In viaggio verso Tallin e la Germania

di Andrea Sarti –
Lo so che ci pensate sempre. Ogni volta che la vedete per strada non potete fare a meno di voltarvi e cercare di seguire con gli occhi per un secondo o anche solo per un attimo, quella figura che invece non vi nota, nemmeno sa che esistete. Ci pensate sempre, ogni volta che un fondoschiena femminile entra nel vostro campo visivo. Lei magari non è bella, magari ha vent’anni più di voi, magari ha vent’anni meno di voi, magari è sposata, magari ha le smagliature o forse potrebbe essere anche perfetta, che cazzo importa? Voi la vedete lì, in fila al supermercato giusto alla cassa accanto, poi l’ammirate mentre siede sul lungomare a fumare una sigaretta Marlboro light con dei fuseaux azzurri aderenti e il giorno dopo passa davanti al bar in centro in cui state facendo colazione con cornetto e cappuccino (perché è meglio non dirlo, ma siete abitudinari) per la modica cifra di 4,00 euro. Quando la rivedete lei magari non è più bionda, forse è rossa oppure ha i capelli di un castano scuro morbido e rassicurante, lo stesso colore di capelli che aveva vostra madre da giovane, forse dice qualcosa, forse si ferma a parlare con qualcuno o forse no, in fondo che cazzo importa? Forse sono tutte diverse queste donne, queste ragazze, forse non hanno nulla in comune tra di loro. La mamma che fa la spesa, la solitaria che ama il mare d’inverno e la donna in carriera che deve correre in centro senza neanche potersi permettere un cappuccino, visto che in ufficio c’è tanto lavoro e il Cayenne è in divieto di sosta.
Non importa che siano persone diverse, perché le amate tutte, sareste assolutamente capaci di donare il vostro amore a tutte, anche contemporaneamente. Le concupite, le bramate, vi attizzano e non sapete perché. O forse si, che cazzo importa?
Siete giovani o lo siete stati, su questo non c’è dubbio. Probabilmente avete fatto qualche tipo di lavoretto part-time mentre studiavate o mentre andavate all’università o forse, grazie al miracolo della flessibilità e della legge Biagi, state ancora facendo un lavoretto part-time. E’ qualcosa di temporaneo o perlomeno vi illudete che lo sia. Bé, insomma, il lavoro non è importante. Qualunque cosa facciate, voi state lì a lavorare e cercate di fare meno casino possibile con la vostra vita, quando la vedete, un’altra lei, una che vi piace.
Forse era estate e vi stavate divertendo, anche molto. Forse la ragazza in questione aveva meno di diciotto anni. Sedici per la precisione. Voi magari ne avevate venti. Se qualcuno ha mai fatto un lavoretto estivo al mare mi può capire.

La ragazza in questione era zoppa, trascinava leggermente il piede destro e così tutti i vostri amici, forse non esattamente dei luminari della scienza, ma con un sesto senso che neanche l’uomo ragno si ritrovava, vi hanno detto subito, facendovi l’occhiolino e appoggiandovi una mano sulla spalla sinistra mentre la vostra bella zoppa vi passava davanti per andare al mare, “con quella ti ci devi buttare, tu l’inglese lo sai bene e poi…mica riesce a scappare una volta che l’hai presa!” e giù tutti a ridere. Perché non è poi così difficile capire cosa passa nella testa ad un uomo.
Forse quell’estate ci avete anche provato con la vostra fiamma, ma lei era con dei suoi amici, in una specie di dannatissimo viaggio organizzato. E poi era giovane, molto giovane. Sedici anni. Vostra sorella che età ha? Già i vostri amici venivano a lavorare con un cesto d’arance e ridevano, pensando a quando vi sarebbero venuti a trovare in carcere e a portarvi le arance fresche. Semplicemente si portavano avanti con il lavoro. I giorni passavano e la vostra bella rimaneva irraggiungibile, mentre mischiata ad un gruppetto di ragazzine della sua età camminava lentamente, usciva e rientrava, andava al mare e a divertirsi. Forse eravate timidi o forse avevate già la ragazza, forse sentivate che a lei non fregava nulla. Forse, ma che cazzo importa?
Il giorno della sua partenza non l’avete nemmeno salutata, solo uno dei vostri compagni di lavoro vi ha detto, appena avete iniziato il turno, che il pulmann delle ragazze estoni era partito. Si, perché la vostra giovane amica veniva dritta dritta dall’Estonia. Poi voi, quell’estate, avete continuato a divertirvi. Alla piccola zoppa estone non ci avete più pensato. Non ci avete più pensato almeno fino a settembre di un anno dopo. Perché appena avete la mente sgombra ci pensate sempre. Quando si tratta di una vacanza, pardon di un viaggio ci pensate sempre (non alla ragazza estone, ma a quell’altra cosa). Voi siete così, lo so cari miei amici.
Insomma vi ritrovate a settembre, finito il vostro lavoretto, consci di essere ormai nella fase calante dell’estate e cercate una meta per le vostre vacanze. Mi correggo, per il vostro viaggio. Voi non andate in vacanza, voi andate in viaggio. Vacanza e viaggio, due concetti molto diversi.
G.A.G., ottimi pranzi, sauna, piscina, bagno turco, animazione, italiano, spiaggia, sole, stupidi giochi con obbiettivo socializzazione, discoteca, luogo esotico strapieno di turisti grassocci e pacioccosi che non escono dalla gabbia in cui si sono rinchiusi.
Fatica, notti insonni, sbronze, alberghi di quinta categoria, ostelli, military tent, canadesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, grassone ubriache che scopano nude sui divani della sala comune, pranzi orribili, amici, macchina, camionisti russi ubriachi, tonnellate di fotografie, imprevisti, risparmio, divertimento, vita. E cazzate, una marea di cazzate.
Il primo gruppo di elementi fa capo alla cosiddetta vacanza. Ricchi e poveri cercano di allontanarsi per un microsecondo dalle brutture della vita infilandosi in un centro commerciale con camere da letto. In Sardegna come in Calabria come a Santo Domingo.
Il secondo gruppo di elementi fa parte del viaggio. Giovani, amici o coppie, si spostano in un altro paese con la speranza di vedere qualcosa che faccia dir loro “merda, praticamente sono morto, ma ne valeva la pena”. Scusate se sono di parte, ma non posso che congratularmi con chi sceglie il viaggio.
Forse, in quegli ultimi giorni di agosto, mentre la piccola zoppa estone vi ritornava in mente, vi siete chiesti “perché non andiamo in Estonia?”. La risposta a questa domanda era davanti a voi, sulla cartina geografica che forse avete o avevate attaccato sulle parete della vostra camera. Magari sul muro di fianco al letto, quello con il poster di Demi Moore in Striptease. Comunque, quella stupida cartina, vi ricordava ad ogni sguardo che per arrivare a Tallin partendo dalla vostra cittadina turistica in riva al mare, occorreva percorrere più di 2600km. Con la macchina, perché di aereo non se ne parla nemmeno. Con la vostra macchina nuova. Quella cartina, appesa con aria patetica di fianco alle perfettamente finte tette di Demi Moore, in quella camera che all’epoca era appena diventata la vostra camera, dopo che vostra sorella era andata all’università o che vostro fratello più grande aveva deciso di provare l’avventura della vita fuori casa, quella cartina vi ricordava anche che dovevate attraversare e/o fermarvi in almeno 6 paesi prima di arrivare in Estonia. Senza contare che forse sareste anche dovuti tornare a casa.
In realtà tutto questo non ha mai avuto molta importanza. Appena nella vostra testa da ventunenne si è palesato il nome Tallin, saltando fuori inquieto da quel bollirone d’esperienze, amori, delusioni e divertimento che era stata quell’estate, voi avete saputo immediatamente che c’era solo una cosa che avrebbe potuto trattenervi e far slittare a data da destinarsi il vostro piccolo sogno. Quella cosa erano i vostri compagni di viaggio.

Forse i vostri compagni di viaggio avrebbero potuto pensare che l’idea di andare a Tallin solamente perché un anno addietro vi eravate invaghiti di una piccola fiammiferaia zoppa di cui ora avete solo il nome, Alina, era una cosa piuttosto stupida, considerato che ci si poteva divertire (e pure molto) anche a Praga, Vienna, Bratislava, in Sicilia, in Sardegna, in Spagna, in Francia. Probabilmente i vostri compagni di viaggio avrebbero potuto dirvi che non era necessario fare 6000km (andata e ritorno) per trovare una ragazza, che queste cose non succedono nemmeno nei film. Avrebbero potuto aggiungere che loro, di farsi 6000km (andata e ritorno) per finire in un posto sperduto sul Mar Baltico dove si mangiano orecchie di cinghiale e salsicce per colazione, non ne avevano proprio voglia. Forse avrebbero potuto dire tante altre cose per convincere voi a non andare a Tallin.
Forse, perché quella sera afosa in cui decideste in maniera piuttosto sommaria e per nulla rassicurante il vostro itinerario, non dissero nulla di tutto questo, si dichiararono anzi entusiasti di partire alla ventura con una sola meta, Tallin. I vostri compagni di viaggio.
Si, perché l’unica cosa che avevate deciso era il punto d’arrivo, Tallin. Sapevate con un margine di sicurezza comunque poco rassicurante che partivate da casa vostra e pensavate di arrivare nella capitale estone. Da A a B. Il tragitto, il percorso, la strada che vi avrebbe portato da A a B era un’incognita o per meglio dire un’equazione. Si, perché per quanto vi possa adesso sembrare incredibile voi avevate il risultato dell’equazione, il valore della X, ma non avevate l’equazione. Non vi sentivate, quella sera afosa del 30 agosto, seduti davanti a tre birre Pilsner Urquell gelate, mentre nello stereo a basso volume il cd di Jack Jonhson gracchiava in modo fastidioso, quella sera non vi sentivate di decidere che strada fare, non volevate impostare l’equazione. Ad essere totalmente sinceri non ve la sentivate anche perché avevate un altro elemento di cui tener conto. A, B e C.
Anche quell’altro elemento era costituito da una formosa giovane ragazza, per la precisione era costituito da tre formose giovani ragazze. Erano le tre piccole fiammiferaie che in quell’ultima estate avevano preso il posto della fiammiferaia zoppa dell’estate precedente. Per la precisione una solo di loro aveva preso il suo posto nel vostro cuore. Quale? La più piccola ovviamente. A questo punto direi d’andare con ordine.


4 agosto

Quella sera eravate piuttosto stanchi, anche se forse giù di morale rende in maniera più efficace la vostra condizione. Era una delle rarissime sere estive in cui siete andati in sbattimento, niente di grave, però quella sera avevate deciso di starvene per i cazzi vostri.
La ragione era presto detta. Le quattro ragazze livornesi di cui ora non ricordate nemmeno i nomi, avevano deciso di darvi buca, voi e i vostri tre amici non avreste fatto quella grigliata di carne innaffiata da abbondante vino che da circa una settimana attendevate. Le livornesi avevano deciso che quella sera non sarebbero rimaste in campeggio, sarebbero uscite per farsi rimorchiare e per andare a ballare in qualche discoteca all’ultimo grido. Troie è la prima parola che vi viene in mente, ma sarebbe quella sbagliata. Voi non le avreste seguite, su questo eravate tutti d’accordo, nessuno escluso. Rimaneva come magra consolazione, il fatto che il posto in cui avevate deciso di fare la grigliata era, quella sera, già occupato da un altro membro dello staff che aveva diritto di prelazione. Si diceva che il vostro amico dovesse fare stretching e non volesse livornesi tra i piedi, non quella sera almeno. Per un motivo o per un altro la vostra grigliata era comunque saltata ed era volata anche qualche parola grossa verso il vostro amico guastafeste, sebbene la colpa del fallimento non fosse sua.
Leggermente abbattuti “but far from die” come direbbero gli Incubus, eravate seduti sulla sedia all’entrata del campeggio in cui lavoravate e forse, in quel preciso momento, quando verso le 20.15 il sole stava tramontando e non pensavate ad altro che ai cazzi vostri, forse in quel momento avete pensato che Dio esiste. Se non vogliamo allargarci così tanto possiamo dire che avete pensato che esiste una qualche sorta di giustizia divina, una specie di equilibrio che in maniera impercettibile qualcuno o qualcosa s’impegna a mantenere tale. Infatti proprio verso le 20.16, un gruppo di tre ragazze arriva davanti alla vostra sedia e chiede informazioni per i prezzi. Forse sarebbe il caso di darsi da fare, di mostrarsi spiritosi e intelligenti, di promettergli degli sconti, di dirgli che non potranno mai divertirsi tanto come si divertirebbero se restassero in questo campeggio. Nel campeggio in cui voi lavorate. Forse sarebbe il caso di dirgli, senza esagerare, che voi sapreste dove portarle la sera, sapreste farle divertire. Forse sarebbe il caso di far sfoggio di tutte le vostre capacità comunicative, per convincere le tre ragazze a restare. O forse no.
Tuttociò di cui sopra non serve a nulla perché il vostro compagno di lavoro e amico ha già preso in mano la situazione e anche lui, pur non dandolo a vedere, era leggermente abbattuto per la storia delle livornesi e anche lui sa che occasioni del genere, con tre bellissime ragazze che viaggiano sole, non capitano tutti i giorni. Anche lui sa benissimo che quelle tre ragazze devono restare, perché altrimenti l’equilibrio va a farsi benedire e poi non potete nemmeno lamentarvi, visto che le occasioni ve le fate sfuggire tra le mani. Il vostro compagno di lavoro e amico però ci sa fare e voi lo sapete, è più grande di voi e sicuramente, se c’era uno tra voi due che poteva convincere tre ragazze straniere a fermarsi, quello era lui. Per questo sorridete tranquillo mentre osservate e ascoltate il gruppetto di ragazze che parla con il vostro amico. Sapete di essere in buone mani, sapete che l’equilibrio, la giustizia divina, seguirà il suo corso.
Le tre ragazze si fermano in campeggio. Si fermano nel vostro campeggio. E non solo. Con il suo solito modo di fare da affascinante uomo della strada, il vostro compagno di lavoro e amico dice alle ragazze che compreso nel prezzo del campeggio c’è un giro turistico notturno della città, con voi e lui come guide. Ora non rimane che stabilire dettagli come ora e luogo d’incontro, il lavoro sporco che viene sempre lasciato a voi, alle seconde linee. Le tre ragazze, che per inciso sono tedesche, si chiameranno Sophie, Jill e Johanna, mentre chiameremo il vostro compagno di lavoro e amico Marco. [Serve stare qui a precisare che questi e tutti gli altri nomi sono inventati?]
Ora non voglio tediarvi con una banalissima storia riguardante un’amore (o una cotta o in qualsiasi altro modo la vogliate chiamare) estivo, sono cose che non interessano e che avete già vissuto. Quello che voglio raccontarvi è come è nato il terzo elemento di cui avete dovuto tener conto, l’elemento C (se per caso qualcuno fosse interessato alla parte più sdolcinata e mielosa della storia, alla cotta estiva, può scrivermi a questo indirizzo: via Carli 17/a 47900 Rimini e chiedere di spedirlgi il racconto, non mancherò di farlo, cari miei romantici lettori).

15 agosto

L’elemento C, il terzo elemento che avete dovuto considerare per progettare il vostro viaggio, sboccia improvviso ma desiderato la sera di ferragosto.
Ferragosto è un giorno di festa, anche se credo che nessuno di voi/noi sappia bene che cosa si festeggia. Quella sera avevate mangiato a più non posso e insieme al cibo era scivolato nel vostro stomaco vino in abbondanza e oltretutto eravate finiti in un posto sulla spiaggia dove non siete riusciti a fare a meno di prendere altri cocktail. Eravate piuttosto allegri. Siete di corporatura robusta, per cui il termine sbronzo, che vi sarà saltato sicuramente in mente, non è il termine migliore, allegro andante con brio fotografa meglio la situazione.
Quella sera eravate in compagnia di una delle tre tedesche. Quale? La più piccola ovviamente. Erano diversi giorni che ci uscivate, circa sette-otto, e il gruppo di giovani teutoniche si era distribuito omogeneamente fra i vostri amici. Quegli stessi amici che poi, guarda caso, saranno i vostri compagni di viaggio. Il vostro amico e compagno di lavoro numero 1 lo conoscete già, si chiama Marco e stava insieme alla Sophie, il vostro amico e compagno di lavoro numero 2 si chiama Manuele ma tutti lo chiamano Motta, per via di un’allucinante somiglianza con il centrocampista ex Barca ora allo Sporting Lisbona e stava insieme alla Jill.
Piccolo inciso per precisare che le tre ragazze tedesche dormivano in un vostro appartamento, un appartamento che gli avete ceduto gratuitamente per due settimane guadagnandovi l’appellativo di affittacamere (le ragioni che vi hanno spinto a fare tutto questo sono nell’altro racconto, perché io le conosco, perché io vi conosco cari lettori).
Insomma quella sera anche la tedesca, la Johanna, era abbastanza allegra andante con brio e finisce nel vostro letto. Mentre siete nudi nel letto e lei, da brava ragazza qual è, vi comincia strisciare le sue belle tette sode sulla faccia, mentre lei si mette sopra e comincia a farvi desiderare di trasferirvi in Germania per il resto dei vostri giorni, mentre le sue labbra morbide che sanno di fragola s’incollano alle vostre e le lingue si rincorrono in un guazzabuglio d’emozioni indescrivibili, mentre vi sembra di poter fermare il tempo e di poter rimanere così per l’eternità, belli, forti e immortali, mentre v’intrufolate nelle cavità più nascoste e toccate ogni singolo lembo di pelle della Johanna, mentre vi chiedete perché, mentre vi chiedete che cosa succede se qualcosa va storto, mentre la vostra mente riesce ad essere, finalmente, per un momento libera, in quel preciso istante lei dice “Can you promise me that you will visit us in Germany?”, proprio nello stesso istante in cui il suo seno sodo finisce sopra la vostra faccia, proprio nello stesso istante in cui lei lancia sulla destra del letto il suo tanga. La domanda rimane sospesa nell’aria, sembra un’illusione, finchè sentite di nuovo, ”Can you promise me that you will visit us in Germany?”, pronunciato proprio mentre voi le passate le mani fra i capelli castani lunghi che scendono fino a solleticarvi il viso, mentre con le mani le accarezzate la schiena e scendete fino a quel culo fantastico che fino a qualche giorno fa nemmeno vi sognavate, mentre siete lì che v’impegnate per dare e ricevere piacere, mentre siete lì non potete che rispondere “i will visit you, probably in september when we make a trip around Europe”.
Eccola. Nel vostro inglese incerto vi siete fatti quasi una promessa. Perché quel probably suona come certamente alle sue orecchie. E lo sapete anche voi. Perché quel probably, in realtà, sarà una firma su un contratto che v’impedirà di smettere di pensare a quella piccola e splendida diciassettenne tedesca anche un mese dopo che se ne sarà andata. Quel probably è il vostro delitto e il vostro castigo, la vostra gioia e la vostra dannazione. Non che tu non la voglia rivedere. Non che di lei non ti freghi niente, più che altro sai come vanno a finire queste cotte estive. Insomma lì per lì avete promesso e ora avete un elemento C da considerare. All’andata o al ritorno vi dovete fermare a Wolfenbuttel, ridente cittadina della Germania in cui le tre tedesche, compreso il vostro piccolo angelo dai lunghi capelli castani, vivono. Wolfenbuttel si trova a 1800km da Tallin , 1800km a ovest di Tallin e a 1500km da casa vostra, 1500km a nord di casa vostra. Per raggiungere la Johanna e la Sophie e la Jill dovete fare una deviazione di 800km, per la precisione 864km. Elemento C.


