Un tombolino in America

di Stefano Pietri –
Eh sì, quest’estate ho passato delle vacanze davvero diverse. Infatti sono andato negli Stati Uniti ed in Canada, che non stanno proprio qui dietro a via Candia. Il tutto è nato una sera qualunque a casa a Roma, mentre stavo giocando dopo cena con le mie moto in salotto. Papà cercava di battere il record di velocità nel cambiare il numero dei canali sul telecomando (da quando abbiamo Sky ci sono circa 900 canali ed a volte si stressa un po’.) mentre mamma sgranocchiava il cedrato abbarbicata sul divano sfogliando un paio di chili di depliants di agenzie di viaggio. 

– Elio, perché ad Agosto non andiamo a New York? – dice mamma – Ci sono stata tanti anni fa e mi farebbe piacere tornarci. Magari facciamo un giro che comprende anche Washington e qualche altra città?
– Beh, sì è un idea.- risponde papy.
– Il solito entusiasmo.Elio che ne dici?
– Che dicevi, scusa?
– Elio, ma dove c’hai la testa, mi stai a sentire?
– Sì, sì, che ti sento, vuoi andare a Boston.
– A New York ho detto!, lo vedi che non mi stai a sentire?
– No scusa è che sembra che stasera in coppa non gioca Sheva.
– E ti pare.
E vanno avanti così per un po’. Poi nell’intervallo della partita mamma torna all’attacco ed aggiunge le cascate del Niagara, allora papà, mentre si collega ad internet e sfoglia le mail sul black-berry, dice:
– Ma lo sai che è una buona idea?, potremmo allora proseguire fino a Toronto ed andare a trovare Pierino, quel mio vecchio amico d’infanzia emigrato in Canada. Sono anni che mi invita.
– Va bene, dice mamma, è un’idea. Ora mi studio il percorso. Intanto, mentre lei organizza il tutto papà ne approfitta per comprare un paio di radio su e-Bay. Io non sapevo cosa fossero “Nuiorch” e “le cascate della signora cara”, però sono andato a dormire sognando di comprarmi qualche nuovo giocattolo in vacanza. Devo dire che con papà e mamma faccio abbastanza spesso dei viaggi, anche lontano, ma la novità di quest’anno è stata il coinvolgimento di zia Tetta e Stefano che, dopo un po’ di titubanze, hanno accettato la proposta, con mia grande gioia. Io non ho ancora quattro anni e non so quanto ho capito e quanto ricorderò di questo viaggio, infatti molte cose che abbiamo visto già mi sfuggono, ma cercherò di fare una specie di racconto delle nostre vacanze d’oltreoceano come se fosse un diario di viaggio.


Personaggi e interpreti:

IO: cioè Tommaso, detto Tommy, detto anche Tombolino. A detta di tutti, bambino molto bello e simpatico, ho quasi quattro anni, vado all’asilo, ma già conosco l’inglese e guido il trattore, riconosco le zucchine e il rumore della Ducati e sto imparando a giocare bene a nascondino.

MAMMA VANESSA: esemplare di longilinea ed atletica femmina determinata che sa raggiungere risultati di un certo livello (guardate me!..), con capacità organizzative direttamente proporzionali ai suoi famosi sbalzi umorali. Conosciuta per i suoi misteriosi fioretti, è fortemente dipendente da una nuova sostanza stupefacente chiamata “Duplo”.

PAPA’ ELIO: Simpatico dirigente d’azienda, diretto a sua volta dalla moglie nell'”azienda” familiare, cioè a casa. Grande mezz’ala, fa ancora la sua porca figura sui campi polverosi e non, di calcio a undici. La sua filosofia è sdrammatizzare anche le situazioni più delicate, come una partita persa dal Milan.

ZIA TETTA: Esemplare di prima zia di primo nipote, con tutto quello che ne consegue. Materna, ma anche “collega” in molti giochi che facciamo, dove credo che si diverta anche più di me. Pregi: i regali, l’altruismo e il tiramisù. Difetti: frequente astrazione dalla realtà dovuta forse ad influssi lunari, disordinata, ma solo in alcuni luoghi (quelli che danno più fastidio a zio).

ZIO STEFANO: Poeta (spesso incompreso, da zia soprattutto) e narratore di favole che mi fanno addormentare (lui non ha ancora capito se è una cosa positiva o meno.). Fotografo della domenica e delle vacanze, fa concorrenza ai giapponesi per scatti e rullini usati (mi sa che gli conviene la digitale.). Mi sembra una persona seria.

PS: Una menzione speciale merita ZIO POPPO, senza l’abnegazione del quale questo viaggio non sarebbe stato possibile. Egli infatti si è dedicato per oltre due dico due settimane a Nonna Nina e a zio Vincenzo a Gesualdo e zone limitrofe, avendo quindi una sindrome da regressione post irpina, che ha comunque comportato una tessitura di trame di relazioni interpersonali a vari livelli, spaziando da medici a infermiere, a vecchie fiamme che si sono riaccese in un attimo e a badanti a cui più o meno badare, da sindaci a volontari, da giornalisti a politici, per finire con qualche inevitabile chilo dovuto a fusilli e panzetta.


1° giorno:

