La mia corona

di Lisa Maccari – 
La sera del 10 agosto sono a Budapest, e ho i nervi a fior di pelle. Si galleggia in un’afa grigia, gonfia di bagnato che non si decide a sfasciarsi in un modo o nell’altro, e al momento si salta nervosamente da un canale televisivo all’altro, in cerca di una qualunque delucidazione, che sia una, sulle condizioni del tempo previste per domani. Dopo una settimana intera di cielo limpido quasi ininterrotto, e di luce del giorno sferzante che infieriva, tanto da fiaccare seriamente le nostre camminate di turisti senza troppi pensieri, proprio oggi, nelle ore più calde, hanno cominciato a montare le nuvole, con insistenza allarmante. Nella palude giallognola del crepuscolo, la città stagna di attesa frustrata.

Sbatto avanti e indietro le tendine, affacciandomi continuamente a controllare che aria tira all’orizzonte, facendo tremare i doppi vetri e la ringhierina stenta. E accidenti alla miseria, non va bene, non può combinarci proprio questo, non adesso, diavolo!
L’amico che mi accompagna conosce bene le mie ansie e le mie furie. Ha già capito benissimo, senza bisogno di troppe parole, che non è l’eclisse di per sé ad essere il problema. L’eclisse è una cosa splendida, d’accordo. Ed è anche un simbolo, anche qui c’è poco da dubitare: tanto è vero che siamo qui apposta. Ci siamo organizzati tutto un viaggio su misura per questo, anch’io che di viaggiare, in quest’anno teso e soffocante, in questa estate ostile, non avevo nessuna voglia. L’ho presa come una promessa rabbiosa, predicandone ad altri gli incanti solenni, fin da mesi e mesi prima, brandendola come un imperativo categorico sovranamente evidente per tutti, seminando qua e là esortazioni e tracce di percorsi possibili fusi su misura per ognuno, insistente, se non ci vai ti perdi un’occasione unica, muoviti e trema! Finché poi, invece, quando si è trattato di mettere le mani io sul mio muovermi, di fare piani, di prendere atto che, se proprio ci tenevo tanto a inseguire quella grandiosità fredda avrei dovuto reclamarla, assimilarla e affrontarla con tutto ciò che mi porto addosso, allora, sono caduta di nuovo nel terrore. Ma non ho mai pensato di lasciar perdere. Di sbattere giù le guide e i manuali, certo. Di andarle incontro in modo completamente fuori dalla norma, da pazzi, da far rabbrividire qualunque persona sensata, lo stesso. Ma di rinunciarvi, mai. Con una foga uguale a quella dei predicatori apocalittici da strapazzo, che blaterano di fine del mondo e di rivelazioni d’incubo da fine millennio – come se questa luna frettolosa, leggera, questa piccola macchia d’ombra che morde e fugge, non fosse circoscritta a una striscia sottile della nostra Terra, e avesse la forza di pesare soffocante e solenne su tutto il globo – e che prendo in giro ogni volta che posso senza riguardo, con un’ansia fanatica che forse, appunto, alla fine è della stessa natura della loro, mi sono buttata cieca a rincorrere questo mito. Io che da anni studio la corona solare, e che non l’ho mai vista davvero, per questa volta la prendo proprio come una simbolica conquista. Come se tutte le crisi, i dubbi e le esasperazioni degli ultimi mesi, anzi, perfino quelle di tutti i miei anni recenti, che continuano ad affacciarsi ogni volta che vogliono, potessero davvero specchiarsi, frangersi, riassumersi, e magari perfino trovare un paradossale compimento, nello spettacolo di quell’evanescente corolla chiara che, in questa rara occasione che conserva ancora, malgrado tutto, una caparbia nostalgia di leggenda, verrà a invadere per poco più di due minuti il cielo alto del mezzogiorno. Sempre se questo schifo di coltre d’aria greve si degna di togliersi di mezzo, maledizione !
Non è l’eclisse, da sola, ad essere il problema, e stasera lo so benissimo. Il fatto è che mi conosco, e so che se dovesse andarmi storta questa, che pure non è certo una questione di importanza vitale – di una qualche importanza sì, d’accordo, ma vitale certamente no – tutta la tensione e il dolore che continuo a portarmi addosso, che fluttuano, si ritirano e tornano a distendersi senza una norma sulla mia vita affaticata, si troverebbero immediatamente liberi una volta di più, su per un inaspettato nuovo squarcio trionfale. Se mi va storta, dopo tutta l’emozione che ci ho messo, sarà un’occasione in più per cadere ancora nel mio solito, buio, ostinato, pianto senza freni per tutto il resto.

