più a monte, si è trasformato in una sorta di grande piscina immersa nel verde. In questa zona denominata Agua Clara per il naturale colore delle sue acque, il gruppo ha la possibilità di fare un breve bagno rinfrescante.
Percorriamo ulteriori 50 km. e alle 11.00 siamo in vista delle cascate di Agua Azul. Le cascate non sono imponenti, ma il colpo d’occhio che si ha col primo impatto, e il colore azzurro chiaro dell’acqua è notevole.
Le cascate di Agua Azul sono uno dei siti più visitati durante tutto l’anno, ma per poterne apprezzare al meglio i colori e la trasparenza dell’acqua, è consigliabile recarvisi nel periodo invernale, perché durante il periodo delle piogge il loro colore assume toni torbidi e limacciosi, mentre d’estate sono quasi sempre in secca.
Camminando lungo il sentiero che porta verso la parte alta, scopriamo angoli nascosti dove decine di rivoli si gettano formando altrettante piccole cascate.
Un cartello delle Autorità locali però mette in guardia quanti risalendo a piedi lungo il sentiero che le costeggia per alcuni chilometri, che è opportuno non spingersi da soli troppo dentro la foresta perché negli ultimi tempi, sono state segnalate delle aggressioni ai turisti.
Lungo tutto il percorso la gente dei dintorni, ha montato bancarelle dove vendono l’artigianato locale. Molti sono anche i posti di ristoro dove l’acqua per i servizi igienici e il lavaggio delle stoviglie viene prelevata con dei grossi contenitori da alcuni ragazzi che fanno la spola tra il fiume e i capanni.
Mentre siamo in attesa che ci venga servito il pranzo, mi incuriosiscono due bambini che entrati in uno dei tanti rivoli formati dalle cascate, cercano con le mani tra i sassi, qualcosa che poco dopo depongono in un sacchetto di plastica. Si tratta di una sorta di molluschi che rivenderanno ai ristoranti locali per guadagnare qualche pesos.
YAXCHILAN E BONAMPAK
Questa mattina cogliamo il sorgere del sole mentre siamo in viaggio. Ieri sera ci siamo congedati da Graziella e Bruna che con pochi giorni a disposizione, preferiscono passare le ultime due settimane sulla spiaggia assolata di Playa del Carmen.
Per noi invece si prospetta una interessante escursione verso due siti archeologici che da quattro anni è possibile visitare grazie all’allargamento di un sentiero nella giungla.
Dopo 180 chilometri giungiamo al bivio dove convergono i pulmini provenienti dalle varie parti della regione, e una volta smistati i passeggeri ci avviamo ognuno verso la propria escursione.
Fino alla fine del 2000 il sito di Yaxchilan, si poteva raggiungere soltanto mediante piccoli aerei biposto che atterravano lungo una piccola pista ricavata all’interno della foresta. Bisognava poi proseguire lungo un sentiero a colpi di macete per oltre due ore, ed infine con una barca, seguendo il percorso del fiume si arrivava a Bonampack.
Oggi il sentiero è stato sostituito da una strada sterrata, ma tutto il resto è rimasto tale anche per non stravolgere troppo l’ambiente abitato da una comunità che sta scomparendo e che visiteremo nel pomeriggio.
Yaxchilan, è un luogo dove il silenzio é interrotto soltanto dalle grida di piccole scimmie e dal volo degli uccelli. Il manto della giungla che ricopre l’antica città sembra aver donato ai palazzi ed ai numerosi templi un alone di magia e di mistero.
Coscienti dell’importanza di lasciare traccia della loro supremazia, i Maya incisero su pietra gli avvenimenti salienti riguardanti la vita della classe nobile della città, e grazie a questa prudenza oggi possiamo conoscere con relativa esattezza la storia degli ultimi 300 anni di questo regno.

Trascorsa circa un’ora e dopo aver curiosato in ogni piccolo angolo dell’antica città Maya, proseguiamo il nostro viaggio che ci porterà all’interno di un villaggio posto sulla sponda messicana del fiume Usumancita, dove la gente del posto da pescatori quali erano si sono trasformati in traghettatori per quei turisti che ogni giorno sempre di più arrivano fin qui.
Frontera Corazal è un posto di confine, come quelli che si vedono nei film.Essendo il fiume il confine naturale con il Guatemala, prima di imbarcarci vengono controllati i documenti dei passeggeri che hanno scelto questa frontiera in quanto, dopo tre ore di barca saranno traghettati nella sponda opposta e dopo ulteriori 4 ore di jeep, raggiungeranno Tikal, il più interessante dei siti immersi nella giungla in territorio guatemalteco.
Una volta smistati ancora i passeggeri, le lance a motore patrono lungo il fiume. Durante il tragitto, oltre che ammirare la vegetazione sulle due sponde, cerchiamo di individuare qualche forma di vita. Ed è l’improvvisa virata da parte del timoniere che ci fa capire di avere accertato qualcosa sulla sponda guatemalteca.
Invisibile per noi in quanto mimetizzato tra la sabbia e le rocce, un grosso coccodrillo se ne sta immobile, quasi finto per la sua staticità, fino a quando con un brusco ed improvviso balzo si lancia in acqua nella direzione della barca. Con la spinta della corrente percorriamo lo spostamento in un’ora, fino a raggiungere il punto di attracco.
Ci incamminiamo all’interno della giungla dove alcuni cartelli indicano le varie direzioni da prendere in quanto le rovine della città oltre che essere immerse in una foresta impenetrabile, si trovano in un ambiente molto vasto.
Stranamente, notiamo che quanto si credeva fosse un itinerario piano all’interno della giungla, si rivela invece un cammino formato da irti sentieri che si snodano tra colline, sulla cima delle quali dominano i templi.
La città si sviluppa attorno ad una grande piazza rettangolare nel cui centro si erge una stele di sette metri e sulla quale é scolpita in rilievo la figura di un sacerdote vestito con ricchi paramenti. Si ipotizza si sia trattato non solo di un complesso cerimoniale, ma di un centro residenziale destinato ai nobili o ai sacerdoti.
Il sito di Bonampak, scoperto circa cinquant’anni fa, ha conservato l’insieme più completo di tutta la pittura Maya, raffigurante cerimonie religiose, battaglie e sacrifici, una vera miniera di informazioni che ha permesso di studiare a fondo non solo l’arte e la tecnica pittorica, ma anche la vita politica e cerimoniale di un classico centro monumentale al massimo livello del suo splendore.

Di tanto in tanto, il silenzio di questi luoghi di culto viene lacerato da grida che hanno ben poco di umano e provengono dal cuore della giungla. Dopo esserci guardati con un certo timore, ci rendiamo conto trattarsi di scimmie urlatrici, che rincorrendosi sulle cime di altissime piante, producono suoni inquietanti.
Una parte dei siti archeologici maya giace ancora inesplorata nelle intricate foreste messicane, e gli esperti assicurano che la selva, riserverà in futuro ancora molte sorprese.
Il viaggio di ritorno che avviene lentamente contro corrente, dura il doppio dell’andata e una volta sbarcati ci concediamo una pausa. Sono ormai le tre del pomeriggio, e il caldo ci ha un po’ provati.
Durante il viaggio di ritorno superiamo senza difficoltà cinque posti di blocco militari sempre in cerca di trafficanti di armi e droga. Non bisogna dimenticare che ci troviamo nel Chiapas vicino al confine guatemalteco e per di più nella jungla Lacandona dove c’era, ma qualcuno azzarda ci sia ancora, il quartiere generale di Marcos quando era braccato dall’esercito messicano.
Nel villaggio lacandone che incontriamo lungo il ritorno, gli uomini si distinguono dalle donne per il bianco camicione che portano, un ragazzo israeliano chiede di essere lasciato nel posto dove trascorrerà un paio di notti in compagnia degli abitanti del luogo.
Molti sono i turisti perlopiù giovani, che amano fermarsi nel villaggio dove non si bada certo a chi arriva e da dove si provenga, ed è altrettanto facile procurarsi canapa indiana e altre sostanze stupefacenti.
I lacandones, sono gli unici eredi del popolo maya. Per secoli sono vissuti nella giungla del Chiapas in isolamento, conservando l’indipendenza e la cultura dei loro avi. In un censimento di cinquant’anni fa risultavano essere circa 400 ma stavano scomparendo a causa delle malattie e del loro isolamento.
Quando siamo sulla strada del ritorno verso Palenque, penso a questi ultimi gruppi di indios, che nonostante mantengano ancora usi e costumi, a grandi passi si stanno integrando nella cultura occidentale, facendo così scomparire ancora una volta il mondo maya.
Il sole infine che sta per tramontare al termine di questa intensa giornata, cala anche definitivamente sul nostro soggiorno nel Chiapas. Domani ci sposteremo più a sud.