Partenza

Le partenze a casa mia sono sempre molto frenetiche. Nonostante io li svegli molto presto, i miei due simpatici genitori fanno a gara a dimenticarsi le cose e a darsi la colpa l’un l’altro, per poi fare tardi e quindi correre per arrivare in tempo. Con il taxi passiamo a prendere zia Tetta e zio Stefano a casa loro a Roma (più di una volta mi hanno spiegato che anche casa mia è Roma e pure quella di zio Poppo, ma io questa cosa qui ho ancora un po’ di difficoltà a capirla) i quali si fanno trovare pronti (ma non tanto svegli) davanti al portone in compagnia di Pierina, la mitica portiera con i capelli da marine americano con la scopa in mano e che parla una strana lingua chiamata Viterbese. La signora ci saluta dicendo “arrivederLe” mentre il tassista si procura un’ernia nel caricare nel bagagliaio l’enorme valigia degli zii che potrebbe contenere tranquillamente me e Francesco Sacco insieme. Tralascio le solite raccomandazioni che mi fanno, di dare la mano sempre e di non allontanarmi (sospetto che mi facciano portare uno zaino per farmi sentire importante e, calato nel ruolo di passeggero, non farmi allontanare), e vi dico che subito trovo un nuovo gioco da osservare, dove due signori avvolgono con un cellophane colorato che esce da un nastro rotante le nostre valigie e papà e zio Stefano poi li pagano, però le valigie se le devono portare da soli. mah.. Comunque io mi avvio con mamma e zia a fare il “cecchino” (anche se mi dicono di non dirlo ad alta voce di questi tempi perché siamo in aeroporto). Mentre zia Tetta mi tiene in braccio e mi spiega un sacco di cose, mamma parla con alcuni signori, poi, mentre papà e zio arrivano con una dozzina di bagagli, mamma di corsa e un po’ agitata va verso alcuni operatori aeroportuali. Ora, da quello che ho capito, c’erano problemi per il mio passaporto, infatti mancava un visto dell’ambasciata americana, che nessuno ci aveva detto di fare, tanto più che di voli con mamma e papà io ne ho già fatti diversi. Quindi mamma, un po’ perché a stomaco vuoto, un po’ per il caldo, un po’per l’agitazione di poter partire, ad un certo punto sviene e cade a terra. Subito qualcuno ci avverte e, mentre zia Tetta prontamente mi allontana per non farmi preoccupare, papà e zio corrono da mamma, la quale però, ancorché sdraiata a terra, è fortunatamente già rinvenuta. Gli altri passeggeri, molto gentili, le offrono acqua e zucchero per farla riavere, altri chiamano l’ambulanza perché le hanno visto battere la testa per terra e quelli del “cecchino” sono bloccati nel fare i biglietti perché hanno appoggiato in alto le gambe di mamma. Mentre arrivano quelli della compagnia aerea che spiegano meglio cosa bisognerebbe fare per la partenza, arriva anche l’ambulanza e mamma spiega che ogni tanto le succede e che non è niente. Intanto zio Stefano da lontano saluta me e zia per farci capire che è tutto a posto, mi sorride pensando che questo possa nascondermi l’accaduto, ma non sa che io ho quasi quattro anni e non sono un poppante che non capisce niente, sono preoccupato, ma comunque un po’ l’abitudine, un po’ la fiducia in mamma, mi fanno stare tranquillo e poi sono un uomo di mondo (anche se non ho il visto dell’ambasciata sul passaporto!)e quindi è inutile che mi spavento e continuo a stare in braccio a zia Tetta per farla stare tranquilla. Infatti a questo punto, essendo per forza di cose bloccata la mia partenza, i due zii dovrebbero partire da soli, e poi essere raggiunti da noi entro un paio di giorni o addirittura dopo una settimana. Il panico e la preoccupazione per tutto quello che sta succedendo si legge sul volto della mia dolce zietta che, comunque, prende il coraggio a quattro mani (e una buona dose di Lexotan)e parte con il suo compagno per questa avventura nell’avventura, mentre noi corriamo all’ambasciata per farci rilasciare questo benedetto visto. Se possiamo trovare una cosa divertente in tutto questo, è che mamma non si smentisce mai, infatti continuava a parlare anche da svenuta! All’ambasciata USA si svolge un’altra scena da “Miami Vice”, infatti, un po’ perché agitati da quel che era successo, un po’ arrabbiati con la questura, un po’ rincoglioniti insomma, io e mamma saliamo a quattro a quattro i gradini dell’ambasciata, incuranti delle guardie appostate e dei divieti di accesso, correndo verso l’entrata. E’a questo punto che ci troviamo un paio di mitra puntati alla tempie e dei militari che strillano in una lingua incomprensibile (vorrei spiegargli che io alla “Mary Mount” ho imparato a contare in inglese fino a dodici e a dire bye e three years old, ma mi sa che non è il momento più adatto). Insomma ci rimproverano aspramente, ci conducono dentro un ufficio e ci interrogano severamente (qui comincio a pensare che questo viaggio negli States non sarà proprio una passeggiata.). Per farla breve, sono comunque comprensivi e alla fine ci rilasciano il famoso visto, noi ringraziamo con la voce di Fantozzi, andiamo via e chi si è visto si è visto (beh, bisognerà pure un po’ sdrammatizzare o no?)! Intanto zia Tetta e Stefano s’imbarcano e si coprono subito con le orribili coperte gentilmente offerte dall’Eurofly, la compagnia dove non senti caldo mai! Infatti, arrivati a bordo tra gli ultimi a causa degli imprevisti di cui sopra, vengono loro assegnati i posti centrali, bersagliati per nove ore da getti di aria condizionata gelata provenienti da ogniddove. Comunque, mi racconteranno poi, che il viaggio è comunque abbastanza piacevole, tra film, quiz, sonnellini e musica, terribili lasagne e gattò di patate, gentilmente offerti dall’Eurofly, la compagnia dove è meglio che non mangi mai!


Arrivo a New York degli zii

Dopo l’applauso al pilota che atterra dolcemente sul suolo statunitense, gli zii si avviano a ritirare i loro bagagli. Prima però c’è un passaggio obbligato per chi arriva negli States: il riconoscimento col passaporto e la schedatura nei computeroni con tanto di foto e impronte digitali (uhhh, come nei film!). Con il taxi che attraversa il traffico della periferia newyorchese, zia e zio sono finalmente all’albergo nella 7h Avenue. A parte cercare di non prendersi una broncopolmonite per l’eccessiva aria condizionata all’interno della hall, l’impresa più difficile per i miei due paesani e cercare di spiegare che delle cinque persone (o quattro più un Tombolino, fate voi) previste,ne sono arrivate solo due e che le altre presumibilmente arriveranno dopo un paio di giorni. Preso per stanchezza dall’inglese maccheronico dei nostri eroi, il ragazzo della reception (per fortuna di origine italiana) rilascia le chiavi della stanza e fa una specie di prenotazione per la stanza dove alloggeremo io, mamma e papà. L’albergo è bello, la stanza grande con un mega schermo LCD che subito zio Stefano misura per vedere se entra nella sua nuova trolley, rimproverato da zia, la quale nota subito che il bagno è sprovvisto di bidet, ma soprattutto comincia ad avere problemi con il caricabatteria del cellulare. E questa sarà una delle note dolenti di tutto il viaggio, per cui zio accumulerà un discreto stress (zia è piccola, ma certe volte è pesante, eh?). Il problema è che i nostri simpaticoni cow-boys, non si sa perché, hanno un sistema elettrico diverso da quello europeo, con prese elettriche e spine un po’ particolari, dette appunto “americane”. L’adattatore necessario per i vari elettrodomestici era stato fornito da Pino (il papà di zio Stefano che nella sua casa al mare ha tanti sassi che mi ha detto che gli servono per schiacciare le formiche, però non mi ha convinto molto.), ma siccome il telefonino di zia non si ricarica i due danno per scontato che è un po’ vecchiotto e si precipitano al primo negozio a comprarne un altro. Dopo un tentativo di sòla da 50$ di uno yankee della 7h Avenue, gli zii comprano la spina, ma il cellulare di zia non si ricarica, mentre quello di zio va bene. Zia comincia ad innervosirsi e prova anche il suo super-mega-ultra phòn professionale a prova di riccio e questo funziona, ma va piano piano che sembra il trattore de “Lu Tuopo” a Gesualdo. Zia è talmente nervosa che non si è ancora accorta che in camera la temperatura è a 5 o 6 gradi, vista questa strana usanza americana. Da lì in poi zia ogni giorno si farà dare il telefonino di zio, cambiando la scheda con la sua per fare e ricevere sms e messaggi e poi ricambiare scheda nel pomeriggio, dicendo sempre che purtroppo il caricabatteria non va bene e lo racconterà pure in Canada, a quelli in fila sull’Empire state Buiding e anche a qualche cameriere, ne cercherà uno compatibile negli alberghi, se ne vorrebbe comprare un altro, ma chiaramente l’attacco è americano e poi in Italia che ci farebbe, al che zio Stefano (che a volte non è molto perspicace)si fa venire il dubbio che magari vorrebbe che lui le regalasse un telefonino nuovo.mah, le donne spesso valle a capire. Un’altra curiosità riguarda il cibo. Anzi sul cibo degli americani ci sarebbe da scrivere un trattato, visto le schifezze che si mangiano e la difficoltà per capire cosa ti portano da mangiare. Comunque oltre alle tasse aggiunte al prezzo (questo succede anche nei negozi) c’è l’obbligo di pagare la TIP, che non è uno dei nipoti di Topolino, ma la mancia che si deve dare ai camerieri. Ebbene trattasi del 15% di quello che ti sei mangiato. Penso che a NY un tirchio farebbe una dieta fantastica. Insomma gli zii anche senza di noi prendono confidenza con l’America, con i dollari, con bus, i taxi, l’aria condizionata (zio Stefano ogni volta che entra in un negozio, bar, albergo, ecc. si infila la sua felpa proteggi congestione e dice sottovoce un po’ stranito “w gli indiani!”) notando sempre più le stranezze degli yankees. Dopo la prima mattina di scarpinata per la 5°strada e la 56°strada, dove ci sono negozi prestigiosi, dopo un’ora di ricerca di un posto dove farsi un panino (chiaramente i negozianti sono tutti extracomunitari che capiscono e parlano un inglese tutto loro e Stefano, che a sua volta parla un inglese tutto suo, viene scambiato anche per spagnolo.ola,zio!), mezzi distrutti i due “turisti per caso” vanno a papparsi gli orrendi panini in albergo al fresco dell’aria condizionata praticamente alle 4 del pm, crollando nel sonno più profondo dopo l’ultimo morso. Circa cinque ore dopo zia Tetta riesce a comunicare con zio, caduto praticamente in coma da jet-lag, dopo avergli assestato un gancio, un dritto e un pizzico sulla pancia. I due si guardano, si chiedono che ore sono, se hanno fame, se devono cenare oppure dormire. La scelta è sull’ultima opzione e si svegliano direttamente il giorno dopo, pronti per ripartire all’assalto della Grande Mela (a proposito 2 $ l’una nei market, manco fossero caviale!).