Si tenta perfino la strada, patetica finché si vuole ma che può sempre servire, di sdrammatizzare la preoccupazione e la rabbia annacquandole in una salva di battute scherzose. Nemmeno umoristiche, proprio stupidaggini complete, senza costrutto, senza un filo, infantili storpiature di vocaboli e martellamenti di tormentoni demenziali ricorrenti, pezzettini di un linguaggio privato, consolidato ormai dall’abitudine e dalla certezza tranquillizzante di non dovergli attribuire nessun secondo senso, e di non doverlo condividere con nessuno. Non è un gioco tanto speciale, né lo carichiamo di una forza che non ha. Ognuno di noi, poi, può averne quanti ne vuole, di codici come questo, nella vita, fuori, con altri. Io stessa, ne ho anche troppe, che battono in fondo alla gola, di frasi e di parole mascherate, che qui e adesso stonerebbero. Non ho nessun motivo, di tirarle fuori, proprio non c’è ragione. Il resto, va benissimo così. Almeno, finché una stretta improvvisa di realtà non ci ricorda che anche questi brandelli di celia non bastano. Piuttosto, accendiamo la televisione e cerchiamo di capire qualcosa delle previsioni del tempo, che è meglio.

La fascia di totalità dell’eclisse si stende, ma questo ormai lo sa tutto il mondo, compresi i continenti a cui non può importarne un briciolo perché non ne sono toccati, a tagliare in due l’Europa come un’esile spina dorsale. Come un fiume agile accompagnato dalla curva di un bacino ampio, la striscia buia, circondata dalla più vasta regione di penombra segnata in un grigio più chiaro, è stata riproposta con tanta insistenza su giornali, riviste, immagini televisive, pagine elettroniche, cartelloni pubblicitari, magliette e quant’altro, da piantarsi nella memoria visiva come una componente integrante delle mappe di sempre. Un elemento nuovo, definitivo a pieno diritto negli occhi di chi si affanna a cercarlo come un evento di spettacolo, un guizzo geniale in più che capita a pallino nella giostra delle mode, delle urla e dei luoghi comuni di questa fine millennio ubriaca di voci sfrenate. Una trovata mediatica come tante, solo un po’ più adatta alla solennità e alla retorica, e che sia capitata anche in agosto, a guardar bene, è stato proprio un bel colpo che sembra fatto apposta. Bella strategia di marketing e di pubblicità, verrebbe da dire, se ne fossimo sommersi appena un pochino più del vero. Il colpaccio dell’estate, alla fine. Meglio seguire queste nuvole fino all’ultimo, picchiando pugni sui muri e sui comodini se, malgrado tutto, non danno proprio segno di sfaldarsi.