LA POLONIA

1 settembre

Il viaggio vero e proprio è iniziato oggi alle 4 di mattina del 1 settembre. Quando alle 3.50 sono salito sulla mia macchina, una c3 grigia metallizata, il mio sguardo si è posato casualmente su un auricolare bluetooth che giaceva sconsolato vicino alla leva del cambio. Quell’auricolare bluetooth mi era stato dato “in regalo” abbinato all’ acquisto del mio cellulare, cosa avvenuta circa un mese addietro e da quel momento è finito lì, abbandonato all’interno dell’abitacolo della mia auto. Questa sera, alle 3 e 50, lo rivedo. Non so esattamente perché ho deciso di usarlo o per meglio dire, lo so ma non riesco a spiegarmelo. In ogni caso lo accendo e lo indosso, passo a prendere il compagno e amico Marco poi passo a prendere il compagno e amico Motta e, alle 4.15 circa, siamo pronti per partire.
Viaggiamo tranquilli sulla Romea, con l’intenzione di raggiunger Venezia e poi prendere l’autostrada per il Tarvisio. Guido io.
– Sei veramente tecnologico, navigatore satellitare, cellulare, auricolare bluetooth…dieci anni fa non so come saremmo riusciti a partire senza tutta questa tecnologia – mi dice Marco sorridendo.
Io faccio finta di niente mentre lo sento frugare nella tasca della sua giacca e tirare fuori la macchina fotografica, una macchina fotografica digitale. Imparerò a conoscerla bene.
– Sorridi! – flash.
Ecco, la prima foto, la prima foto dopo la partenza è dedicata a me, capelli neri corti e un profilo austero (quello destro) su cui si staglia incontrastato l’auricolare nero e grigio che penzola un po’ sconsolato da un orecchio. Marco e Motta ridono. Non so quale sia il motivo che li spinge a ridere, ma nel giro di quindici secondi vedo Marco che tira fuori il cellulare e mi telefona.
– Il cellulare sta squillando, rispondi – mi dice.
– Pronto, Marco mi senti?
– Io ti sento bene, tu mi senti con il bluetooth?
– Ho un po’ di ritorno ma ti sento bene.
– Ok ciao.
– Ciao.
In quel momento sorridiamo tutti, ma io non comprendo i reali motivi della telefonata. Marco mi richiama.
– Sei sicuro di sentirmi bene?
– Ti sento benissimo.
– Ah bene allora ciao.
Chiude il telefono e mi scatta altre tre-quattro foto, sempre profilo destro con auricolare in bella vista. E ride.
Lì per lì penso sia semplicemente un modo come un altro per divertirsi, solamente al ritorno ho capito perché il mio auricolare bluetooth suscitava tanta ilarità. Io, cari amici, non uso mai l’auricolare, mi fa sembrare un cretino, mi sento un cretino (la stessa cosa, credetemi, vale anche per voi). Ma quella sera avevo pensato che, iniziando un lungo viaggio, chissà, magari qualcuno mi avrebbe telefonato e allora sarebbe stato interessante e utile, visto che ero alla guida, usare quel dannato auricolare. Il piccolo particolare che in quella specie di frenesia tecnologica mi sfuggì, era che il nostro viaggio iniziava alle 4 di notte e nessuno in tutta la mia vita mi ha mai telefonato alle 4 di notte! Che stupido. Ma non ditemi che non vi è mai capitato. Non ditemelo perché non ci credo. Il fatto è che probabilmente non vi fermate mai a pensarci.
Mi rendo conto che avete fretta.
Mi rendo conto che l’acquisto di gingilli tecnologici rende noi uomini particolarmente gasati, almeno fino a che questi non si rompono.
Mi rendo conto che la nostra società è basata sul progresso, sul continuo e lento ricambio di ciò che è più vecchio con ciò che è più nuovo semplicemente perchè è più nuovo.
Mi rendo conto che l’evoluzione si applica soprattutto nell’ambito tecnologico e non in quello naturale.
Mi rendo conto che tuttociò si chiama consumismo e mi rendo anche conto che senza la nostra società non può sperare di tirare avanti. Ogni tanto però, prima di sganciare un assegno per un nuovo televisore da 3600 euro, fermatevi un attimo e pensate “quello che sto comprando è assolutamente inutile”, dopodiché potete anche accomodarvi alla scrivania e aspettare che vi concedano il finanziamento e/o il pagamento a rate.

Ora ci troviamo in Austria, austero e piccolo stato in cui abbiamo modo di apprezzare le qualità del navigatore satellitare Tom-Tom. Verso le nove di mattina infatti il bel navigatore ci dice, con la sua voce di donna calma e tranquilla che fa molto casalinga alla desperate housewives, che dobbiamo uscire dall’autobahn e prendere un‘altra strada per arrivare a Vienna. Il dubbio che ci assale è assai bastardo. Nel cuore della Carinzia le nostre menti devono riuscire a decidere se è bene fidarsi della tecnologia e andare lungo la strada che il navigatore ci indica o se è meglio proseguire seguendo i cartelli e ciò che le nostre menti ricordano da precedenti viaggi. Nel giro di pochi minuti decidiamo di seguire il navigatore.
Questa prima parte del viaggio è in pratica un lento attraversamento di terre che conosciamo abbastanza bene. Io sono nato a Bressanone, vicino ai confini con l’Austria e in questo stato ci sono andato in vacanza più volte. I paesaggi sono effettivamente incantevoli. Ci muoviamo veloci su una lingua d’asfalto che certamente panoramica non è, eppure è difficile non rendersi conto che lì intorno c’è tutta la pace che una persona può voler desiderare. Se non fossimo giovani, se non stessimo cercando un tipo abbastanza preciso di vacanza, se fossimo alla ricerca di relax, avremmo trovato il luogo giusto per noi. Questo pensavo prima d’incontrare i poliziotti austriaci.
Erano circa le undici e viaggiamo lentamente dietro un trattore su una cazzo di stradina tutta curve che il nostro Tom-Tom ci indica come la più veloce per raggiungere Vienna. Appena si nota un pezzo di strada dritta Marco (divenuto nel frattempo pilota), accelera e supera il lentissimo e roboante macchinario agricolo. Non facciamo tempo a rientrare che un gentile poliziotto austriaco ci fa segno di accostare. Questo sarà il primo incontro con poliziotti che faremo durante il nostro viaggio. Per la precisione, di incontri, ne faremo 5+1, come per il superenalotto, solo che il premio ricevuto sarà la perdita di un orologio Breil, ma questa è una storia che racconteremo a suo tempo.
Voi odiate la polizia giusto? Voglio dire non il poliziotto in quanto tale, ma quel ruolo, quella persona normale, amichevole, che si trasforma in un borioso e saccente rompicoglioni appena indossa la divisa. Voi non li sopportate. Hanno quella capacità di farti incazzare che è unica. Ti trattano sempre come una merda, come l’ultima delle merde, come un serial killer pedofilo, quando in realtà non avete fatto nulla o al massimo avete superato i limiti di velocità. Bastardi.
Voi siete mai stati fermati dalla polizia in un paese estero? Si, allora sapete come vanno le cose, i poliziotti vedono una targa straniera e si affannano, correndo per attraversare la strada o lanciandosi fuori dalla macchina per fermarvi. E una volta che vi hanno fermato, non ci sono cazzi che tengano, qualcosa dovete sganciare. Quei porci fascisti si comportano sempre così, puntandoti quelle pistole laser e dicendoti in una qualche lingua qualcosa tipo “limite 70 tu 110”. E ti chiedono 150-200 euro. Poi si contratta e voilà, ti liberi un po’ alleggerito, un po’incazzato, ma ancora analmente vergine.
Tornando al viaggio il poliziotto austriaco chiede i documenti e dice che Marco ha sorpassato in un punto in cui non si poteva sorpassare.
– Mi scusi agente, ma non me ne sono accorto – risponde in inglese.
– Italiani? – chiede lui?
– Si.
– Forse in Italia non siete abituati a non sorpassare con la linea continua? Siete studenti?
– Si, siamo studenti e stiamo facendo un viaggio per arrivare fino a Tallin, da una piccola fiammiferaia zoppa – Marco è così, non c’è nulla da fare ed è per questo che è bello. Come cazzo abbia fatto a tirar fuori “fiammiferaia zoppa” nel suo inglese incerto rimane ancora un mistero. Alcune volte, sul momento, questo suo modo di fare mi fainnervosire, però ripensandoci è sempre divertente. Quando siamo in giro per paesi stranieri, la gente ferma sempre Marco, chiede indicazioni a Marco, s’incazza con Marco, flirta con Marco. Io o Motta, siamo come invisibili, schiacciati all’ombra dell’uomo calamita. E badate bene non si tratta di qualcosa di negativo, spesso è uno spasso osservarlo mentre rimane incastrato in discussioni astruse con vecchi/vecchie/ragazze/ragazzi che per qualche motivo decidono di attaccare bottone con lui. Forse sarà l’atteggiamento o forse sono i feromoni.
Voi magari lo sapete meglio di me.
I feromoni, il vostro odore, il modo equivoco in cui sbattete le palpebre, tutte le cose a cui non pensate e che fate in maniera automatica. Forse è il modo in cui vi passate la mano nei capelli, imitando gli antichi rituali di pulizia reciproca o forse è la vostra mascella ampia, quadrata, da maschio che non deve chiedere mai. Secondo una ricerca scientifica, nell’approccio con una ragzza, quello che dite, le parole che escono dalla vostra boccuccia, influenzano la giovin donzella nella misura dell’otto percento. Uno schifosissimo otto per cento. E allora io ho voglia a decantare a memoria i versi della Divina Commedia quando il buon figo del momento basta che si passi una mano nei capelli come dio comanda o sorrida con la sua bella mascella quadrata…
In ogni caso, questa volta, il poliziotto ci lascia andare sorridendo.
Verso le 14 ridivento pilota e guido fino alle 18, fino all’arrivo a Chestochowa, la nostra prima tappa.
La dritta che noi abbiamo avuto, parlava di Chestochowa come del luogo dove si poteva ammirare il chilometro lanciato della figa, in pratica un lunghissimo viale, con un’area pedonale centrale strapiena di bancarelle e ragazze. Teoricamente avrebbe dovuto essere pieno di gente, pieno di fighe e con un sacco di posti dove andare e di cose da fare. Forse non c’era nulla di tutto questo perché siamo capitati di giovedì e non nel fine settimana. Fatto sta che l’unica cosa da vedere è la chiesa della madonna nera, se si esclude un’interessantissima messa, in corso proprio nel momento in cui siamo arrivati.
Farei un insulto a qualcuno se dicessi che il turismo religioso non è esattamente in cima ai miei desideri? Insomma mangiamo qualcosa, facciamo in tempo a beccare il classico italiano grasso con l’aria da pappone e poi prendiamo la grande decisione, quella di viaggiare anche la notte. Io ero piuttosto stanco, avendo guidato più di tutti, ma Marco si dice assolutamente sicuro di riuscire a guidare tutta la notte, in modo da arrivare a Danzica la mattina seguente. Ci dichiariamo tutti d’accordo, per cui mi stendo (diciamo che almeno ci provo) sui sedili posteriori, mentre Marco guida e Motta dorme davanti. Fine del nostro primo giorno.


2 settembre

Sono le due di notte e siamo in viaggio verso Danzica.
– Ragazzi io farei una pausa, lì c’è un supermercato aperto 24ore su 24 che ne dite se ci fermiamo?
La domanda di Marco mi ridesta dal mio sonno tormentato e molto leggero. Faccio ancora fatica a connettere mentre la macchina si ferma nel parcheggio del supermercato.
– Tu vieni o resti qui?
– Io resto steso qui.
Marco e Motta escono dalla macchina e s’incamminano verso le luci al neon bianche, verso l’entrata del supermercato. Piano piano ritorno in me e mi accorgo che sto scoreggiando in maniera impressionante. Raffiche di scoregge pestilenziali così terribili che abbassare il finestrino non basta, dovrei aprire la porta. Ritornato completamente in me, comincio a focalizzare e a rendermi conto della situazione in cui mi ritrovo. Guardo l’orologio, sono le due e otto minuti.
Sono le due e otto minuti del 2 settembre. E’ il mio compleanno.
E’ il mio compleanno, compio 22 anni.
E’ il mio compleanno, compio 22 anni e sono solo.
E’ il mio compleanno, compio 22 anni, sono solo e in un parcheggio di un supermercato.
E’ il mio compleanno, compio 22 anni, sono solo in un parcheggio di un supermercato sperduto nel mezzo della Polonia.
E’ il mio compleanno, compio 22 anni, sono solo in un parcheggio di un supermercato sperduto nel mezzo della Polonia e sto scoreggiando bambini morti. Non che sia tipo da festa al Paradiso, però qualcosa simile…un compleanno insolito, mettiamola così.
Cerco di far rientrare tutto nei parametri dell’accettabilità, visto che so di non essere solo, i miei due amici sono semplicemente andati a fare provviste, eppure, pur sapendo questo, in quel momento mi sento abbandonato.
La buon’anima dei miei compagni però intuisce qualcosa e al loro ritorno mi portano i regali!
– Guarda un po’ che cosa abbiamo per il nostro bambino…- esordisce Motta.
– Sto scoreggiando in maniera atroce e non mi fidavo molto ad aprire la portiera, dato che il tipo li di fianco, quello che adesso dorme – e con la testa faccio un cenno a destra – non ha l’aria molto rassicurante.
– Parli del cane?
– No, parlo del tipo con la svastica tatuata sul braccio che pende fuori dal finestrino – dico a Motta in una pausa tra le scoregge.
– In ogni caso guarda che bei regali.
Si trattava di una barretta di cioccolato milka e di un quaderno arancione con la copertina cartonata e con disegnata sopra un giraffa (guarda caso lo stesso identico disegno, la stessa giraffa, che è presente sul biglietto d’auguri che la Johanna mi aveva mandato mentre ero ancora a Rimini). Sono i regali più belli che abbia mai avuto. Ringrazio, piango mentre scoreggio e rientro in macchina.
Ripartiamo.
Ok la scena madre di sopra non l’ho fatta però non potete negare che sarebbe stata degna!
– Dormi bambino che hai bisogno di riposare…

Mi risveglio alle tre e non è un bel risveglio. Sono tutto indolenzito e sento una strana musica provenire dalle casse dell’auto. Prima ancora di riuscire a realizzare qualcosa le mie orecchie colgono queste parole ”heine kleine pinzimonio…zanzibar….mitte valzer”.
L’impressione che ho in quel momento è di stare vivendo una scena surreale. O di essere stato rapito e portato nel paese delle meraviglie. Mi guardo intorno.
Il Motta, da buon lupo di mare abituato a dormire sotto le stelle con un occhio aperto cercando di non cadere in acqua, è addormentato sul sedile davanti. Osservo la sua testa pesante scivolargli periodicamente a sinistra, fino quando non si appoggia sulla spalla. A quel punto sembra svegliarsi e ritira su la testa, ma è solo un’impressione, dato che lui se la dorme della grossa ed è il suo corpo, controllato dal pilota automatico, a fare tutto da solo.
Il Marco, il nostro pilota, è impegnato in una personale lotta con i camionisti polacchi che sembrano davvero insensibili alle comuni necessità umane fra cui quella di dormire.
– Tutto a posto? – gli dico mezzo addormentato.
– Tutto bene, non ti preoccupare, ingaggiare duelli e fare immaginari dialoghi con i camionisti è l’unica cosa che mi mantiene sveglio e non ci fa schiantare in un fosso.
Non so perché ma tutto questo mi rassicura, così mi riappoggio sul cuscino per tentare di dormire.
– Pensa che sono riuscito cambiare i cd da solo.
– Lo so che sei bravo Marco.