2° giorno:

In giro per Manhattan:

E’ il giorno delle foto, dopo la lunga dormita e i due reporter si scatenano tra scatti ai grattacieli, alle limousine, ai venditori di hot dogs, ecc. Intanto io, papà e mamma ci riproviamo: di nuovo all’aereoporto di Fiumicino per imbarcarci per New York. Solita trafila, impacchettamenti di valigie, giocattoli che non mi comprano perché è tardi e perdiamo l’aereo (sarà una scusa?), “cecchini”, panini, ritardi e arrabbiature dei miei due parents. Finalmente, dopo cinque ore di attesa (avrei potuto fare chissà quanti giochi con le moto nel frattempo)ci imbarchiamo, ma l’aereo non decolla ancora, ma che succede pure oggi?, è una vacanza proprio sudata!(ed in effetti il concetto sarà ribadito arrivati in USA con 38° gradi ed un’umidità incredibile). Papà invia di continuo sms a zia Tetta aggiornandola sulle ore di ritardo e lei e Stefano salgono sul palazzo della General Electrics del “Rockfeller Center” e, dall’alto, cominciano ad apprezzare di più la città, che fino a quel momento aveva dato loro, con i suoi innumerevoli ed altissimi grattacieli, un senso un pochino di soffocamento. Poi si recano a “Central Park”, ribadendo come quasi tutti i romani che ci vanno: “sembra Villa Borghese” e si fanno scarrozzare per 45$(crepi l’avarizia!)su un risciò da un ragazzo che gli illustra i luoghi del parco dove sono stati girati molti film famosi, gli indica le residenze di attori e registi e gli racconta un sacco di cose alle quali zio Stefano sorride e commenta compiaciuto, anche se zia tetta dubita fortemente che lui abbia capito più del 20 % di quello che gli è stato detto. Finalmente, nel tardo pomeriggio, atteso da uno stuolo di giornalisti e fotoreporter all’ingresso della hall dell’albergo (scherzo naturalmente, ci sono i miei zii ormai mezzi americani che ciondolano sul marciapiede)faccio il mio ingresso ufficiale a Manhattan. Racconti veloci, baci e abbracci, curiosità e quasi “carramba che sorpresa”, e poi qualcosa da mangiare e di nuovo a ninna.

3° giorno:

il bus a due piani:

Dopo la colazione facciamo il punto della situazione. Dopo l’inconveniente del posticipo della partenza, abbiamo solo due giorni prima di prendere l’auto a noleggio. Data la vastità del territorio e le tante cose da vedere, mamma, pratica come tutte le donne femmine, suggerisce di fare il tour con l’autobus scoperto, che fa il giro della città, toccando i punti più importanti, con varie soste e la possibilità di girare con lo stesso biglietto anche nel tour serale e il giorno successivo. Votata all’unanimità questa proposta, andiamo in cerca dei “negroni” che fanno i ticket agli angoli delle strade(corner, dicono qui, più o meno come in Sicilia). Dopo aver cercato di interpretare come funzionano i vari tours, saliamo sul bus al piano scoperto e partiamo. Speriamo bene. Io mi alterno tra le ginocchia di zia Tetta e di zio Stefano e devo dire che mi diverto, perché vediamo un sacco di posti, di grattacieli di strade, di gente che cammina, saluta, e c’è un signore in piedi sull’autobus che spiega tutto quanto (peccato però che lui non sa che io alla Mary Mount sono arrivato a twelwe e al traffic light)ai vari passeggeri che ogni tanto fanno “wow” o “yeah” in segno di approvazione (tranne gli zii e papà che fanno finta di fotografare o leggere la guida). La singolarità di questi bus è che sono alti quasi quanto alcuni tunnel e i semafori ed in alcuni punti bisogna stare veramente attenti a non sbattere la testa, ma non c’è nessuno che te lo dica e l’autista corre come un matto! Con zio cerco di toccare con la mano i semafori e i rami sporgenti degli alberi e mi diverto un mondo. Anche zio sembra divertirsi molto, poi quando un ramo gli sbatte sul collo procurandogli dei graffi, dice prima una parola che io non conosco (e neanche la guida)e poi dice che capisce sempre più perché gli americani votano Bush: perché sono veramente stupidi! Ci fermiamo poi su una banchina, ma non ci sediamo perché la banchina non è come le nostre che stanno nei giardini, ma ha negozi, bar e sta sul fiume e, dopo aver fatto una passeggiata e ravvivato i capelli sconvolti dalla velocità del mitico bus, risaliamo, convinti di fare un altro giro di una mezz’oretta per Brooklin e poi mangiare qualcosa. Prima però zio si accorge definitivamente di aver perso gli occhiali da sole e se ne compra un paio da un ambulante che gli certifica (a voce e in inglese!) che sono buoni e polarizzati; così lui li compra e non rompe più dentro tutti i negozi. Ma quella di fare un giretto è solo una pia illusione, pia nel senso che se la pia.mo in. perché il bus ci porta a Brooklin e gira lì per due ore!, facendoci visitare tutta la città, passando due volte sul Manhattan Bridge, parallelo al suo più famoso collega, prontamente fotografato da tutto il pullman. Qui zia Tetta non si capacita perché non ci fanno passare col bus sul famoso “ponte dei bruchi”, ma comunque poi si adegua. Il tour sembra non finire mai, il sole comincia a darci alla testa e una mamma spagnola chiama a ripetizione il proprio figliolo sei o sette file più avanti: Pablo, Pablo, ecc. strillando nelle orecchie di papà e zio Stefano che, appena appena straniti, dopo la decima volta chiamano in coro Pablo e lo minacciano di seguire subito le indicazioni della madre, pena un tuffo dal Manhattan Bridge. Dopo un meritato pranzo non ricordo neanche più dove, dopo qualche mio capriccio (oh, ma io ho solo tre anni e mezzo!)ci prendiamo un’oretta di riposo prima di affrontare l’emozionante visita al mitico “Empire State Building”, il grattacielo più alto di New York. Zio Stefano, che dopo tre giorni sembra essere entrato perfettamente in sintonia con l’ambiente e la città, suggerisce di non affrettarsi e di andare verso le 19,30, in modo da vedere il tramonto con il passaggio dalla luce al buio della notte e la città che si illumina dall’alto, perché gli hanno detto che è una cosa spettacolare. Puntualmente arriviamo sull’Empire alle nove di sera.
Infatti la coda per salire è mostruosa e l’ascensore iperveloce è uno solo, quindi zio non perde occasione per evidenziare ancora una volta i contrasti che ci sono in questa città e per ribadire che nei vecchi western avrebbero dovuto vincere gli indiani. Mentre facciamo la fila vediamo gente di tutti i tipi e di tutte le razze. Ad un certo punto mi sento sfiorare da dietro, mi giro e mi appaiono due cinesine ultrasorridenti che mi vogliono carezzare. “Ma pussa via brutta bertuccia”, avrebbe detto Alberto Sordi, ma chi sono queste e che vogliono da me? Va bene la bimba bionda americana di prima, ma ‘ste due jene ridens no, eh? Insomma mi inseguono e ridono per metà fila, poi prendono il coraggio a quattro mani e chiedono a papà: “potele fale foto con bimbo bellissimo?”. Papà, fiero come qualunque genitore, acconsente anche senza consultarmi; comunque tutto sommato a me piace farmi fotografare perché mi sento al centro dell’attenzione e poi all’asilo mi hanno detto che sono fotoiggienico. E poi visto che hanno detto che sono bellissimo, forse sono pure un po’ meno bertucce. Comunque lo spettacolo dalla vetta del grattacielo è bello, si ammira una città unica, poi illuminata è ancora più suggestiva. La mia delusione però è quella di non avere potuto vedere l'”Uomo Ragno” arrampicarsi sull’Empire, come zio mi aveva promesso durante le mie scorribande nell’ora e mezza di fila per salire, raccontandomi le sue gesta in modo devo dire convincente. Però che fico l’ascensore-razzo!



