Suipino, accampamento degli Shipibo vicino a Pucallpa

di Massimo Brigidi
Sabato, 16 maggio. Prima di lasciare Pucallpa raggiungo un centro commerciale che avevo adocchiato il giorno prima nelle vicinanze dell’aeroporto, per accaparrarmi rifornimenti di acqua, biscotti, pane e carne in scatola, qualora, in assenza di mezzi per tornare indietro nella stessa giornata, fossi costretto a rimanere al villaggio. Le incognite sono tante, compreso il ritorno da Suipino, che non è scontato sia un semplice ripercorrere a ritroso la stessa strada. Ho ricevuto informazioni di sola andata.

Il centro commerciale, un contenitore di negozi per brand esattamente come tutti quelli nel resto del mondo, è una cattedrale tra la selva di baracche, in una città che probabilmente sta ricevendo per la prima volta importanti investimenti per lo sviluppo. La pulizia e l’ordine al suo interno permettono di tirare il fiato prima di raggiungere il molo della laguna di Yarinacocha. Ma il molo non è esattamente un molo, e soprattutto non è quel bell’approdo galleggiante che presumevo dovesse essere dalla vista satellitare di Google.
L’approdo, di un centinaio di canoe e barche un po’ più grosse, è in quel tratto di fanghiglia dove le imbarcazioni affondano la prua per ancorarsi. Un tratto di sponda nel quale il terreno non ha né la consistenza della terra né quella dell’acqua, dove una scorribanda di gente è indaffarata a caricare merci in una condizione che solo qui è normale.
Chiedo quale sia la canoa per San Francisco e a forza di gesti ci arrivo, mi ci infilo dentro e osservo tutt’intorno mentre rimango in attesa che si riempia.
In lontananza intravedo il molo che, attraverso Internet, avevo intuito fosse quello per San Francisco. Il molo dal quale doveva salpare una imbarcazione a motore simile a una di quelle che sulla laguna veneziana scorazzano i turisti, con sedili tipo autobus e salvagente di sicurezza indosso a ogni passeggero.
Niente di tutto questo è la canoa sulla quale sono salito. È fatta di doghe di legno grezzo e il bordo è alto circa dieci centimetri dal pelo dell’acqua. Le sedute sono panchette in legno messe di traverso. Bisogna starsene accucciati perché sopra le nostre teste corre, per quant’è lunga la canoa, una specie di tavolato da cui scendono teli per la pioggia.
Dei salvagente neanche l’ombra.
Salgono persone che sembrano utilizzare questo mezzo con la stessa disinvoltura di un autobus cittadino, già consapevoli di come posizionarsi per non sbilanciare la canoa, ognuno assorto nei propri pensieri, chi stringe a sé una tracolla, una borsa della spesa, chi fa oscillare a mezz’aria un sacco di nylon con rifornimento di panini. Vengono caricate anche merci, ceste di frutta, verdura e un enorme pesce coi baffi che spunta da una busta di plastica, che a malapena lo contiene. Sulla canoa a fianco stanno imbarcando a mano giganteschi blocchi di ghiaccio che, posizionati in fila indiana, trasformano l’imbarcazione in un disteso obelisco. Li scaricano da un camion parcheggiato sul bordo strada dove, sotto un riparo di tela, sono impilati con paglia frapposta per evitare che si incollino tra loro. Con un brandello di juta, come unica protezione dalle ustioni, vengono a gran fatica caricati a spalla fino alla prua della canoa, dove un altro addetto li arpiona con un lungo uncino per trascinarli a sé e proteggerli dal caldo con un semplice telo di nylon.
Su un’altra canoa, una signora indigena, con abiti tradizionali, ha sistemato tre galline vive appese per le zampe a un manico di scopa. Dopo aver caricato le proprie scorte anche sulla mia canoa sale una famiglia di indigeni.
Mentre i miei stivali tingalesi mi proteggono dalla sponda melmosa e dall’acqua putrida di questa riva, tutti loro sono scalzi e usano l’acqua del fiume per lavarsi via il fango una volta saliti a bordo.
Una leggera spinta della prua e la canoa indietreggia lentamente fino ad avere abbastanza spazio per ruotare su se stessa e prendere il largo. Percorriamo questa grande laguna che si sviluppa verso nord con un andamento un po’ ondulato, dapprima stando al centro, poi lungo una sponda e poi l’altra.
Non so dove sia l’arrivo e come si articolino le soste di questo autobus galleggiante, ma confido che allo scadere di circa un’ora qualcosa mi farà riconoscere l’approdo senza proseguire oltre. Nel frattempo ci siamo fermati presso una radura per far scendere la famiglia di indigeni. La donna e i tre figli, tutti rigorosamente scalzi, sbarcano le loro provviste, compreso il pesce con i baffi, mentre il marito, l’unico con gli stivali, attende che tutto sia scaricato per pagare la corsa. La bambina più piccola, esonerata dalle fatiche, appena scesa inizia a giocare in mezzo a delle piante, arrampicandosi e saltellando come se fossero arrivati al giardino di casa. Probabilmente lo è. Riprendiamo il largo e loro spariscono addentrandosi tra la vegetazione.
Ci stiamo avvicinando alla riva sinistra della laguna e ciò coincide con la sponda di San Francisco vista dai filmati di youtube. Arrivati a infilare la prua nella melma di questo approdo, c’è una lunga passerella che si estende verso ovest, e anche questo corrisponde con ciò che dovrebbe essere l’approdo di San Francisco.
Pago tre soles, circa novanta centesimi di euro, e mi incammino per questo percorso accidentato che, alto almeno un paio di metri, attraversa la larga riva acquitrinosa che dal bordo fiume arriva, dopo trecento metri, su un terreno più solido.
E’ composto da tavole in legno inchiodate trasversalmente ma il problema, per non cadere di sotto, è di non inciampare in quelle ritorte o precipitare quando ne mancano due o tre consecutive. Al termine della passerella si intravedono delle capanne tradizionali con tetto in foglie e inaspettatamente, anche se le sommarie indicazioni ricevute lo prevedevano, trovo due mototaxi fermi in attesa e così, soltanto nominando Suipino, mi faccio portare all’accampamento dello sciamano.
La strada per arrivarci è larga poco più del mototaxi che a malapena riesce a divincolarsi dai solchi melmosi e profondi delle ruote di altri passaggi. Girata la curva del paese, la strada corre dritta verso ovest, perdendosi all’orizzonte, in un saliscendi di dune fangose con la vegetazione che gli si stringe addosso. Percorsi neanche cinquecento metri finisce il carburante e nonostante vari tentativi per rianimare il mezzo, soffiando dentro il serbatoio, il tassista è costretto a rimediare una bottiglia di benzina da una capanna lì vicino. Sembra tutto consueto, anche il fatto che ogni capanna abbia una bottiglia di benzina sempre pronta.