La macchina rallenta. Apro gli occhi.
– Il secondo consiglio che ci hanno dato era quello di feramrci a Torun. Be’ eccoci arrivati.
Sono le tre e mezzo di notte. Stiamo attraversando un ponte e davanti a noi si stagliano abbastanza imponenti delle mura illuminate. Siamo a Torun, la città natale di Copernico.
– Non mi sembra una brutta idea quella di fermarci – concorda Motta.
– Effettivamente sembra davvero una bella città, non rimane che darci un’occhiata.
E Torun, credetemi, è davvero una bella città. Il centro è tutto pieno di negozi, edifici antichi, chiese e torri. Ad essere sinceri, forse, le quattro di notte non sono esattamente l’orario migliore per approffittare di tutte le opportunità che una città universitaria come Torun sa offrire, ma in fondo questo passa il convento…

Verso le otto e trenta finalmente arriviamo a Danzica.
– Parcheggiamo o proviamo ad arrivare fino all’ufficio informazioni?
– Io andrei all’ufficio informazioni turistiche per prima cosa.
– E se invece parcheggiamo e andiamo all’ostello, visto che secondo la guida è proprio dietro l’angolo?
Detto fatto, accettiamo la proposta di Marco e si parte alla volta dell’ostello. Arrivarci non è difficile. La vecchia casa che lo ospita ha sicuramente visto tempi migliori, in generale da un po’ l’impressione di essere la dimora estiva della famiglia Addams, ma noi intrepidi giovani di certo non ci facciamo intimorire da queste quisquilie. Forse voi, timorosi e pacioccosi lettori, avreste deciso di tornare indietro una volta viste le sbarre in ferro dipinte di bianco che facevano tanto Regina Coeli, presenti ad ogni piano. Forse voi vi sareste fermati, avreste riflettuto un secondo e avreste capito che condividere l’edificio con gli ospiti di un ospedale psichiatrico non è esattamente l’ideale per degli studenti-turisti inesperti. Noi invece abbiamo proseguito, siamo arrivati alla reception e abbiamo deciso che quello non era il posto che faceva per noi semplicemente perché c’era il coprifuoco a mezzanotte.
– Non faceva per noi.
– No, proprio no. Per me Motta era un po’ troppo lugubre.
– Ragazzi, il coprifuoco a mezzanotte ci taglia le gambe. Noi dobbiamo essere dinamici, muoverci, vi voglio vedere girare ragazzi – Marco coglie il punto centrale della questione.
– Dobbiamo trovare l’ufficio informazioni – concludo saggiamente.
E lo troviamo l’ufficio informazioni. Le simpatiche donne che ci lavorano ci dicono che in città ci sono varie sistemazioni economiche, ma soprattutto che c’è un altro ostello.
– Where?
– Simply go straight away until the end of the road, pass the bridge, then turn left.
Seguiamo le indicazioni e la casa che ci troviamo davanti ha l’aspetto di una villetta bifamiliare tedesca. Marco suona. Un tranquillo signore sui 45 ci apre. Indossa una camicia bianca e dei pantaloni corti blu. In faccia ha dipinta l’aria tipica del tranquillo papà polacco (dò per scontato che voi abbiate inteso cosa questo significa, in caso contrario, bè, potete anche lasciar perdere e terminare qui la vostra lettura).
– Avremmo bisogno di tre posti letto.
Lui ci guarda con aria vagamente spaesata, poi si gira verso le scale e in inglese dice – come come.
Saliamo una prima rampa di scale, una seconda, una terza e poi Marco entra in una specie di sottotetto. Il signor come-come è davanti a tutti e io sono terzo, appena dietro a Marco, tanto che mi stupisco molto della faccia che fa una volta entrato nel sottotetto. L’unica cosa che potevo vedere era appunto l’espressione tra lo stupito e l’atterrito di Marco. Voi dovete sapere che noi tre non ci siamo mai fatti troppi problemi riguardo alle sistemazioni. La filosofia TLB a noi basta e avanza (tetto, letto, bagno). Al massimo Motta può avere dei problemi con il cibo, ma questi sono casi sporadici legati alla presenza di peperoni e/o cetrioli.
In ogni caso, quella mattina, ho osservato il volto di Marco e sono rimasto perplesso. Della serie, che cosa ci deve essere dentro quel sottotetto per fargli fare quella faccia? un coccodrillo, la donna più pelosa del mondo, un pappagallo gigante che dice parolacce, un venditore di fez turco con la poliomielite?
In realtà, col senno di poi, non c’era niente di terribile in quella stanza, semplicemente noi ci aspettavamo qualcosa di diverso, qualcosa più… accogliente e che non desse l’impressione di essere un dormitorio di un campo profughi svizzero. In definitiva, in quella stanza 4×5, c’erano semplicemente venticinque materassi appoggiati a terra. Lenzuola pulite, discreta vista sul canale, ma dire che c’era poca intimità era un bell’eufemismo.
Il signor come-come si accorge delle nostre espressioni non molto convinte e allora comincia a ridiscendere le scale.
Ci fermiamo al primo piano, dove ci mostra un stanza con 4 letti a castello. Già meglio, ma ancora non siamo certi sia la scelta migliore, per cui, sempre invitandoci a seguirlo, il padrone ci mostra un’altra camera con tre letti. Tutta per noi. Non male, penso, ma non faccio nemmeno in tempo a guardare in faccia gli altri che il signor come-come sta scendendo di nuovo le scale. Dice – more economic? Military tent, military tent!
Non possiamo far altro che seguire l’imbizzarrito signor come-come che nel frattempo ha cominciato a rollarsi una sigaretta.
Voi state pensando la stessa cosa che penso io. E vi sbagliate.
Quello però su cui posso darvi ragione è che fa un po’ tristezza, vedere qualcuno che si rolla una sigaretta fa tristezza. Lo pensate anche voi quando vedete qualcuno che lo fa. La stessa identica cosa la pensate quando il vostro amico, non il vostro migliore amico, ma uno che conoscete bene, dice – ne teniamo un po’ in macchina, un bel po’. Prima di entrare in disco la finiamo e così siamo sulla cresta dell’onda.
Voi lo sapete meglio di me che certe sere, quando uscite con i vostri amici, vi divertite così tanto che alla mattina, una volta ripresi, vi vengono i lacrimoni da quanto ridete ripensando alle cose che avete fatto la sera precedente. Non c’entra il locale, non hanno nessuna importanza le persone che avete intorno, conta la compagnia in cui vi siete infilato e…diciamocelo, conta quanto avete bevuto. Casualmente, le sere in cui vi siete divertiti di più sono quelle in cui avete bevuto di più. Qualche bicchiere di vino, un boccale di birra, diversi superalcolici e una balera a Misano Adriatico può essere il posto più bello che avete mai visto. E poi vi sentite più sciolti. E risultate più simpatici del solito, più audaci.
Per questo, quando il vostro amico, quello che non è il migliore amico ma uno che conoscete bene, vi propone di tenerne un po’, un bel po’, in macchina e di fare in modo di finire tutto prima di arrivare in disco, per questo, voi ci pensate un attimo prima di rispondere. Il vostro portafoglio vi ringrazierebbe. Secondo voi è abbastanza squallido e triste scolarsi bottiglie di rum per entrare in discoteca già molto alticci. Vi sembra un po’ da ubriaconi all’ultimo stadio. Ovviamente, al vostro amico che conoscete bene, dite si.
Tutto questo mi viene in mente mentre vedo il signor come-come arrotolarsi la sua sigaretta. Comunque lo seguo fino alla finestra al primo piano, da dove ci mostra la military tent piantata nel parcheggio. Una grossa tenda semicircolare verde con dieci posti letto. Cinque euro a notte.
Prendiamo tre letti nella camerata da otto posti per dieci euro a notte.



Danzica è una gran bella città, molti turisti (specie vecchi/e tedeschi/e), un sacco di ambra, negozietti, canali e ristorantini. Davvero non male.
Potrei stare qui alcune ore a descrivervi l’incantevole bellezza della Strada Lunga, oppure parlarvi della chiesa di S. Maria, potrei spendere alcune pagine per raccontarvi la storia della città e della Lega Anseatica, potrei cominciare ad elencarvi i monumenti della città che vale davvero la pena di vedere. Potrei ma non lo farò, perché per questo c’è la guida lonely planet, che per la modica cifra di 17 euro, vi racconta tutto quello che volete sapere.
Parcheggiamo la macchina, ci sistemiamo e iniziamo subito a fare un giro della città. Mente giriamo per le viuzze del centro, il tempo passa molto velocemente e in men che non si dica ci ritroviamo all’ora di cena.
E’ il giorno del mio compleanno, per cui la serata deve essere per forza di quelle pesant. Iniziamo alle sette con una birretta in un bar sulla via Lunga e proseguiamo mangiando un kebab in un chioschetto lungo uno dei canali. Quando sono ormai le nove e trenta, decidiamo che la serata deve entrare nel vivo. C’infiliamo in una specie di rock pub nel seminterrato di una casa. Il posto è quasi vuoto. Quasi. Si da il caso infatti che un tipo dall’aria molto sbattuta e decisamente ubriaco, stia ballando al centro della minuscola pista mentre un mix di giovani che vanno dal classico sfattone alla persona semi-normale, siedono sui tavoli ai lati della pista sorseggiando birre chiare. Il tipo che balla da solo avrà 40 anni. Ed è messo male.
Pronti via, tre vodke lisce.
Nuovo giro? Pronti via, tre birre.
Ordina. Paga. Bevi. Pronti via,tre vodke alla menta
Ci sediamo all’unico tavolo libero. Pronti via e il ballerino si siede accanto a noi ed inizia a parlare in polacco a…Marco e chi altri? L’atmosfera generale è piuttosto deprimente, la gente non è che sia il massimo (mancano le ragazze) e noi decidiamo di levarci dai piedi prima che il ballerino si affezioni troppo.
– Come inizio non è male.
– Non essere negativo Andrea.
– Non sono affatto negativo, anzi vedo le cose nella giusta ottica! Quando mai a casa nostra saremmo andati in un posto del genere e ci, anzi ti saresti a fermato a parlare con un tipo del genere. Sono queste le cose alternative che voglio fare.
– A me il tuo tono sembrava diverso – dice Motta.
– Era diverso – continua Marco – probabilmente perché compie diciotto anni. Benvenuto nel mondo degli adulti! Anzi, propongo un brindisi per la tua maggiore età.
– E dove brindiamo? – chiedo.
– Qui – mi risponde Marco infilandosi in un club chiamato Parlament.
All’entrata Marco e Motta mostrano le loro tessere universitarie, ottenendo una riduzione del 50%. Venuto il mio turno mostro la mia tessera universitaria alla cassiera che l’osserva, mi guarda dubbiosa, riabbassa lo sguardo sulla tessera.
– No good it’s a telephone card.
– A telephone card? But did you read? It’s Univesity of Ferrara.
– No good no good.
– Come se ti volessi rubare sti 2 euro dell’entrata stracciona.
Va comunque un sentito ringraziamento all’Università di Ferrara e alle sue tessere non nominali.
Pago intero e raggiungo gli altri al bancone della discoteca.
– Dobbiamo festeggiare per cui direi di ordinare qualcosa d’insolito…
Io e Motta stiamo pensando a cosa si possa ordinare di diverso dal solito, quando Marco ferma una ragazza. Appena mi volto sento che gli sta dicendo in inglese – il mio amico compie gli anni e dovresti indicarci qualcosa da bere. Lei dice – quanti anni compie il tuo amico? Io e Marco all’unisono – diciotto. Lei mi squadra dal basso verso l’alto e dice – non ci credo. Allora interviene a darci manforte Motta – lui gioca a basket hai presente il gioco dove si deve fare canestro? Lei risponde – si.
– Diciotto anni, entra finalmente nel mondo dei grandi! – dice Marco e poi fa passare un suo braccio dietro la schiena della ragazza – che cosa ci consigli per questo evento così importante?
La ragazza non sembra molto convinta, si stacca da Marco e con il dito indica qualcosa sul menu plastificato e se ne va.
– Dovevamo chiedergli se voleva fare una foto con te.
– Non era così bassa. Il ruolo del fenomeno da baraccone funziona soltanto se di fronte hai una tipa nana o quasi – dico a Motta.
– Con te di fianco le tipe sono tutte nane. Guarda questa.
Passa accanto a noi una splendida ragazza. Mora. Gonna bianca cortissima. Top nero. Stivali da cavallerizza e piglio autoritario.
– Molto bella – commenta Motta.
– Si ma è imbarazzantemente bassa – dico io.
– Che cazzo hai detto?
– Ho detto imbarazzantemente…
– Non esiste imbarazzantemente. Non fa parte del vocabolario italiano. Vero Motta?
Stavamo urlando.
– Che merda, chiedi consigli a uno che a scarabeo scrive zenis e bazze e le vuole far passare per buone?
– Imbarazzantemente non esiste – conferma Motta.
– Mi sono preso la mia licenza poetica, l’importante era rendere l’idea sul momento. Andiamo in pista?
– Dobbiamo ordinare qualcosa.
– Ah già, da bere…io prendo la cosa che ci ha consigliato la tipa.
– Secondo me era un po’ incazzata e ci ha consigliato la peggiore schifezza.
– Secondo me Marco stavi cominciando ad allargarti e lei non ha apprezzato tutto qui.

– Allora Motta? – chiede Marco.
– Siamo usciti ma non è successo niente di che. Qualche bacio sulla panchina, lì nella piazza. Dice che ha il ragazzo e che qui la conoscono tutti.
– Quindi il suo senso di fedeltà è così elevato che non può far nient’altro.
Motta fa spallucce.
– Dille che il suo discorso non sta in piedi. Se qui la conoscono non possono non sapere che è una troia e nessuno si stupirà a vederla con uno sconosciuto.
– Lei non vuole.
Marco scuote la testa e dice – ma almeno le hai messo un dito in culo?
– No.
– E allora Motta che cazzo stiamo qui parlare, vai da lei e non tornare finchè non le hai messo un dito in culo!
– Ma…
– Motta…vai.
E motta va.
– Mi chiedo perchè ti stia ad ascoltare.
– E’ un gioco. Lui sta al gioco.
Tempo cinque minuti e ritroviamo Motta fuori dalla disco. Fuma una sigaretta.
– Cos’hai combinato? – esordisce Marco.
– Siamo andati nei bagni, ma più di bac…
– Non le hai messo un dito in culo? – lo interrompe Marco afferrandogli un braccio.
– Ma come cazzo faccio?
– Si vede lontano un miglio che lei ci sta. Vai e infilale quel dito.
– Senti io non…
– Motta vai!
E Motta va, mentre noi rientriamo dentro e ci buttiammo in pista, giusto in mezzo ad un gruppo di ragazze che in 4 non riescono a mettere insieme un vestito che copra 1/4 del corpo di una donna.
– Comincio ad avere un debole per la Polonia.
Motta ci raggiunge dopo una mezz’oretta.
– Ah ah Motta, sento l’odore…
– Odore di cosa?
– Non le hai messo il dito in culo?
– Ovvio che no.
– Sei una merda, mi deludi profondamente.
– Che cazzo…
Marco non dice nulla, alza solo un braccio e punta il dito indice verso la porta.
E Motta va.
– Questa storia rasenta l’incredibile. Perchè Motta ti stia ad ascoltare resta un mistero. Penso sia troppo buono, a volte a te bisognerebbe mandarti a fanculo.
– Non lo so, forse. Però io sono un po’ Bteman, lo sapete tutti e due – mi dice Marco.

Non vi tedio ulteriormente con i racconti di come i due playboy abbiano cercato di non rimanere a mani vuote, basta che sappiate che i due compagni di viaggio sono dei veri professionisti, al punto che a volte seccano pure me, figurarsi le giovin donzelle…
In ogni caso il mio momento sbattimento è arrivato verso le tre, al che io, stanco dell’infaticabilità dei due gigolo, mi ritiro verso le mie stanze con l’unica copia di chiavi. L’appuntamento era alle quattro fuori casa. Io sarei dovuto scendere e avrei dovuto aprire la porta d’ingresso.
Improvvisamente mi sveglio alle 3.43 nel mio letto. Accanto a me c’è il cellulare acceso che lampeggia. Ho un messaggio non letto di Motta che dice “stiamo arrivando”. L’avevo ricevuto alle 3.41. Mi tiro fuori dalle coperte, vado al piano di sotto e apro la porta. Dei due compari non c’è traccia, guardo in giro, chiamo ma non si vede nessuno. Piuttosto innervosito torno nel letto e appena mi metto giù sento le voci di due ubriachi sulla strada. Mi rialzo – cazzo che palle! – e vado ad aprire. Appena li vedo mi dicono – hai visto chi c’è nella sala comune? (la sala comune era al pianoterra e aveva una grossa finestra che dava sulla strada).
Io dico – no
Marco dice – dovresti darci un’occhiata.
Io dico – perché? – e guardo dalla finestra. Vedo una bella grassona, con due tette flosce come mozzarella che si fa scopare da un misterioso qualcuno proprio su uno dei divani della sala comune. Uno spettacolo alquanto orrorifico.
Il burlone della compagnia, Marco, ha la brillante idea di bussare sul vetro, interrompendo abbastanza villanamente il coito dei due “imboscati”.
– Per me questo è abbastanza, io me ne torno a letto.
Quello che posso raccontarvi per terminare questa giornata è solo quello che mi hanno riferito i miei due amici. A quanto pare sono andato a dormire non nella nostra stanza, ma al piano di sopra. Non chiedetemi perché, io so che non è vero, ma i due continuano ancora oggi a giurare che io, quella sera, sono andato a dormire al secondo piano e non al primo. Che mi attizzasse la sorella della grassona?


3 settembre

Il risveglio non è mai qualcosa di complicato. Non per voi. La notte passata avete fatto tardi, avete bevuto non poco, eppure, nemmeno foste nell’esercito, verso le 8:30 siete svegli.
Sapete che è inutile rigirarsi nel letto.
Lo sapete ma ci provate lo stesso.
Pensate a ieri sera.
I francesi userebbero il termine esprit d’escalier, magari a scoppio ritardato, ma sempre esprit d’escalier è.
Adesso sapete che ieri sareste dovuti rimanere alzato con gli altri due. Adesso sapete che cosa avreste dovuto fare su quella pista. Adesso, mentre la luce radiosa di un giorno soleggiato ormai inonda la stanza in cui avete dormito e girate il cuscino per nascondere le tracce della vostra bava umidiccia sulla federa del cuscino, adesso sapete che cosa avreste dovuto dire a quella ragazza alta e mora che ballava accanto a voi. Adesso sapete.
La parola a cui state pensando è esperienza?
Esperienza o esperienze?
In fondo, come diceva qualcuno, non è proprio questo il segreto del vivere bene? Provare, fallire, riprovare e fallire meglio finchè, una volta o l’altra, imbucate al primo colpo. Si spera. E non pensate…
Alle nove mi alzo, mi rivesto e scendo al piano di sotto.
Decido di fare colazione in una specie di self-service in cui si sforzano di far passare del caffelatte per cappuccino. Non guardatemi con quella faccia da bambini saputelli. So cosa state per dire. State per dire che non posso sperare di ritrovare il cibo che sono solito consumare il Italia. Ne sono conscio, ne soffro un po’, ma mi rassegno e tiro avanti. Anche perchè ormai sono giunto alla conclusione che è molto più divertente e stimolante provare qualcosa di diverso quando si è all’estero, specie nel campo del cibo.
Quello del cibo è un aspetto non secondario cari amici. Il cibo è importante perchè è da quello che si capisce se siete turisti o viaggiatori. Ok, anche da quello. Perchè, diciamocelo sinceramente, un vero turista raramente è una bella visione.
Il turista occidentale tipo è un po’ la summa di tutti i difetti della moderna societá capitalistica. La stupidità di un concorrente di reality show unita all’ignoranza di uno dei vostri figli (quello che fa le superiori), sommata ad una quantità di soldi non disprezzabile. Combinazione distruttiva. Tutte queste cose fanno del turista occidentale medio qualcosa di amabile tanto quanto la dichiarazione dei redditi. L’unico modo per sfangarli è considerarli un po’ come dei bancomat ambulanti. Solo un po’ più stupidi.
Se posso darvi un consiglio, quando vi trovate all’estero, non comportatevi da turista. Siate viaggiatori, immergetevi nella realtà del luogo dove siete finiti, frequentate i posti che non frequentereste mai, abbuffatevi di sensazioni e idee prima nemmeno immaginate. Ok, basta pistolotti, torniamo a noi.
Dopo un breve giro a piedi del centro decido di ritornare all’ostello per vedere se i due bravi sono ritornati nel pianeta dei vivi.

