Castiglioncello-Briancon, cronaca di un mini Giro-Tour

di Pierluigi Cortesi –
Partenza ore 9 circa da Caletta di Castiglioncello; destinazione Alpi francesi. Viaggio di ricognizione in previsione di effettuarlo il mese prossimo con Alberto.
Pedalata volutamente tranquilla e regolare, anche perché le ansie di questo viaggio solitario mi hanno fatto caricare la bici oltre il necessario: magliette e pantaloncini supplementari, dizionarietti di francese, attrezzi e pezzi vari di ricambio, un libro da leggere e una telecamera non proprio leggerissima per fare qualche ripresa e documentare così questo viaggio in solitaria.

La prima tappa prevede di raggiungere indicativamente (il che significa guai-a-te-se-ne-fai-di-meno !) Chiavari dopo 180 km e 8 ore di pedalate effettive, oltre a un paio d’ore per soste varie.
Giornata serena, ma con caldo afoso e cielo velato; la media sale lentamente da 24 a 25 km/h.

A sorpresa, all’altezza della S. Gobain, a Pisa, incontro proprio Alberto: per un’incredibile coincidenza, il lavoro lo porta a incrociarmi allo stesso semaforo da cui sto passando io. Non gli avevo detto nulla, perché volevo fargli una sorpresa, chiamandolo direttamente dalle Alpi, ma mi ha “scoppiato” come un preside che scopre un alunno al mare in un giorno di scuola. Forse non riesco a convincerlo del tutto delle mie buone intenzioni, comunque mi dà il suo viatico con un abbraccio e un “Buon viaggio!” fraterni.
La sua magnanima benedizione all’impresa attenua il mio senso di colpa e, fatta una breve ripresa controsole dell’Arno e della città, riparto, lasciandomi alle spalle Pisa dopo 1 h e 3/4 di viaggio e successivamente Marina di Pietrasanta, dopo un’altra ora.

Il caldo cresce, ma, senza sforzo, si riesce a pedalare a velocità costante sui 27 km/h.
Dopo 93 km e 3 ore 1/2 circa raggiungo il confine con la Liguria, a Marinella; le strade sono intasate e invase da turisti e bagnanti. Slalom tra fette di cocomero, ciambelle, secchielli e ciccione in bikini; immancabile la bancarella della porchetta sgocciolante e fumante (in pieno luglio!); odore di brigidini di Lamporecchio, fritto misto e oli abbronzanti.

La colazione è stata più che abbondante e durante la mattinata ho mangiato un po’ di frutta, ma ormai la fame inizia a farsi sentire; decido di cominciare a cercare un posto dove pranzare.
La ricerca si fa difficile: per strada molti ristoranti sono strapieni, alcuni non mi ispirano, altri sembrano promettere conti troppo salati, altri ancora sono inspiegabilmente chiusi. Sorpasso Vezzano Ligure e, quando si prospettano ormai vicine le propaggini montuose che portano verso il Bracco, decido di fermarmi a tutti i costi alla prima osteria/pizzeria che incontro. Sono le 14 passate, quando un’insegna pubblicitaria promette a poche centinaia di metri dall’Aurelia, a Piano di Follo, un ristorante specializzato in piatti tipici di qualità. In realtà la deviazione rivela parecchio più lunga e i piatti tipici consistono in un piatto di orecchiette assai poco tipiche e ancor meno di qualità: sono rimaste congelate da una parte, mentre dall’alta risultano bollenti; dovrei protestare, ma la stanchezza è tanta, la fame pure, perciò zitto e mangia, ché, tanto, carboidrati e proteine ci sono lo stesso. Dopo le orecchiette non corro altri rischi e chiedo un neutro piatto di insalata: è del tutto scipita e il condimento consiste in olio e aceto di identico e indecifrabile colore, ma vuoi mettere le vitamine e le fibre? Per fortuna, come l’insalata, anche il conto non risulta salato; però, sarà anche l’autosuggestione, il lauto pranzo mi galleggia nello stomaco.

