Gerba, l’isola di omerica memoria

di Massimo Romandini –

Nel mare di Tunisia, tra acque incantevoli e visioni irripetibili.
A terra l’incontro con una terra affascinante, un popolo ospitale, monumenti della lunga storia locale e il richiamo costante del mito omerico.

A Gerba, la più grande isola del Nordafrica con i suoi 514 kmq, Omero continua ad essere una presenza viva con qualche dispetto alle pretese di altre località mediterranee, come Majorca e Minorca. Fu qui forse che Ulisse, nell’interminabile ritorno verso Itaca, sostò per poi incontrare i mangiatori di loto; o fu qui che sostò a lungo trattenuto dalla ninfa Calipso. Gerba, paese dei lotofagi o isola di Ogigia: mito, non storia, con tutto il fascino dei miti, di ciò che si sogna, di una sorta di refrain turistico.Ma Gerba è anche storia e dal mito si passa poi ai fatti documentati, perché l’isola tunisina conserva con comprensibile gelosia le testimonianze di un passato che non è stato invano.
Qui, infatti, si stabilirono nuclei consistenti di Fenici e sui resti di località fenicie i Romani eressero Girba, Haribus, Meninx, Tipasa. A Gerba nacquero gli imperatori Gallo e Valeriano che regnarono per nove anni, dal 251 al 260 d.C. Qui si insediarono i Vandali, i Bizantini, i Beni Hilal. Nel 1134 fu Ruggero II a conquistare Gerba, primo di una lista lunghissima di effimeri dominatori, l’ultimo dei quali, nel 1535, fu il grande Carlo V. Negli anni seguenti il feroce Dragut fece degli approdi di Gerba
il trampolino di lancio di spedizioni piratesche, condotte sempre all’insegna del massacro.

Un fatto, che a Gerba è ancora ben ricordato, si riferisce all’attacco congiunto di forze napoletane, spagnole, francesi e dei Cavalieri di Malta contro i covi di Dragut. Era il 1560 e per i soldati cristiani la prima battaglia si risolse in un massacro a cui scamparono poco più di 5000 uomini che si rifugiarono nella Borj el-Kebir (la Grande Torre), una fortezza che ancora oggi domina sul mare di Gerba. Il 31 luglio di quello stesso anno Dragut riuscì a prendere la roccaforte in cui erano trincerate le forze cristiane: fu una strage delle più feroci che si ricordino da queste parti. Con centinaia di teschi Dragut fece erigere una torre che restò sul posto fino al 1848. Oggi in suo luogo un piccolo monumento ricorda quel feroce, macabro episodio di guerra. Il progressivo insediamento francese in Tunisia, a partire dal Trattato del Bardo del 1881, non risparmiò neppure Gerba dove comunque si ebbero episodi di resistenza all’invasore europeo.
Oggi Gerba è una delle mete più ambite del Nordafrica. La sua posizione a chiusura del golfo di Bou Grara (la Libia di Ghadafi è a soli 28 km) ne fa un luogo di incomparabile bellezza. Piccola e proporzionata (28 per 28 km), con 128 km di spiagge dalla sabbia simile allo zucchero, priva di asperità (altitudine massima… 56 m), Gerba è un centro turistico di primaria importanza per la fragile economia tunisina che dal turismo trae denaro prezioso. Gli hotel a 4 o 5 stelle non si contano, sono ospitali e ben gestiti. A Gerba i turisti giungono per una o due settimane di assoluto riposo senza pensare a quanto ancora offre la Tunisia. Altri vi giungono al termine di interessanti itinerari che spaziano da un capo all’altro del Paese.



Noi raggiungiamo Gerba in un assolato pomeriggio, in traghetto da Djorf all’estremità occidentale del golfo di Bou Grara (che chiude, a sua volta, l’ampio golfo di Gabès), il cui mare azzurro intenso (sono circa 500 kmq) è meritatamente noto da queste parti. La traversata è lenta, suggestiva, sotto i colpi di un vento che giunge provvidenziale a rendere più umano il caldo della giornata d’inizio estate. Si resta in mare, aggrappati ai parapetti del traghetto, una trentina di minuti, ma si vorrebbe che la traversata continuasse. Intanto Gerba con le sue palme da dattero si avvicina, ed è subito bella. Imbarcazioni turistiche e semplici pescherecci avanzano sul mare con l’immancabile stuolo di gabbiani.