– Mi potreste portare dell’acqua?
Non rispondono.
Non mi hanno sentito.
– Potreste portarmi dell’acqua? – ripeto un po’ più forte – Motta mi hai sentito?
Ma cos’hanno?
– Forse sono stato poco gentile? Ho la gola secca, in fiamme e avrei bisogno di acqua. Motta, Andrea mi sentite? Ehi aspettate un attimo, che fate? dove andate? ehi vi ho chiesto dell’acqua!
Sono andati via, quei due grandissimi bastardi se ne sono andati. Adesso devo alzarmi e andare fin giù di sotto a prendermi l’acqua. Che palle! Meglio muoversi o muoio di sete.
– Ehi gamba, hai sentito quello che ho detto?
– Si.
– E allora ti decidi o no?
– Decidermi a far cosa?
– A risolvere il problema dell’inquinamento! A muoverti idiota.
– Non posso muovermi.
– Che cazzo vuol dire che non puoi muoverti? Io sto crepando di sete e devo scendere di sotto. Come pensi possa scendere di sotto o anche solo dal letto a castello se tu non ti muovi?
– Sinceramente sono questioni che non mi riguardano, io sono solo una gamba. Obbedisco agli ordini impartiti dal cervello.
– Da dove pensi che venga quest’ordine di muoverti?
– Di sicuro non dal cervello, perchè quello è impegnato solamente a mantenerti vivo. Parlane con l’altra gamba.
– Altra gamba, almeno tu vuoi muoverti? Potremmo saltellare fino al pianterreno e vanificare lo stupido sciopero dell gamba n1.
– Per inciso io sono la gamba n1.
– Non in questo caso.
– Se è così che la pensi…
– Ok ok, non ti sarai mica offesa? Andiamo in scioltezza.
– Un po’ si.
– Oh merda. Allora non ti muovi?
– No.
In questo momento potrebbero stuprarmi e io non riuscirei ad alzare un muscolo. Qualcuno potrebbe anche interpretare il mio silenzio come un invito a…

Sono in giro con Motta nel centro di Danzica quando decidiamo di pranzare con un kebab ad un baracchino su uno dei canali di Danzica. Sono l 14:00.
– Ieri sera è andata a finire bene?
– Dipende cosa intendi per bene. Comunque no, siamo usciti da quella specie di cantina e poi…solo limoni.
– Ah…per questo pomeriggio qualche idea, qualche programma particolare?
– Ieri sera mi hanno parlato molto bene di Sopot. Dovrebbe essere un po’ la Riccione polacca.
– Wow – dico con aria sarcastica.
– Si lo so. Cerca di vedere il lato positivo, difficilmente ci ricapiterà in questo viaggio, per cui proviamo.
– Certo, facevo solo per dire. Anche perchè non ho progetti alternativi.
Finito lo spuntino torniamo all’ostello. Marco ha appena finito di farsi la doccia. Sono le 14:30. Ci ritroviamo tutti nella sala comune al pianterreno.
– Perchè non mi avete portato l’acqua? – esordisce vagamente aggressivo Marco.
– Quale acqua?
– Quella che vi ho chiesto prima che usciste.
Guardo Marco sorridendo e dico – tu non hai detto niente – e Motta, seduto a fianco, annuisce.
– Non ho detto niente?
– Nulla.
Vedo già disegnarsi sulla vostra faccia un sorriso partecipe. Ci siete passati anche voi? Certo, quasi tutti gli esseri umani hanno vissuto la classica terribile mattinata da doposbronza, ma qui si tratta di una cosa diversa. Qui, mi spiega Marco con una faccia stravolta, si tratta proprio di un cosa diversa. Dico – perchè sarebbe diversa? Ieri sera hai bevuto molto?
– Si.
– Stamattina stavi male?
– Si.
– E allora… – conclude Motta.
– No, ragazzi, qui proprio vi sbagliate. Io praticamente credevo di parlare, di dirvi delle cose, mentre invece me ne stavo zitto e oltretutto incapce di muovermi. Ma ero sveglio! Non è una sensazione piacevole.
– Basterebbe che bevessi di meno per non avere questi risvegli così speciali – dico io.
– Senti chi parla, anche te non è che hai bevuto poco.
– No, ma lui diluisce in una quantità di sangue che è doppia della nostra – interviene Motta (dovete sapere che sono alto 2.01m).
Marco si zittisce. Poi comincia sorridere. Il suo viso si deforma. Una maschera da joker si disegna sul suo volto tagliato a metà da un sorriso a 32 denti.
– Lui non la conosce quella del risveglio. Lui non c’era l’anno scorso a Cracovia.
E allora io devo racontare a Motta.

Conoscevo un amico che da piccolo aveva un sonno molto agitato. Ora non si ricorda nemmeno lui quale fosse il motivo. Ad essere sinceri non si ricorda nemmeno se ci fosse realmente un motivo. Non si ricorda nessun incubo terrificante, nessun trauma infantile particolarmente grave, eppure gli succedeva di risvegliarsi in piena notte senza sapere dove si trovasse. Sono certo di poter dire che conoscete anche voi questo amico. Lui si risvegliava in quel letto tanto grande, allargava la mano destra e toccava un muro che al momento di addormentarsi non c’era. La sensazione di panico cresceva gradualmente, mentre il suo cervello cercava di elaborare una spiegazione plausibile del perchè si fosse addormentato in camera sua e si fosse risvegliato…dove cazzo era? L’unica ipotesi plausibile che gli passava per la testa era quella di una banda di cattivissimi banditi nani, che si aggiravano per le case vestiti da elfi, con l’intento di rapire bambini e portarli in altre case, in altri letti.
Questo mio amico, questo vostro amico, ha smesso da molto tempo di risvegliarsi senza sapere dov’è. Ha ventun anni e ormai non ricorda nemmeno più la terribile sensazione d’angoscia che quei momenti si trascinavano dietro in un crescendo wagneriano di paura fino al disvelamento finale.
E ad un certo punto siete svegli. Tutto intorno a voi è buio pesto. Vi guardate intorno. Lentamente cominciate a capire che siete stesi su una specie di divanetto bianco. Vi mettete a sedere. Al vostro fianco c’è un altro divanetto bianco. In fondo alla stanza lunga e stretta c’è una porta al di sotto della quale filtra una debole luce giallognola. Sentite delle voci provenire da dietro quella porta chiusa.
Il panico v’immobilizza.
Non sapete dove siete.
Il vostro cervello brancola nel buio più di voi. Cerca inutilmente di ricostuire i vostri movimenti prima di andare a dormire. Siete lì, immobili e abbastanza terrorizzati e continuate a pensare che l’ultima cosa che ricordate è il parco, quel parco attorno alle mura, con di fianco quella specie di torrione che i polacchi chiamano barbacane. Siete sicuri di non essere tornati all’albergo. Non ricordate la reception, non ricordate le rampe di scale e non ricordate di aver aperto la porta della camera. Dopo il barbacane più nulla.
Non siete all’albergo.
Siete in uno dei quei graziosi pub sotterranei di cui Cracovia è piena.
Che cazzo, pensate, ora devo uscire e tornarmne all’albergo e sono pure le 5:20! Il vostro amico non c’è.
Fate per alzarvi, ma quando vi toccate le gambe vi accorgete di non avere i pantaloni. Siete in mutande. Letteralmente. Il panico comincia a trasformarsi in terrore non tanto all’idea di aver perso il portafoglio con documenti e soldi. Non tanto all’idea di dover dire addio al vostro cellulare. Non tanto all’idea dei vostri bei pantaloni andati perduti per sempre. No, voi siete terrorizzati dall’idea di dover uscire da un pub stracolmo di gente, nel pieno centro di Cracovia, con indosso solo un paio di slip grigi e pure smerdati. Dovete attraversare la città, sempre sperando di riuscire a capire dove cazzo siete finiti e dovete sperare che il vostro amico sia in albergo. Perchè voi non avete una stanza qualunque, nossignore. Avete una camera in un edificio separato, per cui dovete aprire tre portoni prima di riuscire ad entrare. Solo il vostro amico ha le chiavi. Cominciate a tastare intorno a voi e incredibilmente sentite la stoffa ruvida dei vostri jeans. Perlomeno eviterete la figura di merda pensate.
Da quando vi siete svegliati è passato circa un minuto, uno dei minuti più brutti (se non il più brutto) che abbiate mai passato nella vostra vita. La sensazione è di essere completamente in balia degli eventi e delle persone in un paese straniero e per di più nudi, almeno fino a qualche secondo fa. Come poi vi sia venuta in mente l’idea di spogliarvi e dormire in una saletta di appartata di un pub è davvero un mistero. Fate per alzarvi e proprio mentre vi girate notate, nell’oscurità che va diradandosi, due pesanti tende scure. Un dubbio comincia ad insinuarsi in voi, per cui vi alzate e andate vicino all’altro divanetto bianco, quello di fianco. Non è un divanetto, è un letto con un piumone bianco. E c’è pure il vostro amico Marco che dorme. Siete nella vostra camera. Siete salvi. Siete svegli. Un bel risveglio, non c’è che dire.

Non è che le indicazioni siano chiarissime.
Per arrivare a Sopot, una cittadina turistica tutta moderna e brilluccicante spalmata sulla costa baltica a fianco di Danzica, abbiamo deciso di prendere il treno. Quale treno, a che binario e a quale fermata scendere rimane un mistero. Fortunatamente ci vengono incontro due ragazzine biondissime e carine. Chiediamo informazioni. Ci dicono di seguirle in un inglese semplice e perfetto, perchè anche loro stanno andando a Sopot. Per essere precisi stanno andando a Sopot per vedere un concerto, una specie di Festivalbar polacco.
– Gran bella cosa – commento in inglese.
Sedute sui sedili in legno del vecchio treno, loro sembrano un po’ imbarazzate, molto di più di Marco e Motta, che si trovano a loro agio in quasi tutte le situazioni e con tutte le persone, molto meno di me, che faccio una fatica dannata a tirar fuori argomenti di conversazione con chi non conosco.
E’ un pomeriggio abbastanza fresco, nuvoloso. Non il clima migliore in assoluto per prendere il sole sul Mar Baltico. Perchè, nonostante il nome, Sopot è una specie di stazione balneare. Di quel pomeriggio ricodo in particolare una cosa, ricordo bene come, prima ancora di salire sul treno, una di quelle due ragazze bionde mi ha afferrato il braccio, trascinandomi nel sottopassaggio che portava al nostro binario. Diceva di muoversi, perchè il treno stava partendo. Il gesto in se non è niente di particolare. Niente di particolare, ma è veramente bello sapere che in quel momento, a 2000 kilometri da casa, c’è una ragazza bionda, di 18 anni che fa il liceo, che sta andando al festivalbar polacco e che giusto dieci secondi prima nemmeno sapeva che esistessi, a cui importa di te. Gli importa così tanto da afferrarti per un braccio e portarti fin dentro al treno.
Era preoccupata di perdere il treno direte voi.
No dico io. Non voglio pensarla così e voi sbagliate a pensarla in questo modo. Fareste meglio a cambiare il vostro modo di vedere le cose.
Si, è vero che stava perdendo il treno, però in quel momento si è voltata verso di noi e ci ha dato una mano, lei e la sua amica ci hanno dato la mano come un padre che fa attraversare la strada al figlio.
Vorrei che quella scena si ripetesse tutti i giorni. Vorrei che tutte le persone che se lo meritano venissero prese per mano da ragazze/i biondissime/i e portati al binario giusto. Vorrei che voi poteste capire.
Chissà quante ce ne sono al mondo di persone così. No, vi sbagliate. Vi sbagliate se dite che sono poche e vi sbagliate pure se dite che esagero. Il mio rammarico più grande è di non riuscire a conoscerle tutte, non riuscire a vedere, a incontrare, tutte quelle persone semplici, simpatiche e buone. Non sto parlando di santi, non sto parlando di Madre Teresa, mi riferisco a persone normali, esseri umani che semplicemente hanno imparato a vivere senza rodersi l’anima, divertendosi e dando una mano agli altri. Per il gusto di farlo.

Arriviamo a Sopot verso le cinque. Le due ragazze ci accompagnano fino ad un edificio che fa da centro commerciale costruito in maniera alquanto strana. Anzi meglio, innovativa. Il mondo sarebbe un posto migliore se ci fossero più edifici del genere. La sua facciata sembra liquida, la struttura è come pongo, le pareti sono incurvate. Da qualche parte ho anche una foto.
Le due ragazze biondissime sono già terribilmente in ritardo per il loro concerto e ci lasciano. Se vogliamo vederle possiamo andare al concerto. Veniamo più tardi, adesso preferiamo fare un giro dela città rispondiamo. Allora ci vediamo dopo al concerto dicono loro.
Sappiamo tutti che non è vero.
Non rivedremo più le due ragazze biondissime e mi dispiace. Se ci pensate fa un po’ tristezza capire che per tutta la vostra vita non rivedrete mai più qualcuno che vi piace…
Entriamo da soli nella casa stramba. Seduti ad un tavolo in uno dei bar all’interno becchiamo un gruppo di cinquantenni. Ci sentono parlare in italiano.
– Voi italiani? – esordisce un signore con i sandali, gli occhialini tondi e il pizzetto in un italiano che sa molto di tedesco.
– Si – rispondo io.
– Di dove?
– S. Giovanni Rotondo – dice Marco.
Lo guardo. Che cazzo dici? Perchè S. Giovanni? Lascia perdere è bello così mi fa capire con lo sguardo.
– S. Giovanni…vicino a?
– Frosinone – dice Marco.
– Ah…sono stato a Milano, Roma, Rimini, Firenze, Napoli visto molte cose dell’Italia. Belo belo. Perchè qui?
– Siamo qui per la regata, per il Samsung match race rifacendosi probabilmente ad alcuni grossi cartelloni pubblicitari che avevamo visto per strada.
– Velisti…
– Proprio – conferma Marco.
– Ma regata cominciata.
– Non per la nostra barca – interviene Motta.
– Bene noi prosguiamo, arrivederci – taglio corto io.
Usciamo dalla casa stramba con un certo senso di felicità. Credetemi, raccontre bugie come queste mette di buon umore. Provateci anche voi. Niente bugie cattive, solo innocui e plausibili scherzi. In fondo è così che nascono le leggende metropolitane.
Dovete credermi sulla parola se vi dico che mettere in giro una leggenda metropolitana è più facile di quanto non possa sembrare. La gente ha la tendenza a credere a quello che gli viene raccontato, sembra incredibile ma è così, la gente non è vaccinata alle menzogne. Raccontate una stronzata a tre persone e questa diventerà automaticamente verità.
Non sto scherzando, provateci.
Il segreto sta nel partire da qualcosa di vero. Prendete un sfondo che sia almeno plausibile e poi piazzateci sopra qualsiasi cosa. Letteralmente. Avete fatto un viaggio magari in un paese dell’ex URSS? tutti sanno dove site stati? allora potete anche raccontare che avete fatto un lancio con una navetta spaziale. Una di quelle vecchie Soyuz arrugginite semiabbandonate in qualche poligono militare kazako. Nessuno ne dubiterà. E’ così che è nata anche la storia del, perdonatemi, “cazzo di fuori”.
Ora, come direbbe qualcuno, chi mi conosce lo sa. Io e Marco ci trovavamo a Kosice, ridente cittadina slovacca ad una settantina di km dal confine ucraino. Eravamo lì perchè non avevamo il visto per il paese dell’allora non ancora avvenuta rivoluzione arancione.
Pomeriggio, orario aperitivo.
Ricordo ancora, a due anni e mezzo di distanza, come ero vestito. Jeans larghi e lunghi azzurro chiari, magliettina rossa aderente con scritta bianca “you shake my nerve and make me burning” (che per inciso mi sta malissimo), scarpe adidas galaxi grigio chiaro e giacchetto in pelle nero. Camminavo per la via centrale della città quando notai che quasi tutte le persone mi lanciavano occhiate incuriosite. Non capivo perchè.
Controllo la patta. Non capisco.
Controllo la maglietta, mi tolgo il giubbotto lo giro e lo rigiro. Niente di strano.
– Non ti sembra che mi guardino tutti?
– Non so – dice Marco facendo spallucce.
– Non hanno mai visto un maglia rossa? – dico in italiano guardandomi in giro.
Poi Marco si mette a ridere. Si ferma e appoggia entrambe le mani sulle ginocchia, piegato in due dal ridere.
– Che hai da ridere? – chiedo inarcando le sopracciglia. Perchè so che riguarda me.
– Rido perchè ho capito come mai tutti ti guardano.
– Ah si?
– Si, ci credo che ti guardano, hai il cazzo di fuori.
– Il cazzo di fuori? – non conoscendo ancora così bene Marco mi preoccupo e controllo la cerniera. La storia è nata. La leggenda metropolitana nasce. Una volta tornati a casa bastò raccontare che io andavo in giro a Kosice con il cazzo di fuori a tre persone perchè ciò divenisse un realtà indubitabile, certo come il fatto che la terra ruota intorno al sole. Nemmeno chi mi conosce bene, ma bene bene, ha mai dubitato di questa storia.
E questo è sintomatico.
Sintomatico del fatto che basta saperci fare un attimo e le persone sono in vostro potere. Una volta che hai raccontato la storia a tre persone, questa comincia ad avere una vita propria, a svilupparsi per conto suo e voi non avete più nessun potere di controllo, sulla storia. Se ci sapete fare, mettendo in girole storie giuste, siete a cavallo. Nessuno si ferma a riflettere, a pensare se quello che state dicendo è plausibile o meno. Sostanzialmente la gente è troppo impegnata a sopravvivere per pensare…

La serata si preannuncia movimentata. Sopot è proprio come Riccione o forse viceversa? Comunque, se ci capitate, andate nella via Ceccarini locale e cercate il Rooster. Un locale niente affatto male. Non dimenticate di lasciar la mancia, al Rooster più che mai (vi ho già raccontato di quella volta che ho lasciato al Rooster 100 euro di mancia? No? allora mi dispiace ma sarà per un’altra volta).
La mia scena madre la vivo ad inizio serata, dopodichè il mio ruolo sarà al massimo da rincalzo. Insomma siamo seduti a bere qualcosa in un localino quando sento l’urgenza di andare al bagno. Mi dirigo alla toilette e vedo una fila di donne. Le supero e provo ad aprire la porta del bagno. E’ chiusa. Le donne sono tutte in fila, ma c’è un sola toilette. Niente bagni separati. Le donne, ovviamente, mi aggrediscono subito. Capiscono che sono turista e mi parlano in inglese.
– Maleducato.
– Non sapete proprio come comportarvi voi tedeschi!
– Di solito sono abituato a due bagni, uno per gli uomini e uno per le donne. Credevo questa fosse la fila delle donne.
Una signora grassoccia sui quaranta mi squadra e dice – 20 anni fa in Polonia facevamo la fila per avere il pane, adesso la facciamo nei bar per andarein bagno. Direi che è un passo avanti.
Ha ragione. Non credo ci sia niente da replicare. Colpito e abbattuto attendo in silenzio il mio turno.
La notte è ancora giovane e così decidiamo d’infilarci in una delle disco che sorgono una accanto all’altra sul lungomare. La nostra preferenza ricade sul Galaxy, probabilmente per via della chilometrica fila all’entrata. Il posto è abbastanza fighetto.