CAMPECHE

Dopo oltre 15 giorni, da che siamo in Messico, notiamo per la prima volta un treno.
Come già detto la strada ferrata, a causa delle altitudini e dei passaggi impervi, non è molto diffusa nel territorio messicano. Inoltre le rare tratte obsolete e usate quasi esclusivamente da contadini, fino a qualche decennio fa venivano assaltate da bande armate.

Oggi il 90% degli spostamenti in Messico, avviene a bordo di modernissimi Autobus che si suddividono in due categorie: di 1ª classe con ogni tipo di comfort, e dato il costo sono accessibili quasi esclusivamente ai turisti; di 2ª classe dove si viaggia anche in piedi, molto più economici e usati soprattutto dai contadini.

Dopo aver attraversata una campagna piuttosto ordinata e adibita a pascolo, trascorse circa cinque ore giungiamo a Campeche, capitale della regione omonima, e che si affaccia nel Golfo del Messico.

La città è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, grazie soprattutto alle mura che costituendo un esagono la circondavano, e furono erette per difenderla dagli attacchi dei bucanieri attratti dalle mercanzie che partivano dal porto e dirette verso l’Europa. La fortificazione è ancora oggi sono in gran parte ben conservata e visitabile.

Anche a Campeche, notiamo come gli antichi nomi delle calle lastricate, siano stati sostituiti da numeri che rendono più difficoltosa la loro individuazione. Altre curiosità sono gli altissimi marciapiedi dovuti probabilmente alle continue mareggiate per la posizione della città, e infine la grande chiesa sconsacrata e adibita a uffici governativi nel cuore del centro storico.

Nel tardo pomeriggio a bordo del trenino turistico, proseguiamo la visita delle principali attrattive del centro storico partendo dalla piazza centrale di fronte alla Cattedral de la Conception con i campanili gemelli, e proseguendo tra case che conservano un tipico sapore coloniale e chiese austere, percorriamo il lungomare tra un miscuglio di antico e moderno.

Il tramonto ci coglie lungo il tragitto del ritorno, e quando siamo di nuovo a destinazione è gia notte. La città e in particolare il centro storico illuminato, sono molto suggestivi.

Nella cattedrale è in corso la cerimonia della benedizione dei ceri che la gente porta in chiesa, assieme a dei bambolotti che rappresentano i neonati della famiglia e per i quali viene chiesta l’intercessione della Vergine.

Prima di andare a dormire, ci soffermiamo ad ammirare gli zampilli colorati di una fontana, che accompagnati da un brano musicale si alzano e abbassano formando dei disegni e delle figure che mettono allegria.

Con l’autobus che parte verso mezzogiorno, c’è tutto il tempo nelle prime ore del mattino di fare una passeggiata fino al porto. Alcuni avventori sono in attesa dell’arrivo delle barche dei pescatori, mentre sulle bancarelle si trova il pesce invenduto della sera precedente. Notiamo che in prevalenza si tratta di alcune specie di piccoli squali, con i quali viene fatta una specie di zuppa, che è il piatto tipico di Campeche.

Mentre la città pian piano si risveglia e si rimette in moto, ci spostiamo nella casa più vecchia del centro storico per la colazione, dove alcune persone ci mostrano attraverso dei magnifici murales come era e dove era ubicato l’antico caffè circa 200 anni addietro.

Il tempo trascorre veloce, e dopo aver spedita qualche cartolina, ci avviamo in taxi verso la stazione dei bus dell’oriente pronti per affrontare una nuova tappa.

Ormai abbiamo preso confidenza con questo modo di viaggiare, veloce, sicuro e poco costoso, e una volta individuata la meta successiva lo spostamento avviene in poche ore.

La nostra nuova destinazione è Mèrida, una città che la guida descrive allegra e molto interessante anche per le escursioni che di li partono per alcuni importantissimi siti archeologici.

Vi giungiamo dopo quattro ore di viaggio e all’arrivo puntiamo direttamente verso l’albergo, il Trinidad, descritto sempre dalla nostra guida come stravagante, a pochi passi dal centro città, e che fortunatamente ha proprio un paio di camere libere.

Sistemato il bagaglio al seguito, usciamo subito per fare quattro passi nel centro storico e prendere confidenza con la metropoli nella quale l’intenzione è di fermarci per almeno tre giorni. Con nostra sorpresa notiamo che le strade tutte attorno al centro, sono transennate in vista di qualche manifestazione.

Scopriamo di trovarci nel bel mezzo del periodo carnevalesco e la città vanta per tradizione, le più belle sfilate di carri allegorici e balli in costume di tutto il Messico, che si ripetono quotidianamente in forme diverse.

Alle sei infatti, si svolgerà la passerella in maschera dedicata ai bambini che rappresenteranno i costumi di gran parte delle popolazioni della terra.

Mentre siamo in attesa della sfilata, registriamo il tempestivo intervento della polizia locale che su segnalazione della vittima, nel giro di pochissimi minuti arresta un energumeno, che approfittando della calca e confusione, aveva allungato le mani per accarezzarle il fondoschiena.

Improvvisamente il viale si svuota, ed ha inizio la sfilata da parte delle centinaia di bambini che nei costumi multicolori, seguendo le insegnanti che danno il ritmo ai loro movimenti, in una atmosfera di grande allegria e serenità, rappresentano i loro coetanei di tutto il mondo.

Dopo oltre un’ora di balli e canti, seguendo il corteo, veniamo spinti fino alla piazza centrale, e mentre stiamo ammirando le bellissime costruzioni dell’epoca coloniale, veniamo richiamati da un rullar di tamburi.

Si tratta di un drappello della Guardia Civil che si appresta ad ammainare la bandiera nel cuore della città. Improvvisamente la piazza si dirada e la folla presente forma una cornice attorno al pennone e al suono della cornetta si porta una mano al cuore trattenendola fino a quando il vessillo calato viene portato in marcia dentro il palazzo del governo.

Poco dopo la città si illumina, e noi approfittiamo per dare un’occhiata ai palazzi aperti al pubblico per l’occasione. Diamo uno sguardo sommario in quanto un pò per la stanchezza e per il fatto che domani ci aspetta una nuova escursione, ci riserviamo di fare con calma successivamente la visita della città.

Ma prima di andare a dormire, c’è il tempo di fare quattro chiacchiere con il portiere di notte dell’albergo per raccogliere il più possibile, informazioni sugli avvenimenti dei giorni successivi.

Man mano che ci spostiamo a sud, il caldo durante il giorno si fa sentire sempre di più. E’ questo il motivo della sveglia anticipata per visitare il sito archeologico di Uxmal. Dopo un’ora di strada attraverso una fitta vegetazione, giungiamo a destinazione.

Uxmal si trova in una zona caratterizzata da rilievi collinari e fonti Maya fanno risalire la sua fondazione alla metà del VII secolo.

Per lungo tempo oltre al periodo Maya, è stata tra le città più popolose e fiorenti dello Yucatan grazie anche alla costruzione di numerose cisterne che assicuravano una duratura riserva d’acqua in un luogo privo di pozzi naturali.

Tra gli edifici monumentali, gli archeologi hanno individuato e scavato il grandioso Palazzo del Governatore, un campo per il Gioco della Palla, nel quale sono stati trovati tre anelli con incisa la data dell’anno 649 d.C., e la Casa delle Monache, chiamata così dagli spagnoli per la struttura interna a celle simile a quella dei monasteri.

Vi sono inoltre la Grande Piramide dell’Indovino, e numerosi altri palazzi, templi e complessi abitativi, in parte ancora nascosti sotto la vegetazione, per il quale il lavoro degli archeologi continua.

Denominato “Barocco Maya” lo stile col quale venivano adornate le parti alte degli edifici, era caratterizzato da abbondanti decorazioni, un eccellente esempio dell’altissimo livello raggiunto dagli intagliatori Maya nell’arte della lavorazione della pietra.