Ripartiamo, destinazione Bracco; poi sarà tutta discesa fino a Sestri e infine dopo una tranquilla pedalata in piano sul lungomare, il meritato riposo preventivato a Chiavari. L’unica difficoltà è rappresentata dal passo del Bracco. Un attimo di sosta per calcolare la pendenza e quindi il grado di difficoltà. Vediamo sono al km 114, ad una quota di 50 m. slm circa e devo raggiungere i 613 m. della “vetta” posta al km 151, quindi il calcolo è presto – orecchiette permettendo – fatto: (151-114)/(613-50)=… 0,05%; no, troppo poco, la formula giusta è dislivello/distanza*100=…2122%; no, troppo davvero; ah già, la riduzione Km-m (o m-Km?)… Dopo un quarto d’ora di tentativi e mezzo etto di neuroni fusi, il risultato è quello giusto: pendenza al 2%, più che accettabile, quasi insignificante, nonostante i bagagli. Cosa vuol dire essere organizzati, aver calcolato al centimetro tappe, soste e distanze e disporre di una buona cartina stradale con tanto di indicazioni altimetriche? Già, peccato che la cartina suddetta si riveli piuttosto lacunosa su dettagli essenziali: nei 18 km tra Borghetto Vara e il Bracco sono compresi – ma non segnalati – numerosi saliscendi e soprattutto un altro passo, il Bracchetto, (come mi spiega con degnazione e qualche sghignazzo un benzinaio), che risulta spezza-gambe, se affrontato con garibaldina incoscienza. In cima al Bracchetto un’edicola sacra con una fonte offrono allo sprovveduto viandante un ristoro spirituale e corporeo, ma anche minacciosi avvertimenti (scritti sul retro della fontana) appositamente per il viandante-ciclista che per fortuita distrazione o congenita inciviltà osasse lasciare sozze tracce del proprio passaggio o tenere un comportamento inadeguato alla sacralità del luogo. Con la scusa di meditare sulla relatività degli umani valori e sulla deplorevole mancanza di un santo intercessore dei ciclisti presso il Padreterno, mi dedico un riposo di qualche minuto; poi, giù per una discesa rompicollo con relativi moccoli (tanto l’edicola è lontana) al pensiero che le discese sono sì gradite, ma non quando comportano di perdere inutilmente centinaia di metri di altitudine ottenuti a fatica, per poi doverne riconquistare il doppio. Ma tant’è: è, questa, la dura sorte del ciclista orofilo (“orofilo”?! ma esiste ‘sta parola o me la sono inventata in un greco maccheronico? Magari, quando torno a casa, controllo sul Rocci).
La salita al Bracco, complice il caldo, la delusione, le orecchiette tuttora indigerite, è lenta e ansimante, ma, inshallah, alla fine la vetta è conquistata. L’esultanza è temperata dal fastidioso pensiero che, se è sembrato faticoso questo colle di 600 m., quando si dovranno scalare i 2.000 m….
Ma il debito di ossigeno, la bellezza del panorama e il noto assioma del sommo filosofo (secondo cui, se per ogni discesa ha da esserci una salita, è altresì vero che ogni salita convien che sia seguita da discesa) inducono a porre in non cale la questione e a sfoderare la telecamera per immortalare il fatidico momento e il paesaggio sottostante; in basso, tra la vegetazione di un verde cupo sfumato dalla foschia del meriggio, si nota il nastro d’asfalto dell’autostrada, diritta e pianeggiante, che conduce a chissà quale squallida meta -scire nefas- torme di inscatolati automobilisti, ignari della bellezza sovrumana insita nelle ciclistiche gesta dell’Ulisse a pedali.