Fondamentalmente mi sento come a Rimini. E questo è un bene. La differenza è che le ragazze sono più aperte. Nonostante il mio 3200 al pungiball posso dire la mia. Eccome se posso dire la mia. Fose però voi non sapete la storia del 3200, o per meglio dire del 9400. non l’ha raccontata vero? Immaginavo saltasse direttamente al Galaxy. Non l’ha fatto perchè rivela il suo lato oscuro.
Eravamo appena usciti dal Rooster ed eravamo allegri. Vediamo un pungiball. Inseriamo una moneta. Tre pugni, uno a testa. Il punteggio va da 0 a 10000.
Il primo a iniziare è Marco. Carica il pugno, scatto la foto, colpisce il pungiball. Punteggio 9700 e rotti. Date un’occhiata alla foto.
Il secondo a colpire sono io. Con la sigaretta in bocca carico il pugno, Marco scatta la foto, colpisco il pungiball. Punteggio 3200 e rotti. Date un’occhiata alla foto. E’ tutta un programma. Praticamente non ho nemmeno colpito il pungiball.
Il terzo a colpire è il Lungo, Andrea. Non si toglie il giubbotto di pelle. Carica il pugno, Marco scatta la foto, colpisce il pungiball. Punteggio 9400 e rotti, ma guardate la foto e ditemi se non vi fa paura. Lui è sempre tranquillo, quasi mai arrabbiato eppure guardate quella vena sul collo, guardate quello sguardo allucinato, la maschera di cattiveria che gli deforma il volto. Sostituite al pungiball il volto di una persona. Questo suo lato oscuro mi preoccupa alquanto. Da quel momento l’espressione “fare un 9400” è entrata di diritto nel nostro vocabolario per significare che qualcuno le sta per prendere. L’espressione “fare un 9400” deve essere rigorosamente seguita dall’azione del togliersi l’orologio. KABOOOM!
L’interno del Galaxy non è niente di speciale, nella sala al primo piano si balla musica pop, al piano superiore c’è una specie di miscuglio immondo di techno e rock duro, infine c’è anche una specie di pista all’aperto. Le conumazioni costano poco meno che in Italia e nesssuno di noi lesina sugli alcolici. Credo sia la sera in cui abbiamo speso di più in assoluto. Anche perchè la notte si è protratta fino alle 6.30 di mattina.
Le due ragazze che ci hanno accompagnate fino all’entrata se ne sono andate. Forse sono cattivo, ma quelle ragazze non meritano di sicuro niente di più che una semplice menzione. Direi che è ora di cercare altra compagnia.
– Motta balla a fianco di quella lì. Quella bionda.
– Perchè? – chiedo a Marco.
– Mentre non c’eri ha chiesto di te, è interessata. Guarda che occhiate! Me l’ha detto la mia mora. Sono sorelle.
Fisso Marco negli occhi e dico – niente dita nel culo però questa volta!
– Ok niente dita nel culo – mi urla lui.
Il bello di essere all’estero è anche di poter dire tutto quello che volete senza che nessuno vi capisca. Non si tratta di andare in giro urlando e sbraitando, si tratta di parlare normalmente tra di voi dicendo tutte le cattiverie che vi vengono in mente. Sulla vicina di tavolo, sulla cameriera, sulla piazza in cui vi trovate, su quella troia dai capelli rossi che non si è nemmeno girata per rispondervi. Abbastanza stupido e tuttavia liberatorio.
La ragazza bionda è abbastanza tranquilla, simpatica, ci sta.
– Dov’è il Lungo?
– Non lo so – risponde Marco.
– Io e lei andiamo fuori – e con la testa indico la ragazza bionda.
– Tranquillo, in scioltezza. Io sono qui. La mia mora preferisce stare vicina al bancone.

– Vorrei sapere, perchè le ragazze non ci stanno?
Il tassista guarda Motta e non risponde. Lui da buon autista ha cercato di essere gentile. Ci ha chiesto se eravamo stanieri, se ci era piaciuta Sopot. Noi abbiamo risposto si, siamo stranieri e poi abbiamo aggiunto che Sopot era veramente carina (ricordo ancora oggi Marco che, abbastanza allegro, usa quel termine, nice, che in realtà non vuol dire nulla). Il tassista ha poi fatto l’errore di chiedere com’è andata la serata.
Ha preso la parola Motta.
E’ abbastanza in là e forse leggermente innervosito.
Chiede una prima volta – lei mi sa dire perchè le ragazze sembrano starci e poi…e poi non ci stanno? baci, baci, ma poi alla fine non si conclude nulla. Mi sa dire il perchè?
Il tassista lo guarda e non risponde.
E così arriviamo alla domanda iniziale.
Il povero tassista accenna ad una specie di sorriso, ma è un po’ in imbarazzo, non sa cosa dire. Motta continua, sempre in inglese.
– Cioè siamo usciti, l’ho portata su quella specie di spiaggia, mi sono riempito di sabbia e lei non ci è stata. Lei segue il mio ragionamento? Se ti dico andiamo fuori sulla spiaggia tu che cazzo pensi? che andiamo a guardar le stelle? Allora tanto vale che non vieni? Mi segue?
Il tassista non dice nulla. Brutto mestiere il tassista, specie se devi trasportare ubriachi.
Quando torniamo all’ostello sono circa le 6.30, è ormai ora di fare colazione. Nella sala comune, mentre ci facciamo un caffè, incontriamo un arzillo sessantanne irlandese iperattivo che dorme nella military tent e chiacchiera insieme a due ragazzi e una ragazza canadesi (lei moderatamente carina). Siamo piuttosto stanchi e non capiamo se anche loro hanno fatto le ore piccole o semplicemente sono dei tipi mattinieri. Vai a capire nella vita.

LA LITUANIA

4 settembre
Troie sperdute e gatti che aspettano l’autobus

La sveglia è puntata alle undici. Alle undici e mezza siamo pronti a partire.
Le strade polacche non sono esattamente le migliori d’Europa, però c’è anche da dire che ci stanno lavorando. Cantieri aperti da tutte le parti, casino infernale e un’eternità di tempo perso. Questo è la visione negativa. Il lato positivo è che fra qualche anno avranno delle strade perfette.
Superiamo il confine lituano senza problemi alle 17.00. Non abbiamo molto tempo ed è piuttosto improbabile riuscire ad arrivare a Vilnius ad un orario decente.
– Che si fa?
– Potremmo tentare di arrivaci lo stesso – propone Motta.
– Dopo ci dovremmo mettere a cercare l’albergo di sera e…sarebbe un casino. Meglio se ci fermiamo per strada. Che ne dite di questo lago?
Il tom-tom ci aveva abbandonato, non ha le mappe di Lituania, Estonia e Lettonia, per cui ci affidiamo ad una normale cartina. In effetti non era molto complicato orientarsi, c’era una strada principale e tutto il resto erano strade non asfaltate. Eppure siamo riusciti a perderci.
– Direi che non sarebbe male fare una serata relax. Magari un bel campeggio sul lago. E ci facciamo pure una partita a scarabeo – concordo con Marco.
– Idea approvata – ci dice Motta.
Ora, non vorrei darvi della Lituania un’idea, come posso dire, troppo stereotipata o troppo alla Hazzard, ma quello che si vede arrivando dalla Polonia è una una lunga striscia d’asfalto nero che taglia in due una sconfinata terra pianeggiante punteggiata da sparute case in legno. Le nostre previsioni ottimistiche s’infrangono davanti alla dura realtà. Il lago da noi cercato rimane perennemente alla nostra destra. Sembra impossibile raggiungerne le sponde.
Non si vedono nemmeno centri abitati.
Alle 19.30 cominciamo ad arrenderci all’idea che dovremo accontentarci di un normale albergo e abbandonare le nostre idee romantiche. Già mi vedevo steso su un prato in riva al lago, con un filo d’erba in bocca e uno splendido tramonto, con tutti quei bei colori dal rosso al viola, davanti a me. In alternativa mi vedevo emergere nudo e bagnato dal lago, avvicinarmi ad un gruppo di ragazze che facevano picnic e chiedere, come se niente fosse, se avessero per caso un asciugamano. A quel punto la ragazza dal nasino a punta e dai capelli rossi, avrebbe sbattuto le ciglia dicendo – certo che abbiamo un asciugamano, ma questo mi sembra troppo piccolo per te (se mi chiamano lungo c’è un motivo), avviati verso quella casa, io raccolgo le mie cose, recupero le ultime mucche al pascolo e vengo da te a prendere…a darti l’asciugamano.
Marco e Motta non facevano parte dei miei sogni romantici.
Ora sono le ventidue e trenta, siamo su una strada deserta e abbiamo appena superato un piccolo villaggio. Sulla corsia di sinistra è ferma una macchina della polizia. Vedendoci arrivare il poliziotto si precipita dall’altra parte della strada e ci fa segno di fermarci.
Marco, che è alla guida, si ferma. Per quello che mi ricordo eravamo sopra il limite di 10-15 km/h. Il poliziotto non parla un parola d’inglese, dice solo – Italiani? – senza nemmeno guardare la targa. Rispondiamo di si, dopodichè sembra conciliante. Il solito culo di Marco. Finisce a chiedergli indicazioni per un albergo. Il poliziotto ci lascia andare. Meglio per noi.
Abbiamo superato la pattuglia da due-tre minuti e siamo in aperta campagna. C’è una ragazza ferma a lato della strada. Una ragazza giovane e bionda. Non si vede una luce nel raggio di chilometri, la luna è una piccola falce nel cielo che però è pieno di stelle da far paura. Rivedo, per la prima volta dopo tanto tempo, la via lattea.
– E’ una troia.
– Cosa? – dico risvegliato da Marco e trascinato via dai miei pensieri romantici.
– Dicevo che è una troia.
– Cosa intendi?
Non è che sia stupido, è solo che per noi troia può avere almeno tre significati. Forse anche per voi è così.
– Intendevo prostituta – ecco un significato.
– Non è possibile. Ragiona. Non c’è nessuno a parte la polizia per chilometri.
– Guarda, a sinistra, un’altra – questa volta era una ragazza dai capelli scuri, stretta in un vestitino giallo, dall’altra parte della strada.
Guardo Motta, per capire se anche lui vede quello che vediamo noi o se ha una spiegazione plausibile. Dorme.
– Siamo finiti nella via delle troie. Ecco perchè il poliziotto ci ha chiesto subito se eravamo italiani.
– Non è possibile, è ridicolo. Forse le ragazze stanno semplicemente facendo autostop per andare in disco.
Marco lascia il volante e batte le mani.
Dice – incredibile, hai sentito quello che hai detto? – nel frattempo un’incantevole e giovane, giovanissima, bionda ci sfila accanto, silenziosa, sulla destra. Non sembrano prostitue come le nostre, rifletto, sembrano timide ragazze di campagna che hanno appena finito di raccogliere le mele, piccole heidi che ci hanno messo troppo tempo a mungere le vacche e sono preoccupate perchè una volta arrivate a casa il babbo le sculaccerà. Ricordano vagamente un versione disinibita ed eccitante di Cenerentola.
– Ma scherzi? Ragazze che fanno l’autostop per la disco? scherzi? In questo posto non ci sono nemmeno alberghi, non ci sono posti dove dormire e ti sembra che abbiano discoteche? scherzi? e comunque queste fighe andrebbero in disco il lunedì sera? stai scherzando spero.
– Ok ok, hai ragione, basta che non dici più la parola scherzo. Forse però hanno molta voglia di divertirsi anche se è lunedì e l’unico posto dove possono farlo è così lontano che devono fare l’autostop. Anche perchè non mi sembra che i mezzi pubblici abbondino.
Marco mi guarda. Dice – molta voglia di divertirsi…
– Va bene ho detto una cazzata – mi correggo da solo.
In conclusione, incredibile a dirsi, siamo finiti, casualmente, nella strada delle prostitute. Per chi è interessato si trova pochi chilometri a sud-est di Alytus. Mi dispiace non essere più preciso, ma se non l’avete capito noi ci eravamo persi…
Quasi mi dimentico l’ultima cosa strana che ci è capitata. Svariati chilometri dopo la zona prostitute, nella periferia grigia e ordinata di Alytus, abbiamo visto una fermata dell’autobus. Alla fermata dell’autobus non c’era nessuno. Alla fermata dell’autobus non c’era nessuno a parte un gatto bianco e nero che se ne stava seduto solo soletto sulla panchina.
Sta aspettando l’autobus abbiamo detto io e Motta ridendo. Nulla di troppo strano.
Un centinaio di metri più avanti vediamo un’altra panchina attaccata alla fermata dell’autobus. C’era un altro gatto seduto sopra. La cosa cominciava a sembrare strana e lo divenne ancora di più quando beccammo il terzo e il quarto gatto seduto ad aspettare l’autobus.
E’ stata una serata assolutamente anonima. Non abbiamo fatto nulla o per meglio dire ci siamo persi nel mezzo del nulla eppure ricorderò questa notte per tutta la mia vita. Sarà la serata delle troie sperdute e dei gatti che aspettano l’autobus seduti sulle panchine.


5 settembre
Il signor tartaruga e l’ormone impazzito

Ci svegliamo alle nove, che con il fuso orario da noi non considerato, significa le dieci. Scendiamo, pronti per partire, ma davanti al garage dove abbiamo parcheggiato la macchina c’è una opel astra nera. Qualche malledettissimo stronzo ha ben pensato di parcheggiare davanti al nostro garage.
Gli improperi e le bestemmie aiutano, ma non risolvono la situazione. Proviamo a spostare la macchina a forza, ma ha la prima inserita. Cazzone. Grazie a Dio, mentre lo stiamo insultando, il propietario salta fuori da dietro l’angolo, ci guarda come se fossimo alieni (e forse per lui lo siamo visto che è abituato a sgozzare galline e castrare focosi tori dalla mattina all sera) e dopo un attimo di titubanza si decide a spostare la macchina.
La distanza che ci separa da Vilnius non è molta e alla fine raggiungiamo la capitale lituana verso le undici. La città si presenta bene, molto bene. Moderna, pulita, curata, l’unica cosa che stona sono i soliti palazzoni grigi post-sovietici che la fanno da padrone nelle zone perifriche. L’impressione è però che le cose stiano cambiando e pure molto in fretta. Le potenti sirene dell’altrove moribondo capitalismo post-keynesiano, qui hanno appena cominciato a farsi sentire in modo serio, continuo e insistente. Niente fuochi di paglia cari amici. Sarà un caso che proprio nella vivace Vilnius sia stato inaugurato il centro commerciale più grande delle tre repubbliche baltiche?
Ben lungi dal farci sedurre dal lusso, la nostra meta è, più modestamente, l’old town hostel, un ostello non molto lontano dal centro e assolutamente economico. Ma non riusciamo ad arrivarci. La guida, Marco, non riesce a portarci fin lì. Dopo un’ora di tentativi infruttuosi in cui Marco non riesce a far niente di meglio che litigare con la cartina e portarci quasi in Bielorussia, propendiamo saggiamene per una visita all’ufficio informazioni.
Purtroppo non una grande idea.
La stronzissima signora che ci lavora ci lancia in malo modo due-tre fogli fotocopiati e ci saluta con aria visibilmente scocciata, probabilmente per il fatto che volevamo una sistemazione economica. Ce ne andiamo. Fortuna vuole che riusciamo a trovare un altro ostello nascosto in un cortile interno di una palazzina decadente, molto decadente. Ed è una vera fortuna, perchè la camera per tre che prendiamo è in pratica un’appartamento, un appartamento più grande di quello in cui vivo. Paghiamo trenta euro in tre al giorno. Bello, davvero bello. Pavimento in parquet, travi a vista, bagno gigantesco, cucina, due camere…l’unica cosa che ci perdiamo è un po’ di quella vita da ostello che sei costretto (in senso positivo badate bene) a fare quando dormi con altre sette persone. Quello che più mi stupice poi, sarà probabilmente perchè sono italiano, è che non abbiamo mai avuto problemi di furti. La mia idea di ostello, la mia idea di camerata in cui si dorme in otto, era completamente errata. Mi aspettavo di dover dormire con il portafoglio nelle mutande e le chiavi della macchina infilate su per il… (la scelta delle posizioni è dovuta semplicemente alle dimensioni), invece nulla di più sbagliato. Si sta tutti assieme come tra amici e puoi anche lasciare i soldi sul letto che tanto nessuno te li tocca.
Il fatto è che noi italiani ci conosciamo, sappiamo come vanno le cose da noi e diffidiamo, convinti che tutto il mondo è paese, paese di merda come il nostro. E invece non è così. Signori è inutile nasconderlo, l’Italia è un bel posto per passarci una vacanza, ma viverci…lasciamo perdere che è meglio.
Il pomeriggio siamo liberi, possiamo spassarcela in giro per la città. Generalmente il primo giorno non ci soffermiamo mai su qualche monumento/luogo in particolare, semplicemente diamo un’occhiata alla città e alla gente. Così facciamo anche a Vilnius.
– Ragazzi che ne dite di un caffé? Io ne ho bisogno.
– Credo che rimarrai molto deluso Motta.
– Lo so anch’io ma…ho proprio voglia di un caffé.
– Perchè no, in scioltezza – dice Marco.
Ci fermiamo in un bar qualsiasi e sperimentiamo sia il caffé che il cappuccino. Direi che sono discreti, sicuramente meglio di quella brodaglia vagamente marroncina e totalmente insapore che siamo stati costretti a sorbirci in Polonia…
Se posso permettermi di fare un discorso generale, dopo un primo pomeriggio passato a vagare quasi casualmente tra le sue vie piene di turisti e di giovani, devo dire che Vilnius non può che lasciarci una buona impressione. E non sto parlando della statua di Frank Zappa nominata in tutte le guide o del recente fervore edilizio e nemmeno della stabile crescita economica. Camminando per le strade si legge sulla faccia delle persone una fiducia nel futuro che da noi è ormai merce assai rara.
Arrivata la sera decidiamo di cenare in un bel bar-ristorante dal design moderno, con prezzi decisamente abbordabili e una buona cucina.
– Come si configura la serata? – chiedo. Non sto scherzando, non guardatemi strano, io parlo veramente così e ad essere sincero mi prenderei a schiaffi. Configurare, determinare, affastellarsi, ardire, presentimento, consapevolezza, determinabilità, incedere, concezione, inscurire, riequilibrare, accomiatarsi, prediligere, affinare, dischiudere, porgere le proprie scuse, cospargersi il capo di cenere, transustanziarsi. Questi sono solo alcuni dei vocaboli che uso e che in questo momento mi vengono in mente. Sono un uomo ridicolo. Lo so.
– Ah ragazzi, fate voi, io non ho problemi – dice Motta mentre mangia tranquillo l’ultimo pezzo della sua tagliata di manzo con cavoletti di bruxelles.
– Io mi butterei sulla tranquillità – gli risponde Marco.
– Immagino…- dico sorridendo – i posti che ci consiglia la guida li sappiamo, possiamo dare un’occhiata evitando quelli che sono aperti solo nel finesettimana.
– Comunque se vi ricordate, anche ieri sera siamo stati abbastanza tranquilli.
– Hai ragione Motta, è vero. Ma siamo sicuri che ci sia qualcosa da fare il martedì?
– Andrea lo sai bene che riguardo a questo ci sono due strade percorribili, possiamo pedinare due-tre fighe e vedere dove s’infillano. Oppure possiamo direttamente fermarle e chiedergli dove vanno. Sappiamo benissimo che in un modo o nell’altro qualcosa lo tiriamo fuori. Se vogliamo.
Quando usciamo dal ristorante sono circa le undici e in giro non c’è anima viva.
– Sembra che si metta male.
Eh no.
– Aspetta, guarda lì, avanti, sulla sinistra. Ci sono due troie.
– Dove? – chiedo.
– Le vedo, le vedo, guarda come sono tirate. Sicuramente vanno da qualche parte a ballare.
– Non ci rimane che seguirle. Fava e chianti.
Motta affretta il passo e io e Marco gli stiamo dietro.
– Dai ragazzi che stasera ho l’ormone impazzito. Vedrete che ci divertiamo.
Seguiamo le tipe. Facendo un gran baccano, lo riconosco. Non so perché ma loro capiscono che le seguiamo e allora credo fraintendano le nostre intenzioni. Dopo una svolta non le ritroviamo più. In compenso finiamo davanti al Prospektova club.