5° giorno:

la Statua della libertà:

L’ultimo giorno a New York è dedicato principalmente alla visita alla famosa statua della libertà. A me non è che mi vada tanto di andarci, però zio e zia mi raccontano che è un monumento gigantesco dove si sale sopra e si vede il mare (o il fiume?)dall’alto e la città da lontano ed allora mi convinco come sempre del resto, visto che mi dicono che poi mi compreranno un giochino (qualcuno una volta mi ha detto che nella vita nessuno fa mai niente per niente ed io allora seguo questo precetto). Prendiamo un battello ed attraversiamo il fiume (o il mare, boh?)ed arriviamo a “Liberty Island”, un isolotto dove si erge la statua donata alla città dai francesi (ma tutti questi soldi non li potevano spendere per mettere i bidet nei bagni?). Ci mettiamo in fila (ma guarda un po’)e dopo poco cominciamo a sospettare che c’è qualcosa che non va. Infatti ci spiegano che per noi non sarà possibile salire sulla statua perché non abbiamo prenotato. Ma noi che ne sapevamo? Alla biglietteria non ce l’hanno mica detto! Zio Stefano che sta con me un po’ distante, cercando di distrarmi con le moto che ci siamo portati appresso, quando viene informato da mamma e zia della cosa si arrabbia e dice che non è giusto e che bisogna farsi sentire con questi ciccioni obesi guerrafondai. Allora va da una vigilante con i biglietti e l’aria un po’ da coatto romano (sapete, occhiale scuro, cappelletto, andatura alla Tony Manero, ecc.) e comincia a parlare con la guardia. Qui cominciamo un po’ a temere, primo perché non ci spieghiamo in quale modo si esprimerà e si farà capire, poi perché lui di queste cose ne fa una questione di principio e ci si arrabbia sul serio e, soprattutto, perché la stazza da wrestling della negrona con tanto di pistola non promette niente di buono. I due confabulano per un bel po’ (mi sa che zio quattro parole di seguito in inglese in fondo le sa mettere), lui gesticola, la vigilante scuote il capo e gli fa vedere il depliant. Gli spiega che avremmo dovuto prenotare la vista due giorni prima, come c’è scritto, e zio le chiede come facevamo a saperlo e poi che il depliant te lo danno quando paghi il biglietto e che quindi sono scorretti e che è ingiusto. La guardia gli risponde che non può farci niente, zio punta su di me dicendo che abbiamo anche un bimbo piccolo(ogni tanto funziona, l’ho visto pure in aeroporto), ma la “Mamy” col revolver non si impietosisce anche perché se no dovrebbe fare entrare centinaia di persone con lo stesso problema. Comunque non gli spara e questa è già una buona cosa e zio torna da noi imprecando contro questi sottosviluppati che vanno avanti ad hamburger e bibite gassate. Dopo tante foto e tantissimo caldo, ci reimbarchiamo e torniamo a “Battery Park”, dove c’è un parco con un po’ d’ombra, ma soprattutto un gioco fichissimo con fontanelle zampillanti dal terreno, dove insieme ad altri bimbi mi spoglio e gioco e mi diverto come un pazzo. Anche i miei quattro accompagnatori adulti ne approfittano per rinfrescarsi e addirittura papà e Stefano si comprano due magliettacce stile “I love New York” sulla bancarella per cambiarsi le loro, zuppe di sudore dei 40° gradi all’ombra di oggi. Nel tardo pomeriggio, dopo la consueta doccia + pennica con aria condizionata in camera, non appagati dalle ore passate sul bus turistico di ieri, i nostri gringos si rifanno un altro giro per la città (tanto è
gratis) ed ammirano altre bellezze newyorkesi (Stefano e papà ogni tanto si danno delle gomitate credo perché vedono delle bellezze di cui mamma e zia forse non si accorgono.). Poi la sera come al solito una bella cenetta a base di carne, patate fritte, insalata, aglio, cipolla e ghiaccio a volontà e poi via tutti di nuovo sul famigerato bus turistico per il tour notturno e per l’ennesima volta l’attraversamento del Manhattan Bridge + Brooklin (io sfinito mi addormento, ma forse non solo io.)! non se ne può più..poi a dormire che domani si lascia la “Grande mela”.

5° giorno:

Philadelphia

Prendiamo alla Hertz una Toyota Sienna sette posti, ci infiliamo dentro di tutto di più e partiamo alla volta di Philadelphia, ma non per mangiare il formaggio che a me piace tanto, ma per visitare la città dove più di duecento anni fa gli Stati Uniti dichiararono la propria indipendenza. Per andare verso la nostra meta sbagliamo strada e una volta imboccata finalmente quella giusta rimaniamo bloccati nel traffico.
Certo le attrattive di questa città non sono molte e, non conoscendo molto bene la pianta della città, ormai entusiasti delle gite sul bus turistico a new York, decidiamo di provare a seguire un piccolo autobus per turisti che incrociamo per strada. Certo, le bellezze newyorchesi qui non ci sono, non c’è neanche il negretto che che ti allunga la bottiglietta d’acqua fin sopra l’autobus con il bastone col gancio, però vediamo un po’ la città, fermandoci dietro il bus ogni volta che questo fa una fermata per far salire o scendere i turisti. Il giro va avanti un bel po’, facciamo anche delle fermate un po’ improbabili, nel senso che per stare dietro al pullman ci accostiamo in punti dove non c’è niente da vedere. Ad un certo punto, all’ennesima fermata a dieci metri dall’autobus, su un ponte bruttissimo ed isolato, vediamo l’autista di colore alzarsi e farci dei cenni. Un misto di risate e preoccupazione ci assale, mentre l’uomo lascia i passeggeri sull’autobus, scende e viene verso la nostra auto. Quando arriva (comprensibilmente per accertarsi su chi siano i suoi “inseguitori” da 45 minuti a questa parte)ci trova che ci sbellichiamo dalle risate e ci dice qualcosa in inglese che probabilmente potrebbe essere tradotto così: “a regà, se me state a seguì pe vedè gratis la città va bene pure, ma se c’iavete brutte intenzioni vedete d’annavvene!, intesi?”). Papà allora lo rassicura dicendogli che era solo un modo per girare Philadelphia senza perdere troppo tempo con guide, cartine e musei, d’altronde l’autista quando si accorge che il sinistro equipaggio è composto anche da due ragazze e un bimbo (io!)si tranquillizza e se ne va “quasi” sorridente. Dopo questo divertente episodio decidiamo di lasciare questa town, che non sembra offrire molte altre cose interessanti e non vediamo neanche la famosa campana, tanto, dice zio Stefano, semmai facciamo cantare zia Tetta. Ci mettiamo un secolo ad arrivare, perché lungo la strada troviamo un incidente che blocca il nostro tragitto per due ore sotto il sole a 38° (w l’aria condizionata in auto!). Semidistrutti ci fermiamo in un Holiday Inn sulla strada alle 7 di sera ed è il primo albergo non prenotato e situato lungo la strada. Alle 8 ci facciamo il bagno in piscina e lì mi scateno dopo i tanti allenamenti a Campo Antico.
Poi andiamo a cena da un certo Danny’s.. Qui al momento delle ordinazioni, zio Stefano ripete la scena quotidiana della sua ardua scelta del pietanza. Infatti alla sorridente signorina che ogni volta si presenta al nostro tavolo, lui comincia a fare delle facce strane e, in un inglese quanto mai maccheronico, con la fronte imperlata di sudore cerca di scegliere un piatto che possa andargli bene. Il suo esordio col coloratissimo ed incasinatissimo menù in mano è:”I am allergiccccchhhh, i am allergic to the eggs! Into this indicando con this la foto della pietanza)are there eggs? E chiaramente la ragazza, che non ha capito niente gli risponde che se vuole ce le fa mettere le uova (zio ha una forte forma allergica alle uova da quando era anche lui un tombolino)e zio allora diventa paonazzo e comincia a balbettare e, nel momento in cui riprende in mano la situazione con l’aiuto di mamma e del “Collins”, zia Tetta, tempestiva come tutte le donne, comincia a rimproverarlo perché ha sbagliato a dire qualche parola. Così zio si arrabbia ancora di più ed ordina sempre bistecca ai ferri con patate fritte.(e non vi racconto quanti minuti ci vogliono per far capire alle varie “Calamity Jeane” di turno che non ci vuole sopra nessuna salsa, tanto meno contenente uova.). Insomma un teatrino ogni sera, ma va bene così, perché tanto non frequentiamo posti dove c’è chissà quanta vita e la televisione c’è in tutte le lingue tranne l’italiano (ma se lo sono già dimenticato tale CRISTOFORO Colombo da Genova, con le tre caravelle, ecc., ec.???!!!).

