Sulle orme di Leonard Clark

di Massimo Gallizia –
Sulle orme di Leonard Clark: prima tappa
Normalmente nel cassetto si tengono i sogni, io ci tengo due viaggi che mi sono proposto di fare: il primo è di ripercorrere le orme di Leonard Clark, il mitico esploratore che nel 1946, partendo dalla cittadina di La Merced, raggiunse Iquitos e da lì Borja ed infine Bella Vista sulle Ande risalendo l’alto Marañon. Non voglio parlare del secondo per scaramanzia in quanto portare a termine il primo è già un’impresa, e non da poco. Come in tutti i miei viaggi, prima di partire, valuto tutto il valutabile cercando di non tralasciare nulla. Mi documento il più possibile leggendo i resoconti di altri, in modo da portare la percentuale di rischio a livelli più bassi possibile. Bisogna essere consapevoli che l’imprevisto è comunque sempre presente, necessita disporre di spirito di adattamento, doti di iniziativa e grande pazienza. Al momento il terrorismo sta incontrando una fase di recrudescenza, da poco hanno ammazzato in un’imboscata 13 militari. La delinquenza comune prospera anche per il poco o nulla che fa la polizia e gli assalti ai mezzi di trasporto ormai sono cronaca ordinaria. Inizio la mia ricerca partendo dall’ufficio del turismo di Trujillo, il treno che da Lima transita per la Oroya è stato soppiantato dai pullman a lunga percorrenza, più comodi e meno costosi. Esiste un treno prettamente turistico che giunge fino a Huancavelica senza soste intermedie e quindi non fa al caso mio. Qualcuno mi dice che esiste un treno per il trasporto merci che fa la tratta Lima – La Oroya e che a volte aggancia vagoni passeggeri, ma le informazioni esatte potrò averle solo a Lima.

A Tarma, prima tappa del mio viaggio, piove ancora molto quindi decido di fare un “salto”al Canyon del Cotahuasi. Viaggiare da Lima ad Arequipa, è un piacere, da qui a Cotahuasi è una tortura. Il bus è vecchio, non vi è lo spazio per distendere le gambe, non vi è aria condizionata e gli effluvi che colpiscono le nari non provengono dai laboratori di Chanel. Le 11 ore per percorrere i 280 km. transitando per il punto più alto posto a 4600 metri, vi assicuro sono interminabili. Quando però i vostri occhi si riempiranno delle bellezze paesaggistiche di Cotahuasi, sarete d’accordo con me che ne valeva la pena. Bene dopo questo preambolo riprendiamo da Cotahuasi paese. Nello scendere dal bus s’incontrano sulla piccola piazza le solite donne che vendono calde bevande a base di erbe ai passeggeri infreddoliti. Sale subito evidente che ci sono alcuni alberghi nuovi , chiaro segno che il turismo si sta sviluppando e presto Cotahuasi perderà quel suo aspetto di borgo medioevale. Alloggio al solito Hostal Fany Luz. Sono le 3,30 del mattino, riposo tre ore. Una doccia calda, mi ritempra e dopo una rapida colazione, scendo al torrente che scorre in fondo al canyon. Qui la parola inquinamento è stata abolita dal vocabolario, le sponde non sono ricettacolo di sacchetti di nylon ed altri residui di civiltà. Voglio saggiare la pescosità del fiume in quanto per vari motivi la volta precedente non ho potuto farlo. Comincio col lanciare il cucchiaino attraverso alla corrente e per mezz’ora non sento una tocca. Giunto ad una spianata dove si notano grandi massi sommersi, al primo lancio finalmente una trota abbocca, è sui due etti e si difende come se fosse il doppio. Nei due lanci successivi, ne prendo altre due. Al termine di due ore effettive di pesca ho catturato sei pesci ed altrettanti li ho persi. Niente male per un fiume che si ripopola naturalmente senza immissioni. La Domenica con un pulmino locale,vado fino ad Alca e di qui discendo il fiume sino a Luicho catturando solo una iridea di buone dimensioni mentre una seconda simile alla prima si slama sotto riva. Il livello del fiume è comunque alto e l’acqua molto fredda, sicuramente a Luglio la situazione potrà essere migliore. Prima di terminare aggancio un salmerino di trenta centimetri. Da domani solo turismo. Lunedì con mezzi locali vado al pueblo di Huainacocha per raggiungere il bosco di pietra. Il tragitto fatto in piedi, stipato come in una stia di polli, la dice lunga sulla sicurezza dei trasporti. Il mezzo dispone di 18 posti a sedere e siamo in 40 senza contare il carico dei più disparati generi. È evidente che siamo ben oltre il carico massimo consentito. L’aiutante autista deve continuamente scendere e porre due tavole di legno in corrispondenza delle ruote per superare buche e fossi. Il ciglio della strada è costantemente sfiorato dalle ruote. Un cedimento della sospensione può voler dire precipitare seicento metri più in basso. Finalmente si giunge a Huainacocha dopo due ore e mezza di batticuore. Delusione, mi hanno informato male, per giungere al bosco di pietra necessitano quarto ore e mezza di cammino che tradotte e moltiplicate per il numero delle dita dei piedi, divise per la radice quadra dei capelli che uno ha in testa vuol dire sei ore abbondanti. Questo perché quattro ore e mezza di cammino di un abitante di qui, con una capacità polmonare il doppio della nostra ed una forza nei polpacci pari a quella di un mulo, si traducono, ad essere ottimisti, in un cinquanta per cento in più. Salire al bosco, godere della vista e fare fotografie, significa pernottare in tenda una notte e non sono attrezzato. Non importa, la gita è solo rimandata. Ritorno con lo stesso mezzo, questa volta per metà vuoto. Mercoledì vado a Pampamarca con una ragazza di Lima, splendida camminatrice oltre che splendida ragazza. Passiamo una giornata piacevole raccontandoci dei viaggi fatti e di quelli che vorremmo fare. Mercoledì pesca al mattino e ritorno ad Arequipa nella notte. Sosta di due giorni nella Ciudad Blanca e rientro sabato notte a Trujillo. Non vado direttamente a Tarma per iniziare il viaggio della mia vita, ho fatto acquisti a iosa per amici e parenti e non posso trascinarmi il tutto per oltre un mese nella selva. Ba! Quando si parla di destino, Lunedì, leggo sul periodico “OJO” che il pullman diretto a Tarma è precipitato in una scarpata nei pressi di La Oroya. Ci sono cinque morti e quattordici feriti. Come consuetudine, invece dei soccorsi che giungeranno dopo sette/otto ore, calano copiosi gli sciacalli, feccia dell’umanità, a derubare morti e feriti. Il Perù è anche questo. Sicuramente ho molta fortuna, avrei potuto essere su di quel pullman come avrei potuto essere sul pullman dell’impresa “Immacolata Concepcion” che si è ribaltato lo stesso giorno che sono giunto a Cotahuasi fortunatamente con un’altra compagnia, speriamo che la fortuna continui.
Ho trascorso una settimana a casa riprendendo i cinque chili persi a Cotahuasi e sono pronto, in tasca ho il biglietto per lima.