– Perché mi fissi in quel modo?
– Voglio leggere cosa ‘è scritto nei tuoi occhi.
– E cosa c’è scritto Marco?
Per darvi un’idea del locale posso dirvi che l’entrata è una porta a vetro ben mimetizzata tra due negozi d’abbigliamento, si salgono delle scale e al primo piano c’è un saloon, proprio un saloon. Sedie in legno tavoli in legno, un lungo bancone e una piccola pista quadrata all’estremità opposta delle scale. Mancano solo le ballerine di can-can e lo sceriffo, ma forse ci sono, anzi sono sicuro di averli visti da qualche parte. Al secondo piano si entra in una specie di harem uscito dritto dritto dalle pagine delle mille e una notte. Cuscini, tavolini bassissimi, divanetti, tende di velluto, musica soffusa e narghilé un po’ qua e un po’ là. Questo è il Prospektova.
Io sono nel saloon, seduto ad un tavolo insieme ad una graziosa brunetta dagli occhi verdi. Andrea è seduto dietro e Motta è in pista. Alla mia sinistra c’è l’amica della brunetta che guarda sconsolata in direzione della pista. Forse disperata rende più l’idea. Posso capirla. Se fossi come lei anche io sarei disperato.
La parola chiave che mi viene in mente in questo momento è improvvisazione.
Lei dice – ehi, ti ho chiesto che cosa c’è scritto.
– Ehi, ti sto rispondendo.
Cosa gli sto rispondendo? Improvvisazione.
– Vedo…una notte di sesso sfrenato.
– Una notte di sesso sfrenato eh? per me o per te?
– Siamo qui, noi due, se vuoi venire a fare un giro di fuori con me ti do la risposta.
La brunetta sorride e scopre dei denti bianchissimi e perfetti. Ogni tanto le cose vanno come devono andare, come vorresti che andassero. Lei mi prende la mano.
– Forse hai ragione. Direi che anch’io vedo una notte di sesso sfrenato per te. Adesso che ti guardo meglio ne sono quasi certa. Mi aspetti qui un attimo?
La tipa di cui non conosco nemmeno il nome si alza dal tavolo e va verso la pista. Tempo un minuto ed è tornata. In compagnia. Accanto a lei c’è una ragazza mora, alta e ossuta, se mi passate il termine. Ha le occhiaie, le guance incavate, gli occhi spenti, un pesante trucco e dei capelli neri ribelli e stopposi. Si, avete indovinato, è bruttina.
La mia brunetta sorride e mi sussurra all’orecchio – avevi ragione quando dicevi che avresti avuto una serata di sesso sfrenato. Ti presento mia sorella. Lei è…non so come dirlo in inglese. Lei è l’anima della festa.
La sorella brutta mi tende la mano e sorride. Ha due canini completamente neri e uno sguardo pericolosamente lussurioso. Quando si dice l’anima della festa.

– Insomma non vieni a ballare?
– Non ne ho voglia.
– Sicuro?
– Purtroppo stasera mi ha preso così, non so che dire.
The better part of me knows that waiting in the flows is on a pair with reading with my eyes closed…
– Senti Lungo, ti vado a prendere qualcosa da bere e vediamo se le cose vanno meglio ok?
– Ok.
– Io mi sono liberato della figlia di fantozzi.
– Cioè?
– La sorella che una figa mi ha appioppato. Simpatica, voleva farmi da guida. E voleva anche scoparmi.
– E tu sei scappato?
– Andrea tu non l’hai vista. Quando dico la figlia di fantozzi non esagero.
– Sai che credo ad ogni tua parola o maestro.
– Motta?
– Sta arrivando con qualcosa da bere.
– Cos’hai preso? – chiede Marco a Motta.
– Una vodka-redbull per me e una per il Lungo.
– Redbull? sai che è la cosa più costosa. Quanto hai speso?
– Le ho prese doppie.
– Si doppie, ma quanto ti sono costate?
– Con queste Litas i conti non mi vengono bene. Dovrebbero essere circa…22 euro.
– 22 euro?
– Occazzo, si 22 euro. Merda. Spero che ti tiri su Lungo perchè non ho mai speso così tanti soldi.
– Motta sei incredibile.
Il tempo, divertendosi, passa veloce e tra una ragazza e l’altra comincia a farsi tardi, la mia notte brava è ormai giunta al termine. Sono seduto sul muretto davanti al Prospektova club e aspetto che Motta ritorni dal suo imboscamento. Comincio ad irritarmi.
Irritarti?
Si, irritarmi.
Il lungo è andato casa verso le quattro. E ha sbagliato. Motta s’imbosca. E fa bene. Ma questo stronzo deve pure continuare a fissarmi?
Quale stronzo?
Un tipo piccoletto, più largo che alto, che si è seduto di fronte a me e mi fissa. Senza dire nulla.
– Hai una sigaretta?
Buon Dio allora sai parlare.
– No, non fumo.
Appena termino la frase il tipo si alza e raggiunge i suoi amici. Si mette a parlare con un tipo grosso e palestrato che indossa un paio di jeans larghi stracciati e una canottiera bianca Ck. Ha i capelli rasati e la faccia da tartaruga. Eccolo che arriva. Tartaruga, si inginocchia davanti a me e mi fissa.
Cos’è una nuova moda lituana? e poi Motta, quando cazzo arrivi?
Comincia a sbraitare qualcosa in lituano.
Motta, qui troviamo da dire. Loro sono molti.
Il signor tartaruga prosegue nel suo monologo inginocchiato davanti a me.
Io alzo la testa e lo guardo negli occhi. In quel momento mi chiedo perché io sono qui fuori da solo. Mi sforzo di richiamare alla mente tutte le ragioni per cui non dovrei spaccare la faccia al signor tartaruga.
Motta esce dal locale con la tipa bionda che ha braccato per tutta la sera sottobraccio.
Lei chiama un taxi, io mi alzo dal muretto, sposto tartaruga e mi avvicino a Motta.
– Dobbiamo andare.
– Un attimo, mi da il suo numero.
Lei sta salendo in taxi mentre tartaruga ha radunato la sua compagnia di nazi e punta verso di noi, verso di me.
– Un attimo un cazzo, dobbiamo andare e poche palle. Afferro Motta per un braccio e lo trascino via.
– Tanto tu le hai dato il numero no?
– Si.
– E allora non ti preoccupare, uno come te non se lo fa scappare.
Ci allontaniamo dal Prospektova e procediamo verso casa. La città è deserta e bellissima. Tartaruga non ci ha seguito. Però sentiamo la voce di un uomo dalla parte opposta della strada.
– Where is Ivana? – sta urlando.
Si avvicina a noi e continua ad urlare – where is Ivana? fino a quando non ci è proprio davanti. Si ferma, ci guarda, rutta e chiede – where is Ivana?
– Don’t know – risponde Motta.
Lui come se niente fosse continua.
– Where is Ivana?
– Don’t know – ripetiamo ostinati.
Adesso il tipo piange e con le mani davanti alla faccia continua a chiederci – where is Ivana?
Prendo in mano la situazione – Turn right at the first and then left…seven a.m. the garbage trucks beep as it becks up and i start my day thinking…
Incredibilmente il tipo sembra contento della risposta e se ne va. Non è male incontrare questa gente, non è davvero male. Tartaruga e l’uomo alla ricerca di Ivana.
Grazie a Dio la serata sta finendo. Sono le 5.15 e ho sonno.
– Motta sei tu che stai facendo strada lo sai?
– Tranquillo, in scioltezza come dici tu.
In effetti andiamo così in scioltezza che ci ritroviamo, dopo 15 minuti buoni, esattamente davanti al Prospektova, dove abbiamo modo di rivedere tartaruga e il tipo che cercvava Ivana. Loro ci riconoscono e cominciano correre. Noi cominciamo a correre.
– Hai fiato?
– Poco, non sprechiamolo per parlare. Ma che cazzo hai fatto al tipo tartaruga e ai suoi amici?
– Non dovevamo pensare a correre?
Ci salva un taxi, che per 5 euro ci porta all’ostello. Andrea ci apre la porta quando sono le 5.30. Bella lì!

6 settembre
Castoro e l’uomo che faceva pulizia etnica

Ovviamente sono il primo svegliarmi, ma subito dopo di me si rianimano anche Motta e Marco. Oggi abbiamo un impegno da mantenere, un obbiettivo. Dobbiamo andare in cima alla torre della televisione. Dovrei avere anche qualche immagine.
La torre della televisione svetta in maniera inconfondibile alle spalle di Vilnius. Con i suoi 354 metri di altezza è sicuramente abbastanza impressionante, senza contare che si può anche fare bungee-jumping e poi è anche un luogo importante dal punto di vista storico dato che qui sono morte 13 persone per tenere lontano l’esercito russo al momento della dichiarazione d’indipendenza.
Al di là di tutto questo ho deciso che devo raggiungere i punti più alti di ogni città in cui ci fermiamo e questa torre della televisione non me la posso certo far scappare…
Prendiamo l’autobus n 46 e scendiamo davanti alla torre. Cinque euro circa di biglietto per salire in cima o per meglio dire per arrivare al ristorante panoramico che si trova a circa 160 metri d’altezza. Il ristorante panoramico ruota, molto lentamente ma ruota. Il bungee-jumping non si può fare. Perché? Perché no è stata la gentilissima risposta della barista.
Ci fermiamo a prendere un cappuccino e riflettiamo sul da farsi.
– Oggi pomeriggio?
– Io vorrei vedere qualcosa della città.
– Ti dispiace Marco se io dormo un po’?
– Motta, mi deludi profondamente, non credo che potremo girare per la città io e Andrea da soli.
– Sono gentile e chiedo, ragazzi.
– Ok, si, dormi…fa come vuoi. In effetti questa mattina ti vedo più di là che di qua.
– Sono le donne a prosciugarmi in questo modo.
Guardo l’orologio e dico – ragazzi noi teniamo ritmi rilassati di giorno, però qui sono già le dodici e trenta, che ne dite di tornare verso casa?
– Compriamo qualcosa da mangiare e facciamo un piano per il pomeriggio.
– Perfetto – rispondo a Marco.
Riprendiamo l’autobus e scendiamo vicino alla stazione. C’incamminiamo verso casa, ma quasi immediatamente ci perdiamo.
– Forse dovremmo andare giù per di là – dico indicando una strada in discesa, ma poi appena mi volto vedo Marco che si sta infilando in un posto che sembra una via di mezzo tra una discarica e un cantiere in costruzione – oh! dove sta andando? – chiedo a Motta.
– Non lo so.
Lui è fatto così, s’intrufola da tutte le parti e cerca di seguire quei percorsi che, come si potrebbe dire…non sono segnati sulle mappe. E, cazzo, provate a farlo e vedete se viaggiare non diventa dieci volte più divertente.
Girare per una città seguendo i classici itinerari turistici penso non lasci molto. Visitate le cattedrali, fotografate le fontane, fate riprese dei bei monumenti antichi, comprate souvenir. Alle fine in che cosa si andrà a risolvere tutto questo? Che cosa avrete visto con i vostri occhi che un buon libro non puó farvi vedere? Che cosa avrete veramente sentito?
Seguiamo Marco mentre entra da una porta secondaria in un grande capannone. Appena entriamo ci accorgiamo di essere al mercato di Vilnius. Una specie di mercato coperto generale, con tante piccole bancarelle. La prima cosa che ci colpisce è la carne. Tonnellate. Carrelli del supermercato stracolmi fino all’orlo di pezzi di carne sanguinolenta che lasciano strisce rosse dietro di loro, mentre vengono spinti da giganteschi omoni baffuti. La più bella sorpesa l’abbiamo dalla parte opposta rispetto alla nostra entrata. Si tratta di un tagliere in legno a forma circolare su cui viene appoggiata la carne per essere tagliata. Sopra il grande tagliere però, in questo momento non c’è carne. C’è appoggiata un’ascia. Gigantesca. Un’ascia dall’impugnatura in legno e dalla scintillante lama d’acciaio con pezzi di carne ancora attaccati. Non so dirvi perché quell’ascia mi abbia colpito (dovrebbe pure esserci una foto da qualche parte), eppure vorrei vederla ogni giorno, vorrei tornare a casa e salutare con un cenno della mano un grosso omone barbuto che agita l’ascia con fare minaccioso prima di farla calare pesantemente su un ceppo rotondo di legno verniciato di rosso. Vorrei che fosse nel giardino, alla sinistra del portico. Sarebbe fntastico. Ogni tanto mi dimentico della bellezza e dell’importanza dei gesti materiali.
Acquistiamo della carne e degli affettati, ci aggiungiamo un po’ di pane e di bibite e abbiamo rimediato il pranzo.
Il pomeriggio arriva velocemente, sorprendendomi in uno stato di relax dovuto alla quotidiana lettura del libro che mi sono portato dall’Italia.
Quando io e Marco usciamo, dirigendoci verso il museo storico di arti visive, lui inizia a scattare fotografie all’impazzata. Fotografa ogni essere femminile che incrocia, ogni oggetto, casa o monumento che lo meriti anche solo lontanamente e spesso anche un sacco di cose che davvero non andrebbero considerate. Ma sono le persone il suo forte e con il senno di poi non posso che riconoscergli una certa bravura. Però io sono piuttosto lento, ci metto molto a capire le cose. E questa voglia di fotografare tutto il fotografabile non la capivo davvero. Inesperienza o stupidità? ancora adesso non so darmi una risposta.
– Sai, non credo che apprezzino.
– Perché?
– Ad esempio io non apprezzo.
– Ma tu non rientri nella nomalità.
– Ti ringrazio.
– Lo dicevo in senso positivo.
– Immagino.
– Non sto scherzando.
– Ok Marco, è vero che non sono abituato ad essere al centro dell’attenzione, ma la ragione per cui non mi piace essere fotografato ogni trenta secondi è che essenzialmente non vengo bene nelle fotografie.
– Fottografie.
– Dammi la macchina.
Prendo la macchina fotografica dalle mani di Marco e guardo l’ultima fotografia.
– Guarda cosa ti dicevo.
Gli mostro l’ultima fotografia. Mi da ragione eppure c’è un paradosso. Quella foto è splendida. E’ veramente splendida. Credo di averla anche pubblicata qui in giro. Nella fotografia comunque c’è una ragazza, una ragazza molto bella. Potrebbe somigliare vagamente all’amica della vostra fidanzata. Si, avete capito, quella che vi piace. Insomma lei è lì, seduta, che sta facendo uno spuntino insieme ad una sua amica e vede che passa un tipo che gli scatta la foto. Io mi sarei arrabbiato. Voi probabilmente non vi sareste arrabbiati. Ragazze vi sareste arrabbiate? Lei in effetti non si è arrabbiata, non ha urlato, non ha chiesto che Marco cancellasse la foto. Ha semplicemente guardato dritto nelll’obbiettivo, ma l’ha guardato con un disprezzo tale che l’obbiettivo si è crepato. Il caso ha poi voluto che sulla maglia avesse anche scritto qualcosa di adeguato. FCUK. Non ditemi che non ci avete pensato. FUCK. Saranno coincidenze…

Ormai si sono fatte le dieci e trenta. Io e Marco siamo a casa e ci stiamo preparando per andare al Brodoways. Ci mettiamo in tiro.
– Dove sarà Motta? – mi chiede Marco mentre s’infila la maglietta aderente del turquoise.
– Sai che sei veramente figo?
– E tu sei un grosso degenerato. Che mi dici di Motta?
– Mi ha mandato messaggi per tutto il pomeriggio. Credo che abbia qualche problema.
– Oh, hai detto una cazzata ah ah ah. Te lo dico in scioltezza, ma hai detto una cazzata. Credimi quando ti dico che si sta divertendo. Ohhhh cazzo se si sta divertendo. Uah-ha uah-ha uah-ha – mi dice Marco mimando sconvenienti atti sessuali.