6° giorno:

Baltimora

Il giorno dopo ci rimettiamo in macchina e piano piano (visti i limiti di velocità delle strade in America) ci avviamo verso Baltimora. La cittadina è carina, con il porticciolo e i negozietti, c’è anche un posto dove zia fa scaricare su cd le foto della digitale (ammazza quanto sono cari!), mentre io e zio Stefano facciamo la gara a chi lancia più lontano il mio passeggino. Ripartiamo per andare a Washington, la capitale, sede della Casa Bianca e del Pentagono (io a scuola sono arrivato al triangolo e quindi non so cosa sia un pentagono, perciò sono molto curioso)

7° giorno:

Washington

Dopo vari outlet di cui i miei quattro compagni di viaggio sembrano non poter proprio fare a meno (addirittura zia Tetta si compra degli occhiali da sole che cercava da mesi per la gioia di Stefano che ne ha subìto negli ultimi mesi le lamentele per la ricerca infruttuosa), approdiamo nella capitale USA, dove abbiamo una prenotazione per due notti fatta già dall’Italia. L’albergo è bello e per nostra fortuna ha la piscina, che ci salva per due giorni dall’ondata di eccezionale caldo che sta colpendo l’America in questi giorni. Giriamo comunque, anche se le difficoltà incontrate a New York per mangiare le ritroviamo anche qui; poi riposino e bagnetto dove mi esibisco con un salvagente che esalta le mie doti natatorie ancora più dei braccioli. Conosco anche qualche bambina (zio in questi casi mi suggerisce sempre di farmi dare un numero di telefono, non si sa mai.), mi tuffo, nuoto anche dove non si tocca (vabbè io non tocco quasi mai.)e starei lì le ore, ma si fa sera e dobbiamo andare a mangiare per poi fare un tour notturno della città. A sorpresa questa si dimostra piuttosto “morta”, anche perché forse noi ci aspettavamo chissà cosa da una capitale così importante. E poi cerchiamo di “avvistare” la “Casa Bianca” (di notte dovrebbe essere più facile col buio.) e il “Campidoglio” (sperando di non incontrare Veltroni, quello che non fa mettere a posto le buche a Roma). Da lontano invece vediamo sempre un obelisco altissimo e, gira che ti rigira, la cupola di “Capitol Hill”. Ma non c’è traccia della “White House” e, ad ogni palazzo bianco grande che incontriamo, i miei quattro esperti conoscitori del mondo gridano: “eccola, eccola”, chiaramente rimanendo poi delusi perché magari è solo una grande banca o edificio più o meno imponente. Allora rimandiamo tutto al giorno successivo rimanendo inquieti e preoccupati per il “Mistero della Casa Bianca”. La mattina successiva però partiamo sparati e decisi verso il luogo che ci ha turbato il sonno e chiediamo al primo passante dove si trova. Questi sembra neanche conoscerla ed allora ci viene il dubbio che abbiamo sbagliato città, ma poi, duri e determinati, raggiungiamo il luogo da dove si può scorgere attraverso una recinzione e lì diventiamo giapponesi, facendo foto pure ai cecchini che stanno sul tetto (non sono gli stessi dell’aereoporto mi sa.). Come già successo per la Statua della Libertà non è possibile visitare il sito se non previa autorizzazione rilasciata almeno quaranta giorni prima dall’Ambasciata Americana. Riflettiamo che se a Roma dovessimo fare così col Colosseo e San Pietro creeremmo un casino inenarrabile. Mentre passeggiamo per il grande viale pedonale che costeggia l’appartamento presidenziale familiarizziamo con uno scoiattolo, che non sembra per niente impaurito dalla nostra presenza, infatti ci racconta che negli anni ne ha viste di peggio, da Condoleeza Rice a Berlusconi, per non parlare di Monica Lewinsky. Rinfrancati dal successo ci spingiamo fino alla collina del Campidoglio, dove però fanno salire in cima sulle scale solo in alcuni orari. A noi toccherebbero le tre del pomeriggio, ma all’unanimità decidiamo che a quell’ora ci sarà la “pennica” pre-piscina. La sera andiamo a mangiare in un altro “Hard Rock Cafè” (eravamo stati in quello di Baltimora, il più bello)e zio Stefano scatta qualche altro centinaio di fotografie alle chitarre e alle locandine, ai dischi e alle bacheche con oggetti firmati dai grandi artisti della musica rock. Bisogna dire che a zio piace molto la musica, soprattutto quella inglese anni ’70 e in questi posti ritorna adolescente, rivive i momenti di esaltazione ai concerti con gli amici o quando suonava (male) la chitarra e cantava con le conseguenti lamentele del vicinato. E quindi scatta tante foto, come del resto è solito fare quando si va in giro e lui sembra veramente un giapponese, perché fotografa in continuazione, zoomma di qua, un panorama di là, un dettaglio curioso, spesso con lo stesso soggetto fotografato più volte, perché, a suo dire, con diverse esposizioni è sicuro di avere un buon risultato sulle foto che gli interessano di più (ma a quanto dice zia non sempre è così, anzi secondo lei, sono tutte uguali!). Comunque zio fa tante foto anche a me e io sono contento perché mi piace essere fotografato e poi rivedere subito l’immagine sulla macchina digitale.

