Roma – Dallas

di Diana Pasetti –
“Sai cosa faremo durante la nostra breve sosta all’aeroporto di Dallas?” disse improvvisamente il compagno della mia vita.
Interruppi la lettura e riposi il libro nel borsone posto ai miei piedi. Sentivo il nostro aereo scendere velocemente ora, e le orecchie otturarsi procurandomi un momentaneo dolore. “Telefoneremo ai Brantly’s!” continuò.
Guardai giù dal finestrino. L’ala destra dell’aereo pendeva verso il basso. Una virata sicura del velivolo ed ecco, sotto di noi, la pista d’atterraggio avvicinarsi sempre più.
Ci allacciammo meccanicamente le cinture di sicurezza, continuando tranquillamente a chiacchierare tra noi, mentre i piloti ci stavano conducendo nuovamente sulla terra.
“I Brantly’s…Figurati! Sono passati tanti anni da quando lavoravamo per Guy…chissà poi se n’avremo il tempo!”
Dallas era solo uno scalo per noi. Solo 45 minuti in terra texana per poi proseguire verso il Messico.
Eravamo, Walter ed io, in uno dei tanti viaggi di piacere e come sempre, tutti i nostri momenti lontani dalla patria dovevano essere utilizzati, riempiti.
Guy Brantly! Faticavo a ricordare il suo viso. Chissà quale abitazione laggiù, sotto di noi, era la sua. Dall’alto si sarebbero potute abbracciare tutte le case distese nella pianura. Avremmo dovuto vedere anche la sua, se solo l’avessimo conosciuta in una distesa apparentemente così abbandonata e piatta.
Guy! Roma e Via Veneto, tanto, tanto tempo prima…Le prime esperienze di lavoro per noi, l’entusiasmo della giovinezza, la spensieratezza mista all’incoscienza… Lavoravamo nello stesso ufficio allora Walter ed io. Lui era segretario particolare di Brantly. Il suo interprete, suo uomo di fiducia, factotum e persino un po’ schiavo ma, soprattutto, era suo grande amico.
Guy era ingegnere petrolifero, di stanza a Roma, in quel periodo, poiché la capitale italiana era un passaggio obbligato per gli americani che avevano interessi petroliferi nel Medio Oriente.
Dagli Stati Uniti a Roma, Guy, aveva anche fatto trasferire la sua famiglia, imbarcato con lei, il cane e fatto trasportare via cargo la sua amata automobile cadillac, troppo lunga e ingombrante per percorrere senza difficoltà, le stradine storiche della capitale. Sua moglie, Betty, sembrava una donna appena uscita da un saloon del Far West, agghindata e dipinta com’era. Pareva una bambola di porcellana priva d’espressione. Alta e pimpante camminava dritta e sicura, sempre seguita, a pochi passi di distanza, da due insipide per quando splendide bambine, alle quali pertanto non risparmiava rimbrotti e nozioni bigotte.