Martedì 02/06/09
Giungo a Lima alle 08,20 del mattino e subito mi faccio turlupinare dal primo taxista che incontro. L’autista, dimostrando molta disponibilità, per 12 soles è disposto a portarmi sino al terminal da dove partono i mezzi per la selva centrale. Nemmeno a metà strada, il taxista si ferma ad un’agenzia che fa la stessa tratta per chiedere gli orari delle partenze, io resto in macchina a sorvegliare gli zaini. Ritorna sorridente dicendomi che entro mezz’ora parte il primo bus. Scendo, pretende lo stesso prezzo pattuito in precedenza, lo pago volentieri in quanto ho risparmiato il tragitto sino al terminal. Il taxi se ne va, ma vengo a sapere che il primo bus non parte dopo mezz’ora, ma bensì dopo 3 ore. Altro taxi che mi trascina sino al terminal dove già si sta muovendo il pullman per Tarma, lo prendo al volo. Altro tentativo di fottermi, il passaggio costa 15 soles, pago con 20, non ha il resto. Il pullman si sta muovendo, non è una grande cifra, ma non sono disposto a perderla. Urlo all’addetto di darmi il dovuto e mentre il mezzo sta prendendo velocità resto appeso fuori con la mano tesa. Ottengo il dovuto, conto, manca un sol ma è già una vittoria. Fuori di Lima la strada s’incunea nel vero senso della parola fra strette gole ed anguste valli sempre dominate da altissime montagne. Tornante dopo tornante, la strada s’inerpica sino ad oltre 4800 mt. offrendo uno spettacolo superbo. La discesa ripidissima che mi porterà sino a Tarma posta 1500 mt. più in basso non offre uno spettacolo altrettanto piacevole in quanto i fianchi delle montagne sono deturpati dagli scavi delle miniere. È comunque un viaggio da fare di giorno per godere del panorama ed anche per la pericolosità del cammino che di notte peggiora. Giungo a Tarma alle cinque del pomeriggio, alloggio all’hostal Vargas per la sua vicinanza alla piazza principale. Potrei continuare fino a La Merced, ma la discesa di 2200mt. fatta all’imbrunire non mi entusiasma, preferisco sostare un giorno e visitare la grotta del Guapago detta anche la grotta senza fine in quanto alcune spedizioni hanno raggiunto i 2745 mt. di profondità senza peraltro aver toccato il fondo.