Scendiamo a Gerba felici di aver scelto la via del mare per raggiungere quest’isola incantevole. C’è in realtà la cosiddetta diga romana, una strada su terrapieno, lunga 6530 m e larga 10, che risale al tempo degli insediamenti fenici ed oggi collega agevolmente l’isola alla terraferma. Dalla costa (estremità orientale del golfo di Bou Grara) si giunge in pochi minuti a El Kantara Ilê, a Gerba. Di quest’isola fino ad oggi si è detto sempre tutto il bene possibile, ed essa lo merita. Il turismo sfrenato degli ultimi anni non l’ha guastata più di tanto, anche se inevitabilmente l’ha trasformata. La natura stessa ha saputo rigettare alcuni attacchi dell’uomo, il mare è rimasto quello dei sogni, la sabbia non teme la concorrenza degli altri litorali tunisini. Gerba, insomma, decantata da poeti e scrittori, resta la perla meridionale del Mediterraneo, il “gioiello” dell’insenatura del golfo di Gabès, l’oggi e il domani del turismo tunisino.

Qui il clima è eccezionale tutto l’anno, anche se siamo solo a due passi dall’Italia. Il sole non si fa desiderare, il cielo ha un azzurro d’altri luoghi, l’alternanza di ciò che fu e di ciò che è (le rovine del passato fenicio-romano, i mercati all’aperto, i centri urbani di poche migliaia di anime, ma così caratteristici; gli alberghi prestigiosi) continua ad essere il segreto di costanti ritorni.
Gerba è anche un’oasi di genti che non vogliono scomparire. E’ infatti abitata (sono 80 mila persone in tutto) da berberi kharigiti e da ebrei: questi, orgogliosi discendenti degli ebrei che Tito nel 70 d.C. disperse per il mondo e che vennero numerosi qui a cercare una patria.
Eppure, qui nessuno ha mai avuto vita facile. L’isola è bella, ma l’esistenza un tempo richiedeva forza di braccia. L’acqua, per esempio è stata sempre il grande problema di Gerba. Vi sono oggi 4000 pozzi e 2000 cisterne per supplire alle necessità di ogni tipo. C’è anche una serie di tubi in cemento che seguono la diga romana. E il miracolo gerbino è proprio questo, dal momento che Gerba può oggi essere definita “ricca” per la produzione di ortaggi, di olive, di agrumi. Se non si vedesse con i propri occhi, non si crederebbe.

Gerba ha per capoluogo Houmt Souk, la cittadina del nord dalle case bianche, dette menzel in lingua locale, punto d’incontro di mercanti, incrocio di genti: piccola città levantina che non si rinnega neanche oggi, con i suoi souk e i suoi fondouk (mercati e caravanserragli) nella parte vecchia, dove l’argento viene venduto ancora a un prezzo conveniente e dove ogni oggetto è occasione di vendita e di estenuanti trattative. Vi si trova di tutto, dai foulard coloratissimi ai vestiti berberi, dai monili lavorati a mano ai vasi artigianali, dalle magliette di buon cotone che ti ricorderanno per sempre la Tunisia ai tappeti e alle tele. Tutto è mercato. Anche quando per motivi religiosi trovi chiuso il bazar arabo o quello ebreo, c’è sempre qualcuno pronto a offrirti la sua merce a prezzo alto, ben sapendo che tu tirerai alla morte sul totale fino al giusto (o quasi) compromesso. E poi, parlano quasi tutti l’italiano: se vogliono capirti, ti capiranno.
A Houmt Souk, lungo la via del caratteristico mercato, meritano di essere visitate la moschea di Sidi Brahim el Djamni, la Djamaa Turk (la moschea dei Turchi) abbellita da uno splendido minareto rotondo, e la Djamaa Ghorba (la moschea degli stranieri). Dopo il capoluogo, i centri di maggior prestigio di Gerba sono Hara Seghira e Guellala. Il primo è meta di pellegrinaggi per tutti gli ebrei del Maghreb e naturalmente per gli ebrei tunisini. E’ un centro notissimo, una sorta di Mecca israelita soprattutto per la Ghriba (la meravigliosa), una sinagoga di rara bellezza, visitabile a condizione che si indossi una lunga tunica che per pochi millesimi di dinaro viene fornita all’ingresso. I suoi colori, i suoi smalti, i suoi giochi di luci ne fanno un luogo di cui gli ebrei gerbini sono orgogliosi e che ti invitano a visitare col dovuto rispetto.