La striscia, appunto, come hanno imparato quasi tutti a memoria, nasce sull’Atlantico occidentale, quattro o cinque fusi orari di mare ininterrotto, nelle nebbie del mattino, e si affaccia in Europa alla bocca oceanica del canale della Manica. Le prime terre emerse che incontra, intorno alle undici con un Sole già alto, sono le isole Scilly e la cuspide della Cornovaglia. Poche chances di vedere realmente qualcosa, abbiamo detto tante volte con malinconico compatimento, in Inghilterra dove il sole non si vede quasi mai, e dove la metà di agosto è già un anticipo di autunno. Ma adesso, che ci grava addosso questo cielo torvo, e si fa seria la probabilità concreta di non vedere nulla nemmeno noi, qui e ora, in questa sera oppressa di grigio, di caldo e di rabbia, a pensarci bene, la Cornovaglia non è lontana. Quel brandello di terra affilata, gonfia di tutto il folklore, i colori e i miti che le hanno cucito addosso, bellissimo posto da visitare, non dubito, ma chi diavolo sarà stato così incosciente da sceglierla apposta per l’eclisse, mi chiedo, quella provincia allegramente celtica che sfida ostinata il clima con le sue immense manifestazioni turistiche e creative in vista dell’evento, non è poi un altro mondo. Mi pare di avercela a due passi, stasera che mi mordo le dita nervose studiando previsioni del tempo e carte stradali con affanno frustrato. Appena uscita dall’isola britannica, all’istante, con un attimo appena di mare solo, ecco che la nostra ombra investe la Francia: qualche isoletta di frontiera, di lingua inglese ancora, poi un briciolo di penisola marginale, mare di nuovo, e quindi a fondo in terra di Normandia. Si stende su Le Havre, Rouen, scantona Parigi lasciandosela a sud di pochi chilometri, coglie una coda di Belgio che a una prima occhiata sulla mappa potrebbe anche non notarsi, e una macchia di Lussemburgo che invece resta, da sola, quasi metà della superficie totale della nazione, e continua accompagnando il confine di stato nella zona dell’Alsazia, coprendo di buio paesi e città i cui nomi si trasformano progressivamente da francesi in tedeschi con fluida noncuranza, quasi come se una frontiera autoritaria non ci fosse. Sul bordo, coglie Strasburgo, città simbolo di questo faticoso, magnificato collage europeo di fine millennio, sancito domani da milioni di curiosi a naso in su con gli occhialini di carta che fanno buio pesto. Continuiamo a seguirla a parole, visto che per il resto non possiamo fare molto: in Germania, pure qui in battaglia dura con nuvole e temporali, ci ripetiamo cercando di convincerci che la nostra situazione sia infinitamente migliore, non c’è confronto, ma chi mai sarà stato così sconsiderato da scegliersi la Baviera alla metà di agosto?… In Germania copre Stoccarda, Ulm, affonda decisa sulla Baviera, su Monaco e sul Danubio giovane, punta sulle montagne e passa in Austria. Il pezzo di Austria che investe saranno tutte Alpi, a occhio… comincia a ridiscendere dopo Graz, a un’ora che si è fatta mezzogiorno e tre quarti per un altro fuso di Terra arcuata, sfiora appena un orlo sfuggente di Slovenia, e finalmente eccola in Ungheria, considero, e noi che siamo venuti qui apposta, dopo aver addirittura studiato “scientificamente” la soluzione che si riteneva più verosimile e più ottimista, proprio qui, anche noi, rischiamo di perderci tutto? Va bene, non divaghiamo adesso, su questa cartina nota, stranota, conosciuta a memoria, fino allo sbadiglio, su cui far finta di consolarci a forza di sorrisi tirati e rassegnati. Lago Balaton, che è la nostra meta. Le previsioni del tempo del giornale la danno per dubbia. Ingoio e passo oltre con la geografia della mente per l’ennesima volta: Ungheria centrale, Szeged, un piccolo trancio di Jugoslavia, Serbia, provincia autonoma della Vojvodina, ricostruisco il ricordo scolastico con una fitta amara, quindi Transilvania rumena, e siamo nel centro. Siamo nel centro del percorso buio, ne è passata soltanto la metà, ma per quello che mette in fibrillazione l’entusiasmo generale, appigliato caparbio all’ingenuità di essere una volta in più l’asse del mondo, sembra che sia finita qui, e che, passato il grosso dell’Europa, il resto non conti. E invece, avvolta Bucarest con simmetria quasi perfetta, un’ora e mezzo dopo aver preso forma al largo della Nova Scotia, e un’ora dopo essersi affacciata sui primi spiccioli di terra inglese, l’ombra prosegue, spazza un pezzetto di Bulgaria e si butta nel Mar Nero, dove sicuramente qualcuno tenterà di osservarla da una nave, per riemergere dopo dieci minuti sulla costa nord della Turchia, e affondare nel cuore dell’Anatolia come un lungo solco. Di lì in poi, difficilmente avranno problemi di nuvole, ci ripetiamo stizziti per esorcizzare le nostre, ma non serve a molto. Macina chilometri di deserto e di montagne giù per le dolorose regioni che si accavallano tra Turchia, Siria e Iraq, anche qui nessun rischio di cattivo tempo, ma che terra di lacrime e di paura, quindi passa a tagliare l’Iran esattamente lungo la curva principale della sua lunghezza, impiegando una mezz’ora buona a percorrerla tutta. Esaurita di curvatura della Terra e di tramonto, dopo uno squarcio di Pakistan e un brandello di mare Arabico, a mezzogiorno e mezzo del solito tempo universale, che invece in quell’Est deciso è già sera, l’ombra raggiunge l’India. Pare che anche lì, nel pieno della stagione dei monsoni, le probabilità di vedere qualcosa tornino a crollare. Eclisse obliqua, ormai breve, di nuovo sfiorata nel cielo basso, si trascina per un altro tratto fino alla soglia di un nuovo oceano, finché, sulla baia del Bengala, si scontra con un definitivo orizzonte e svanisce. Il sommo del cono d’ombra della Luna torna a confondersi nello spazio aperto, e lo spettacolo si chiude. E si chiude anche la nostra divagazione consolatoria, mentre torniamo a saltare agitati da un canale televisivo all’altro, nella speranza di cogliere qualche previsione meteorologica in una lingua comprensibile.