Giovedì, 04/06/09
Parto con un taxi che trasporta cinque passeggeri, costo pro-capite: 12 soles (elevato se si pensa che con un bus si pagano 5 soles, ma il vantaggio è che si risparmia un bel po’ di tempo). Giungo a La Merce alle 9,30 del mattino, prendo alloggio al S. Rosa consigliato dalla guida Planet. L’unico vantaggio è che costa veramente poco, niente di più, per una notte può andare. La Merced, descritta da Leonarda Clark nel suo libro come un piccolo villaggio composto da una cinquantina di abitanti, è cresciuta a dismisura ed in modo caotico. Per le sue vie si vendono motoseghe tedesche, rasa erba giapponesi, motocicli cinesi, caffè, frutta della selva, di tutto e di più. Lascio lo zaino grande all’albergo e con un moto taxi vado al terminal da dove partono i mezzi per la comunità nativa di Pampa Michi. Con il termine di nativo si identificano i discendenti dei primitivi abitanti Campa, feroci guerrieri ampiamente descritti da Clark ed ora relegati in un’area dove si umiliano a vender collanine ed a inscenare miseri spettacoli per i turisti. Spero comunque di incontrare una persona che sappia darmi informazioni sui siti che furono le prime tappe del viaggio di Clark, ovvero: la “Colonia Perenè” in concessione al britannico Stone; la cosiddetta missione “Sutsiki” che in realtà era un centro di raccolta e vendita di schiavi ed infine la missione cattolica “Opata” fondata dal missionario francescano Padre Antonio. Per il momento sto seduto su di un pulmino in attesa che si riempia al fine di partire. Giungo alla comunità nativa dopo circa mezz’ora. Il pulmino mi lascia al bivio ed in cinque minuti sono nel centro del villaggio, in tutto una ventina di capanne Capanne di Nativisparse. Alcune donne con indosso una tunica marrone ed il capo coperto da un panno rosso si trascinano appresso i figli più piccoli. Chiedo del capo che mi viene indicato. Fernando è un giovane di circa trentacinque anni, non molto alto, robusto, indossa una tunica di color chiaro, i dati somatici indicano chiaramente la sua discendenza. È disposto ad accompagnarmi per visitare la Colonia Perenè e Sutsiki, luoghi che conosce molto bene . Contratto il suo compenso dopodiché si occupa di reperire il mezzo per raggiungere i luoghi in questione. Tornerà dopo un’ora. Nel frattempo gironzolo per il villaggio e familiarizzo con i nativi,con le donne perché gli uomini non si vedono. I bimbi invece sono una moltitudine. Dopo un po’ mi siedo all’ombra di una capanna ed un opossum viene a sistemarsi su di una delle mie scarpe e gioca con i lacci. Fotografo un grosso roditore dal peso di una quindicina di chili che qui chiamano “machete” per via dei grossi denti che riescono con facilità a troncare arbusti ed alberelli. Nel complesso mi pare di capire che nella comunità si vive in povertà estrema ma felici. Sono passate da poco le dodici che una station wagon arriva sollevando una nuvola di polvere, ne scende Fernando che mi presenta il giovane autista. Partiamo per la Colonia Perenè. Viaggiamo per circa un’ora su di una pista sterrata in un susseguirsi di alte colline, in fondo alla valle scorre il Perenè dalla limpide acque. Su di entrambi i versanti, immense piantagioni di arance si estendono a perdita d’occhio. Attraversiamo un piccolo villaggio e dopo pochi minuti ecco la Colonia Perenè. La scorgiamo dall’alto della collina ed è imponente. Scendendo dal colle ed entrando nella via che la attraversa resto sbalordito, quello che mi si presenta davanti è qualcosa di biblico.

Mi ci vuole un po’ per riprendermi, davanti a me ho i resti di quello che era uno dei più grandi complessi industriali per la raccolta del caffè dell’epoca. In giro quasi nessuno, chiedo ad una donna se si può incontrare qualche anziano per avere informazioni dettagliate sulla storia del complesso, nel frattempo si avvicina un uomo sui 55 anni, è la persona giusta. In un luogo dove non viene mai nessuno, dove uno straniero è una novità assoluta,quale migliore occasione per dialogare. Le parole escono a fiumi. Quello che ci sta di fronte è l’esempio della capacità, dell’ingegno,della forza dell’uomo capace di domare anche la natura. Nel 1892, giungono qui nel mezzo della selva l’inglese Mitchel Whaley e cento famiglie di Italiani che danno inizio a questa splendida avventura. Nel periodo del massimo splendore si producono 30.000 quintali di caffè annui con un organico di 2500 operai. C’è una scuola dove già nel 1919 gli alunni parlano inglese,vi è un ufficio postale gestito da un italiano, c’è un ospedale, una sala cinematografica,una panetteria sforna pane per tutte le maestranze. Una centrale idroelettrica con una turbina Pelton, produce l’energia elettrica necessaria, una immensa costruzione, ancora esistente, è dedicata agli uffici. I macchinari sono i più moderni. Nel 1920 funziona un centralino telefonico che comunica con gli altri stabilimenti posti nei dintorni ed una radio mantiene i contatti con Lima. Il caffè che viene coltivato sulle colline perviene alla Colonia a mezzo di tubi da quattro pollici di diametro e dove l’acqua lo spinge fino alle vasche di raccolta. Quello coltivato più lontano arriva fin qui con camion che transitano direttamente su di una bilancia che ne controlla la quantità. La sicurezza contro eventuali assalti da parte dei nativi è mantenuta da una selezionata squadra composta da gente ben armata. Le epidemie vengono controllate bruciando i corpi ed assoldando nativi che li seppelliscono lontano nella selva. Più in alto sulla collina c’è la casa dei “padroni”. La casa dell’inglese Stone, in pietose condizioni, è abitata da una donna nativa che non mi ha permesso di entrare, ma dalle finestre ho potuto vedere l’interno spoglio. A fianco, un edificio più moderno e dotato di piscina, è dell’epoca successiva al periodo Stone che va dal 1940 al 1950. Anche questa costruzione, spoglia all’interno, sta cedendo all’avanzare della giungla che si sta riappropriando di quanto sottrattogli. Dopo il periodo Stone, altri proprietari si sono susseguiti, tra i molti un consorzio canadese/olandese e per finire una cooperativa campesiña che fu l’ultima, in quanto le incursioni terroristiche del gruppo denominato “Sendero Luminoso”, posero fine all’epopea. Gli arredi che erano nelle ville lussuose dei “padroni” furono spartiti fra i vari contadini che ora coltivano i “loro” pezzi di terra. Risalgo in macchina ancora frastornato da quanto ho visto ed appreso, non riesco a capacitarmi, cerco di non pensare guardando fuori dal finestrino. Tutto intorno è un’ esplosione di fiori e di colori. Cosa rimane della grandezza dell’uomo? Ben poco,forse i ricordi.