La Piramide dell’indovino è l’opera architettonica più maestosa di Uxmal, un grande edificio a forma semiellitica alto 35 m. nel quale si possono riconoscere cinque fasi di costruzioni sovrapposte, ultima delle quali il tempio sulla sua sommità dell’anno 1000 d.C., mentre la leggenda narra che la piramide fu eretta in una sola notte da un nano con l’aiuto della madre, dotata di poteri sovrannaturali.

Tutti i palazzi sono costituiti da lunghi edifici con numerose aperture verso la corte interna, e sono orientati verso i quattro punti cardinali con al centro una colonna di pietra che simboleggia la ceiba, l’Albero della Vita…

Guardando dalla cima di una collina a ridpsso dei templi, difficilmente si scorgono le costruzioni nascoste nella foresta, e possiamo immaginare quanto ci sia ancora da scavare tra le rovine, difese attualmente dalle numerose iguane che immobili, sembra siano state lasciate li come sentinelle.

Prima di lasciare la zona archeologica ci soffermiamo ad osservare le abili mani di un intagliatore e i suoi lavori. Più tardi prima di rientrare in città ci sarà il tempo per una breve visita ad un altro sito molto più piccolo che però messo a confronto con quanto appena visto, rende la visita marginale e di minore interesse.

Rientriamo in città al tramonto e ci troviamo imbottigliati nel traffico di mezzi che si sta spostando verso il centro. Dopo una doccia ristoratrice siamo di nuovo in strada. La folla si prepara ad assistere ad un’altro passaggio del carnevale. Questa sera è di scena la sfilata per gli adulti.

Lungo i viali sfilano i carri che reclamizzano bevande, hot dog e merendine che vengono gettate al pubblico presente, mentre tra un carro e l’altro uomini e donne in costume ballano e si dimenano al suono di ritmi che richiamano il samba brasiliano.

Dopo la colazione nel giardino dell’albergo tra piante tropicali e cinguettii di rare specie di uccelli, dedichiamo il nostro terzo giorno di Merida, alla visita della città. Abbiamo scoperto infatti che l’amministrazione comunale mette a disposizione dei turisti alcuni operatori, che ogni due ore li accompagnano attraverso il centro storico nella visita dei principali palazzi e monumenti.

Alle nove ci ritroviamo praticamente quasi soli con la guida durante il primo giro che parte dal Palazzo municipale, nella ombrosa Plaza Major. La visita prosegue con la descrizione della più antica casa di Merida; la Casa de Montejo, oggi sede di una banca che si può visitare durante l’orario di apertura.

Al di là della piazza, di fronte al Palazzo municipale, sul sito di un tempio maya, si erge la maestosa e severa cattedrale. Nel suo interno sobrio, domina un enorme crocifisso rappresentante il Cristo de la Unidad, simbolo di riconciliazione tra la gente di origine maya e quella di origine spagnola.

Sul lato nord della piazza, il Palazzo del Governo ospita gli uffici governativi dello stato dello Yucatan. Sulle pareti sotto le arcate, dipinti a colori vivaci illustrano una simbolica storia dei Maya e dei loro rapporti con gli spagnoli, che nell’insieme, fanno pensare che a dispetto dell’ingerenza oppressiva degli Europei, lo spirito della cultura maya è ancora vivo.

Dopo la pausa del pranzo la visita prosegue a bordo del classico tram turistico, lungo le principali arterie della città. Uno dei viali più belli è il Paseo de Montejo, che costituisce il tentativo degli urbanisti di Merida dell’ottocento, di creare un grande boulevard di stile europeo. Naturalmente ne risulta un viale molto più modesto, pur costituendo tuttavia una bella striscia di verde contornata da ville e giardini che formano un piacevole spazio aperto, all’interno di un conglomerato urbano di pietra e cemento.

La giornata scorre rapidamente e quasi non ci accorgiamo che siamo già al tramonto. Prima di rientrare, con un bus locale andiamo al terminal per prenotare i biglietti per l’indomani, e quando facciamo ritorno in città è già buio.

Ancora una volta la gente si accalca contro le inferiate e le transenne per assistere ad un altro passaggio del carnevale, mentre io mi diverto ad osservare i bambini che a cavalcioni sulle spalle dei loro papà, guardano increduli le coloratissime maschere che al ritmo di rintronanti musiche sfilano lentamente davanti a loro.

All’alba della nostra quarta domenica messicana, mi incammino per le strade deserte di Merida per cogliere il risveglio della città. Nella Plaza Major c’è un grande silenzio. Mentre i piccioni stanno festeggiando sulle briciole lasciate sul selciato durante la festa, un’ improvvisato predicatore non troppo sano di mente, lancia strali su quanti ieri sera hanno calpestato questo luogo ballando e cantando.
Pian piano la città si rianima, dapprima con gli addetti alle pulizie davanti agli esercizi pubblici, poi con i venditori ambulanti che vanno a occupare i posti loro assegnati, infine con gli addetti del comune che preparano le transenne per la sfilata di mezzogiorno, mentre alcune persone anziane indigenti corrono ad occupare i punti strategici della cattedrale per raccogliere l’elemosina.

Alle dieci siamo al terminal dei bus dell’oriente dove ritroviamo Ilse, una simpatica signora tedesca conosciuta durante la visita a Monte Alban, che come noi è stata tre giorni a Merida e che con noi partirà, per non lasciarci più fino al suo ritorno in Germania.

Una volta usciti dalla città, imbocchiamo l’autostrada costruita nel mezzo di una vegetazione a giungla che risulterà molto monotona per tutta la sua lunghezza. Dopo cinque ore, un gigantesco posto di blocco alle porte di Playa del Carmen, ci avverte che siamo giunti a destinazione.

All’arrivo avviene un fatto curioso; Lilla che era già stata lo scorso anno a Playa, non si raccapezza in quanto, non trova più la piccola pensione di fronte alla stazione. Chiesta informazione ai facchini, questi ci fanno segno di seguirli, e dopo venti minuti scopriamo che l’autobus è arrivato in un altro terminal dalla parte opposta della cittadina.

D’accordo che oggi è domenica e non si lavora, ma la prima impressione su Playa è quella di una gran confusione di gente che arriva e che parte. Tutti sembrano avere una grande fretta, i poliziotti che fischiano in continuazione per fare sgomberare la strada che porta al centro, persone che sembra non abbiano il tempo di fermarsi un attimo e mangiano mentre camminano, autobus che vengono e vanno con nuovi turisti appena sbarcati a Cancun.

Una lunga coda che si snoda verso il mare, sta a significare che oggi si vota per eleggere il sindaco di Playa, e la gente aspetta con calma il proprio turno per dare il proprio assenso in un gazebo sulla spiaggia sotto lo sguardo di alcuni osservatori.

Ritroviamo anche le nostre amiche che ci avevano lasciato una settimana prima, più abbronzate che mai. Durante una prima passeggiata sulla spiaggia, notiamo come si tenti di rubare spazio e costruire proprio in riva al mare, nonostante il suo avanzamento che ogni anno corrode sempre più la battigia.

Camminiamo tra i resti di alcuni siti maya, circondati da piante di cocco e coloratissime bouganville. Sulla spiaggia troviamo alcuni inservienti che stanno sparecchiando tavoli e poltroncine, che per il bianco colore con cui sono rivestite, fanno pensare che sia stato celebrato un matrimonio proprio in riva al mare.

Mentre la gente si accalca per salire sugli aliscafi che fanno la spola con l’isola di Cozumel, terminiamo questa prima breve passeggiata ammirando i lussuosi hotel in continua costruzione lungo tutta la costa e che ha fatto diventare Playa fino a qualche anno fa un villaggio di pescatori, forse la più battuta tra le spiagge messicane.

CHICHEN ITZA

Sono trascorsi alcuni giorni dal nostro arrivo a Playa, e con l’avvicinarsi della data del rientro ormai prossimo delle nostre amiche, decidiamo di effettuare assieme una escursione a Chichén Itzà, il sito archeologico più conosciuto di tutto lo Yucatan.

Dopo oltre un’ora di viaggio ci fermiamo per una pausa nei pressi di un bazar. Ne approfitto per cogliere le immagini di vita di una famiglia che vive in una capanna ai margini della foresta.