Le prime sono in tedesco, a noi comprensibile, sì, ma fino a un certo punto, e solo a prezzo di nervosa concentrazione innaturale. E sono anche poco ottimistiche, e soprattutto poco utili, visto che, come è ovvio per un canale della TV austriaca, dell’Ungheria non parlano affatto. Su tutti i bollettini meteorologici dei paesi coinvolti, senza eccezione, il tratto d’ombra campeggia a tagliare le mappe, ridisegnate per l’occasione. Gli annunciatori del meteo si sforzano di mascherare le deludenti anticipazioni con auguri gioiosi, colpi di speranza ostentata, sorridenti accenti di scongiuro. Ma una perturbazione densa e robusta è ben assestata sulla Germania, e nei fotogrammi della ricostruzione elettronica, si muove decisa verso sud-est. Dopo le Alpi, sembrerebbe piegare leggermente a nord – ma dai, facciamo il tifo con foga infantile, buttati sulla Boemia, che tanto lì è parziale e chi se ne frega ! – ma a questo punto la sequenza finisce. Ennesima stretta di nervi, e dita sul telecomando irrequiete. Le previsioni del canale tedesco non ci dicono molto di più, se non che, come dalle nostre prevedibili alchimie logistiche della prima ora, effettivamente la Baviera non è messa bene per lo spettacolo. Scorriamo velocemente l’elenco disordinato di amici e conoscenti che sappiamo essere sparsi tra Stoccarda e Graz, e concludiamo con stizza che, se alla fine va male a tutti, e poi invece si vede in Cornovaglia, non inseguiremo mai più un fenomeno astronomico in vita nostra. Finalmente, zapping dopo zapping, ecco il meteo ungherese. Archiviando ovviamente come del tutto proibitivo qualunque tentativo di comprensione verbale, ci attacchiamo rabbiosi alle illustrazioni: scorre la giornata di oggi, cartina stilizzata da cartone animato, sole stento su tutta la nazione, parzialmente nascosto da una nuvoletta dal disegno frivolo, da qualche parte anche un fulmine e un ombrello, e vabbè, lo sapevamo ma è passata ; scorre la notte che sta per iniziare, luna dalla fase incongrua e stelline scintillanti mezzo coperte qua e là allo stesso modo… e scorre la mattinata di domani, spietatamente, drammaticamente sospesa: un disco di sole nero – ci prendono anche in giro, i maledetti? – che occhieggia a fatica da una nube all’altra, dal Balaton alla Transilvania, ogni tanto anche sopra ai soliti inequivocabili simboli di pioggia. Non c’è uno squarcio di terra che si salvi, tutta l’Ungheria è assediata. Nuvolette parziali, stracciate, può anche darsi che qualcosa alla fine si apra, ma non c’è modo di saperlo fino all’ultimo. E dopo tutta questa tirata di speranza ostica e di affanno, mollo tutti i freni dei miei nervi tesi, e scoppio. Lascio andare la rabbia, la frustrazione e le parole gonfie e disordinate, battendo pugni duri dove capita, addirittura cercando apposta gli spigoli e i piani più aspri, finché il mio amico non mi chiude piano le mani sui polsi e li accompagna dolcemente, per impedirmi di farmi male. Sembrerò esagitata, ma in fondo lo so che la cosa ha il suo lato più leggero. Tanto è vero che alla fine prendo sonno comunque, anche se tormento il cuscino più del solito.

Senza bisogno di sveglie, apro gli occhi prima delle sette di mattina, elettrica e torva. Mi affaccio fuori, e la città intera è avvolta da una cappa di nubi. Intanto, dobbiamo pensare a muoverci verso il Balaton, e poi ci preoccuperemo. Se all’ultimo momento ci sarà da piegare altrove, inseguendo uno squarcio di cielo libero per campi e montagne, al limite passando frontiere impreviste, ci inventeremo qualcosa. Adesso andiamo.

Siamo ormai pronti a qualunque delusione e scoppio di furia, ma lungo le due ore e mezzo di strada il cielo si apre. Non ci credevo più, ma si apre. Si apre quasi da ogni parte, deciso. Si apre nel mezzo della perturbazione minacciosa che ieri sera ci avevano mostrato in tutte le salse. Si apre continuando a tenersi in caldo banchi di grigio incerto lungo vari pezzi di orizzonte, ma si apre. Si apre solcato ogni tanto da una nuvola bassa e veloce, che in dieci minuti attraversa tutto e scompare di nuovo, e che basterebbe a rovinare tutto, ma si apre. Da quando il sole ancora integro si è fatto vivo a una trentina di chilometri dalla capitale, per tutto il resto del viaggio ho guidato distesa, serena, tornando a scherzare, a cantare parole gonfie e accese, a rivolgermi, per gioco, direttamente all’astro che ora pare libero, e alla Luna, alle nuvole, che continuino così e non ci facciano dispetti sadici dell’ultimo istante, a commentare il traffico, la strada – orribile, ma che importa adesso – e il paesaggio, come se fosse sempre stato ovvio che godersi l’eclisse senza problemi fosse facilissimo, e se tutte le esplosioni di nervi delle ore scorse non ci fossero mai state. Siamo nei pressi di una località chiamata Kèpolnèsnyìk, quando una rapida occhiata alla mappa ci conferma che siamo già entrati in quello che fra qualche ora sarà territorio dell’eclisse totale. A Szèkesfehèrvar, che se non la vedessi qui con i miei occhi avrei tirato a indovinare come una città persiana, il cielo è di nuovo coperto a macchia di leopardo, ma ormai sembra che la minaccia non faccia più paura a nessuno. A Veszprèm, che doveva essere l’ultima soglia dei dubbi, l’ultimo punto di brainstorming logistico sul quale decidere definitivamente se cambiare programma o no, si scandaglia l’orizzonte: nella direzione nord-ovest, verso il confine austriaco, che ci eravamo riservati come alternativa, l’atmosfera si ispessisce e si gonfia non promettendo nulla di rassicurante, a sud verso il lago, invece, è tutto libero. Torniamo quindi al programma di partenza, come se nulla fosse successo: giù lungo la riva nord, fino alla collina di Badacsònyi. Mancano un paio d’ore, e si comincia a sentire. Ancora un po’ di calma, per qualche decina di chilometri di guida. Poi posso mollare.