Per raggiungere Sustiki bisogna traghettare il rio Perenè. Una lunga canoa spinta da un fuoribordo giapponese da 40 HP vince con facilità la corrente. Dall’altra sponda alcuni bimbi giocano felici nell’acqua, un breve cammino su di un sentiero che si addentra nella giungla mi porta ad una radura nella quale spicca quella che un tempo era una casa padronale. Seduto sotto al portico un anziano sta leggendo un libro antico come lui. Quando viene a sapere che sono Italiano, mi sciorina la storia di Romolo e Remo. È più vicino ai novanta che agli ottanta, la sua mente non è più coerente e sfuma così l’opportunità di conoscere i fatti che hanno contribuito a fare di Sustiki uno sperduto pueblo della selva dedito all’agricoltura. Fotografo alcune capanne sparse qua e là, la scuola su cui spicca il nome di Sustiki e ritorno al rio Perenè per raggiungere La Merced. Domani partenza per Satipo dove spero di aver notizie della “Missione Opata” e come raggiungerla.



Venerdì, 05/06/09
Alle 08,15 sono seduto in un taxi diretto a Satipo. Sull’auto siamo in sei con l’autista. Sui sedili posteriori a tenermi compagnia due bellezze locali. Nessuno parla nelle due ore di viaggio, la ragazza seduta accanto a me si addormenta con il capo appoggiato alla mia spalla e posso osservarla bene. Avrà vent’anni ed è molto bella, il colore della sua pelle è leggermente ambrato, i seni non molto grandi e non costretti dal reggiseno, si sollevano ritmicamente. Mi costringo a guardare fuori dal finestrino. A Pichincha, l’auto si guasta e scendiamo, mentre trasbordo gli zaini su di un altro mezzo, la mia compagna si eclissa. Pazienza. Giunto a Satipo mi sistemo all’hostal S. Josè, anonimo alloggiamento senza lode e senza infamia. Incomincio la mia ricerca per giungere alla Missione “Opata”; ma mi accorgo che nessuno conosce il sito, ne all’ufficio del turismo ne tanto meno alla parrocchia. Vado a chiedere alle agenzie di viaggio che gentilmente mi permettono di interrogare i vari autisti che guidano per ogni dove nella selva, ma nulla. L’unica missione francescana è quella di Puerto Ocopa che in teoria potrebbe essere quella descritta da Clark, ma non si trova alla confluenza del rio Pangoa con il rio Perenè come riportato sulla mappa. Il rio negli anni ha cambiato il suo corso ed ora sfocia molto più a valle e nessuno ricorda che la missione si chiamasse “Opata”. Prenoto il passaggio in auto per Puerto Ocopa per le 6 del mattino successivo e vado a scovare un ristorante dove servano autentica cucina tipica. Mi servono carne di cervo con yuca , platano fritto ed una caraffa di succo di maracuyà, ottimo frutto della selva. Passo il pomeriggio a bighellonare ed a osservare la gente in piazza d’armi. Alle 19,30 in camera a preparare gli zaini e domani sveglia alle 5.