Dopo aver fatto uso di tutti i campi lunghi, sovraesposizioni ed effetti seppia che la telecamera consente, mi accingo a lanciarmi giù per la discesa, ignaro del fatto che finora l’apparecchio era in pausa e quindi non ho filmato un bel niente, mentre da adesso riprenderò per 32 interminabili minuti il roteare delle mie ginocchia pelose sullo sfondo rumoroso e grigio dell’asfalto.
Se non altro, la discesa è piacevole e veloce, anche troppo: me n accorgo quando, lanciato a 60-70 km/h, devo frenare per rispondere al telefonino (è mia madre, che, immancabilmente, quando sono in gita, a Gennaio, come ad Agosto, mi chiama per raccomandarmi di non prendere freddo).
In meno di mezzora raggiungo Sestri e mi rendo conto della differenza di temperatura tra i 600 m. del vituperato Bracco e i 10 m. della riviera di Levante in questo torrido Luglio 2003.
Proseguo per Chiavari, confortato dal fatto che rispetto alla tabella di marcia, nonostante tutto, sono addirittura in discreto anticipo e quindi posso spostare di qualche Km il luogo e l’ora del pernottamento; ma il percorso ora si svolge nel mezzo di un ininterrotto traffico urbano, in mezzo al caos di gente che scende su e giù dai marciapiedi, di macchine strombazzanti, di autobus e furgoncini che ti sfiorano, il tutto in un’aria calda e immobile in cui l’odore di doposole e granite alla menta galleggia e si sperde tra effluvii di gasolio, benzene e olii incombusti. Il fastidio è talmente ampio e pervasivo che accantono anche la voglia di “vendicarmi” riprendendo quell’insensato brulichio umano con la telecamera: nessun effetto speciale potrebbe rendere l’idea di quello che si prova; se almeno ci fosse la possibilità di digitalizzare gli odori…
Fuga alla maggiore velocità possibile (20 Km/h!) verso Ovest, fuori da quella prigione: cercherò ricovero più avanti. Il guaio è che il centro urbano non finisce: a quello di Chiavari, quando il diradarsi delle abitazioni sembra accennare all’uscita dalla città, subentrerà quello di Rapallo, poi di Recco e così via fino a chissà dove.
Di alberghi/pensioni/locande/ostelli/asili/tuguri accettabili in base a (esigenti, peraltro) criteri economico-ecologico-emozionali, nemmeno a parlarne. In compenso il lungomare si rivela tutto fuorché pianeggiante: è un alternarsi di salite improvvise e abbastanza pronunciate (specie per chi ha già oltre 180 Km nelle gambe) non compensate da discese agevoli e veloci, a causa della strada stretta e trafficata. Con un giuro solenne prendo seco me l’impegno ufficiale, estensibile anche ad Alberto: crocione sulla Riviera ligure, almeno ciclisticamente.
Stanchezza e disidratazione producono, intanto, l’effetto crampi: la pedalata, specialmente in salita, cede potenza senza acquistare in agilità e si fa più incerta e cauta per evitare blocchi improvvisi; la velocità, nonostante la diminuzione del traffico per l’avvicinarsi della sera, si riduce ulteriormente (tanto che la media è scesa a 22.8, inferiore persino a quella di fine salita sul Bracco)
A Recco un momento di sollievo è offerto da una sosta presso una fontana e da due ciclisti di mezza età (non dei ragazzini come me, praticamente), che mi dànno consigli e si offrono di farmi da scorta fino a Genova dove sono diretti. Manca una ventina di Km, ma non ho altra scelta, anche perché sta cominciando a far buio. Procediamo a velocità accettabile: mi secca fare la “palla al piede”, perciò ce la metto tutta, cercando di non rallentarli e, con qualche accorgimento, me la cavo anche in salita; ma sento che sarà comunque dura e col rischio di compromettere la giornata di domani, quand’ecco che San Cicloforo compie il miracolo: trilla il telefonino, è mio fratello da Genova, il quale, saputo dove mi trovo, mi impone (ma la mia resistenza è solo formale) di aspettarlo e di andare a cena e a dormire da lui. Sono salvo. Saluto i ciclisti e mi fiondo in una gelateria. Poi con l’arrivo del salvatore e un abbraccio colmo di gratitudine mal dissimulata dietro un ridicolo “Ma non era necessario…”, via a Genova-Sestri comodamente in macchina (per una volta…)
Con una buona accoppiata doccia-cena termina la prima giornata di viaggio: 201 Km in 8 h e 47’ a 22,8 Km/h, per un dislivello complessivo (compresi anche dossi e cavalcavia!) di circa 1100 m.