All’ingresso della proprietà, un cartello con su scritto “Suipino” mi tranquillizza sul fatto che sono sulla strada giusta. Il fango lascia spazio all’erba tagliata a raso e a un’impressione di ambiente curato. Concluso il suo compito, il tassista mi lascia in mezzo al prato prima ancora di attendere l’arrivo di qualcuno, ma poco dopo mi viene incontro una persona che, con fare gentile, mi dà il benvenuto. Sembra proprio che mi stesse aspettando, anche se l’aspetto non corrisponde a quello di Roger.
Lo sciamano non c’è, è a Lima, tornerà fra tre giorni, mi spiega. Nel frattempo la persona che mi è venuta incontro mi fa vedere la mia capanna e quella della cucina. Prima ancora di sistemarmi, faccio un giro a piedi per rendermi conto del posto e in un’altra capanna intravedo una sagoma di donna dai caratteri occidentali. Questo mi rassicura sul fatto di non essere da solo, e che possa aiutarmi per la lingua. Il mio vocabolario di spagnolo è rimasto circa lo stesso e per queste popolazioni lo spagnolo è una seconda lingua; quindi non c’è speranza alcuna di confidare sull’inglese o un italiano al rallentatore.
Torno alla mia capanna e mi sistemo.
Si sta bene, il riparo è essenziale ma confortevole, c’è anche il bagno con i sanitari. C’è un letto con lenzuola e una zanzariera appesa sopra, un tavolino e uno sgabello. Non c’è corrente elettrica e un po’ di chiodi qua e là sulla parete servono da appendiabiti. La capanna è costruita su un tavolato rialzato da terra e chiusa sui quattro lati da pannelli in legno, con una sequenza ininterrotta di grandi aperture rettangolari che ricordano i fotogrammi di una pellicola cinematografica sulle quali sono tirate le zanzariere.
Il tetto è in foglie con falde che si estendono ben oltre il limite della stanza, a coprire un ambito molto maggiore, come se la figura del rettangolo della stanza e quella del triangolo della copertura fossero due cose a sè. L’una sospesa sull’altra come per magia, senza toccarsi, lasciando un varco libero tutt’intorno al perimetro. Osservate così, tutte le accortezze per staccarsi dall’invasione di animali dal suolo sembrano demandate solo a una questione di tempo, quello necessario a scavalcare le pareti della stanza. Sicuramente il tempo, visto in questa ottica, assume un rilievo fondamentale.
L’esterno è visibile solo stando sdraiati sul letto che, isolato, equidistante dalle pareti perimetrali, sembra un altare dal quale osservare la natura tutt’intorno. Le grandi aperture permettono una ininterrotta visione panoramica e, una volta sdraiati, ci si sente talmente immersi nella natura, come se le pareti e il tetto si fossero dissolti, da percepire la sensazione di essere su un talamo sacrificale, in attesa di essere colti dalla selva.
C’è molto silenzio. Si sentono solo due rumori: il fruscio delle foglie, per la brezza che ogni tanto soffia leggera, e il cinguettio di qualche uccello. Niente altro.
Mi raggiunge un altro uomo, chiedendomi quanto sarei rimasto e senza indugio se voglio fare il rito dell’Ayahuasca. Non me lo aspettavo, e sapendo che il rito si sarebbe tenuto di lì a tre giorni, il lunedì sera, prendo tempo, tentando di spiegare che avrei voluto decidere all’ultimo minuto: «Yo tengo miedo», ho paura, gli dico. Mi ero preparato la frase consultando il dizionario la sera prima.
Non so come, ma riesce a rassicurarmi. Anziché aspettare lunedì, mi suggerisce di iniziare la sera stessa con una piccola dose, da accrescere le sere seguenti fino all’appuntamento con lo sciamano capo, Roger. Nel frattempo, lui e altri assistenti apprendisti sciamani sarebbero stati al mio fianco.