Sabato, 06/06/09
Mi sveglio alle 3 del mattino, l’albergo sarebbe passabile se non fosse per il baccano che non ti permette di riposare. Un gallo nel cortile proprio sotto alle finestre, evidentemente con problemi esistenziali, incomincia a salutare il sole alle 11,30 di sera per continuare poi tutta la notte. Il portiere tiene il volume del televisore ai massimi livelli, ma non basta, la larga scala che porta ai piani superiori, provvede ad amplificarlo ulteriormente. Faccio una doccia, mi carico gli zaini,scendo nella hall ed informo il portiere che non aspetto il taxi che mi dovrebbe raccogliere alle 6 , ma vado direttamente all’agenzia. Contemporaneamente a me esce dall’hotel un negro di mole imponente che si avvia nella mia stessa direzione. Parliamo un po’, la sua compagnia è rassicurante vista l’ora ed il buio nella strada. Giunti nella piazza d’armi, vedendo che io tiro dritto per raggiungere l’agenzia situata alcuni isolati più avanti, mi blocca dicendomi di non andare assolutamente nella direzione imboccata perché a quell’ora vuol dire farsi rapinare. Mi consiglia di prendere uno dei taxi che stazionano nella piazza ed invece di raggiungere Puerto Ocopa, sostare in Mazamari e con un areo raggiungere Atalaya con un risparmio di 11 ore. Costo del passaggio in aereo: 30 euri. Una soluzione ottimale però io devo trovare la missione di Padre Antonio e quindi vado a Puerto Ocopa. Il taxi che scelgo, anzi, il taxista che mi sceglie, è un robusto giovanotto dall’aspetto rassicurante, la sua auto è piena come un uovo, non manco che io. Partiamo alle 5.45, un pensiero all’Altissimo è dovuto. Una strada infernale, date le sue condizioni, in circa tre ore ci porterà a Puerto Ocopa. Nel viaggio si possono vedere colline nebulose, fiumi stupendi. Ampi disboscamenti accolgono ordinate piantagioni di banane, di arance, di manghi. Sperduti villaggi di nativi si alternano ai villaggi dei coloni, questi ultimi autori della trasformazione agricola. La strada è comunque molto trafficata in quanto Puerto Chata, posta ad 1,5 km. oltre Puerto Ocopa, è un centro strategico dove i nativi vengono a comperare tutto quanto occorre loro: viveri, combustibile, attrezzi, abiti, filo da pesca, ami e quant’altro. È un centro di scambio e di raccolta di prodotti di ogni genere, punto di partenza e di arrivo di un’infinità di cose e persone. Se volete farvi un’idea di Puerto Chata, immaginate il più caotico e squinternato paese di tanti film western, ebbene, Puerto Chata è molto peggio. Però qui ci si imbarca per raggiungere Atalaya, Bolognesi, Pucalpa, Iquitos, senza contare gli infiniti scali intermedi.Tornando alla nostra strada,si attraversano torrenti, si evitano frane, si guadano ampi tratti allagati e dulcis in fundo, quando due mezzi viaggiano ravvicinati, quello dietro raccoglie tonnellate di polvere. A questo punto, diventa imperativo passare avanti, nel tentativo di farlo si viaggia per lunghi tratti affiancati, anche in curva e con visibilità zero. Le gomme naturalmente sono slik e nel percorso quasi sempre una se non due, passano a miglior vita. Finalmente giungo a Puerto Ocopa dove il taxista mi assicura esiste la missione che sto cercando. Scendo e mi carico il fardello degli zaini sulle spalle avviandomi alla missione. Accanto al fabbricato principale di concezione moderna, sorge una chiesa di mattoni rossi. Alla base del muro si scorgono chiaramente tratti anneriti dal fuoco. Una grande emozione mi pervade, ho la certezza di essere nel posto giusto. Una frotta di bambini mi attornia e mi guarda con estrema curiosità. Sono prevalentemente di etnia Aschàninka. Chiedo del Padre e mi dicono che non c’è, chiedo allora di parlare con la madre superiora che vanno prontamente a chiamare. Mentre l’aspetto devo rispondere ad un milione di domande. Una bimba , vedendo la minuscola bandiera tricolore cucita sui miei pantaloni, prontamente mi identifica come italiano. Chiedo perché mi osservino così intensamente e mi dicono perché sono diverso. Altra domanda, perché sono diverso, risposta: per il colore degli occhi, perché sono più alto e così via. Arriva una giovane monaca, sono commosso, non riesco a trattenere le lacrime. Abbraccio la suora piangendo e le spiego il perché della mia commozione. Giungere dall’Italia alla ricerca di luoghi descritti in un libro scritto da più di sessant’anni (l’autore visitò questi luoghi nel lontano 1946) scoprire che esistono ancora, che esiste gente che si ricorda di quell’epoca e che ha conosciuto i personaggi menzionati. Giungere sin qui consultando le mappe che Leonard Clark ha disegnato e pubblicate nel suo libro, mappe che oggi non sono attuali al cento per cento, è stata una bella impresa. Il padre purtroppo si trova a Satipo, proprio di dove provengo. La superiora, anziana suora, non mi vuole ricevere, sono una novità troppo grande per questo sperduto convento, ha paura non avendo la protezione del padre. Bene, mi accomiato e vago indeciso intorno all’ampio spiazzo. Scorgo un uomo in lontananza e decido di rivolgermi a lui. Chiedo se esiste qualcuno di età avanzata (qui vengono chiamati “los antiguos” )che si ricordi o che conosca la storia del sito e del convento. Mi risponde che gli anziani sono in riunione. In questi giorni nel nord del paese, i nativi si sono scontrati con la polizia, con decine di morti da entrambe le parti. La situazione è calda, comunque vedrà come aiutarmi, mi informa comunque che entrando in qualsivoglia comunità di nativi, prima di ogni cosa necessita rivolgersi al capo. Sto aspettando da cinque minuti quando mi si presenta un giovane sui 27 anni, longilineo, ma estremamente muscoloso, viso abbronzato con le caratteristiche tipiche dei nativi. Spiego al giovane che si chiama Hector della ricerca che sto portando avanti e della mia esigenza di contattare qualcuno che abbia conosciuto padre Antonio, che conosca la storia della missione. Anche lui concorda nel dirmi che l’unico che mi può aiutare è padre Castillo che vive qui da oltre sessant’anni . Sono abbastanza seccato di questi contrattempi, mi dovrò trattener in loco per non so quanto tempo per raccogliere le informazioni che mi occorrono. Fortunatamente Hector mi ospita in casa sua. Posate le mie cose e sistemato il mio letto con sacco a pelo e zanzariera, propongo di andare a far spesa. Non voglio pesare sulla loro economia in quanto qui vivono in condizioni di estrema povertà. Quindici minuti di cammino attraverso la selva ci portano a destinazione. Lungo il percorso chiedo se ci sono serpenti, Hector nell’intento di rassicurarmi mi risponde: non molti. Puerto Chata è veramente un posto di frontiera, chiatte trasbordano da questa parte del rio Perenè poderosi camion Volvo carichi di legname proveniente dalla giungla mentre lunghe file dei medesimi, attendono il loro turno . Un gran numero di lance a motore caricano il più eterogeneo esempio di umanità diretto ai più svariati avamposti della selva. Hector ed io decidiamo di berci qualcosa di fresco ed approdiamo ad un ristorante posto direttamente sul fiume. Incontriamo suo suocero in compagnia di un fratello, li invito a bere con noi, e qui sorpresa, lo suocero di Hector ha conosciuto padre Antonio e conosceabbastanza la storia della missione. Mentre discorriamo, ci raggiungono il capo e due dignitari di una comunità posta nel folto della selva. Parlano concitatamente con Hector di problemi relativi ai fatti di sangue avvenuti pochi giorni prima. Mi sento un po’ imbarazzato in quanto “gringo” e quindi estraneo, ma riesco a controllare bene la situazione proponendo ai nuovi arrivati di bere e mangiare con noi. La cosa riesce gradita e vengo invitato a visitare nei prossimi giorni la loro comunità. Più tardi decido di andare con Hector al fiume per trovare refrigerio dato il caldo torrido. Il rio Perenè, largo circa duecento metri, al centro scorre rapido, ma presso la riva è placido e permette di nuotare in tutta tranquillità. La riva sabbiosa e ombreggiata induce al riposo, variopinte farfalle sono ovunque, poco più in là alberi carichi di frutta sembrano invitarci a raccoglierla. Nel tornare alla casa infatti raccogliamo pompelmi di dimensioni enormi e limoni che, contrariamente a quelli che si vendono nei mercati della costa, sono grandi come arance. Prima di notte, vado alla missione per farmi dare il numero di telefono della parrocchia di S. Francesco a Satipo dove padre Castillo si trova. Nessuno sa quando il frate ritorna a Puerto Ocopa ed io non posso attenderlo all’infinito, nemmeno voglio correre il rischio di ritornare a Satipo mentre lui è in viaggio per venirsene qui.