2° giorno

Il risveglio è tardivo (nonostante la suoneria mi chiami alle 7.30) e a lenta carburazione: la doccia di 40’, la cena abbondante, ma leggera e il sonno solleticato da una sottile corrente d’aria non sono stati sufficienti a combattere l’ubriacatura da stanchezza e il caldo della giornata precedente; anzi l’abbronzatura a pinguino – con il petto bianco e la schiena nera – testimoniano delle ore passate ieri a pedalare a torso nudo e ad accumulare calore, che il moderato fresco della notte non riesce a smaltire. Il bilancio atletico della giornata appena passata non mi pare esaltante e il ricordo della fatica sul Bracco, unito ai timori per le ascensioni a venire, portano alla dolorosa ma necessaria scelta di rinunciare al rinunciabile, pur di alleggerire il carico e, quindi, la fatica. Sacrifico qualche etto di vestiario, le scarpe “civili” (quelle da ciclista sono di un giallo fotonico, ma risultano adatte anche ad un uso pedestre), un po’ dei viveri di riserva (la misura della scorta era stata dettata più dall’ansia che da reali necessità), il libro, i due mini-dizionari e fogli & cartine non strettamente indispensabili. Poi, preso da raptus (e da cocente delusione dopo aver visionato gli spezzoni di riprese effettuate), decido di troncare la mia promettente carriera di reporter sans frontières e lascio a terra anche la telecamera con relativi caricabatteria, batterie e cassette. Riprenderò il tutto ripassando da Genova al ritorno. Il risparmio di peso complessivo è di oltre tre kg, veramente notevole. Incoraggiato da questo parziale successo organizzativo, mi regalo una quantità equivalente di cibarie con una mega-colazione a base di latte, caffè, pane, nutella, biscotti, frutta e yogurt.
Ringraziamenti, saluti e baci. Partenza ore 9 1/2 , direzione Ponente.
Dopo 7 km svolta a destra verso il Turchino; un altro paio di km e inizia la salita, che risulta decisa, ma godibile: in mezzo al verde e prevalentemente in ombra, punteggiata da fontane di acqua freschissima, la strada si inerpica senza difficoltà verso il passo, che, ammaestrato dall’esperienza, raggiungo senza forzare in meno di un’ora. Da lì lo sguardo spazia giù dal versante settentrionale, verso la val Bormida, le Langhe, il Monferrato. Una breve, doverosa sosta davanti al busto di Girardengo, situato subito prima della discesa e poi giù a tutta birra verso Ovada.



Alle porte della città, un automobilista indigeno premuroso, ma poco esperto nell’ adattare le informazioni sul percorso alle esigenze ciclistiche, mi suggerisce di accorciare, passando da Molare. Ci casco come una pera e sotto il sole che comincia a dardeggiare mi ritrovo a sudare sette camicie arrampicandomi su un colle, il cui nome gentile, Cremolino, ricorda forse un tremolante budino alla crema, mentre di tremolante ci sono solo le mie ginocchia, che evidentemente non hanno ancora digerito la faticata precedente. Oltrepassato il fiume Bormida e Acqui, prendo per Nizza Monferrato, da cui poi devierò per Alba, probabile meta finale della giornata.