– Puttana di quella troia!
– Ti prego non ti arrabbiare.
– Senti io sono paziente, anche perché mi rendo conto che, almeno direttamente non è colpa tua. Però, non so se l’hai capito, ma qui mi stanno cominciando girare i maroni, cristo santo.
– Non hai voglia di fare ancora l’amore?
– Tesoro bello, lo faremo, io e te da qui all’eternità se non troviamo un modo di uscire.
Cerco di essere razionale.
Molta gente m’invidierebbe.
Tantissimi pagherebbero per essere al mio posto.
Anche io, in determinati momenti, sarei molto, molto felice di essere nella situazione in cui mi trovo adesso.
Questo però non è uno di quei momenti.
No, non lo è davvero.
Siete curiosi di sapere dove sono in questo momento?
Non c’è davvero nulla di questa storia che possa rimanere circoscritto e conosciuto solo dai partecipanti? Andrea mi fa segno di no con la testa. Eh va bene.
Adesso sono… ecco, non lo so dove sono. Indicativamente mi trovo alla periferia di Vilnius, in uno di quei tipici grigi palazzoni comunisti. Per essere preciso, mi trovo in un bell’appartamento al sedicesimo piano di uno di quei tipici grigi palazzoni comunisti. Il problema è che ho la maniglia della porta d’entrata in mano. E la porta è chiusa.
Come sono finito intrappolato qui mi chiedete? Sono finito intrappolato qui per via di una donna e per quale altro motivo?
I più scaltri tra di voi avranno già capito. Si, si tratta della ragazza di ieri. Mi ha mandato un messaggio e mi ha chiesto se potevamo vederci da qualche parte.
Le ho risposto si, perchè no?
Ci siamo visti davanti alla cattedrale.
Abbiamo preso un caffé, ha pagato lei e mi ha chiesto se volevo andare a casa sua. Se ci fate caso sto facendo esattamente quello che in tutte le guide è considerata come un cosa stupida e pericolosa. Balle, solo stronzate. Io lei non la conoscevo eppure sapevo di potermi fidare. Dai ragazzi, ok, sono Motta, eppure questo vale anche per voi. La sentite anche voi quella vocina nella testa che vi dice “questo tipo/a è veramente una testa di cazzo, uno da non fidarsi, uno di quelli a cui non farei nemmeno pulire il culo del mio cane”. Non prendiamoci in giro, tutti abbiamo questa specie di sesto senso. Il fatto che poi decidiamo sistematicamente d’ignorarlo per farci del male è un altro paio di maniche. Di lei mi fido e monto sulla sua berlina, una volvo. C’è solo un motivo possibile dietro alla richiesta di andare a casa sua. Ed è proprio per questo motivo che non presto nessuna attenzione a una qualche cosa che lei mi dice mentre richiudo la porta. Appoggio il giubbotto all’attaccapanni e mi siedo sul divano. Lei invece va verso la camera da letto e mi chiama…
La tipa ci sa fare e sono passate circa due ore quando le dico che è tardi, che devo andarmene e che ci sono i miei amici molto arrabbiati per la mia prolungata assenza. Lei si offre di riaccompagnarmi in centro.
Mi dirigo verso la porta, giro la maniglia e tiro.
La maniglia mi rimane in mano. Non pensate che abbia esagerato con la forza. Semplicemente la maniglia era rotta e né lei né il fratello hanno mai pensato di farla riparare. Con la maniglia in mano e la porta chiusa guardo la mia nuova conquista. Dice – non ti preoccupare, anche dall’altra parte c’è la maniglia, basta che togli il catenaccio e che qualcuno apra da fuori.
– Oh, bene – dico raggiante – chiama un vicino.
– Non conosco nessuno dei vicini.
Società moderne…
– Chiama i tuoi.
– Sono a Klaipeda.
Klaipeda? lasciamo perdere.
– I tuoi amici?
– Se ti vedono qui è un casino, dicono tutto al mio ragazzo.
Ha un ragazzo?
– Hai un ragazzo?
– Si – risponde lei tranquilla.
Ok, lasciamo perdere, non incasiniamo troppo le cose.
– Insomma esiste una soluzione o devo buttarmi giù dal sedicesimo piano?
E così torniamo all’inizio.
Mi siedo sul divano. La porta non ne vuole sapere di aprirsi e così decido di guardare la televisione in attesa di un’epifania. In tv trasmettono Mission Impossible 2, la solita spacconata americana che però non sarebbe nemmeno così difficile da guardare se non fosse per il doppiaggio. In Litunia infatti adottano un sistema diverso dal nostro, incentrato sul…risparmio. In pratica un’unica voce raconta quello che succede e doppia tutti gli attori, come sentirsi un riassunto in diretta, mentre nel frattempo le voci originali sono appena percepibili in sottofondo. Si, mi avete anticipato, una merda. Specie quando Tom Cruise rivolge a quella bella ragazza dai tratti orientali parole cariche d’amore e di passione e lei risponde con la stessa voce e in maniera frettolosa, visto che deve anche riassumere tutto il casino assurdo che era capitato nelle ultime cinque scene…Ma svegliatevi e mettete i sottotitoli!
All’improvviso però ho una visione. La mia epifania. La pizza.
– Senti, invece che aspettare tuo fratello potremmo ordinare una pizza, sarà il ragazzo delle consegne ad aprirci la porta.
– Si può fare – dice lei con la faccia un po’ delusa.
– Allora chiama tesoro, chiama.
Cammino impaziente, avanti e indietro, mentre la mia biondina è al telefono. E’ proprio vero che una telefonata allunga la vita. Anche perché l’ultimo messaggio che Marco e Andrea mi hanno mandato era questo “Siamo al brodoways.Noi partiamo domani alle 8, vedi tu cosa fare…”. Insomma cosa pretendono? Sto facendo del mio meglio! Sono sicuro che sarebbero capaci di partire. Certo che ne sarebbero capaci. O forse no?
La mia bionda riattacca il telefono e si gira. Aspetta un attimo, com’è che si chiama? Come faccio a non ricordarmelo? Che coglione, il suo nome, il suo nome…non posso chiederglielo dopo aver scopato.
– Manuele niente pizza. Ormai hanno chiuso per oggi.
Non capisco se sia dispiaciuta o felice.
Nome nome nome. Il cellulare, ecco guardo come l’ho segnata sul cellulare. Perfetto, niente più tesoro mio, ora sei…sei…Igor? Che cazzo c’entra Igor? Che qui sia un nome da donna? ci sarà pure un motivo se l’ho segnata come Igor. Se continuo con cose tipo tesoro o principessa lei si monta troppo la testa, meglio tornare a rapporti più formali, in fondo, probabilmente, dopo questa sera non la vedrò mai più. Insomma, proviamoci.
– Igor, ci vorrebe un’altra idea.
– Igor? – dice lei aggrottando le sopraciglia.
Merda.
– No…cioè voglio dire, Igor ci avrebbe sicuramente fatto uscire.
– E chi è Igor?
– Un…un amico. Hai presente McGyver?
– Si! – e allora capisco cosa devo fare.

Mentre Motta se la spassa con la sua conquista io e Marco ci ritroviamo al Brodoways, un pub su due piani con pista da ballo proprio nel centro di Vilnius. Il posto è pieno, soprattutto giovani, però c’è anche qualche ragazzo del ’68 e molti, moltissimi stranieri. Ordiniamo due birre chiare e ci sediamo all’unico tavolo libero.
– Stasera mi sento più carico, voglio divertirmi.
– Ti senti cargo? vuoi cargare?
– Ancora con quella storia?
– Brindiamo all’atlantic cargo – propone Marco.
– All’atlantic cargo – ripeto alzando il bicchiere.
Appena finito di brindare si avvicina a noi un tipo squinternato.
– Italiani? – chiede con un sorriso da orecchio a orecchio. Ovviamente lo chiede a Marco, il nostro uomo calamita.
– Si.
Il tipo in questione somiglia vagamente al Ralph Ciffareto dei Soprano, solo con meno capelli e denti più grossi e sporgenti. E’ sui 40 e noi, per vi dei denti sporgenti, lo battezziamo castoro.
– Non è male questo posto, ma una volta era tutto diverso – dice mentre annuisce con la testa con l’aria sconsolata di chi la sa lunga – una volta le donne ti saltavano addosso.
– Quando? – chiedo.
– Anche solo 8 anni fa. Io per due anni ho avuto una ragazza di Vilnius.
Lo guardo, povero essere. Farebbe quasi compassione se non fosse così viscido, ripugnante quasi. Mi ricorda anche Gollum adesso che ci penso. Non riesco a capire in che condizioni fosse la ragazza che si è messa con lui. Miracoli del denaro forse.
Castoro prende una sedia e si mette al nostro tavolo.
Oddio.
– Vedete quel grasottello al bancone con i capelli grigi? lasciatelo perdere. Io lo conosco. Le ragazze che ha intorno non le dovete nemmeno guardare. Lui è uno pericoloso.
Facciamo la faccia stupita.
– Io lo conosco bene. Lui faceva pulizia etnica sia in Lituania ai tempi del comunismo che nella ex-jugoslavia.
Pulizia etnica?
Faccio la faccia più stupita che riesco ad immaginarmi.
– Cioè quell’uomo è un criminale di guerra? e ha commesso crimini contro l’umanità?
Castoro annuisce in modo serio. Sinceramente non so se sia più strano conoscere un criminale di guerra o un tipo come castoro che a mezzanotte e trenta comincia a parlarti di criminali di guerra.
– Perché non lo denuncia alle autorità? – chiedo interessato.
– Perché nessuno sa ancora nulla di questi crimini, dei suoi crimini.
– Ah…certo.
– Poi volete sapere una cosa? voi mi siete simpatici e soprattutto siete svegli, si vede (testuali parole ragazzi). Vi rivelo un segreto. Adesso qui le donne fanno le difficili, come da noi, ma tra un po’ sarà tutto diverso.
Diverso perché ti fai una plastica?
– Come diverso? – chiede Marco.
– Sarà tutto diverso perché arriverà l’euro anche qui fra due anni. E con l’euro arriverà anche la crisi che è arrivata da noi. E allora si che ci sarà da rimediare – conclude facendoci l’occhiolino.
– Quindi tu stai aspettando che arrivi l’euro per…per giocarti le tue carte e nel frattempo dai un’occhiata…
– Bravo, dò un’occhiata in giro, cosi da essere preparato.
Vi giuro che non avrei mai sognato d’incontrare un uomo come castoro, anzi Castoro. Semplicemente eccezionale. Si aggira con quei suoi bei dentoni e un riporto veramente divino, in quel di Vilnius, incurante dei giudizi poco belli di cui è oggetto, perché lui ha un obiettivo, attende come un avvoltoio sessualmente famelico l’ingresso dell’euro in Lituania per avventarsi sulle belle giovin donzelle locali ridotte alla fame dalla moneta unica.
Incapaci di resistere a cotanta rivelazione lasciamo Castoro in compagnia di un anglo-giapponese e puntiamo verso la pista da ballo. Siamo lì che ci scateniamo al ritmo di qualche canzone lituana quando vediamo comparire anche il redivivo Motta.
– Alla buon ora.
– Mi è successo un casino. Siete incazzati?
– Incazzati? e per cosa?
– L’ultimo messaggio era minaccioso, prima non mi rispondevate e poi sono in ritardo di due ore.
– Scherzi? buon per te se ti sei divertito! Non ti rispondevo perché i messaggi costano un casino e tu ne mandi a pacchi. L’ultimo messaggio poi è stata un’idea di Marco.
Il dj cambia decisamente genere e mette su un pezzo di Jennifer Lopez. Waiting for tonight.
– In effetti non posso negare che mi sia divertito. Mi sono anche leggermente innervosito, ma il divertimento ha prevalso. Lasciate però che vi dica che cazzo mi è successo.
Motta ci porta così a conoscenza della sua avventura nei sobborghi di Vilnius mentre branchi di bionde scatenate e gregge di italiani (impossibile, per tanti motivi, non riconoscerli) si dimenano accanto a noi.
Appena conclude chiedo – bella storia in effetti…ma poi come ne sei uscito?
– Ho pensato che se non volevo restare a Vilnius mentre voi viaggiavate verso Riga, dovevo muovermi da solo.
– E cos’hai fatto?
– Mi sono fatto dare la cassetta degli attrezzi e ho smontato completamente tutta la serratura.
– Caspita, ti sei dato da fare.
– Eh…che vuoi. Devo qualcosa a quella ragazza. Allora tutto a posto?
– Stucazzopendo – interviene Marco – adesso devi dirmi quando mai nella tua città ti sarebbe capitata una cosa del genere? quando mai avresti potuto divertirti così tanto? quando sarai vecchio prenderai sulle ginocchia Alessio, il tuo piccolo nipote, davanti a un bel fuoco che scoppietta in un caminetto e gli dirai, sorseggiando una tazza di the ai frutti i bosco, “ti ho mai raccontato di quando sono rimasto chiuso nell’appartamento di tua nonna, la seconda volta che ci siamo visti?”.
– In questo tuo discorso c’è qualcosa che non mi quadra.
– Se l’hai capito significa che hai bevuto troppo poco.
– Se posso permettermi d’intervenire – urlo avvicinandomi ai due – non mi sembra che l’idilliaco quadretto familiare in cui hai piazzato Motta gli si addica. Me lo vedrei meglio in altre situazioni.

Il ventilatore sul soffitto gira in modo stanco. Le sue pale continuano a ruotare incuranti della loro inutilità. Questo ventilatore combatte una lotta già persa, un po’ come tutti noi. Steso sul letto Motta accarezza la pelle olivastra della sua splendida amante ancora addormentata. Il sole è già alto nel cielo e il caldo, unito all’umidità, è insopportabile. La giovane ragazza si sveglia, si volta verso di lui e lo fissa dritto negli occhi senza dire una parola.
– Non devi essere triste – dice Motta scostandogli i lunghi e lisci capelli neri che gli coprono in parte la faccia – in fondo tu puoi trovare di meglio, molto di meglio. Potresti iniziare con qualcuno che non ha i capelli grigi.
La sua voce stanca prova a rincuorare la ragazza – ti ho mai parlato di quella volta che sono rimasto prigioniero di una lituana per tre ore?
Il suo spagnolo è incerto e la ragazza ride anche solo a sentirlo parlare. Non ha un’idea precisa di dove sia la Litunia, però le piace moltissimo sentire le avventure del suo amore. Risponde – no.
Motta è già tutto sudato e se non fosse per Juanita sarebbe già sotto la doccia. E’ in ritardo. Ma che importa? nello sperduto paesino colombiano di Santa Marta nessuno protesterà se il sergente della polizia arriva in ritardo al lavoro. E se anche qualcuno avesse bisogno di lui non sarà certo nulla di così importante da non poter aspettare un’oretta.
La sua voce roca si adagia tranquilla sul collo della giovane amante e risale dolcemente fino all’orecchio cullando la ragazza.

Adesso, a parte lo sprecarsi di luoghi comuni e un paio di altre stronzate, non vi sembra un quadro molto più interessante? Dio solo sa se non venderei l’anima al diavolo per vivere una vecchiaia come questa. Altro che nipotini…
Comunque torniamo a noi. Restiamo tutti e tre al Brodoways fino alle cinque, alternandoci tra pista da ballo e bancone del bar, poi si torna a casa.

La Lettonia

7 settembre
Il tassista lituano

Alle 10 siamo pronti a partire. Come sempre accade in tutto il corso di una vita divertente ed imprevedibile, i problemi però saltano fuori proprio da dove non te li aspetti. Il problema in questione s’incarna in un’altra macchina. Un altro stronzissimo lituano ha ben pensato di chiuderci ogni via d’uscita dal nostro parcheggio. Non ci rimane che avvisare il padrone dell’ostello.
Il ragazzo alla reception prova a cercare il proprietario dell’auto che però, ovviamente, non si trova.
La nostra attesa termina alle 11, quando il padrone dell’auto arriva e sposta il suo vechio catorcio. Pronti via? no, perchè un tassista decide di parcheggiare nello stesso identico punto del tipo di prima. Incazzato scendo dalla macchina e chiedo spiegazioni. Il tassista non parla una parola d’inglese. Monto in macchina e provo ad uscire lo stesso. Il tassista di merda, che gli venisse un infarto, risale in macchina e si piazza in modo da bloccarci con sicurezza ogni via d’uscita anche solo lontanamente immaginabile.
Qui stiamo per arrivare alle mani.
Chiamo di nuovo il ragazzo dell’ostello.
Lui parla con il tassista e i suoi amici, ma non cè niente da fare.
Situazione di merda.
Cominciamo a pensare al da farsi quando il tassista risale in macchina e la sposta.
Perchè l’ha fatto? Va a capire! Secondo il ragazzo dell’ostello erano ubriachi e odiano gli stranieri, in particolare i maschi. In generale non c’è un cazzo da fare, di teste che starebbero meglio tra le gambe che sopra un collo se ne incontrano da tutte le parti. In questo senso tutto il mondo è paese. A mio parere sono meno delle persone cortesi e gentili, però è un’opinione. Quello che è sicuro è che qualche stronzo con una voglia matta di rovinarti il viaggio lo si trova sempre. Esseri che traggono un sordido e stupido compiacimento semplicemente nel creare difficoltà ad altri. Ma d’altronde non è la stessa cosa nella vita di tutti i giorni? con persone che parlano la nostra stessa lingua?
Al di là di questo singolo fatto, questa si è comunque rivelata una giornata sfigata.
Subito alla fine dell’unico tratto di autostrada lituana ci ferma la polizia per eccesso di velocità. Soliti poliziotti fascisti (Ale scusami ma ovviamente mi riferisco ancora una volta a quegli avvoltoi stranieri che non sprecano un’occasione per spillarti soldi) a cui decido di lasciare una mancia di 50 euro (eravamo partiti da 100) per farci ripartire. In merito si verifica una discussione in seno al gruppo, per Marco non dovevamo pagare, dovevamo fare i duri. Io avevo già esaurito la pazienza con il tassista per cui ho optato per la mazzetta. Ancora adesso sono convinto che sia stata la scelta migliore.
Ripartiamo e posso citarvi, parlando di sfortuna, il benzinaio a cui ci siamo fermarti che aveva le pompe del diesel non funzionanti, le interminabili code per lavori sulla strada che ci avrebbe portato a Riga e infine l’ennesimo stop da parte di un altro poliziotto. Un assalto che questa volta abbiamo respinto senza privarci di un centesimo.
Vi posso solo dire che quando arriviamo a Sigulda, un paesino immerso in un parco naturale a 50km a nord di Riga, sono le 18. Sette ore di viaggio per neanche trecento chilometri.
Perchè Sigulda e non Riga?
Innanzitutto sono vicine e poi io sono parito con l’idea di voler fare rafting. Il fiume che attraversa Sigulda, il Gauja è un fiume su cui si può fare rafting e si può andare anche in canoa. Non è completamente scartata nemmeno l’idea di andare in mountain bike su un percorso all’interno del parco.
Al nostro arrivo andiamo subito all’ufficio informazioni e ci facciamo prenotare in un bed&breakfast gestito da una vecchia che parla tedesco. Il posto è kitsch da far paura però ci accontentiamo. Sistemate le cose andiamo a prenotare 4 ore di canoa per domani passando anche per la pista di bob dell’ex nazionale sovietica (le foto dovrebbero essere qui in giro). Verso le otto ceniamo in un buon bistrò e facciamo un giro del paese. Tutto è deserto e per la prima volta dall’inizio dell’estate (21 giugno per chi non se lo ricordasse) vado a letto alle undici.