Domenica, 07/06/09
Dopo una notte quasi insonne e questa volta per colpa della base militare posta a 150 metri dalla casa al limitare della giungla. La base militare è la copia esatta di un fortino di antica concezione. Pali di bambù infissi nel terreno, delimitano un fronte di circa 60 metri per 100 di lunghezza. Quattro sentinelle per tutta la notte montano la guardia appostate ai quattro angoli ed ogni 30 secondi si chiamano ad alta voce gridando parole convenzionali. Alcune volte sparano una raffica nella giungla. Cose da matti! Salta l’opportunità di andare a Satipo, si sta muovendo qualcosa di concitato. I capi delle comunità si stanno radunando per coordinare un blocco generale di tutta l’Amazzonia dopo i tragici fatti successi i giorni scorsi a Bagua. Domani mattina presto devo andare a tutti i costi a Satipo per parlare con padre Castillo e nello stesso giorno trovare un mezzo per Lima in quanto Giovedì inizierà il blocco di tutte le strade. Su richiesta di un dirigente nativo, mando una email al giornale “La stampa” di Torino affinché si sensibilizzi l’opinione pubblica europea. Nella mattinata il comitato di difesa della comunità, cinque persone in tutto, armate di vecchi schioppi, ha fatto un’esercitazione davanti al forte militare non tanto a scopo provocatorio quanto a voler dimostrare la loro volontà di esistere. Poco dopo l’una, mentre ci accingiamo a mangiare, un emissario del direttivo viene a prelevare Hector in quanto facente parte anche lui della dirigenza. Alle tre non è ancora rientrato, la moglie mi dice che tarderà parecchio, butto giù queste note con preoccupazione. Quando Hector rientra mi conferma il blocco. Più tardi andrò ad internet per vedere se c’è risposta da parte della Stampa e chiamerò Satipo per informarli che domani sarò là. Fortunatamente, la comunità dispone di un telefono satellitare, di una postazione internet e di un televisore chiusi a chiave e disponibili in determinati orari. Con Hector faccio un giro per la comunità, incontro un gruppo di tre bimbi, il più piccolo avrà due anni, piange a dirotto, lo osservo e vedo che ha un piede insanguinato, a terra un machete. Vorrei prenderlo in braccio e portarlo al posto medico che si trova a non più di cinquanta metri , ma Hector me lo impedisce. I genitori potrebbero prenderla male e poi lo cureranno secondo le loro usanze. Fortunatamente più tardi lo vedo allegro e saltellante, sempre scalzo naturalmente. Hector viene trattenuto da alcuni nativi ed io continuo solo. Ad un tratto sento alle mie spalle qualcuno che mi apostrofa aspramente, mi fermo e mi volto. A 10 metri, un nativo di circa quarant’anni, armato di un lungo fucile mi apostrofa malamente. Lo accompagna la moglie minuta, giovanissima e con un figlio posto in una gerla alle sue spalle. Un ragazzo sui sedici, diciassette anni, armato di machete sta un poco distante. Già il giorno innanzi, un nativo, nel passare accanto alla sua abitazione, ha urlato al mio indirizzo frasi incomprensibili, ma con un tono che non lasciava dubbi sull’intenzione di offendere. Non sono disposto a tollerarlo ulteriormente. Vado loro incontro, sono chiaramente ubriachi. Il nativo mi urla alcune frasi sconnesse. Lo anticipo porgendogli la mano e lo apostrofo con un “hola amigo”. Gli afferro la mano e la stringo volutamente con tutta la forza di cui dispongo mentre con l’altra mano lo afferro alla spalla e lo strattono in un modo che vuol essere amichevole, ma non troppo. È dieci centimetri più basso di me, la canna del fucile rivolta verso il basso struscia sul terreno, sicuramente la mia reazione non è quella che si aspettava. La moglie ride in modo forzato, il giovane che è suo fratello per darsi un contegno, sfronda a rapidi colpi di machete una siepe poco distante. L’uomo è evidente non sa come uscire dalla situazione, torna ad apostrofarmi in modo, questa volta, meno rude chiedendomi di dove sono. Sempre tenendogli una mano sulla spalla ed osservando i movimenti della mano che sostiene il fucile gli rispondo che sono italiano. Mi chiede questa volta nuovamente con voce arrogante che io gli parli dell’Italia. Sono scocciato, in modo secco e sbrigativo gli rispondo che non ho nessuna voglia di perdere tempo a parlargli del mio paese visto che è ubriaco fradicio e gli suggerisco di andare a casa. Abbassa gli occhi, non accenna nessun movimento, osservo la moglie ferma un paio di metri più indietro, ha un tenue sorriso sulle labbra che si va spegnendo. Il fratello continua a sfrondare la siepe. Mi volto e me ne vado, dietro nessun commento. L’alcool è sicuramente uno degli elementi che contribuiscono al degrado di quest’etnia un tempo forte e fiera. Hector che nel frattempo mi ha raggiunto m’informa che l’indomani mattina mi accompagnerà a Satipo dove lui farà alcune compere ed io potrò parlare con padre Castillo. Dopo una frugale cena, la moglie di Hector mette a letto i suoi due bimbi e si apparta. Hector ed io commentiamo i tragici fatti di Bagua dove i nativi, come già accennato, si sono scontrati con le forze dell’ordine. Armati prevalentemente di archi e frecce hanno inflitto pesanti perdite alla polizia pagando peraltro un alto tributo di morti e di “desaparecidos”. È evidente che Hector ha paura delle conseguenze che deriveranno dalla mobilitazione generale dei nativi. Mi chiede se voglio conoscere la storia della comunità e quindi della sua vita anticipandomi che è una storia molto triste. I suoi occhi sono lucidi, trattiene a stento le lacrime. Gli rispondo che la sua storia mi interessa ed intuisco il dramma che si nasconde dietro le sue parole. La sua famiglia approda alla comunità di Puerto Ocopa molti anni addietro,quando lui era bambino, la vita nella comunità si svolge serena con il contributo della Missione Francescana e la presenza carismatica di Padre Castillo. Nel 1985 i componenti di “Sendero Luminoso” arrivano alla comunità e con facilità convincono i nativi ad emarginare dapprima il frate e poi li assoggettano alla folle politica di sterminio di quanti non condividono il loro credo. Giungono a convincere le facili menti dei nativi, in particolare quelle dei più giovani ad uccidere addirittura i propri parenti. Coloro che si dissociano vengono trovati nella selva con le gole squarciate, nessuno ha il coraggio di reagire. Questo stato di cose continua fino al 1991 quando tutto sfocia in orrendi massacri .Hector ora piange senza ritegno, il suo è un pianto disperato: “io ero un bambino, non volevo uccidere, ma se no lo facevo avrebbero ucciso me e la mia famiglia, quello che ho fatto mi perseguita e mi crea gravi problemi mentali. No voglio che questo si ripeta, voglio solo vivere felice con mia moglie e con i miei figli”. Potrei vivere mille anni e non troverei mai le parole adatte per alleviare la sua pena. Gli pongo una mano sulla spalla e sussurro: “Hector, my amigo”. Altra notte all’insegna di urla e grida da parte dei militari del forte.