Passano boschi, radure e villaggi turistici patetici, lungo una riviera di vacanza per famigliole non dissimile da quella dell’Adriatico nostrano. Negozi colorati e pensioni con scritte cubitali – in tedesco prima che in ungherese, tanto perché sia chiaro quale è il target – , spiazzi da campeggio e colonne di auto parcheggiate strette, e soprattutto, oggi, più si entra lungo la costa più si infittiscono, postazioni di astronomi dilettanti agguerriti, che tirano a lucido telescopi e macchine fotografiche, facendo prove di puntamento, alternando filtri e pannelli per proiezione, verificando la stabilità dei treppiedi e i ritmi dei motorini di inseguimento orario. All’altezza della penisola di Tihany, che oltre ad essere la località più graziosa e più turistica dell’intera sponda, è anche esattamente al centro della striscia di totalità, il caos è al di sopra del livello di guardia. Andiamocene finché ce la facciamo, prego sottovoce, e continuo a tirare pallidi scongiuri ogni volta che una nuvoletta nuova si alza. Corrono spiagge gremite, e si addensano voci in decine di lingue. Ma appena ci allontaniamo dal paese, la riva torna verde e il traffico sopportabile. Badacsònyi è a una ventina di chilometri dall’asse centrale, sempre dentro i due minuti di buio, e stretta a nord-ovest da colline fresche di vigneti e di macchia. L’altura principale ci impedisce di vedere cosa c’è all’orizzonte, proprio dalla parte dalla quale il vento, ogni tanto, sospinge rapidi fiocchi di grigio, ma ormai restiamo qui. L’unica cosa a cui rinunciamo, del progetto iniziale, è la camminata sulla montagna: non vogliamo allontanarci troppo dal veicolo, in modo da poterci buttare velocemente in un inseguimento disperato, nel caso che tutto si rannuvolasse di nuovo all’ultimo istante, ma per il resto, possiamo fermarci. Rimetto i piedi a terra con sollievo inaspettato, e subito tiro fuori, con un sorriso poco convinto, gli occhialini di cartone e di cellofan a prova di fotosfera, quelli che hanno tutti, senza distinzione di età o di provenienza, e che a tutti donano un’insopprimibile e indiscussa aria da idiota, e faccio una prova contro il disco ancora intatto. Sgranchisco le gambe e le braccia irrigidite, e – tu, cretina di una nuvola, che fai lì nel mezzo, sbrigati a levarti di torno – mi affaccio verso la distesa pallida del lago.

Infognarci da soli in un punto isolato no, aspettare in quel modo per tutta l’ora e mezza buona di fase parziale mi snerva troppo, e poi se alla fine qualcosa va male chi mi tiene? Ma disperderci in una spiaggia affollata è ancora peggio. Dopo un quarto d’ora di camminata più o meno a caso, ci imbattiamo in un’isola insperata : una spiaggia piccola, con poca gente, nessuno col telescopio a parte una coppietta silenziosa, niente urla, niente confusione, una strisciolina appena di sabbia e poi zolle erbose fresche, in questo mezzogiorno di agosto schiacciante, alberi, ombre e panchine tranquille. Un’occhiata senza parole, decisa, qui, e non ci schioda più nessuno !
Scatto qualche foto al paesaggio intorno, e come tutti consulto l’orologio con urgenza fitta. Mi stendo sul prato senza più un filo di tensione sui muscoli o di ansia nel respiro, quando un filo appena di cerchio scuro ha intaccato il bordo destro del Sole.

Ora si sta qui tranquilli, e si fanno passare questi ottanta e poco più minuti cercando di ricordarsi tutti i particolari che ci eravamo ripromessi. Tanto ancora, prima che la terra si accorga che sta succedendo qualcosa di strano, ci vuole un po’.