Torno a stendermi sul letto e, trascorso altro tempo, si avvicina una donna. È la moglie di Roger, che mi istruisce sul posto, sul mangiare, sulle modalità del rito e ovviamente sul costo.
Non mi sento affatto a disagio, anche se non ho idea di quello che possa aspettarmi istante per istante. Ho ricevuto informazioni solo in spagnolo, che spero di aver compreso, ma non ne sono certo. Pranzo con loro nella capanna-cucina, dove incontro l’ospite dai tratti occidentali che avevo intravisto. È cilena, ma con nonni tedeschi trasferitesi in Sud America dopo la guerra. Tutto chiaro. Non parla una parola di tedesco e uno scarso inglese di cui purtroppo va fiera, ma capisce l’italiano al rallentatore.
Per pranzo sono stati preparati tutti cibi e pietanze da cui mi sono tenuto alla larga per tutto questo tempo per paura di stare male, ma ora non posso esimermi, c’è una condizione di convivialità e accoglienza per cui rifiutare risulterebbe veramente fuori luogo. Una brocca di acqua fresca e limone, una minestra di coriandolo con una pannocchia e un pezzo di pollo a galleggio, carote, cetrioli, rape e del riso come pane, saranno il mio unico pasto perché, d’ora in avanti, entro nella dieta preparatoria per il rito di questa sera. Devo arrivare a digiuno e qualora avessi fame potrò bere solo del tè.
E’ piuttosto fresco, indosso una t-shirt e sono sotto le lenzuola in attesa che mi preparino la sauna: un altro passaggio di introduzione al rito.
Anche qui, immerso in questa foresta non più montana come quella di Tingo María, lontana dalle brezze delle Ande, non ho ancora alcun problema con insetti e zanzare, eppure ci sono, perché la cilena, di pelle chiarissima, è disseminata di punture. Lei resterà qui un mese per curare una malattia, di cui non ho voluto richiedere spiegazioni, seguendo una cura che lo sciamano le ha appositamente preparato.
Con sollievo, per aver ben compreso lo spagnolo, alle quattro mi chiamano per la prevista sauna. Non molto lontano dalla mia capanna ce n’è una, più piccola, composta solo di un tetto dove un aiutante sta facendo bollire, in un enorme pentolone, una mistura di erbe. Sotto il tetto sono preparate due postazioni di sedute, ricavate da un tronco d’albero, e ci sono due specie di calotte in pvc cerato che, una volta presa posizione sul tronco e posizionato il pentolone bollente ai propri piedi, vengono richiuse sopra la testa. Mi viene consegnato in mano un ramo per girare, e continuare a girare tutto il tempo, l’infuso di erbe.
Racchiuso là dentro, girando l’infuso come una pozione magica, si inizia a sudare velocemente e, in attesa che trascorrano gli interminabili dieci minuti, si continua a girare e sudare facendo attenzione a rimanere seduti saldamente. Movimenti troppo bruschi si trasformano in capogiri.
Ha iniziato a piovere e con gli abiti sottobraccio e grondante di sudore raggiungo in mutande la mia capanna. Mi asciugo e mi distendo sul letto in attesa delle nove di sera.

Tratto dal libro “CarreteraCentral – infanzia amazzonica”

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