Lunedì, 08/06/09
Giungiamo a Satipo verso le dieci e subito chiamo la Parrocchia di S. Francesco d’Assisi, ma padre Castillo è in visita alle comunità circostanti con padre Mario e rientrerà nel pomeriggio. Mi cadono le braccia, è una persecuzione, questo frate è peggio della Primula Rossa, è inafferrabile. Sono un poco deluso, non posso sostare un altro giorno e correre il rischio di rimanere bloccato magari per un mese. Vado a prenotare un passaggio per Lima per la sera stessa. Chiamo la compagnia Flores a Lima e prenoto un passaggio per Trujillo sul bus Cama delle 12,30 del giorno dopo. Ci spostiamo ad un punto internet, Hector desidera avere un indirizzo di posta elettronica. Gli conformo il “correo” come si dice qui, gli insegno ad aprirlo, a chiuderlo e così via. È raggiante. Andiamo a pranzo con un ragazzo spagnolo, laureato a Milano. Sua moglie è di etnia Ashàninka, lui insegna all’università di Satipo. Al ristorante incontriamo due esponenti del governo regionale che sono preoccupati per la situazione, discorrendo vengo a sapere che ad un “gringo” sorpreso nella zona del rio Ene, hanno riempito la bocca di cemento. Sicuramente è opera dei narcotrafficanti a cui non piace avere in zona ipotetici informatori. Il ristorante è un po’ lontano dal paese e per rientrare otteniamo un passaggio da un motocarro della municipalità. Alle sedici riesco ad ottenere il tanto atteso colloquio con padre Castillo nella Parrocchia di S. Francesco d’Assisi. Finalmente sono in presenza dell’uomo che ha dedicato sessantacinque anni della sua vita alla cura delle anime nella selva amazzonica. Alto, segaligno, padre Castillo ha ottantaquattro anni, dai suoi occhi si sprigiona una sorta di magnetismo, una forza sostenuta da una fede profonda ed incrollabile. Conversiamo per un’ora e mi dà tutti i ragguagli che desidero. La missione di Puerto Ocopa non si chiamava “Opata” come riportato nel libro da Clark, non aveva addirittura nome, quello attuale con cui è conosciuta le vanne dato molto tempo dopo la visita dell’esploratore americano. Il fondatore fu comunque un predecessore di padre Antonio che comunque ha il merito di aver fondato o contribuito a fondare insieme a padre Castillo, le missioni che s’incontrano nel Gran Pajonal. Il compito di queste missioni era sopratutto quello di sottrarre bambini e donne alla schiavitù e qui tutto coincide con quanto riportato da Clark. Chiedo al buon frate il permesso di scattargli una foto e mi accomiato da lui con la promessa di andarlo a trovare quando riprenderò il mio viaggio. Prima di lasciarlo definitivamente gli chiedo come posso aiutarlo ed egli mi dice che il più gran desiderio suo e della madre superiora è quello di avere un forno dove cuocere il pane per i settanta orfani della Missione di Puerto Ocopa.