Ripreso il tragitto, in poco più di mezz’ora giungiamo in vista di Chichén Itzà. Percorriamo un lungo viale delimitato da una schiera di venditori di oggetti di artigianato, fino a giungere in una immensa spianata, al centro della quale si erge “El Castillo”, una piramide alta 25 m., costruita in modo da rappresentare il calendario Maya.

La somma dei gradini dei quattro lati e i 52 lastroni che rivestono le pareti diagonali infatti, formano i 365 giorni e le settimane dell’anno. Ma la particolarità di questa costruzione è data, grazie alle grandi conoscenze astronomiche dei Maya, abili nel calcolare la posizione del sole rispetto alla terra, il 21 marzo e il 23 settembre, ovvero gli equinozi di primavera e autunno, quando l’ombra della piramide, proietta un lungo serpente che sembra strisciare lungo i gradini ed arrivare fino a toccare la terra.

La scalata della piramide è quasi perpendicolare e per salire e scendere vengono usate le tecniche più disparate, infatti basta poco per sbilanciarsi all’indietro. Non per niente poi, all’atto dell’acquisto del biglietto, si paga un supplemento per l’assicurazione personale in caso di caduta.
Dalla sommità, come del resto nei precedenti siti, la vegetazione nasconde gran parte delle altre costruzioni. Una vista splendida si ha sul “tempio dei guerrieri”, vicino al gruppo delle “mille colonne”, sulle quali sono scolpite immagini di guerrieri armati, in un edificio che si pensa avesse la funzione di mercato.
Nel tempio dei Guerrieri ci sono infatti, numerose file di colonne, elemento quasi inesistente nelle altre zone archeologiche, mentre a lato dell’edificio è stato rinvenuto un pozzo sacro, dove si celebravano i sacrifici e nel cui fondo gli archeologi hanno ritrovato resti di ossa umane e vari oggetti.
Sotto una delle quattro facciate notiamo una lunga fila alla quale ci accodiamo. “El Castillo” nasconde al suo interno un’altra piramide. Passando per uno stretto corridoio e salendo una ripida scala si giunge ad una sala interna dove è custodita la statua di una divinità, che tiene un piatto sul ventre che la leggenda narra servisse a contenere il sangue o il cuore degli uomini sacrificati.
Una richiamo particolare va fatto alla passione dei Maya per il gioco della palla. A Chichén Itzà, uno degli otto campi riportati alla luce, risulta essere il più grande rinvenuto in tutto il Messico. Nelle gare che vi si svolgevano, era in palio la vita dei giocatori, che poteva essere offerta in sacrificio agli dei in caso di sconfitta o di vittoria secondo altre credenze.

Camminando attraverso sentieri e anfratti in un luogo poco lontano dalla piramide e seminascosto dalla vegetazione, giungiamo infine all’osservatorio, che testimonia la approfondita conoscenza dell’astronomia da parte dei Maya.
Mentre lasciamo la zona archeologica, incontrando i numerosi bambini che scalzi e mal vestiti, tentano di vendere oggetti che richiamano l’antica civiltà, fa riflettere il fatto che per la maggior parte siano i diretti discendenti di coloro che con grandioso ingegno architettonico, eressero secoli fa questi edifici che attraggono ogni anno migliaia di visitatori da ogni parte del mondo.
Lungo la strada del ritorno ci fermiamo in un ristorante dove durante il pranzo una coppia di bambini ballerini si esibisce per i turisti in un numero di equilibrismo.
Al termine visitiamo uno dei cenote più conosciuti dello Yucatan, regione ricca di questi fenomeni caratteristici.
Il cenote, parola che deriva dalla lingua Maya e ha il significato di pozzo sacro, è la combinazione di vari eventi geologici e climatici che hanno dato origine ad un ecosistema unico al mondo.
Si tratta di grotte con fiumi sotterranei createsi oltre 6.500 anni fa che hanno generato una rete di fiumi sottoterra, la più estesa del pianeta, oggi meta di sub che arrivano da tutto il mondo per esplorarla.
Molti sono i turisti attratti dalla tranquillità di queste caverne colme di stalattiti e stalagmiti, dove la luce che filtra dalle spaccature del terreno si riflette con giochi luminosi nelle acque cristalline che invitano ad un bagno rinfrescante nelle calde giornate messicane.
Percorsi una cinquantina di chilometri sulla rotta di Playa c’e il tempo per una breve visita alla cittadina di Valladolid. Gia durante il nostro arrivo, notiamo che gli abitanti si stanno dirigendo tutti verso il centro.
Nello zocalo, un gruppo di ragazzi travestiti da ballerine, si sta esibendo in un ballo folcloristico attorniati dalla popolazione locale.
La cittadina è in festa per il carnevale, non sfarzoso come quello di Merida, ma molto divertente, che coinvolge quanti assistono per la sua semplicità e i tentativi goffi dei ragazzi nell’imitare le mosse seducenti delle ballerine.
Prima di lasciare la città diamo uno sguardo alla cattedrale di S. Gervasio, dove notiamo la statua di S. Bernardino da Siena che qui ha fondato un convento, poi ci rimettiamo in viaggio e senza più soste giungiamo dopo un paio d’ore a Playa quando nel frattempo è calata ormai la notte.
PLAYA del CARMEN
Con la prospettiva di soggiornare da queste parti un mese, le giornate a Playa trascorrono in modo alquanto pigro, dando vita ad una distensione totale. L’unica nota stonata, è l’impatto all’uscita e rientro in camera, con il fatiscente cortile interno della posada. Proprio non capisco la mentalità di Francisco, che è poi la stessa della maggioranza dei messicani, nel trascurare nella maniera più disinteressata l’aspetto della proprietà, quando basterebbe molto poco per renderla decorosa.
Al mattino mi alzo presto per andare in spiaggia ad ammirare il sorgere del sole. Passo davanti al poliziotto di guardia alle stanze, che dorme tranquillamente e non si avvede del mio andirivieni. Al di la del muro del cortile ha inizio il nuovo giorno.
Il risveglio della cittadina balneare avviene molto presto. Il primo appuntamento però, è qualche minuto prima delle sei alla spiaggia, per cogliere l’attimo del levar del sole. Non sono mai solo, c’è sempre qualche coppietta di innamorati che forse ha trascorso la notte sotto le stelle, c’è la ragazza che cattura e traccia sul foglio l’emozione che prova in questo momento, o la giovane mamma che cammina a piedi scalzi felice con la sua piccola, ricordando forse momenti indimenticabili.
Sulla barca alcuni cormorani si lasciano dondolare in apparenza svogliati, mentre invece sono sempre vigili e pronti a spiccare il volo per tuffarsi a picco in mare non appena individuano qualche pesciolino.
Durante la successiva camminata di un paio d’ore sulla battigia, avvengono sempre i soliti incontri: gli addetti alla pulizia della spiaggia con i quali ogni giorno ci scambiamo un “buen dias, che raccolgono lattine di birra e le alghe che la risacca ha depositato durante la notte.
Sul molo, nelle bancarelle si preparano i tacos, le tortillas ripiene di verdure e carne, condite con una salsa piccantissima, che per i messicani equivalgono ai nostri panini, che costituiranno il pranzo dei lavoratori che si apprestano ad imbarcarsi verso l’isola di Cozumel, dove svolgono varie mansioni negli alberghi e residence.
C’è anche una nuova figura che ha preso piede lungo le spiagge messicane: il cerca soldi, persone armate di minuscoli ma potentissimi metal detector, che battono la spiaggia palmo a palmo per cercare eventuali monete o monili, persi dai bagnanti americani, e che a loro detta, rendono in media un centinaio di pesos al giorno, poca cosa per noi, ma cifra non trascurabile per loro.
Alle otto è l’ora della colazione e ci concediamo una mezz’ora di pausa prima di curiosare ancora lungo la spiaggia. In Messico, la colazione si consuma al tavolo, e con l’equivalente di meno di due euro è pari ad un piccolo pranzo con spremuta di arance, pane tostato, burro marmellata, frutta esotica e caffè a volontà.
La brezza della prima parte della mattinata, induce molti appassionati a cimentarsi con le vele, che alcune scuole mettono a disposizione per familiarizzare con le maniglie direzionali, per tentare di mantenere eretta la velatura, anche se molte volte contro la propria volontà, essa li trascina verso alcuni pungenti cactus.
Alle dieci partono le barche con a bordo gli allievi della scuola sommozzatori e di quanti amano le immersioni che a detta di molti, da queste parti offrono dei paradisi subacquei di rara bellezza.