Fa caldo, caldo greve, la terra umida del temporale di poche ore fa – a Budapest non lo sapevamo, ma qui ha piovuto, stanotte, gli astrofili accampati sul lago fin dalla vigilia se la sono vista ancora più brutta di noi – solleva fiati di tepore gonfio, l’erba rinvigorita brilla accesa nel sole, offrendo conforto scivoloso ai piedi finalmente scalzi e distesi. Mi stendo sul prato e cedo a un lento, tiepido, quasi piacevole calo di pressione in fondo a tutte le vene del mio corpo. Attorno a noi, un vasto gruppo familiare, con diversi bambini, che parla una lingua slava difficile da definire, una coppia di tedeschi di mezza età rintanati all’ombra di un albero robusto, una comitiva di adolescenti che cercano refrigerio tuffandosi e riemergendo dal lago in continuazione, i due giovani, rivelatisi spagnoli, con il cannocchiale e il teleobiettivo puntato, e qualche bagnante sciolto e sparso. E’ abbastanza evidente che, a parte i due ben equipaggiati, nessuno è venuto apposta per l’eclisse: tutti l’aspettano, tutti ne parlano, tutti si scambiano commenti e schermi protettivi, ma tutti sono comuni vacanzieri di agosto, persone che erano qui al lago in ogni caso, probabilmente che erano abituati a venire in questa stessa spiaggia tutti i giorni. L’atmosfera serena, libera, lontanissima sia dal clamore dei media che dall’indifferenza ignorante, mi culla in un solco di rilassamento insperato, mi consola di tutte le mie ansie, che tornano ad addensarsi solo quando, ogni tanto, una nuvoletta passeggera percorre veloce il cielo ormai libero. Non c’è un filo di foschia sul lago, splende regale il verde dei vigneti sulle colline, a ripercorrere tutte le buie aspettative di ieri ormai viene da ridere, di riso amaro, sarcastico un po’, ma chiuso, limitato, costretto in un angolo marginale. Oddìo, a perderci il meglio dello spettacolo si fa sempre in tempo, viene in mente ogni tanto, basta una nuvoletta come queste, un velo piccolo e svelto da due minuti, ma sui due minuti giusti… solo che adesso, qui sulla costa del Balaton, distesi e sfiniti sotto un Sole smangiucchiato dopo tutta questa maratona di nervi, semplicemente non è il caso di pensarci. Il disco della Luna macina strada più veloce di quello che sembra, è passata una mezz’ora e si è già ritagliato uno spicchio nettissimo, la forma inconsueta dietro i filtri scuri è inequivocabile, anche se, provando appena a lanciare uno sguardo a occhio nudo, è impossibile soffermarsi tanto da cogliere la differenza. Il Sole abbaglia anche così mutilato, e francamente, ancora, un calo serio di luce del giorno non si nota proprio. Il giorno alto dell’agosto pieno continua a battere, e la gente continua a rifugiarsi all’ombra o in un tuffo nell’acqua piatta…
Non ho strumenti, né raffinatezze scientifiche di alcun genere, per scelta. Sono voluta venire incontro a questa vista senza niente che ricordasse il mio lavoro, il mio Sole di fisica e di missioni spaziali, la mia corona di righe ultraviolette e di diagnostica ardua. Sono qui a godermi lo spettacolo, e basta, come gli antichi della commozione e dei miti, come questi ragazzini che ho intorno e che cominciano a mostrare segni di curiosità impaziente. Però un minimo di originalità accorta, posso dedicarla anche a loro. Afferro dalla borsa un paio di fogli, quelli con le fotocopie della mappa e le tabelle degli orari, e ne spiano uno sull’erba, sfondando un piccolo foro sull’altro, nel mezzo della cartina dell’Ungheria, proprio sul punto dove siamo adesso. Sollevo, aggiusto la distanza, e una piccola falce di Sole in proiezione spunta sul bianco della carta stesa a terra. I bambini mi fissano con stupore esitante, poi si avvicinano a sciame. Dopo due minuti, sono tutti impegnati a bucherellarsi rudimentali camere oscure anche loro. Indico il gioco di luci e ombre sotto le fronde degli alberi, che finora nessuno sembrava aver notato, e la gente si passa la parola giocherellando con le dita lungo l’insolito mosaico di lame di Sole arcuate. Qualcuno le fotografa. Me compresa, lo ammetto… E’ una falce sul serio, a questo punto, c’è poco da discutere. Il centro del disco è scomparso, la copertura sarà arrivata al sessanta per cento, a spanne, e di colpo ci rendiamo conto che il crollo di luce adesso si vede. Cala un crepuscolo innaturale sul mezzogiorno passato di agosto, si ispessisce opaca di un riflesso incongruo la spianata vasta del lago. Gli sguardi dietro gli occhiali sono sempre più fitti e tesi, ha il suo daffare il teleobiettivo del ragazzo spagnolo – di Barcellona, per la precisione, abbiamo scambiato qualche parola cordiale, è un appassionato cacciatore di immagini di nebulose lontane, galassie e cielo profondo, ma di fronte a un’eclisse totale di Sole è la prima volta anche per lui – e le emozioni impreviste cominciano a stridere. Gli antichi, e specialmente gli antichi dell’estremo Oriente, secondo una leggenda che non ho mai preso troppo sul serio, a questo punto sarebbero usciti in strada terrorizzati, con trombe, tamburi e cimbali assordanti, per fare più confusione possibile e far scappare dallo spavento il dragone impazzito che minacciava di divorare il Sole. Non ci ho mai creduto, in realtà, lo sapevano benissimo, a mio avviso, di cosa si trattasse, e se ne stavano tranquilli anche loro, ben consapevoli che fosse questione di qualche ora, e che il Sole non corresse alcun pericolo. Luna affilata, tacca accesa di calendario, drago femmina silenzioso e fluido, scivola lungo il giorno d’estate in faccia alla Terra, scorre, avanza, taglia con geometria inflessibile una fossa privilegiata nel grembo del continente, e finalmente, comincia a dare i brividi. Manca poco, a