Massimo Gallizia
Av. La Rivera 750 HUANCHACO- TRUJILLO
maxgalli_3@ hotmail.com

Il libro scritto da Leonard Clark, si è rivelato fin qui un’esatta descrizione di fatti, di persone e di luoghi. Differenza sostanziale: un notevole sviluppo dell’agricoltura da parte di coloni, il proliferare delle miniere, in particolare quelle per l’estrazione dell’oro e le perforazioni petrolifere che congiuntamente producono un notevole inquinamento ambientale. La deforestazione poi, impoverisce ulteriormente il territorio. Chi paga il più alto scotto sono le comunità dei nativi, veri proprietari dei territori della selva e depositari dell’antica cultura india che si va estinguendo come si vanno estinguendo loro stessi.

Personaggi che hanno contribuito alla ricerca ed al raggiungimento dei luoghi descritti da Leonard Clark.

Il capo della Comunità Nativa Ashàninka di Pampa Michi nei pressi di La Merced:
fernando_ashaninka@hotmail.com

Il dirigente della Comunità Nativa di Puerto Ocopa: Héctor Pachacamac Chumpe
ashaninka_hector@hotmail.com

Il campesiño che ci ha informati sulla “Colonia Perenè” ora Comunidad Pampa Whaley: Rodrigo Jesus Perales Mayta

Padre Castillo, frate missionario dell’ordine di San Francesco d’Assisi:
Parroquia de S. Francisco de Asís SATIPO – Puerto Ocopa

Altri personaggi conosciuti nel corso del viaggio:
Presidente dé la Comunidad Nativa de Puerto Ocopa: Genaro Marcelino Olaya Martínez
Presidente de APAFA de Puerto Ocopa: Mario Domínguez Camiro
Presidente de CAD de Puerto Ocopa: Pascual Captzi Alonzo
Presidente de la Comunidad Nativa Poyensi – Rio Tambo: Elmer Ríos Flores
Il giovane Spagnolo docente all’Università di Satipo: Antonio Sancho
fvalleperu2003@yahoo.es

Subscribe
Notificami
guest

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

1 Comment
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
emilio spedicato
5 anni fa

Ho dedicato a Leonard Clark il mio saggio su Gilgamesh, che raggiunse Utnapishtim nel luogo da me individuato come Anye Machen, Tibet NO, e sono stato ribngraziato da madre e figlia di lui. Ho letto variue volte I fiumi…., felice che qualcuno abbia seguito le sue tracce.
Ho un libri sull’America Precolombiana, e ne stio finendo buno su Francesco d’Assisi che va in Bolivia con i Templari….
Mi vede su http://www.emiliospedicato.it