A Guy piaceva bere! Proprio tanto. Stringeva sempre una bottiglia, nella sua mano destra. La lasciava soltanto nel caso in cui sentiva i passi di sua moglie avvicinarsi all’ufficio, cercando di nasconderla frettolosamente, ma non sempre il suo tempismo era sufficiente e, Betty, la rossa, diventata furiosa quando lo sorprendeva a bere. Gli faceva allora delle scenate plateali davanti a tutti gli impiegati imbarazzati.
Essendo, allora, il mio tavolo posto proprio davanti all’ingresso nella reception, l’entrata di Betty non mi sarebbe potuta sfuggire.
Segnalavo così il suo arrivo. Attraverso il mio telefono, con una semplice premuta di tasto azionavo l’accensione di una spia luminosa in quello di Guy che faceva così subito sparire dal suo tavolo il bicchiere mentre la bottiglia era già nascosta dietro una tenda, mentre Guy già appariva l’uomo più indaffarato di tutto l’ufficio.
Era una gran brava persona e non meritava certo di essere trattato come un burattino disobbediente.
Gli affari però non andavano bene per la Ditta Brantly’s, né tanto meno per Walter e per me che lavoravamo per lui.
Così avevamo tanto tempo vuoto sul lavoro, e spesso ci prendevamo qualche minuto per noi, andando a passeggio in su e giù per Via Veneto. Discutevamo preoccupatissimi sulla precarietà del nostro avvenire, iniziato insieme da poco, e già con un bimbo in arrivo. Ad una certa curva, prima di imboccare il portone dove si trovava il nostro ufficio, alzavamo gli occhi in alto. Sapevamo che Brantly era affacciato al balcone adesso…come un disperato palo piegato.
Odiava l’idea di ritornare negli Stati Uniti, nell’anonimato di una cittadina del profondo sud dove il panorama riservava solo pozzi che sputavano olio nero e dove l’unica distrazione era una partita a carte con i bifolchi che affluivano un saloon. “Alto com’è, con quella testa penzoloni, uno di questi giorni perde l’equilibrio e casca giù…” osservavo, sospirando sui miei e i suoi problemi.
“Si, magari con una bottiglia in mano…” aggiungeva mio marito cercando di farmi sorridere.
Stavo ricordando il profilo asciutto del tipico uomo medio americano adesso, e anche le nostre preoccupazioni di allora.
Stavo ricordando di aver provato una gran pena nel tempo passato, per l’essere che al nostro confronto aveva pur sempre il mondo tra le mani.
“Dovrà tornare a casa sua. Lasciare Roma, la sua bella villa sull’Appia Antica…”
“…Rientrare nell’anonimato. In America non è nessuno, solo un numero…” Vero, noi invece, saremmo stati perlomeno dei morti di fame! L’ultimo nostro lavoro per lui fu l’aiutarlo ad impaccare tutte le sue vettovaglie, vendere con grande difficoltà, il macchinone americano, mettere la museruola al cane ed accompagnarlo con la sua famiglia all’aeroporto.
Nella sala di transito ove avremmo trascorso i prossimi 45 minuti Walter, si stava agitando sproporzionatamente.
“Cristo! Cambia questa banconota in monetine mentre io cerco il numero telefonico di Guy sull’elenco!”
“Prima devo andare al bagno”
Dovevo sempre andare in bagno io, in tutti i posti sconosciuti di questa terra, e nel Texas, ancora non avevo mai messo piede.
Al mio ritorno Walter era già attaccato alla cornetta dell’unico telefono libero in tutta la sala.
“Hallo Guy? This is Walter speaking. Si…sono Walter di Roma. Sono di passaggio, solo per pochi minuti qui a Dallas …sono all’aeroporto…Cosa dici?”
“Dai Walter.. fai presto… Stanno già chiamando il nostro volo…fai p r e s t o…”
Ero così vicina a lui intenta a tirargli una manica che riuscì a percepire un urlo dall’altro capo del filo.
“Walter! Gosh! You save my life!” Mi hai salvato la vita!
“What? What?.” Continuava a ripetere mio marito. La linea era probabilmente caduta. Addio monetine e addio anche al volo se non si decideva a riappendere quell’inopportuno ricevitore.
Corremmo come matti facendoci largo tra la folla che aspettava d’imbarcarsi per i voli più disparati.
Fummo gli ultimi a salire la scaletta. I reattori nuovamente accesi. Un frastuono.
“Cosa ha detto?” gridavo al marito davanti a me, mentre ci lasciavamo alle spalle l’ultima folata di vento texano. Lo sportello si chiuse alle nostre spalle che ancora non avevamo preso posto.
“Ha detto che gli ho salvato la vita!”
“Cosa?…”
Non pensammo più a Guy. Il viaggio continuava così come la nostra vacanza.



Al rientro a Roma, a casa, qualche settimana dopo, in mezzo a tanta posta, trovammo una lettera ed un pacchettino provenienti dal Texas.
La lettera raccontava dell’ultimo viaggio di Guy Brantly in Europa, a Londra. Narrava la storia di un taxi, di un incidente, uno scontro fatale e un americano che ancora una volta era costretto a ritornare negli Stati Uniti.
Questa volta su una sedia a rotelle e il permesso di Betty di tenersi stretta una bottiglia di whisky tra le mani.
Raccontava ancora di un telefono che aveva squillato miracolosamente nella sua casa sperduta in una sterminata pianura del Texas. Era seduto, come a Roma, alla sua scrivania. Dalla finestra non vedeva che pozzi sputare senza sosta un liquido nero…e lui, Guy, il dito sul grilletto di una pistola già pronta in posizione, appoggiata sulla sua tempia…
Forse anche a quell’apparecchio si accese una piccola stella luminosa. Poco importa, importante è che lui si distrasse, rispose e il tentativo assurdo fallì…Dall’altro capo del filo aveva sentito la voce di un suo amico italiano e per i suoi occhi il paesaggio dall’altra parte del vetro della stanza cambiò.
Forse vide il Pincio, Villa Borghese, Trinità dei Monti!

Nel pacchettino c’era una minuscola cabina telefonica ed una monetina da venti cent.

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