questo punto, un quarto d’ora forse, controllando gli orologi e le note, saremo sull’ottanta per cento buono, e non soltanto la luce è calata: ignorata tutta la china graduale che sarebbe stata ovvia, di colpo, invece, ci rendiamo conto di quanto sia scesa la temperatura. Il mio corpo affaticato dallo sforzo e dall’afa ritrova un briciolo di freschezza familiare sotto il vestito spiovente, qua e là la gente in tenuta da spiaggia passa a rimettersi addosso magliette e camicie con un mezzo brivido. Uno stormo di uccelli in viaggio vacilla disorientato, piegando e spezzettando la formazione di volo in ondate sconnesse. La falce tracciata giù dai nostri fogli forati è esile davvero, più o meno come una Luna al secondo o terzo giorno di fase nuova, eppure è ancora impossibile distinguerne la forma, se ci si azzarda a lanciare un’occhiata senza proteggersi. Scende a precipizio, adesso, l’oscurità crollandoci addosso, il Sole c’è ancora, è luminoso senza alcun dubbio, ma di luce piatta, gelida, senza un filo dei toni rossastri del tramonto, che siamo abituati a ritrovare quando la luce si assottiglia in questo modo. Cerco un riflesso color bronzo giù per le ombre delle foglie, e lo trovo invece grigio di ferro e cenere. Ferro le ombre e piombo la distesa del lago, giorno di agosto, e giorno alto, ferito e piegato da questa tenebra difforme, alla quale, finalmente, ora che non si può più discutere, possiamo abbandonarci senza riguardi. Appoggio la testa sulla spalla del mio amico, cercando le sue mani in una stretta intensa, trascinando anche lui in questa sorta di diafano dormiveglia fascinato. Le voci festose si sono spente, i volti dietro gli occhiali sono assorti e compunti, il giovane catalano continua a scattare foto a intervalli puntuali, ma con gesti che tremano un po’ più di prima, i ragazzini qui a fianco hanno smesso di giocare vivaci, e si protendono anche loro snervati nell’attesa. Il cielo è libero, adesso, non c’è traccia di bruma a far paura, l’ultima nuvoletta è corsa via quasi un’ora fa, e tutti l’abbiamo scordata con decisione. Mancano pochi minuti, un filo di Sole appena. Ancora non lo si può guardare senza schermi. Violentissimo e soverchiante mi afferra in fondo al grembo, alla fine, il morso di tutte le assenze con cui ho dovuto, e dovrò continuare, a fare i conti. Serro i pugni contratta e rapita, facendomi quasi male con le unghie dure contro il palmo, decisa a toccare, a incarnare, ad assorbire e metabolizzare fino in fondo questo livido portento, questo incantesimo così ovvio, geometrico e piano che ho inseguito e voluto con tanta forza. Un urlo sommesso si fa strada dal fondo del mio corpo, direttamente dal muscolo del diaframma senza passare per le labbra. Un minuto, non di più. Tolgo gli occhialini, e ancora questa Luna non basta. Mi alzo in piedi convulsa, tesa, distraggo gli occhi dal Sole un attimo per gettare un’ultima occhiata veloce alla terra che ho attorno, e colgo l’ombra che arriva, precipita, mangia l’orizzonte, le colline e l’aria, che si butta a capofitto fin dentro al nostro respiro con brividi freddi, che si fa strada senz’argini nel colmo del cielo di agosto. Via gli occhiali davvero, adesso, e ci siamo proprio: l’ultimo brandello di fotosfera balena solenne in un vivido anello di diamante, si sgrana in un’esile cortina di punti luminosi, e svanisce del tutto. Per un istante di contraccolpo smarrito, sembra che il cerchio ormai scuro sia scomparso senza lasciare traccia, inghiottito uniforme sul buio del cielo, e poi di colpo la corona emerge, bianca, vasta, e inequivocabile.
Direi che i sospiri immensi che trattenevamo pronti a scoppiare si fanno vere e proprie grida, adesso, di meraviglia e di sollievo affatturato, dico direi perché la lucidità di tenermi cosciente ed equilibrata nella mia cronaca, stavolta, proprio mi sfugge. Seguo le code sottili dei pennacchi estesi, nettissimi, si chiamano streamers e sono proprio il pane quotidiano del mio lavoro, li ho visti mille volte nelle immagini consuete dei coronografi spaziali, ma adesso sono lunghi, affilatissimi, lanciati sul cielo freddo come i petali di una gigantesca margherita, come gli assi fantasiosi della filigrana di una ragnatela, acuti, chiari, in tutte le direzioni, dita filate o tentacoli trionfali, che stendono sulla terra la loro luce ferma, cristallizzata, radiazione fusa e rappresa sottile, fino a stampare e restituirci un intero mondo in bianco e nero. Direi che strillo di incredulità e di commozione greve, ma non posso esserne sicura. Scatto qualche foto, ma con la macchinetta che mi ritrovo non mi illudo che venga nulla di speciale. Dedico un attimo a Mercurio e a Venere, nitidissimi uno a destra e l’altro a sinistra del Sole oscurato, e li indico ai miei giovanissimi, fortuiti compagni di osservazione. Scorro il paesaggio che ho attorno, in realtà non è vero che sia buio a notte, ma qualunque tentativo di misurarne il peso in termini di lune piene o di tramonti spinti, in questo momento, lascia il tempo che trova. La mano di chi mi ha accompagnato mi sfiora di nuovo, e alla fine, con calma, permetto alle mie fibre tese di sciogliere gli ultimi secondi di spettacolo che restano in un abbraccio liberatorio e febbricitante. Il nuovo anello di diamante del contatto finale, che si apre lancinante mentre la corona svanisce, ci sorprende così, vicini, sfiniti e con le lacrime agli occhi. Faccio in tempo a cogliere le ombre volanti sulla sabbia ai miei piedi, mostrando anche quelle a qualche ragazzino sorpreso. Poi, l’ombra corre via sul lago, guadagnando l’oriente. Mi butto di nuovo sull’erba, e resto per un bel pezzo a riprendere fiato senza parlare.