Alle undici i primi rientri dal mare. Le barche partite quando era ancora buio e cariche di appassionati di pesca d’alto bordo, fanno ritorno. Le agenzie che per trenta dollari, affittano due canne a persona, garantiscono almeno una preda di 10 ÷ 15 chili ciascuno, in alcuni casi si tratta di barracuda, in altri di tonni o altri grossi pesci.

Di norma il pesce pescato, dopo le varie foto di rito da parte dei pescatori, viene pulito e offerto a persone indigenti, o in parte trattenuto dai conducenti delle barche, per le loro famiglie.

Sulla spiaggia ormai affollata, alcuni uomini sandwich reclamizzano i prodotti di alcuni locali e ristoranti della quinta strada.

Oggi è sabato e in un settore della spiaggia notiamo che sono stati approntati dei materassi che sospesi da corde cullano le decine di giovani giunti da zone limitrofe, e che quasi sicuramente trascorreranno qui la notte. La temperatura infatti è molto calda durante il giorno, mentre la notte consente di dormire addirittura scoperti.

Il caldo opprimente del giorno, induce ad un breve riposo, ma alle quattro, siamo pronti per la passeggiata pomeridiana. C’è solo un posto che si adatta all’esigenza di chi non sopporta il caldo della spiaggia: Playa Car, l’equivalente di Playa del Carmen 2.

Playa Car è la zona residenziale abitata dalle persone facoltose, quella con i grandi alberghi e resort, un’area di zona selvaggia adattata allo scopo cercando di non sconvolgere troppo la natura, e trasformata in un autentico paradiso terrestre.

La zona è dotata di un anello di sei chilometri, lungo il quale si snoda una passeggiata incantevole, percorsa da centinaia di persone durante le ore meno calde, e dagli amanti del jogging durante le ore fresche del mattino.

La passeggiata è davvero rilassante lungo il tragitto. Le nuove costruzioni si collocano in uno schema abitativo a contatto con la natura, tra piante dalle forme più strane intrecciate tra loro, dove le radici crescono all’esterno del suolo pietroso in cerca dell’umidità che il sottosuolo non riesce fornire.

Qua e la immersi nella boscaglia troviamo alcuni siti Maya ora abitati da strani animaletti che i messicani chiamano conigli, e da grossi lucertoloni, le iguane, che nell’ambiente si mimetizzano, difficili da individuare specialmente a ridosso di pietre o piante, delle quali assumono colore e caratteristiche.

La passeggiata continua tra i verdi e rasi campi da golf, con morbide colline che si alternano a piccoli laghetti dove alcune specie di volatili si rispecchiano e tra i quali fa bella mostra una colonia di fenicotteri rosa.

Alle cinque, quando il sole tramonta, la spiaggia si svuota e la gente si riversa tutta sulla quinta strada. E’ l’happy hours, l’ora del drink, che viene offerto doppio al prezzo di uno, tra le cinque e le sette a seconda dei locali. Lungo la via si aprono gli sportelli di cambio dove a seconda dell’offerta maggiore i turisti si apprestano a ritirare il fabbisogno della serata.

Mentre la maggior parte dei turisti americani trangugia due birre per volta, noi ormai rispettosi alle usanze locali, ci gustiamo una margherita, il coktail nazionale.

A Playa del Carmen alle sei è già buio. Dopo la doccia e il cambio d’abito, non essendoci altro luogo dove andare, ecco che la gente si riversa nuovamente sulla quinta strada. La Benito Juarez, più comunemente chiamata “la quinta”, è una via lunga un chilometro esatto, che alla sera assume una fisionomia diversa da quella del giorno.

La strada illuminata da milioni di luci e insegne colorate, è il richiamo per migliaia di turisti che adottando la formula del solo pernottamento si vedono costretti a cercare un ristorante, anche perché di giorno in spiaggia ci si arrangia con un panino o della frutta.

Qui di ristoranti se ne trovano di tutti i tipi, in genere abbordabili da tutte le tasche, più o meno lussuosi, dove si può mangiare e trovare di tutto, ma soprattutto dove regna per gli appassionati della carne la “Steeak house”, oppure per gli amanti del pesce: le aragoste sempre vive, i cui bassi fondali del luogo riproducono in gran quantità.

Per noi italiani, dopo oltre un mese di cibo messicano, il richiamo patriottico è quello della pasta che qui a differenza di altre parti del mondo, viene cucinata come a casa nostra, anche perché molti sono i ristoranti gestiti da italiani.

Dopo cena si cammina in su e giù una due dieci volte, soffermandosi ad ammirare qualche negozio o ascoltando la musica che i numerosi complessi “Mariachi” suona lungo la via, mentre gli imbonitori invitano in continuazione i clienti a preferire il proprio locale offrendo sconti del 10% dopo un certo orario.

Prima di andare a dormire notiamo un gruppo di ragazzi italiani al centro di una piazzetta con i loro bagagli, che appena arrivati da sprovveduti, non hanno trovato posto per dormire e dovranno adattarsi per questa notte in attesa che domani domenica, si liberi qualche camera.

CANCUN – TULUM – CENOTES – SNORKELING – CUZUMEL
Per rompere la monotonia della vita quotidiana di Playa, un paio di volte alla settimana effettuiamo delle escursioni che risultano essere più o meno interessanti.
E’ il caso di Cancun, altra rinomata località turistica, per la cui visita un pomeriggio è più che sufficiente.

La città è divisa in due zone principali: Cancun vecchia e la zona hotelera, dove sorgono i grandi alberghi, le spiagge, i locali notturni e dove si concentrano le strutture per la vita notturna e il divertimento. Data la sua vicinanza alla Florida, è una delle mete più ricercate dagli americani, che in poco più di due ore di volo possono raggiungerla a prezzi molto convenienti.

Altra cosa è invece l’escursione a Tulum, lungo la riviera Maya, tra scogliere a picco su profondità ricchissime di vita marina tropicale. una delle più famose zone archeologiche del Messico.

Al nostro ingresso veniamo catturati dalla dimostrazione di un gruppo di indigeni che si esibisce in un carosello, un tempo prova di coraggio da parte di giovani guerrieri, durante le cerimonie maya.

La posizione costiera di Tulum, con l’alto edificio a picco sul mare, ha fatto si che la cittadella fosse la prima ad essere avvistata dagli spagnoli al loro arrivo. I Maya subirono da subito un duro scontro risoltosi a favore degli invasori.

La zona archeologica di Tulum è forse, una delle aree più belle della Riviera Maya, che unisce felicemente il mistero dell’antica civiltà che abitò la zona, con la singolare bellezza del mare dei Caraibi che ne bagna le coste. La città di Tulum, è l’unica zona archeologica maya conosciuta vicino al mare.

Osservando le numerose costruzioni si può capire il senso di meraviglia che pervase i primi navigatori spagnoli, che la compararono per bellezza alla loro lontana Siviglia, come fortezza, sentinella del mare dei Caraibi, quando fungeva da faro per le imbarcazioni maya in epoca preispanica.

Al termine della visita ci tratteniamo in quello che è considerato forse il luogo più incontaminato del Messico. La spiaggia è raggiungibile solo a piedi, e molti sono i turisti che trascorrono le loro vacanze nelle cabanas, una sorta di bungalows, prive di corrente e di arredi, dove l’unico suppellettile è l’amaca per dormire, cullata dal rollio delle onde del mare.

Un altro modo per trascorrere la mattinata, in quanto il pomeriggio risulterebbe troppo caldo, è la passeggiata nella giungla alla scoperta degli innumerevoli cenotes più o meno grandi e profondi.

All’ingresso del parco una scimmietta ci da il benvenuto, e bastano poche carezze per accattivarsi le sue simpatie, che arrivano al punto di non voler più staccarsi anche quando dopo qualche graffio affettuoso decidiamo di liberarcene.

La camminata si svolge lungo sentieri in un’area di oltre 500.000 mq. tra piante di rara bellezza, mangrovie, radici che escono dalle limpide acque di alcuni cenotes, la cui caratteristica li unisce tra loro mediante caverne sotterranee.