8° giorno:

in viaggio verso Niagara – tappa a Somerset

Il giorno dopo lo passiamo in viaggio, accompagnati ancora da quella strana puzza di formaggio che c’è nella nostra auto a noleggio fin dal primo giorno e che non riusciamo a debellare (zio Stefano dice che sono i caciocavalli n° 35 di zia Tetta, ma mi sa che lo dice per farla arrabbiare). Nel pomeriggio ci fermiamo in un alberghetto in una località chiamata Somerset, che giriamo prima con l’auto per vedere se c’è qualcosa di interessante da vedere ma, nonostante papà sia particolarmente entusiasta del posto (chissà perché), non indugiamo a tuffarci in piscina. Poi vedo con grande interesse alcune Harley-Davidson con alla guida un nugolo di omaccioni tatuati, pieni di anelli e muscoli e dall’aria aggressiva. Il rombo dei loro motori mi mette paura e voglio starne lontano, ma non posso fare a meno di guardarle. A cena ci ritroviamo in uno dei caratteristici locali “on the road” tutte luci e cameriere gentili (mi danno un sacco di fogli e di colori e io gioco, disegno, scrivo, mentre aspetto i ninni. Sì infatti stasera hanno deciso tutti di imitarmi. Stanchi delle solite bistecche e patatine, insalate e salse e fritti, i nostri quattro cow-boys dell’Italia centro-meridionale si lasciano andare tutti quanti ad uno spaghetto burro e parmigiano, degno del miglior “menù San Camillo”, tra lo stupore della cameriera, per giunta di origine italiana, che non si spiega come mai con tutta la scelta che c’è questi qui si vadano a mangiare la pasta (in America!) e pure in bianco! Dopo questa botta di vita si rientra in albergo. Dopo un po’ sento nella stanza degli zii accanto alla nostra Stefano che dice improperi vari contro qualcuno, tipo: Ma magari gli indiani li ammazzavano tutti, speriamo che gli crolli la Statua della libertà, ecc. L’indomani veniamo a sapere che dopo la piscina lo zio aveva lasciato ad asciugare fuori della porta della sua stanza d’albergo al primo piano (le stanze sono disposte in corridoi all’aperto intorno alla piscina) i sandali bagnati, e, al ritorno dalla scorpacciata di ninni americani non li aveva più trovati. Insomma la sua teoria sulla stupidità degli americani prendeva sempre più corpo.

9° giorno:

Cascate del Niagara

Il mattino seguente ci avviamo verso le “Patampufete Falls” a Niagara. Lungo la strada troviamo un’agenzia che ci prenota albergo e tour tutto compreso. Quindi arriviamo nella città lato statunitense ed alloggiamo nell’albergo prenotato. Mangiamo, con grande fantasia, all’Hard Rock Cafè e poi passiamo il confine attraversando a piedi il ponte che unisce i due stati, collegandoli con una frontiera quanto mai singolare. Per passare dalla parte USA a quella canadese ci fanno mille domande e sono molto seriosi, il contrario dei loro colleghi canadesi. Lo spettacolo serale della cascate è magnifico. Dal ponte cominciamo a vedere i fasci di luci colorate che dal Canada illuminano le immense cascate d’acqua. Scattiamo foto a più riprese nonostante il forte vento che c’è sul ponte, poi arriviamo a Niagara lato canadese e ci godiamo anche i fuochi d’artificio. Non avevo mai visto niente del genere, dei bum da paura, come si dice a Roma e come c’ho paura davvero pure io, ma le luci sono bellissime e i disegni nel cielo fantastici, peccato che dopo un po’ vanno via, non come le scritte che faccio con i pennarelli sui muri. Al rientro negli States ci chiedono se è la prima volta che andiamo negli Stati Uniti, allora io gli dico: “aho, guarda che siamo quelli di mezz’ora fa”, ma fortunatamente non mi capiscono. Ma la cosa più divertente è che per rientrare si deve passare una sbarra che si apre se ci metti 50 centesimi, se no non ti fanno rientrare!!! Potete immaginare quello che ridice Stefano sugli Americani.

10° giorno

Il tour

Ore 9 appuntamento nella hall dell’albergo per la partenza della visita alle cascate che durerà presumibilmente quattro o cinque ore. Vediamo arrivare un signore dinoccolato di mezza età di nome Jerry, che ci dice che penserà a tutto lui, ci dà dei cartellini con scritto Jerry (che megalomane!)da appendere sulle magliette e ci spiega (spiega a chi capisce l’inglese, chiaramente)come si svolgerà il tour. Poi ci raccomanda soprattutto di non allontanarci mai da lui e a noi Italiani ci affida a due simpatici signori americani, che ci faranno da balie (non asciutte vista l’acqua che prenderemo). Ci imbarchiamo ed arriviamo piano piano fin sotto le cascate, dove il getto dell’acqua è talmente forte che ad un certo punto c’è una nebulizzazione che non fa vedere più niente (lì zia Tetta per un attimo “spera” di perdersi zio Stefano, ma poi le riappare con tanto di macchina fotografica al collo.). Lo spettacolo è fantastico, meno male che ci hanno dato degli impermeabili per ripararci dagli schizzi fortissimi perché sennò dovevo farmi un’altra doccia (tanto me la dovevo fare pure la sera prima di andare a ninne.). Successivamente il mitico Jerry ci porta su una torre, da cui possiamo ammirare dall’alto il formarsi delle cascate ed il paesaggio circostante: davvero bello (chissà se quando torniamo a Campo Antico Nonno Lallo mi organizza un tour così per le Cascate delle Marmore.). Una cosa importante da dire è che i miei due zietti ieri sera hanno avuto la felice idea di comprare anche a me una mimi macchina fotografica e così anch’io da oggi posso essere annoverato tra i fotografi del viaggio (ma che ficata!!!). Tra una sosta e l’altra, in un parco o ai negozi di souvenirs, Jerry non transige, ci dà delle pause brevissime che cronometra. Chi non le rispetta resta a piedi. Lui fa il simpaticone, fa molte battute, scherza (ma che se rideranno tutti ‘sti babbioni americani poi?), però devi fare quello che dice lui e nel tempo che dice lui(Ah Jerry, è inutile che fai tanto lo spiritoso, tanto la mancia te la poi scordà). La sera andiamo a cena da Denny’s, un ristopub di una catena che va per la maggiore e che già abbiamo sperimentato (remember le quattro paste in bianco?).
Stavolta però abbiamo un problema con le mance, infatti ci capita una cameriera decisamente scortese, la quale non solo ci mette un bel po’ a capire cosa vogliamo mangiare, ma quasi prende in giro mamma, correggendola ironicamente su alcuni vocaboli inglesi. Voi mamma la conoscete, è tanto buona e cara, ma quando s’incazza sono dolori.In questo caso manda giù con signorilità sia le parole della cameriera che la bistecca, poi, acompagnata da Stefano (uh, lui poi con queste cose ci va a nozze!)si reca a pagare il conto alla cassa e spiega al “capoccia”(antipatico ed arrogante pure lui)che non lascerà un cent di mancia alla “sciacquetta” che ci ha servito, perché maleducata e poco professionale (tiè!, brava mamma!).

11° GIORNO

Toronto

Da Niagara a Toronto ammiriamo i verdi paesaggi canadesi, favoriti dall’enorme quantità di bacini lacustri di cui questo paese è ricco. Le strade sono simili a quelle USA, con la differenza che i limiti di velocità sono indicati in chilometri anziché in miglia e questo ci riporta un po’ ad usi più casalinghi. E più casalingo troviamo il Canada, con persone più affabili, più alla mano rispetto agli statunitensi. Ci diamo appuntamento con Pierino, l’amico d’infanzia di Gesualdo di papà, che da tanti anni si è trasferito con un fratello ed una sorella nella regione del lago Ontario. Anche se quasi ogni anno si incontrano d’estate a Gesualdo, i due ci tengono molto a vedersi, erano molto legati infatti da ragazzi al paese e ci racconteranno tanti aneddoti di quando erano piccoli (uh, quante cose non conoscevo di papà!). Arrivato Pierino (ma perché poi lo chiamano Pierino se è alto almeno 1,80 e ha due spalle così?!, io sono Tombolino perché sono piccino.bah, questi adulti) scendiamo dall’automobile e lì baci e abbracci tipo “Carramba che sorpresa”, manca solo la Carrà. Uè paesà comme staje, te truov tuost, pure tu stace bbuone, ecc. Poi ci rechiamo a casa sua, dove finalmente mangiamo qualcosa di commestibile che Piero ci cucina, un po’ intontito dal jet-lag (è tornato ieri dalle ferie fatte in Italia) e dalle figlie un po’ ribelli, che gli parlano/urlano in americano (e io non capisco niente, ma non solo io.). A cena arriva anche il fratello più grande, il mitico Dante, personaggio singolare e simpatico con passioni calcistiche ed automobilistiche e da un passato burrascoso. Dopo tre minuti che ci siamo presentati ci sta già raccontando la sua vita, partendo dal matrimonio fatto da giovanissimo, dall’emigrazione in Canada, passando per trascorsi in giro per il mondo un po’ per lavoro un po’ per evasione dalla realtà quotidiana e familiare, finendo con le corse con la Ferrari e le foto con i campioni del mondo di Spagna ’82, conosciuti spacciandosi per giornalista. Io e miei “parents” dormiamo per due notti a casa di Piero, mentre Dante e la sua gentilissima moglie ospitano zia tetta e Stefano a casa loro, dove gli continuano a raccontare fino all’una di notte di tutto di più, mentre gli zii cercano di addormentarsi seduti sulle sedie della cucina.