Il resto, è curiosità confusa, e paradossale incredulità, nulla di più. Ci sarebbe ancora un’ora e mezzo o quasi di eclisse parziale, ma sembra di colpo che non interessi più niente a nessuno. Gli occhialini giacciono a terra dimenticati, i bambini hanno ripreso i loro giochi da spiaggia di sempre. Ogni tanto qualcuno si ricorda del foglio forato e della proiezione, ma ci perde un attimo e poi accantona ogni cosa. I due spagnoli proseguono con la sequenza completa dei loro scatti, i ragazzi del gruppo vasto riprendono a chiacchierare animati, seduti di nuovo sui sassi della riva e tornati a sguazzare con i piedi nell’acqua, passato il momento di commozione sollevata da terra, ricompaiono anche gelati, panini e lattine di bibite, giochi di pallone chiassosi, spintoni, scherzi e proteste. Noi continuiamo a smaltire l’ebbrezza in silenzio, colmi fino in fondo, per una volta, proprio traboccanti estenuati nel corpo vivo, del peso immenso di tutto il mito, la meraviglia e lo sgomento che questo gioco banale di ombre e di orbite si è trascinato dietro nei millenni fino a noi. Leggende, illusioni, luoghi comuni, ricordi di chi c’era – quante volte ho preteso che i miei genitori mi raccontassero l’eclisse del 1961 fino allo sfinimento, da bambina – divagazioni da fantascienza, orrori ancestrali, esaltazioni e brividi, tutti in blocco, oggi, a specchiarsi, moltiplicarsi e rifrangersi, alla portata di una folla fitta e allo stesso tempo unici per ognuno, a condensarsi nell’aria che ci avvolge, e a placarsi sulle nostre mani, ancora malferme ma ormai per poco. Il resto è anche malinconia inarrestabile, per tutte le incompletezze e i vuoti che stridono, tutte le mancanze, tutti i morsi di buio che restano a mangiarsi pezzi della nostra vita, e li lasciano lì a farsi strada in mezzo alle simmetrie rotte, come questa nuova falce di Sole, affilata curva dall’altra parte, adesso, che torna a riprendersi il giorno. Il resto è aspettare fino alla fine caparbi, con la tensione dei nervi ormai sparpagliata e leggera, e perfino cercare qualche commento scherzoso. Il resto è alla fine, salutare i casuali compagni di questa avventura e rimettersi in viaggio con calma, vagando un po’ per colline e vigneti prima, quindi riprendendo la strada per la città, nel pomeriggio avanzato che ormai si colora di rosso come tutti gli altri e nel traffico feroce del rientro, sotto un cielo che ora può anche affogarsi in tutte le nuvole che vuole. E magari festeggiare anche con una serata un po’ sconnessa, senza troppi pensieri decisi, perché da domani la vacanza è finita.

Giorni dopo, sono tornata a casa, sfinita, placata, mi affaccio dalla finestra sul deserto della Firenze di mezzo agosto ammirando il vuoto e il silenzio della sera, riafferrando la coda sottile della malinconia di sempre, ma oggi tuffata in un respiro vasto, appagato e regale. Ho appena finito di raccontare ogni dettaglio a un’altra persona che ho cara, che adesso mi sfiora il braccio in questo squarcio fresco di davanzale, nel buio. Una falce di luna che si avvicina al quarto sta calando giù tra le fronde a occidente, affilata ancora e calda di orizzonte. Le lancio un bacio infantile, su per la punta delle dita, lontano. Brava, commento intenerita, ti voglio bene. Hai fatto proprio un bel lavoro, questo mese. Chissà dove, alla prossima…

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