La sua fondazione risalirebbe al 600 d.C., ma le date hanno qui un valore relativo, se è vero che c’è anche chi vorrebbe gli ebrei di Gerba discendenti non di quelli sparpagliati da Tito per il mondo, ma addirittura di quelli del lontano esilio di Babilonia, nel 590 a.C. Come si conviene a tanto luogo, che anche personalità israeliane vengono a visitare, una leggenda ha reso più poetica la nascita della Ghriba. Un giorno, raccontano da queste parti, una pietra santa cadde dal cielo per designare l’area della costruzione ed una fanciulla straniera (una ghriba) apparve in tutta la sua bellezza, aiutò gli operai con i suoi miracoli e donò il nome a questo sito che non si dimentica tanto facilmente. Purtroppo, un recente grave attentato di radice integralista, ha deturpato questo grande monumento, oltre a causare vittime innocenti.
Legati quasi morbosamente alla Ghriba, gli ebrei di Gerba vanno fieri della purezza della loro razza: sono insomma un’oasi in un’isola che a sua volta è un’oasi per tanti motivi. La costante conservazione della purezza razziale ha peraltro determinato un certo declino degli ebrei gerbini. Dati alla mano, erano 5000 nel 1956, ma oggi se ne contano, con ragionevole approssimazione, meno di 800 ad Hara Kebira e circa 300 ad Hara Seghira. Un’altra ragione del declino di quest’oasi ebraica è da ricercare anche nel costante flusso verso Israele.
Guellala, nel sud dell’isola, èil centro dei vasai e deve la sua fortuna alle cave d’argilla che vi abbondano, alle fornaci che fumano ininterrottamente, ai suoi operai che lavorano manualmente i prodotti dalla mattina alla sera e senza perder tempo si trasformano in venditori d’occasione, ti parlano tutte le lingue, dimostrano ad un tempo pazienza ed insofferenza e puntualmente ti vendono ciò che vogliono. Guellala è un susseguirsi di artistiche botteghe artigiane alternate a verdi palmizi.

Gerba ha i suoi piccoli porti dove la pesca si fa spesso con metodi antichi. Di qua e di là si vedono migliaia di piccoli orci di terracotta legati l’un l’altro con grosse funi: servono per la pesca dei polpi, qui abbondanti come le aragoste il cui costo al chilo non è poi conveniente come si potrebbe supporre.
In compenso, polpi ed aragoste si apprezzano per il delicato sapore. Aghir è un piccolo porto sul litorale orientale di Gerba. Montagne di nasse e di vasi legati la dicono lunga sull’attività dei pescatori. In un angolo, in precario equilibrio su uno scoglio, un vecchio pescatore squarta con precisi colpi di coltello un piccolo squalo capitatogli nella rete. Il mare tutt’intorno si colora di rosso, coda e pinne volano da una parte, grossi filetti invece in una cesta. Sulla banchina altri pescatori tirano su grosse razze ed altri piccoli squali che di questo mare sono ospiti abituali.
Di Sidi Mahrez, non lontana da Aghir, si può (e si deve) dire tutto il bene possibile: è la “spiaggia d’oro con sabbia d’oro”, come affermano orgogliosamente i gerbini. Contraddirli sarebbe non solo fatica sprecata, ma anche una grossa ingiustizia. Alberghi e bungalow popolano il litorale. Più di qualcuno prega Allah, affinché‚ preservi questa terra dai ricorrenti attacchi dell’uomo.
Dal piccolo porto di Adjim ci si può imbarcare per la costa ovest del golfo di Bou Grara, cioé per Djorf da cui siamo giunti. Qui il turista cerca soprattutto nuovi sapori di Tunisia, che possono essere la pesca delle spugne effettuata da pescatori che si calano fino a venti metri o il mercato stesso delle spugne, così insolito per chi come noi viene da mercati diversi. Anche da questo piccolo porto la vista spazia non solo verso il continente, ma anche verso il restante litorale gerbino lungo il quale “giocano” in singolare alternanza palmizi e distese sabbiose, brevi insenature e file di vecchie imbarcazioni, agili cavalli tunisini lanciati dai ragazzi al galoppo e pacifici dromedari, dune sahariane e geometrici campi da tennis da far invidia ai nostri. Ma è la vecchia Gerba che preferiamo e a cui pensiamo, mentre in traghetto ripassiamo sul continente. Non ce ne vogliano tutti quelli che aspirano ad essere l’isola omerica dei lotofagi: noi crediamo d’averla trovata qui.

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