In un continuo rimando dei toponimi ai luoghi e agli ambienti descritti da Pavese, Fenoglio & C, la strada si snoda tra le colline, ora scendendo, ora più spesso –o almeno così sembra- salendo. Per non appesantirmi inutilmente decido di non riempire d’acqua entrambe le borracce, vista la quantità di fontane incontrate finora. Finora, appunto… D’altra parte non posso ancora sapere che questa si rivelerà l’estate più torrida e arida degli ultimi decenni, se non dell’ultimo secolo.
In una viuzza assolata di un paesino assolato su un poggio del Monferrato scovo un negozietto di frutta e verdura all’ombra di una chiesa: faccio il pieno di pesche, susine e albicocche, che stipo nel marsupio e nel borsetto anteriore. Poi rinfrancato dalla sosta, dall’ombra e dalla frutta, mi lancio in discesa giù dal paese. Mi ci vuole qualche km di falsopiano e qualche sommovimento peristaltico per capire che quel rifornimento di frutta non è stato una grande trovata. Se non altro, ha attenuato il senso di arsura, reintegrando un po’ di liquidi e sali minerali
Il sollievo, però, si rivela di breve durata, perché col caldo e i km la sete si rivela sempre più fastidiosa e il fatto di non incontrare fontane, salvo un paio inequivocabilmente secche però, determina una crescente inquietudine; solo ora mi ricordo di aver visto il Bormida quasi in secca e mi tornano in mente tutte quelle avvertenze, ripetute tanto spesso alla televisione o sulla stampa, di non sprecare acqua, perché l’estate sarebbe stata particolarmente calda e arida. Breve e disperata riflessione su come i beni, tanto più quelli essenziali come l’acqua o la salute, non rivelino la loro indispensabilità se non quando vengono a mancare; poi, con un vago senso di colpa per essermi messo in qualche modo sul medesimo piano di chi nel Terzo Mondo la sete la soffre sul serio, decido di cercare un bar. La ricerca ha del miracoloso, o meglio, del diabolico: lungo la strada per Alba ci sono sì abitazioni sparse e rari negozi, ma di bar neanche l’ombra… Se è per quello, non c’è ombra nemmeno di ombra: la strada è costeggiata qua e là di alberi – pioppi, credo- ma i raggi solari sono troppo verticali per garantire un po’ di fresco. Il cielo è una calotta biancastra calcinata dal calore; non provo nemmeno a fermarmi, so già che la mancata ventilazione determinata dalla mia pur modesta velocità, mi farebbe entrare in ebollizione e finirei per sperperare in sudore le ultime gocce di liquidi interni.
Tiro avanti; prima o poi la tortura dovrà pur finire, ma la preoccupazione sfuma nell’ansia e questo determina un senso di oppressione claustrofobica, che si materializza intorno alla gola, come se una mano invisibile mi stringesse intorno alla testa una busta di plastica piena di aria calda e irrespirabile. Finalmente un cartellone annuncia un bar-ristorante a poche centinaia di metri; accelero l’andatura e finalmente vedo un paio di costruzioni dalle quali si protende sulla strada un’insegna lampeggiante. Frenata con sgommata sulla ghiaia, bici addossata alla cieca ad una siepe e via su per i cinque – sei gradini fino all’ingresso del locale. Delusione atroce non di un bar si tratta, ma di un porno-shop (come avrei dovuto capire anche dalle vetrine, se fossi stato capace di guardarle) che di sera diventa una specie di pub o club privé per coppie non so se omo o etero. Il bar-ristorante, per la verità c’è, ma è irrimediabilmente chiuso.
Il gioco si fa duro? Vedremo chi vince la sfida; a costo di bussare a qualche casolare e impetrare un po’ d’acqua, come i viandanti assetati del medioevo, tanto più che l’aspetto trasandato e irsuto e l’espressione stravolta che so di aver maturato non hanno nulla da invidiare a un anacoreta medioevale.