Entrando infatti in una di queste bocche indossando il prescritto giubbotto salvagente e boccaglio per respirare, lungo un percorso sotterraneo illuminato, si può nuotare e dopo oltre mezzo chilometro uscire da un’altra parte.

Al termine della visita ci imbattiamo nell’abitazione del custode del parco, che rimane sorpreso della involontaria intrusione, mentre noi più increduli di lui, nel vedere il luogo spartano in cui vive con la sua famiglia.

Durante una di queste escursioni, ho imparato il significato della parola snorkeling, che spesso avevo visto scritto nelle locandine turistiche. Si tratta infatti di ammirare il fondale marino, armati di pinne e boccaglio.

La zona prescelta si trova al largo dell’isola di Cozumel dove esistono tre diverse barriere coralline. Il capogruppo si raccomanda di rimanere tutti assieme in quanto, essendo la zona pullulante di barche, che come noi sono qui per lo stesso motivo, è molto pericoloso in quanto, presi dalla frenesia di guardare verso il fondo, distrattamente si potrebbe finire tra le eliche di qualcuna di esse.

Sin dall’inizio, scrutando lo spazio limitato dell’oblò della barca, si ha una percezione della vita e del paesaggio marino sotto di noi.

Ma una volta indossata la maschera e incominciato a spaziare con lo sguardo, eccoci di fronte a quello che potrebbe assomigliare ad un acquario dalle dimensioni infinite, e che ci lascia due volte senza fiato; la prima per la maschera che non ci consente di respirare, la seconda per la bellezza dei fondali.

Essendo quasi tutti alla prima esperienza in fatto di snorkeling, quando siamo lungo la rotta del ritorno, gli istruttori che ci hanno assistiti nel battezzo del mare, offrono a tutti un bicchiere di tequila che va bevuta tutta d’un fiato; mentre uno di loro, fa roteare il capo del nuovo iniziato pronunciando alcune parole propiziatorie, che gli assicurano un futuro scaramantico.

Al termine dei vari riti, e quando ormai tutti sono su di giri per la tequila trangugiata, vanno in scena canti e balli per tutto il viaggio di ritorno.

Chi arriva a Playa del Carmen, non ignora una puntata sull’isola di Cozumel proprio di fronte al centro balneare. In questo periodo poi, che le compagnie che gestiscono gli aliscafi promuovono la traversata per soli due euro al posto di venti, vale la pena approfittarne, anche se sappiamo bene che l’isola non offre niente di particolare.

Il centro si compone di una passeggiata sul lungomare dove si trovano i numerosi negozi di orafi, per i quali gli americani fanno le traversate per i loro acquisti, oltre naturalmente ai bar e ristoranti.

Ci lasciamo convincere da un vetturino a fare un giro tra i quartieri vecchi del paese. Sul lungomare veniamo attratti da due fatti curiosi, le grosse teste mascherate simboli del carnevale che verrà festeggiato questo pomeriggio, e la fila di macchine incidentate sulla strada principale, lasciate li come severo avvertimento.

I sobborghi dell’interno sono molto poveri, e a parte una graziosa chiesetta nella quale spicca una enorme conchiglia che funge da acquasantiera, si può notare solo una grande indigenza.

Probabilmente il nostro cavallo è vecchio, e ogni qualvolta si presenta un leggero ostacolo, si inpunta e non vuole proseguire nonostante le maledizioni del suo padrone e le risate di chi sta in carrozza.

Per farlo ripartire devo alternarmi alla guida mentre il vetturino gli fa prendere la rincorsa per poi saltare su al volo.

Quando siamo a poco più di metà del giro, il ronzino decide che non ne vuol più sapere di andare avanti. A nulla sono valse alcune parole dolci sussurrate all’orecchio. Niente. Siamo quindi costretti a scendere e facciamo ritorno a piedi fino al lungomare dove nel frattempo è iniziata la sfilata del carnevale.

I carri passano in rassegna mentre il sole sta per tramontare, e le imbarcazioni fanno rientro nel porto.

Il buio cala velocemente e sembra notte quando invece sono soltanto le sei del pomeriggio. Intanto sempre sul lungomare la festa continua tra le numerose bancarelle che espongono i cibi tradizionali messicani tra musiche e schiamazzi da parte della popolazione locale e i numerosi turisti coinvolti.

UNA DOMENICA A PLAYA

Strano ma vero, dopo circa un mese e mezzo da che siamo in Messico, oggi per la prima volta ci svegliamo con la pioggia, e la cosa rende il luogo dove abitiamo ancora più triste.

La guardia si è rintanata nel sottoscala e come al solito dorme della grossa nonostante qualche tuono improvviso. Buon per noi che gli acquazzoni qui durano pochi minuti, e tutto sommato danno un certo sollievo rinfrescando per qualche ora l’aria e abbassando le polveri.

Mentre i facchini sono in attesa del primo autobus proveniente da Cancun con i nuovi arrivi, osservo la quinta strada a quest’ora semideserta. Qualche turista si dirige in procinto di partire verso la stazione dei bus, mentre lungo l’avenida, per la prima volta scorgo un tipico messicano con tanto di sombrero. No mi sbaglio, più che un sombrero è un cappello da cow boy. Oltre che ai fast food, anche quello hanno copiato dagli americani.

Intanto in spiaggia mentre i gabbiani si rincorrono in cerca di qualche mollusco che le onde del mare agitato spingono a riva, nonostante i nuvoloni che il vento sta tentando di spazzare via, emerge imponente il sole che lascia ben sperare per una nuova bella giornata.

Oggi però, voglio parlare del giorno festivo, e di come viene vissuta la domenica da chi frequenta questa località costantemente in via di sviluppo. Fin dalle prime ore ci sono dei grandi assembramenti attorno all’ufficio postale che apre regolarmente alle nove.

Si tratta dei lavoratori, per la quasi totalità muratori, che provengono da tutto il Messico e in larga parte dal Chapas e dal Guatemala, che si apprestano a spedire la paga settimanale alle proprie famiglie. Quasi tutti portano in spalla uno zainetto che contiene il fabbisogno per trascorrere la giornata libera in città o sulla spiaggia, in quanto dormono tutti assieme in baracche lontane dal centro e qui vengono trasportati con i camion.

Altre lunghe code le notiamo alle cabine telefoniche dove gli stessi lavoratori si apprestano a dare e ricevere notizie una volta alla settimana ai propri famigliari. Non c’è sorriso nei loro volti, ma la tristezza di chi sente la voce dei propri cari che non vede da tanto tempo e che fino al termine del contratto non rivedrà.

Ma non tutti loro hanno il giorno di riposo. Lungo le strade interne a ridosso dei cantieri, sono approntate delle officine a cielo aperto, dove si esegue la manutenzione dei grossi camion adibiti al trasporto dei materiali edili e per lo sbancamento e il trasporto degli inerti.

Oggi è anche il giorno della partenza delle nostre amiche Graziella e Bruna, e verso le undici le accompagniamo alla stazione degli autobus in direzione di Cancun dove spiccheranno il volo verso Città del Messico, e di li a Milano.

Salutate le ragazze ci spostiamo in spiaggia dove ogni domenica si svolge un torneo di calcio sulla sabbia, le cui squadre sono quasi tutte formate dai giovani lavoratori che hanno cosi modo di sfogare i loro disagi, dimostrando inoltre di saperci davvero fare con il pallone, che oltre alla numerosa cornice di loro compagni, attira anche un considerevole numero di turisti, in particolar modo oggi che si conclude il torneo.

All’ora del pranzo, alcuni di loro si concedono qualche tacos presso i baracchini lungo la spiaggia, mentre altri consumano quanto si sono portati nello zaino. Sulla spiaggia libera formano alcuni gruppi mentre bivaccano. Altri in disparte ascoltano le note di una musica popolare che un complesso suona per alcune famiglie che stanno trascorrendo la giornata festiva al mare.

In genere le giornate festive e prefestive sono quelle in cui si celebrano maggiormente i matrimoni in spiaggia, quasi sempre tra turisti americani. Mentre camminiamo lungo la battigia ci imbattiamo in uno di questi.

L’avvenimento viene preannunciato da un volo di gabbiani, che esperti del luogo sanno che di li a poco ci sarà un banchetto, e naturalmente del cibo per loro sulla sabbia.