12° giorno

tour di Toronto

Come mio solito, sono mattiniero e quindi mi alzo presto, faccio colazione con mamma e papà, ma non trovo Pierino, che non capisco dove sia finito. Ieri sera mi è sembrato di capire che avesse una lezione di spagnolo dalla sua insegnante (che strane usanze che hanno qui, vanno a scuola di notte, bah.)e forse, siccome era lontano, magari lei sarà stata così gentile da ospitarlo. Una volta raccattati i due zii partiamo all’assalto della città. La giornata è completamente dedicata al giro turistico di Toronto che, pur avendo 2,5 m.ni di abitanti, è molto estesa e con strade larghe,lunghe e case grandi e grattacieli, un po’ sullo stile USA. Percorriamo con la macchina la strada più lunga del mondo, pienissima di negozi che sembrano non finire mai ed arriviamo al porto, una delle attrazioni del luogo. Dopo aver fatto un po’ di foto ci avviamo a “scalare” la torre più alta del mondo, dalla quale si domina la città, una parte della regione del grande lago Ontario e sembra veramente di stare in cielo per quanto è alto. Mi diverto un sacco a fare le foto sul pavimento trasparente a 400 metri da terra, dove le persone sembrano formichine e le macchine sono più piccole delle mie “Hot wheels”!
La sera mangiamo la pasta (w i ninni in bianco!), poi riaccompagnamo gli zii a casa di Dante and his wife, mentre Piero biascica ogni tanto qualcosa, mezzo addormentato e papà ad ogni incrocio lo sveglia per chiedergli dove dobbiamo girare. Certo che le lezioni di spagnolo mi sa che sono un po’ pesanti. io continuerò a studiare inglese! Decidiamo comunque che il giorno dopo ripartiremo, un po’ per lasciare tranquilli i nostri ospiti che devono anche lavorare, un po’ perché dobbiamo cominciare ad avviarci a piccole tappe verso New York, da dove poi ripartiremo per l’Italia.

13° giorno

partenza, sosta all’outlet

La mattina, prima della partenza andiamo nella camera delle figlie di Pierino per scaricare le foto della macchina digitale degli zii su un cdrom, perché la memoria è piena Ora, queste parole non sono farina del mio sacco, le ho sentite dire da loro e non voglio neanche sapere cosa significano. So solo che ci fanno perdere quasi un’ora di tempo perché i quattro geni dell’USB hanno problemi col pc. Considerando che gli zii lavorano in un’azienda di telecomunicazioni e che le due ragazze sono proprio nella fascia di età in cui i giovani d’oggi sono dei maghi dell’informatica, mi sa che c’è qualcosa che non va. Mah, datemi un paio d’anni di tempo e vi farò vedere io! Dopo aver ripreso il cammino, arriviamo allo Zoosafari che avevamo visto lungo la strada all’andata. I quattro adulti (anche se io su Stefano qualche dubbio ce l’ho sempre)sostengono che è una tappa necessaria per me, così anch’io potrò svagarmi, divertirmi e non solo girare per città e negozi. Il posto è davvero fantastico. Giriamo con la macchina tra zebre e bisonti, giraffe e leoni, vediamo le tigri, gli ippopotami e i “bambi” e soprattutto le scimmie che ci salgono sopra la macchina! Che forza, vorrebbero entrare, giocano con l’antenna della radio e si fanno fotografare (anche da me!)senza problemi. Che mattacchione. Poi vediamo lo spettacolo con gli elefanti, facciamo un giro sul trenino e andiamo io, zia e zio sull’elefante! Che alto che è! Infine mi metto in costume e al parco giochi acquatico sfodero il mio fisico atletico per rimorchiare quattro o cinque pischelle (zio dopo mi ha detto che dovevo farmi lasciare il numero di telefonino, ma io non ce l’ho, ho al massimo la macchina fotografica!). Dopo queste splendide ore (secondo me gli è piaciuto tanto pure a loro quattro, altro che “facciamo contento Tombolino!”)ci rimettiamo in auto e “stranamente” troviamo un altro outlet che sembra destino. Stavolta però non gliela faccio passare liscia a questi spendaccioni, pienamente calati nell’era del consumismo più sfrenato. Loro infatti andando in questi centri con negozi perennemente in saldo pensano di risparmiare, e sarebbe anche vero se si limitassero a comprare le cose che gli servono. Ma siccome i prezzi sono convenienti ed in più anche il cambio è favorevole, va a finire che si comprano un sacco di cose inutili, spendendo molto più del previsto (ma con quei soldi quanti giochi mi potrebbero comprare?). Insomma per ripicca, appena arrivati, mi addormento e quindi sono costretti a girare per negozi a turno, mentre mamma o papà girano con la mitica Toyota Sienna a formaggio, finchè non si stufano e ce ne andiamo via! Troviamo lungo la road, a “Lundsay Lane”, un “Knight Inn”, una copia dell’Holiday Inn, con in meno il prezzo (più basso, of corse), ma con in più una discreta puzza di muffa.

14° giorno

Buffalo – pizza beneventana

Per pranzo il giorno successivo ci fermiamo a Buffalo, cittadina caratteristica più per il nome che rievoca miti western che altro. Girovagando in questa amena località c’imbattiamo in una pizzeria italiana (mi pare “Enzo e Joe” o qualcosa di simile) e decidiamo di entrare. Sulle pareti ci sono molti dipinti di città italiane e questo ci fa ben sperare. Ordiniamo i nostri tranci e un omone, che dalle movenze e dalla stazza sembra essere il proprietario, ci saluta e ci chiede se va tutto ok. Zio Stefano, un po’ sincero ed un po’ ruffiano, gli dice che la sua pizza è la migliore che abbiamo mangiato finora in America. Non l’avesse mai fatto. L’omone ci prende in simpatia, ci viene a trovare al tavolo e comincia a chiacchierare in un misto di slang e similitaliano, che comunque riusciamo ad interpretare. Quando ci dice di essere di un paese vicino Benevento e scopre che papà e zia sono di lì vicino scatta l’apoteosi. Manca solo che i camerieri facciano la ola nel locale. Da quel momento non ci lascia più. Ci offre il caffè (italiano) in locale vicino e ci racconta la sua vita. Ci chiede di noi, fatica un po’ per capire come sono formate le coppie e chi sono i miei genitori (per fortuna siamo solo in cinque!) e poi ci racconta di Buffalo e dintorni. Su nostra esplicita richiesta se c’è qualcosa di interessante da visitare in città ci fa capire che oltre alla sua pizzeria non c’è nient’altro e poi trova una simpatica metafora per farci capire quanta poca vita ci sia in città. Infatti ci dice: “Se tu nel pomeriggio spari con una pistola non ammazzerai mai nessuno”, e lì capiamo che la nostra sosta nella cittadina può dirsi conclusa. Senonchè ci chiede che lavoro facciamo (io vado all’asilo, gli altri te lo spiegano loro!)e quando Stefano gli dice che lavora in Telecom, un’azienda di telecomunicazioni, lui gli risponde: “E’ tua?”. Lì capiamo che non c’è molta chiarezza e gli diciamo che papà invece ha una società di servizi che si occupa soprattutto di fare le buste paga per altre aziende. A quel punto Enzo(?)il beneventano lo abbraccia, se lo porta dentro e gli regala le buste paga dei suoi camerieri per fargli vedere se sono fatte bene.