Pochi km ancora e un gruppo di case ridà corpo alle speranze. E qui il miracolo si compie: un bar, vicino al quale giocano dei ragazzini, si presenta piccolo, ma aperto e invitante; entro e con un residuo di apprensione chiedo alla ragazza al banco di darmi un bicchiere d’acqua di rubinetto; lei non solo annuisce sorridendo, non solo mi chiede se preferisco acqua naturale o frizzante, non solo me la versa subito e gratis, ma mi chiede se ne voglio ancora e mi suggerisce di riempire una bottiglia. Ma siamo nel paradiso di Allah, dove gentili fanciulle dispensano lattemiele, all’ombra di fronde odorose? E poi, acqua frizzante che esce dai rubinetti? Gia che ci sono compro un succo e un gelato, che mi gusto lentamente, battendo ogni possibile Guinness di durata. Fuori dal bar vedo la bici attorniata da ragazzini, che appena mi vedono mi si fanno timidamente intorno e poi con crescente disinvoltura e interesse si informano sul percorso, le tappe, le moltipliche, i pignoni, le sacche, la difficoltà di guida… La lezione dura una buona mezzora, in cui dispenso briciole di saggezza ciclistica a dei possibili neofiti: mi sento una via di mezzo fra Socrate e Bartali; poi, fatta un’ulteriore ricarica d’acqua, riparto lasciando dietro un fremito di manine salutanti.
Sarà stata questa flebo di fiducia nel genere umano, o il ripristino di sali e liquidi corporei o il caldo che finalmente si decide a calare, ma gli ultimi km prima di Alba sono decisamente più sopportabili. Tra Alba e Bra ci sono meno di 20 km, con un’imprevista salita finale, che attinge alla riserva delle forze, messe a dura prova da questa giornata lunga e riarsa. Anche se decido di prendermela relativamente comoda e di non forzare, comincio a tener d’occhio il sole che si sta abbassando e programmo la sosta serale entro un’ora al massimo. La strada scende più o meno dolcemente verso Sommariva, da dove si stende la pianura del Po, intersecata da filari di alberi, argini e appezzamenti coltivati. Il paese non offre nulla, perciò decido di proseguire per la vicina Racconigi, in cui mi dicono che c’è un albergo.
Giungo che il sole è già tramontato. Nel parco pubblico che si apre accanto al castello dei Savoia cerco informazioni, ma le informazioni non sono rassicuranti: -Sì, c’è un albergo, ma è probabilmente al completo… No, non ci sono pensioni… Bed &Breakfast? Cosa sono?- Poi in un guizzo di lucidità mi suggeriscono come extrema ratio di provare una “specie di posto” proprio a due passi da lì.
La specie di posto si rivela, al di là di un muro e di un cancello, la splendida corte di un complesso di abitazioni, antico di qualche secolo, ma perfettamente restaurato, con una parte dello spazio riservato a un curatissimo giardino, dove fanno bella mostra di sé vari alberi da frutto. Mi faccio avanti e speranzoso suono il campanello. Perfettamente intonate con la semplice eleganza del posto mi accolgono madre e figlia, incredibilmente serene, solari e sorridenti; per contrasto l’interno della casa è un po’ triste: è arredato in stile primo ‘900, con tanto di stampe, libri e foto d’epoca; le lampade Liberty di vetro molato con arabeschi floreali emanano una luce piuttosto fioca. C’è un profumo antico di lavanda e di assenza. Poi da una foto con dedica intuisco quello che madre e figlia mi confermeranno a voce l’indomani mattina: vivono sole dopo che il marito, l’ingegnere, credo che ha curato il restauro, è morto di un male incurabile e arrotondano le entrate affittando alcune stanze ai pochi turisti o ai lavoranti stagionali di qualche opera pubblica dei dintorni o ad immigrati che, in mancanza di altre abitazioni disponibili, il Comune alloggia a proprie spese presso di loro. Mi pare di capire che proprio per questa loro disponibilità, coerente con una precisa posizione ideologica della famiglia, non debbano essere ben viste almeno da una parte dei concittadini (e questo spiega anche la definizione “specie di posto”) a maggioranza leghista.