8 settembre

E’ difficile prevedere cosa riserva il futuro, anche se, volenti o nolenti, siamo sempre e solo noi a costruircelo. Forse possiamo sapere con un margine di sicurezza apparentemente rassicurante che cosa dovremo fare, una volta alzati, domattina. In un modo o nell’altro ognuno di noi tiene un’agenda dove si segna gli impegni per la settimana successiva o per la prossima vita. Eppure senza esperienza, non si può mai essere sicuri che quello che abbiamo deciso di fare o quello che purtroppo dobbiamo fare, sia effettivamente quello che volevamo fare. Chi ci dà la sicurezza che quella vacanza sia effettivamente la scelta giusta, che quella macchina per cui avete speso gli ultimi risparmi sia all’altezza delle vostre aspettative, che quel weekend in montagna con la fidanzata non metta la parola fine al rapporto che stiamo trascinando da alcuni mesi per la paura di rimanere soli?
Grazie a Dio non lo può dire nessuno.
Tutta questa pugnetta introduttiva per arrivare a dire, cari amici, che ci dovete pensare bene prima di affittare una canoa per una discesa di 25 km lungo un fiume. Forse mentre viaggiate ai 150 in autostrada 25 km vi sembrano una cazzata, un qualcosa che scivola via tranquillo tra una canzone del Liga e una dei Subsonica, ma in canoa è un’altra cosa. E’ lunga. Sono 3-4 ore buone e credetemi se vi dico che dopo 3 ore e trenta minuti di pagaiate non vedete l’ora di mettere più distanza possibile tra voi e qualsiasi tipo di aggeggio che possa servire a far muovere una barca o qualcosa di simile. Non fraintendetemi, se dovessi scegliere la giornata più bella dell’intero viaggio, sceglierei sicuramente questa, però lascerei a casa lo zaino e farei pagaiare di più, molto di più, Motta, il nostro bel playboy.
E’ una mattina piovosa quella che ci vede partire per la nostra gita in canoa. Piovosa ma non fredda.
La nostra gita comincia alle dieci, momento in cui veniamo abbandonati al nostro destino dal gentile responsabile dell’agenzia di Sigulda che organizza queste escursioni “avventurose”. Il clima, inutile negarselo, è quello di un tranquillo weekend di paura. L’impressione iniziale non è affatto male, fiume tranquillo, neanche un essere umano o costruzione in vista, clima fresco e pioggerellina fine che tempra il corpo e la mente. Rapidamente però la nostra discesa diventa un qualcosa di più simile ad un film di fantozzi che non ad un tranquillo weekend di paura. Andare in canoa non è così semplice come sembra, non so se siete mai stati su una canoa in tre. Per rendere l’idea si può dire che la stabilità che si sperimenta su quella cosa è simile a quella che avete sperimentato la prima volta che siete andati in bici. Senza rotelline. Un altro problema piuttosto grave si è rivelato poi il riuscire a dare una direzione a quell’aggeggio infernale. Non ci si capiva un cazzo e fondamentalmnte abbiamo proceduto a zigzag colpendo tonchi e arenandoci ai lati del fiume per la prima ora e mezza.
– Vedete quel tronco?
– Si.
– Si.
– Bene Andrea, te sei dietro, sei te che ci dai la direzione, vedi di non colpire quel tronco perchè ci terrei a tornare alla macchina asciutto e con la canoa integra.
– Tranquillo Marco. In scioltezza. Lo sai che potrei essere timoniere su luna rossa?
– Timoniere, ci avviciniamo, vedi di stare sulla sinistra.
– Motta, sento un tono leggermente preoccupato o sbaglio?
– Sinistra sinistra sinistra – dice urlando Marco mentre infila la macchina fotografica nel suo zaino.
– Perchè continuate ad urlare cazzo, il tronco è distante anni luce!
– Anni luce? Ma sei fuori? è praticamente davanti a noi. Cazzooo sinistra, butta questa cosa a sinistra.
– Di quale tronco stai parlando? Io non vedo nessun tronco. Ci sono per caso due tronchi? perchè non mi avete detto che ci sono due tronchi?
– Qui andiamo a finire tra i pesci.
– Vuoi dei pesci?
– Porca miseria, è lì, davanti! mandaci a sinistra, a sinistra.
– Non va.
– Come non va? non va dove?
– Motta la sto mandando a sinistra, ma la canoa non ci vuole andare.
– Che cazzo vuol dire non ci vuole andare? la canoa va dove la mandi te!
– Ragazzi è inutile discutere ormai, allarme collisione.
Boom. Il tronco ci prende in pieno, scivolando poi sulla fiancata sinistra. La canoa s’inclina pericolosamente e sto per finire in acqua se non fosse per la pagaia che passo velocemente dalla mano sinistra alla mano destra e punto sul letto del fiume per tenermi su. Imbarchiamo acqua ma non ci rovesciamo e possiamo proseguire tranquilli. Almeno fino al prossimo tronco.
La nostra escursione termina verso le 14.30, quando torniamo al campo base. Solo risalendo sulla macchina mi accorgo però delle consguenze delle mie scelte. Finito lo sforzo di pagaiare, entrambe le spalle mi fanno un male cane e ho due strisce rosso fuoco che vanno dalla parte alta della spalla all’ascella. Si tratta del ricordo della cinghia dello zaino che ho tenuto in spalla. Discretamente doloroso.
Incuranti dei nostri più o meno gravi malanni fisici, ripartiamo da Sigulda e ci dirigiamo verso la metropoli per antonomasia delle repubbliche baltiche, Riga. Arriviamo verso le 16.30 e ci mettiamo subito alla ricerca di un posto dove pernottare.
Riga, col senno di poi, non delude le aspettative. Grossa, caotica, dispersiva, bella e sgualdrina. Sicuramente è una città che merita e non solo per l’old town. Riga è piena di macchine e night club, belle ragazze e prostitute, irlandesi, inglesi ubriachi e gente che tira avanti sfruttando il punto debole di ogni uomo che si rispetta. Le donne.
Gli alberghi sono mediamente abbastanza costosi e pure gli ostelli non scherzano, visto che si tratta sempre e comunque di camerate da otto…
In ogni caso non posso non raccontarvi la scena dell’albergo a ore.

– La guida dice che qui ci dovrebbe essere un ufficio informazioni.
– A me sembra un cartoleria.
– Cosa ci costa fare un salto dentro? ormai siamo qui.
– Vai tu, noi prendiamo qualcosa da mangiare.
Entro nella cartoleria e subito arriva un ragazzo che mi chiede se può essere utile.
– Si – rispondo – siamo in tre e cerchiamo una sistemazione per la notte.
– Ah, benissimo, abbiamo un albergo proprio qui sopra! per venti euro a testa avrete una camera da tre con bagno. Tutte le stanze sono state appena riammodernate.
Il ragazzo mi passa gentilmente un depliant e io esco.
– Cosa stai mangiando?
– Mangio il famoso belasi.
– Il famoso Belasi?
Per chi non lo conoscesse il belasi è una tipica specialità lettone.
– Lungo, lo sai com’è Marco, gli piace provare le cose nuove, così ci siamo avvicinati al carretto di quella vecchia e lui ha preso quello che credeva essere un normale panino. Intorno a noi c’era delle gente che rideva, ma noi, spavaldi, non ci abbiamo fatto caso e così Marco si è ritrovato in mano questo belasi.
– Ma com’è?
– Non saprei definirlo, sto cercando in tutti i modi di dimenticare il suo sapore.
– Così terribile?
– Ti prego basta, vomito. Allora hai qualche buona notizia?
– Il tizio del negozio ha detto che hanno un albergo qui sopra.
– Quanto?
– Camera tripla con bagno 60 al giorno.
– Siamo abbastanza vicini al centro, il parcheggio l’abbiamo davanti però è a pagamento.
– Secondo me Andrea non ci rimane che dare un’occhiata alle camere, poi si decide.
– Ok Lungo dov’è l’albergo?
– Lui ha detto qui sopra.
– Qui sopra dove?
Allargo le braccia. Non ne ho idea. Ci troviamo davanti alla stazione degli autobus di Riga, a pochi metri dalla stazione ferroviaria e praticamente di fianco ai mercati
generali. Effettivamente siamo vicini al centro però, come dire, il posto non è che sia esattamente raccomandabille. Da che mondo è mondo la zona stazione è praticamente l’equivallente europeo della zona porto americana, ricettacolo dei più variegati, strambi e pericolosi esemplari che la razza umana annoveri tra le sue fila. In ogni caso noi non ci facciamo impressionare e/o condizionare da questi pregiudizi ed entriamo nella stazione degli autobus alla ricerca dell’albergo. Sembra tutto normale, chissà perché si notano soltanto biglietterie e non c’è traccia di una reception. Possibile che si faccia il check-in dove si acquistano i biglietti? oppure si dorme in un pullman?
La mancanza di una reception non è un motivo valido per dissuaderci dalla nostra ricerca, anche perchè vogliamo vedere fino che punto arriviamo, quanto siamo masochisti. Vogliamo capire quale eccelsa mente possa celarsi dietro un progetto tanto grandioso quanto quello che crea un albergo dentro una stazione degli autobus.
La nostre domande ottengono risposta quando ci accorgiamo di una scala che porta ad un misterioso secondo piano. Cominciamo a salire.
Falso allarme.
C’è un fast food. Non ricordo quale ma era un fast food. Sicuro. Stiamo per tornare di sotto quando Motta si accorge di una porta. Una porta scorrevole e trasparente esattamente dietro l’ultima fila di tavoli. Oh mio Dio.
La porta è chiusa e non si apre, grazie al cielo. Mi correggo. Non si apre dall’esterno, ma qualcuno dall’interno la apre vedendoci lì fuori che guardiamo all’interno come tre cretini che spiano uno spogliarello dal buco della serratura. Questo paragone mi fa un po’ senso, specie pensando alla donna della reception che ci ha aperto. Donna, oddio, adesso non esageriamo. Praticamente si tratta di un tricheco con i baffi di Tom Selleck ai tempi di Magnum P.I. e non sto scherzando. Cioè voglio dire, non si tratta di perdere ore a truccarsi o spendere migliaia di euro in chirurgia estetica o in complicatissime cure di bellezza, si tratta semplicemente di avere cura di se stessi e del proprio corpo. Che cosa costa a questa donna svegliarsi la mattina e guardarsi allo specchio? I baffi santo cielo! Lo sapete anche voi, quando qualcosa t’impressiona e tu ti sforzi di non pensarci non riesci a far altro che fissarti su quella cosa. Ad esempio quando vi presentano una ragazza, un’amica di qualche amico/a, che, accidentalmente, quella sera, sfoggia un decolte da paura. Lei non è belllissima o magari lo è, non importa. In ogni caso lei si ferma a parlare con voi e mentre dice una serie di cose, generalmente inutili o senza senso, voi pensate “non posso stare qui a fissarle solo le tette, non sta bene” allora annuite con la testa, se siete bravi riuscite pure a ripetere a pappagallo l’ultima parte della frase, però alla fine…
-…capito che razza di stronzo?
– Che razza di stronzo!
– Un esame difficile e un proffessore bastardo.
– Un professore bastardo.
Perchè dovete sapere, questa è generalmente una buona tecnica. Ripetere le ultime parole della frase è una buona tecnica per sembrare attenti mentre si è:
A – completamente fatti e non si sta capendo nulla.
B – con il cervello in stand by.
C – si sta pensando ai cazzi propri.
…però alla fine, con la ragazza in questione, il trucchetto non funziona. Perchè? Perchè gli occhi vi tradiscono. I vostri occhi che fanno la spola da un seno all’altro, vi tradiscono. Non so se anche per le donne esiste una situazione corrispndente. Mi piacerebbe indagare sulla questione. Se qualcuno ha esperienze in merito si faccia avanti…e parlo di entrambi i sessi. In fondo se una donna mette in mostra il suo decolte non può poi offendersi se qualcuno si fissa…altrimenti mettiti una camicia, un maglione e una bella gonna lunga fino alle caviglie che così ogni tentazione erotico/sessuale si spegne ancor prima di nascere!
Vi giuro, sul momento mi sentivo in pena per lei, sembrava così…così inadatta. In ogni caso chiediamo di farci vedere la stanza che effettivamente non è male, è nuova e discretamente arredata però…c’è un però. La vista è direttamente sui binari della ferrovia e poi ci troviamo esattamente sopra il terminal autobus. Questo significa si molto movimento, ma soprattutto tristezza e mestizia. Non fa per noi.
– Ragazzi, se volete spendere meno potete anche affitare la camera per alcune ore.
– Come scusi, alcune ore?
– Si.
La porta accanto alla nostra camera si apre ed esce un signore distinto, in giacca e cravatta, sui cinquanta. Insieme a lui c’è una donna, più giovane ma non di molto.
– Vedete, questo signore ad esempio ha prenotato la camera per quattro ore.
Il distinto signore nel frattempo si allontana, i passi pesanti attutiti dalla moquette nera sul pavimento del corridoio. So quello che pensate perché l’ho pensato anch’io.
– Ah, si possono affittare le camere anche solo per due/quattro ore?
– Certo – ci dice tranquilla la donna baffuta.
Non so perchè, ma qui mi viene in mente tutta quella filmografia americana in cui procaci e promiscue prostitute andavano a sollazzare clienti di quart’ordine in orribili alberghi a ore pieni di topi e ventilatori ronzanti appesi al soffitto. Forse sarebbe effettivamente qualcosa di diverso dal solito, forse dovremmo prendere proprio questa camera. Noooo.
– Ok allora che cosa si fa?
– Un ostello?
– L’unico in centro ha lo stesso prezzo del nostro albergo a ore, non ha il parcheggio e siamo in una camerata da sei.
– Che non è necessariamente una cosa negativa – dice Motta.
Ci avviamo a piedi verso l’ostello nella old town, chiamato appunto old town hostel.
Al piano terra c’è un bar che fa anche da reception. Entriamo tutti e tre e io chiedo informazioni al ragazzo che fa da receptionist e barista.
– Scusa, siamo in tre e cercavamo un posto per dormire.
– Si, abbiamo la camerata da sei, quindici euro a testa. Scusa un attimo.
Il ragazzo si allontana dalla macchina del caffé e chiama un signore sui cinquanta, straniero, cicciottello e rubicondo che se ne sta uscendo. Il tipo in questione si volta, ha un bicchiere in mano. Allora capisco. E’ completamente fuori, ubriaco, la testa gli ciondola leggermente e gli occhi gli si chiudono. La cosa che colpisce di più però è che l’uomo di mezza età è un signore distinto ben vestito, il classico padre di famiglia tranquillo e pacato che ogni sera alle sei porta fuori il cane e alle 19:30 cena.
– Signore, quel bicchiere è mio – gli dice convinto il ragazzo.
Il signore apre entrambe le mani davanti al petto, come per dire “hai ragione”. Posa il bicchiere sul bancone e invece di uscire prende la scala che porta alle camere dell’ostello. A quel punto il ragazzo gli si avvicina, lo afferra per un braccio e dice – credo che lei debba andare di là – indicandogli la porta. L’uomo di mezza età si volta ridendo ed esce dalla porta.
Ora, devo essere sincero, non capisco proprio perché il fatto in questione mi avesse dato tanti problemi. Lì per lì mi aveva effettivamente dato fastidio. Ok erano le 5 di pomeriggio ed era presto per essere ubriachi, però non c’è niente di così terribile. Sapete bene anche voi quanto una brava persona possa diventare nociva se supera quella linea impercettibile che separa l’essere allegri dall’essere ubriachi e totalmente insopportabili.
A questo prposito devo notare che ogni tanto anzi abbastanza spesso, riemerge in me una certa anima bacchettona e perfezionista che non ammette errori, non ammette cose fuori posto e soprattutto richiede a tutti quelli che mi stanno intorno una forza di volontà che, in alcuni casi, è decisamente fuori dalla loro portata. Cosa intendo? Credo Motta lo sappia abbastanza bene. Intendo quello che scherzosamente è diventato il mio motto cioè “una cosa la fai bene o non la fai”. Apparentemente non sembra un concetto negativo. Solo apparentemente però. La questione infatti sta tutta nel capire quale delle due interpretazioni si vuole riferire alla frase. Quali sono le due interpretzioni? su, ci arrivate anche voi senza che vi debba prendere per mano…o no?
Ok, ve li dico. La prima è quella per cui “una cosa la fai bene o non la fai” significa semplicemente che devi concentrarti sul risultato, fare solo le cose che sai fare bene, astenendoti dal combinare i casini che combineresti se ti buttassi in tutti gli altri campi di cui non sai un cazzo, in cui non hai esperienza. Espeienza è proprio la parola chiave.
Con la seconda interpretazione il mio motto viene a significare invece che bisogna impegnarsi sempre al massimo quando si fa una cosa. L’elemento da tenere presente in questo caso è dato non tanto dal risultato, quanto più che altro dall’impegno che si è profuso nel fare qualcosa, indipendentemente dal risultato. Non importa la vittoria o la sconfitta, non importa se siete riusciti a prendere il massimo dei voti, non importa se quella ragazza sta con voi o con qualcun altro, non importa se siete riusciti a raggiungere il vertice della vostra, personale, piramide. Importa che ci abbiate dato dentro fino in fondo.
Ok sto cominciando a scendere in un terreno paludoso e rischio di sparare cazzate (o forse le ho già sparate). Il punto è che con la prima interpretazione si vive una vita essenzialmente da spettatori, come la televisione e la nostra società vogliono!
Insomma, alla fine della fiera, trovare una sistemazione Riga si dimostra più difficile del previsto, anche con l’aiuto di un ufficio informazioni e di due ragazzi italiani incontrati per strada. Risaliamo in macchina decisi ad accontentarci di un albergo un po’ fuori mano, quando becchiamo un’insegna di un hotel non segnalato sulla guida. Entriamo io e Motta, chiediamo informazioni e usciamo convinti di aver strappato la suite per tre alla modica cifra di 26 euro a testa. Non male penso orgoglioso. Quando arrivo a pagare con la carta mi rendo conto di non aver tenuto conto del fatto che la cifra detta dalla ragazza era in valuta locale. Eh si cari amici, un vero coglione, specie considerando che Motta me l’aveva fatto notare. Alla fine spendiamo 43 euro a testa. Uno sproposito rispetto alle nostre tabelle di spesa ma così è la vita…
Il bello è che il portiere dello stabile (era un edificio che conteneva anche alcuni uffici insieme al nostro albergo) ci osserva a lungo mentre facciamo il check-in. Il portiere dello stabile è armato (una calibro .38 grigia con calcio bianco e vi giuro che non dico cazzate) ed è particolarmente interessato al fatto che prendiamo la suite. Bello. Quando circa venti minuti dopo scendo da soloa prelevare dal bancomat accanto alla reception il portiere armato mi ferma, mi saluta e mi dice qualcosa in inglese.
Non capisco.
– Could you repeat please? i don’t undestand.
– Certo – dice avvicinandosi – se per caso ha bisogno di compagnia stasera, può rivolgersi a me.
Ah ecco! Ritorniamo alla Riga capitale baltica del turismo sessuale. Piccola correzione, mi sembra che il tipo abbia usato le parole “se vuole compagnia” e non “se ha bisogno di”. Meno insinuatoria come espressione.
– Ok, grazie, lo terrò presente.
Non so se sentirmi imbarazzato o felice. Mi hanno appena dato del puttaniere, quindi il tipo immagina che non abbia le capacità per trovare compagnia senza pagare.
Il fatto che sia effettivamente vero non conta nulla, ognuno ha i suoi difetti.
Però si può anche guardare il lato positivo, mi ha scambiato per un uomo adulto, una persona con la necessaria dotazione mentale, fisica e monetaria per andare a puttane. E ciò mi lusinga non poco.
Non sono moralista e francamente non me ne frega nulla se una persona paga le donne per andarci a letto, per chiacchierarci, per soddisfare qualsiasi tipo di perversione, dal pegging al farsi strofinare il pene con una grattugia o a farsi colare cera calda sulle palle. Direi che i problemi legati alla prostituzione sono in relazione allo sfruttamento delle donne e al controllo esercitato dalla criminalità. Dio volesse che la prostituzione fosse legale come in Germania o l’Olanda, ma lì abbiamo altre persone con un’altra mentalità…

 

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