15° giorno

di nuovo a New York

Dopo la nottata in un “Comfort Inn”, dove veramente confortevole, o meglio utile, è la consultazione gratis di Internet, prenotiamo tramite pc l’albergo che ci dovrà ospitare per le due ultime notti del viaggio a New York. Dopo difficili ricerche (sono tutti pieni!)decidiamo di Prendere due stanze al “Marriott Hotel”a 200$ a notte, senza colazione più 80 $ di parcheggio, perché ci siamo stufati e poi perché come dicono mamma e Stefano “ormai abbiamo fatto 30, facciamo 31” (solo loro conoscono il significato di questa oscura frase. Per me danno solo i numeri!). Il Marriott è un albergo piuttosto famoso, anzi, per la precisione, è una catena di alberghi, questo infatti trae in inganno i nostri eroi, ognuno dei quali si ricorda di averlo visto nel precedente soggiorno newyorkese, quindi chi nella 5° Avenue, chi dietro “Times Square”, chi un’altra zona ancora. Quello da noi prenotato è invece nei pressi di Ground Zero e, nonostante la guida Michelin col suo percorso dettagliato, riusciamo a trovarlo dopo aver girato Manhattan per più di un’ora da nord a sud e viceversa. Quindi chi dice andiamo di là, chi controbatte no è a destra, chi, non volendo creare maggiore confusione, come zio Stefano, pensa che pure a New York con le strade non stanno messi benissimo e dopo la ottava volta che sbagliamo strana mi è sembrato di sentirgli cantare sottovoce la canzone di Guzzanti “Grande Raccordo Anulare”. Ma al fine arriviamo. Dopo qualche incomprensione col personale nello scarico dei bagagli e per il posteggio della Toyota “Cheese” in garage, saliamo nelle nostre stanze commentando: “vi meritate Bush, siete proprio idioti!”. La sera andiamo a cena a “Little Italy”, quartiere caratteristico perché pieno di locali di emigrati italiani, convinti di mangiare bene in un ristorante italiano. Ahinoi, la realtà è ben diversa. Il quartiere, ormai ridotto ad una sola via a causa dell’espansione cinese, sembra una festa di paese di 40 anni fa, dove ti invitano ad entrare in questi ristoranti che di italiano hanno solo il nome (magari li avranno aperti i nonni dei nonni dei nonni.). Mangiamo così così, anche se io devo dire che mi sono gustato un bel piattone di spaghetti con le “gongole” pieni di aglio, il cameriere non capisce una sillaba di italiano ed è pure maleducato, quindi zio si trattiene dal mandarlo non so dove perché non gli spiega che cosa gli porterà da mangiare e poi ce ne andiamo, perché domani è l’ultimo giorno nella “Big Apple” e abbiamo un sacco di cose da fare.

16° giorno

MOMA e TOYS

La maggioranza (papà Elio)la mattina dopo decide di andare al MOMA, il museo di arte moderna, dove, oltre a far iscrivere papà per risparmiare ben 5$ sui cinque biglietti d’ingresso (ma soprattutto l’ennesima fila, che fichi che siamo!), dove tra tanti quadri belli e brutti, oggetti strani e pure qualcosa che assomiglia a dei giocattoli, vedo soprattutto un elicottero vero, sospeso in aria, dove ogni cinque minuti mi devono portare perché mi piace da morire e non mi spiego perché, invece di volare, sta lì fermo tra un piano e l’altro. A cena decidiamo di andare in un posto tranquillo, cioè Times Square di sabato sera, che è frequentata più o meno come il lungomare di Riccione a Ferragosto e mangiamo al “Planet Hollywood”, dove trovo macchine attaccate al muro, astronavi aliene, missili e mostri e mi chiedo dove mi hanno portato questi quattro mattacchioni, ai quali per scherzo verso un megabicchiere di acqua sul tavolo, così ho più tempo per scarrozzare per il locale con zia Tetta, mentre viene riapparecchiato il tavolo. Ma la cosa più bella la facciamo dopo cena al negozio della TOYS, un paradiso dei bambini, una città di giochi e giocattoli, dove faccio pure un giro con zia sulla ruota panoramica. Questo negozio è su tre piani e ha giocattoli fantastici, ma perché non siamo venuti sempre qui la sera? Mentre sto per uscire dal negozio una bimba di colore mi fa l’occhiolino, ma non so cosa vuol dire.

17° giorno

ritorno

Ebbene sì, la vacanza è terminata e dobbiamo rientrare in italia. E’ stata bella, nonostante il caldo, ho visto tante cose nuove, ho giocato tanto, però mi sono pure un po’ stufato di girare e allora non mi dispiace poi tantissimo tornare a casa, così potrò rivedere i nonni e gli zii che ho lasciato a Campo Antico e a Gesualdo, soprattutto, potrò mangiare dei ninni come si deve! Superate le pratiche di riconsegna dell’auto, incartati bagagli, tolte le scarpe al metal detector (l’odore mi ha ricordato quello della Toyota Sienna!), finalmente ci imbarchiamo. Io ho voglia di giocare e di sapere cosa sono tutte le cose che vedo intorno, dentro e fuori l’aereo e lo chiedo a mamma con la mia vocina delicata, facendo ogni tanto qualche pausa di circa uno o due secondi, per la gioia dei passeggeri vicini. Ogni tanto chiamo anche zia Tetta che è distante qualche sedile da me e ci sono alcune ragazze che stanno vedendo un film con le cuffiette o che tentano di dormire che mi guardano. Piacerò anche a loro? Mi sembrano un po’ grandi per me, comunque. Dopo un paio d’ore sono più vispo che mai, mentre gli altri passeggeri chiedono alle hostess tisane e sonniferi e tappi per le orecchie. Poi mamma mi fa la camomilla che io, bastardo, agito verso le girls vicine, facendo intendere loro che tra un po’ mi addormenterò. E loro infatti dicono che finalmente è quasi fatta. Ma è una finta e comincio a ballare col biberòn in mano sorridendo loro beffardo, al punto che si rivolgono a zia e le chiedono se c’è la possibilità di sopprimermi o almeno drogarmi. Poi, dopo un’altra oretta, comincio a cadere tra le braccia di Morfeo mentre un “ooohhh” soddisfatto culla la mia nanna. Dopo alcune turbolenze che zia Tetta supera a pieni voti (ormai punta alla Polinesia!)atterriamo a Fiumicino e prendiamo un taxi, guidato da un personaggio particolarissimo, che comincia a parlare e non si azzittisce più, visto che Stefano e papà gli danno spago, avendo capito che il soggetto è interessante. La conversazione spazia dallo sciopero dei taxi alle riforme, al governo, ai turni di notte e finisce chiaramente, come papà e zio speravano, con i racconti coloritissimi dei turni di notte del nostro amico, che parla di trans e locali equivoci (come il “Frutta e verdura” a proposito del quale parla non so perché delle banane) e che qui non riporto per rispetto di mamma e zia Tetta.

Stefano Pietri – Settembre 2006

Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati negli Stati Uniti

 

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