Il matrimonio viene celebrato con grande sfarzo, con tanto di coro e una ventina di testimoni maschi per lui e femmine per lei. Casualmente due cormorani si levano dall’acqua e sorvolano gli sposi mentre questi stanno pronunciando il loro si e poco dopo si stringono in un lungo abbraccio.

Dopo aver ammirato le evoluzioni di alcuni surfisti che si stanno davvero divertendo in questo tratto di mare dove soffia sempre un vento caldo, ci troviamo di fronte ad un secondo matrimonio, forse meno sontuoso ma con una nutrita cornice di bagnanti spettatori, forse perché in prossimità degli alberghi sul lungomare.

Ma lungo la nostra camminata domenicale le sorprese non sono finite, perché troviamo una terza coppia di sposi, questa volta già al brindisi e alle foto di gruppo, mentre i gabbiani che sorvolano la zona attendono librandosi nel vento il momento del banchetto.

La nostra passeggiata prosegue per qualche chilometro oltre i grandi alberghi, fino ad arrivare in una insenatura semideserta dove qualche anno fa sorgeva un villaggio di vacanze distrutto da un ciclone e mai più ricostruito perché nello stesso punto, incrocio di correnti, si sono verificati episodi analoghi di devastazione a causa di eventi atmosferici.

La spiaggia in questo luogo piena di detriti portati dalle onde, è meta di famiglie messicane meno abbienti che arrivano sin qui numerose a bivaccare fino a tarda sera.

Di ritorno dalla spiaggia e prima che il sole tramonti, passando dal piccolo aeroporto turistico posto proprio a ridosso delle abitazione e della nostra pensione, mi soffermo per riprendere il decollo di un piccolo velivolo con alcuni gitanti a bordo.

Sono con me appoggiati alla rete in direzione dell’aereo che si sta alzando, alcuni dei giovani lavoratori che trascorrono il loro tempo sognando forse un giorno di poter permettersi anche loro quanto stanno osservando.

Ma guardando nell’obbiettivo della telecamera mi accorgo che qualcosa non va, e che l’aereo mi sta arrivando a tutta velocità addosso mentre una voce grida a tutti noi di scappare.

Qualche secondo dopo uno stridere di freni e l’inevitabile impatto contro la rete che viene divelta mentre con un balzo ci mettiamo al riparo. Di li a poco il pilota trovato in stato di ebbrezza verrà arrestato mentre la folla intervenuta tentava di picchiarlo.

Dopo aver acquistato qualcosa da mangiare, i giovani lavoratori che hanno trascorso un’altra triste domenica lontani dalle loro case si appartano sulla spiaggia per trascorrere ancora qualche ora prima di fare ritorno alle loro baracche, in attesa di ricominciare un’altra lunga settimana, mentre nella quinta strada illuminata a giorno ricomincia la vita notturna di ogni sera.

L’ATRO VOLTO DI PLAYA

E’ proprio vero il detto: le ore del mattino hanno l’oro in bocca, specialmente qui a Playa al sorgere dell’ennesima splendida giornata. Due ragazzi stanno ancora amoreggiando mentre i gabbiani fermi in un lembo di spiaggia non ancora ricoperta dal mare si scaldano ai raggi del sole appena sorto.

Quello che voglio descrivere oggi però, è l’altro volto di Playa del Carmen. Finora abbiamo visto i grandi alberghi, i resort la quinta avenida, e tutto quanto ruota attorno a questo bel mondo vacanziero.

Ma la cittadina cambia fisionomia già subito dietro l’angolo della sua strada principale per non parlare poi di quelle parallele come la settima, la nona, l’undicesima e così via dove regna il degrado, e la pavimentazione è ancora sterrata.

Il biglietto da visita si ha non appena si arriva alla stazione dei bus all’angolo della via principale, dove bisogna fare molta attenzione alle buche, ai massi, ai marciapiedi divelti, alle bottiglie di birra ecc. Siamo qui da un mese ma non abbiamo notato il minimo sforzo da parte dell’amministrazione locale per intervenire nelle riparazioni.

Basta allontanarsi di qualche decina di metri dal centro, ma non molto, per trovare non più case, ma catapecchie dove la gente vive nelle condizioni più pietose. E posso ben immaginare in quali condizioni questa gente si trovi non appena arriva uno scroscio violento d’acqua. Per quanto riguarda i tifoni che di tanto in tanto attraversano la zona, esistono strutture anticicloniche, poco più che stamberghe in muratura.

Officine e laboratori sorgono sui marciapiedi in mezzo agli scarichi e la polvere provocata dalle auto di passaggio, e non vengono rispettate le condizioni minime di igiene, come il caso di questa panetteria che sforna seicento tortillas all’ora, che si trova sulla strada senza porte o vetri alle finestre.

Per non parlare di alcuni ristoranti anch’essi privi di porte dove i cibi avanzati la sera prima, vengono lasciati non in celle frigorifere, ma coperti sugli scaffali, pronti per il pranzo successivo.

Passando davanti alla scuola elementare vengo attratto dal trambusto creato dagli scolari. La mamma di uno di questi mi racconta che oggi è la ricorrenza dell’equivalente nostro due giugno, la festa della Repubblica.

Un bambino, dopo aver letto una pubblicazione solenne intona un inno che viene salutato da tutti i presenti con il braccio teso verso la bandiera.

Allargando lo sguardo qualche metro attorno al cortile, noto il degrado e la pericolosità in cui giocano gli alunni durante le ore di ricreazione e prima di cominciare le lezioni. Calcinacci, detriti, ferri arrugginiti dappertutto, sotto lo sguardo degli insegnanti che probabilmente troveranno la cosa normale.

In un vicino asilo, dove i bambini sono ancora più piccoli, i pericoli non sono da meno.

Il museo messicano che abbiamo cercato per una visita in quanto reclamizzato da una locandina, lo troviamo completamente vuoto e si sta cercando di affittarlo come locale da esposizione, mentre vetrine e suppellettili sono ridotti a macerie all’esterno.

Qualche decina di metri dalla scuola c’è l’ospedale e il pronto soccorso per gli abitanti del luogo, ma non per turisti. Anche qui nel cortile interno dove arrivano le ambulanze sembra di trovarci in una discarica.

Sono convinto che di tutto questo, la maggior parte dei turisti non se ne accorge, in quanto vivendo nel loro angolo dorato dove la vacanza è full optional prima di partire, non hanno certo il tempo di passeggiare tra questi quartieri anche se a ridosso dei loro alberghi.

Col passare dei giorni è arrivato il momento di salutare anche Ilse, la nostra compagna tedesca che dopo aver girovagato per oltre un mese da sola in Messico, un po’ sfiduciata si è accodata a noi e non ci ha più lasciati.

Con la partenza di Bruna e Graziella, siamo rimasti in parola con la direzione che qualora si fosse liberato un appartamento lo avremo preso fino alla fine del nostro soggiorno. Il fatto si è verificato a otto giorni esatti dalla nostra partenza.

Con il passaggio nel nuovo alloggio ci sembra di rivivere. Abbiamo gli armadi dove riporre la biancheria, una cucina che forse non useremo mai, un frigorifero per tenere fresche le bevande e un bagno finalmente tale. Se poi non ci va di uscire possiamo liberamente prendere il sole in giardino.

In sostanza si tratta di spendere dieci euro al giorno in più ma in compenso la colazione è inclusa. Se poi raffrontiamo i 25 euro che spendiamo al giorno in due con i prezzi che ci sono in Italia penso che abbiamo fatto un affare. E naturalmente l’ambiente non è paragonabile al posto che abbiamo lasciato. Dispiace solo per gli amici, ma in fin dei conti ci siamo spostati di un centinaio di metri, e con loro possiamo vederci lo stesso.

XCARET

Una delle attrazioni di cui tanto si parla e sono fortemente reclamizzate non solo a Playa ma anche in tutta la Regione, è l’escursione a Xcaret. Per la verità il biglietto di cinquanta dollari dell’ingresso non è una cifra modesta, ma considerato che la visita impegna tutta la giornata decidiamo di andare.

Selva, giungla, flora e fauna, spiagge solitarie, il mare turchese e cristallino, la fantasia ed il calore dei tropici, il mistero della cultura millenaria che vive nel popolo maya, sono alcune delle caratteristiche che hanno fatto di Xcaret una delle mete turistiche più ambite.

Il parco costruito intorno a due cenote e a piccoli ruderi maya, è suddiviso in zone e alle preesistenti rovine sono state aggiunte e si continuano ad aggiungere nuove attrazioni per i turisti.

Subito all’ingresso in un ampio salone rivediamo nei plastici, tutti i siti archeologici visitati, da Chichenitza a Palenque, da Bonampak a Xilan, Tulun e via via tutti gli altri che osservati dall’alto sembrano dare una visione aerea dei luoghi ove sorgono.

Superato il Ponte del paradiso, si arriva in un originale cimitero disposto su una collina rivestita di coloratissime croci sulle quali si trovano le scritte più esilaranti quali: morto dopo essere stato baciato dalla suocera e altre amenità, e sulla cui sommità si trova una chiesa dedicata a S. Francesco d’Assisi, dove spicca un caratteristico Cristo in croce ricavato da un grosso tronco d’albero.

Attraverso un corridoio entriamo in una serra dove stanno volando migliaia di farfalle dalle ali colorate e dai disegni più strani.

Il “fiume sotterraneo” all’interno del parco, è un percorso di qualche centinaio di metri che si snoda sotto le rocce, a volte uscendo in superficie, a volte rientrando nel buio delle grotte illuminate artificialmente, mentre i turisti che desiderano percorrerlo, vengono equipaggiati al punto di partenza con giubbotto salvagente, maschera, boccaglio e pinne e al termine del percorso si trovano a nuotare tra gigantesche tartarughe.

Una tra le maggiori attrazioni è il delfinario, dove i turisti, pagando cifre esagerate, dopo una breve lezione con gli istruttori, oltre che partecipare allo spettacolo, possono nuotare e venire sospinti dai delfini stessi.

Per mezzo di un sentiero nella foresta tropicale, si raggiunge un imbarcadero da dove partono le zattere lungo un percorso attraverso la giungla, dove si ha la possibilità di osservare oltre alla rigogliosa vegetazione anche numerose specie di felini quali puma, pantere, oppure coccodrilli, formichieri, tapiri e tanti altri animali caratteristici del Paese, mentre negli anfratti che di tanto in tanto appaiono, possiamo notare alcuni attrezzi e suppellettili a testimonianza della vita originaria della zona.

Al centro del parco una torre con un ascensore esterno panoramico, ci da l’esatta dimensione della struttura sottostante.

I vari ristoranti che si trovano all’interno sono stati costruiti su palafitte o tra capanne immerse nel verde da dove si ha una meravigliosa veduta della natura circostante.

Trascorriamo il pomeriggio osservando le varie esibizioni che si svolgono nei vari punti, seguendo le indicazioni e gli orari riportati nel libretto ricevuto all’ingresso.

Quando cala il sole ci dirigiamo tutti verso il teatro centrale seguendo il richiamo che viene diffuso dagli altoparlanti. Lungo i sentieri troviamo numerose comparse che di li a poco prenderanno parte allo spettacolo finale, poste lungo il cammino quasi a indicarci il percorso da seguire.

Lo spettacolo suddiviso in due tempi che seguirà ha qualcosa di grandioso. La prima parte è dedicata alla vita più o meno tranquilla della popolazione Maya con una dimostrazione del gioco della pelota durante il quale la palla poteva essere toccata e fatta passare attraverso l’anello, soltanto con le anche e le ginocchia.

Viene in seguito rievocato il periodo della colonizzazione e la sua presenza sottolinea e simboleggia quello scontro-incontro di culture che avrebbe cambiato radicalmente la storia del continente americano.

La seconda parte infine è dedicata alla vita dell’ultimo secolo del Paese e viene accompagnata da musiche e danze di tutte le regioni del Messico.

Al termine dello spettacolo, dopo tanto sfarzo di luci e costumi, mi riesce difficile mettere a confronto quanto ho vissuto oggi con la povertà che sto vedendo a pochi passi dal centro, mentre faccio ritorno all’albergo.

LA PARTENZA

E’ trascorso un mese e mezzo da che siamo partiti, e questo è l’ultimo giorno di permanenza a Playa. Per la prima volta sono riuscito a far alzare Bruna per assistere almeno una volta con lei al sorgere del sole.

Durante questa ultima passeggiata mattutina voglio rivedere tutto quanto già visto in precedenza, per portare a lungo con me il ricordo di questa parte di mondo.

Mentre passiamo davanti al pescatore che lancia la sua rete, notiamo come in questi giorni a seconda della direzione del vento, l’effetto delle onde abbia corroso in certi punti l’arenile, mentre in altri lo ha fatto ingrossare.

Ripasso ancora una volta davanti ai cantieri dove centinaia di operai stanno lavorando alla costruzione di nuove strutture turistiche e private. Fuori dal cantiere, sulle gigantografie si possono osservare i villaggi che tra qualche mese sorgeranno, mentre lungo la spiaggia a pochi metri dal mare, si possono notare le lottizzazioni private vendute e già dotate di contatore per l’acqua.

Come già accennato in precedenza, la manodopera utilizzata in questi cantieri è di provenienza in larga parte del Chapas, la Regione forse più povera del Messico oltre che la più bella, per la quale i sindacati hanno stretto un accordo con il Governo che assicura in caso di assunzione di manodopera il 30% di operai originari di quel territorio.

Questi operai lavorano dieci ore al giorno per sei giorni, e guadagnano mille pesos alla settimana, l’equivalente di settanta euro, che spediscono per la quasi totalità alle loro famiglie.

Mentre cammino tra i cantieri gli operai sono in pausa colazione, che viene fornita da cucinieri improvvisati, giunti con dei tricicli colmi di pentole e tortillas. Il costo del vitto viene anticipato e segnato su di un quaderno accanto al nominativo, e verrà pagato alla riscossione della retribuzione settimanale.

Sulla via del ritorno verso le undici quando siamo vicini al faro vediamo un grande affollamento attorno alle barche dei pescatori appena rientrate. La nostra curiosità viene appagata dalla vista dello squalo catturato, che si sta tentando di trascinare fuori dall’acqua, e il cui peso è stimato attorno ai tre quintali.

Verso la una davanti ad un panino, assistiamo ad un incontro di calcio che in Italia si sta svolgendo di notte. Poco più tardi, sulla quinta, ritroviamo i due vecchietti che periodicamente tenendosi per mano arrivano da qualche paesino confinante in cerca di elemosina. I negozianti, ma in genere tutta la popolazione, tengono molto in considerazione le persone anziane, e sono generose con loro.

Col trascorrere delle ore è anche giunto il momento di accomiatarsi con quanti qui abbiamo conosciuto. E’ il caso di Giorgio un ultra ottantenne che ogni anno trascorre qui sei mesi con la figlia sposata ad un messicano, e Simone un giovane romanziere romano.

Di sera, non poteva mancare l’ultima spaghettata da Elvis prima delle consuete dieci quindici vasche sulla via illuminata, forse troppo, perché all’improvviso avviene un black out. Il primo al quale assistiamo, ma frequente a detta di molti. La cosa si risolve in breve tempo dopo l’intervento tempestivo dei tecnici che probabilmente stazionano nelle vicinanze.

Puntualmente infine arriva il giorno della partenza. Il cielo questa mattina è particolarmente grigio e sembra quasi triste come lo sono io che sto per partire.

Scorrono veloci le poche ore che ci separano dalla partenza mentre ancora una volta mi guardo attorno per cercare di portare con me l’atmosfera che mi circonda. Come al momento dell’arrivo, l’ultimo sguardo è rivolto a questo lembo di spiaggia, attorno al quale ruota la vita di Playa: la chiesetta, il gazebo, le bancarelle con i tacos, quelle della frutta, l’imbarcadero per Cozumel eeee…. un grosso nodo alla gola.

Alle undici inesorabilmente il bus parte dalla stazione verso Cancun. Paolo e Lilla che ci hanno tenuto compagnia prima di partire ci salutano e si allontanano rapidamente.

Playa del Carmen ha per me un solo significato: il colore del Messico. Il calore della sua gente, la loro tristezza e allegria insieme. Un anno dopo mentre mi trovo a descrivere queste impressioni ho la sensazione di non essere mai partito. Non so se ritornerò. Sono sicuro però, che non ne perderò il ricordo. Mai.

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