La mia stanza non è grande, ma pulitissima. Faccio una lunghissima doccia per cercare di lavar via, oltre allo sporco accumulato, anche la stanchezza e l’arsura della giornata. Mi getterei subito sul letto a riposare, se lo stomaco e il cervello non mi raccomandassero di trovare presto qualcosa di sostanzioso da mangiare. Perciò, indossato l’abito della festa (i consueti short grigi e una polo rossa) esco nella notte racconigiana. Sono quasi le 10, ma l’aria è ancora calda, specialmente vicino a muri e selciato che sono stati più esposti al calore.
Rapida ricognizione del paese: uno dopo l’altro noto vari locali, alcuni con i tavolini all’aperto e parecchi clienti a chiacchierare: una pasticceria, una gelateria, l’albergo, una pizzeria, un piccolo bar, una pizzeria da asporto, un’osteria. Punto subito su quest’ultima, ma il gestore dice che è troppo tardi e il personale sta andando via, ma se voglio un bicchiere di vino non ci sono problemi… Vabbene che sono le 10 passate, ma siamo d’estate; comunque poco male, proviamo al ristorante dell’albergo. Niente da fare: l’albergo è aperto, ma il ristorante oggi osserva il turno di riposo. Comincio a innervosirmi, ma posso sempre ripiegare su qualche abbondante fetta di torta di mele o di strudel. Prima ancora di girare l’angolo della pasticceria, il rumore eloquente di una saracinesca mi avverte che non è il caso di puntare su torte o paste. Dietrofront e, di corsa, alla gelateria: in fondo il gelato, oltre che buono e fresco, è un alimento completo ed equilibrato. Ma a Racconigi ci dev’essere una particolare legge comunale che vieta di prenderlo dopo una certa ora. Il presagio che dopo la gelateria anche la pizzeria risulti chiusa è più che un presagio. Oggi dev’essere la giornata dell’astinenza: dopo l’acqua anche il cibo; ma poi la speranza rifiorisce; dalla parte opposta della piazza provengono suoni e luci: il bar non ha chiuso alle 10.30. Non hanno paste, ma gelati sì; solo che si tratta di mini-pinguini o ghiaccioli; ce ne vorrebbero una dozzina per togliermi la fame. Prima di uscire chiedo se ci sono pizzerie nei dintorni; mi rispondono che, diamine, certo che ci sono; ce n’è una da asporto a 100 m e una grande e bella a “soli” 5 km. Ormai ne ho le prove, la congiura esiste e non mi stupirei di vedere in qualche angolino in penombra il ghigno malefico del suo autore. Non ho voglia di tornare all’albergo per prendere la bici e fare 5 km e tanto meno andarci a piedi, magari rischiando di sentirmi rispondere che non fanno più pizze per stasera perché hanno finito la farina o si è spento il forno… Con le speranze a brandelli mi dirigo alla pizzeria da asporto, che – incredibile- è aperta e accetta la mia ordinazione: una vegetariana e una lattina di estathè (non mi piace, ma è l’unica bibita fresca che hanno). Quando dopo 20 minuti mi portano la pizza, mi sono già scolato la lattina. La pizza comunque è gigantesca e dall’odore promette di essere buona. Unico problema, dove mangiarla? Vado nel parco, ma le poche panchine sono tutte occupate dai bravi cittadini nottambuli, sfrattati da bar e gelaterie. Non mi resta che sedermi sul bordo di un’aiuola alle spalle di un roseto, che permette anche una certa privacy, anche perché su una panchina vicina ci sono degli extracomunitari che fanno baldoria e dalla parte opposta, vicino a dei gabinetti pubblici ci sono dei giovani intenti in traffici poco raccomandabili. Guardandomi con occhi di estraneo, la situazione mi sembra assurda e magari anche un po’ squallida. Prima di chiedermi cosa ci sto a fare lì, a quell’ora, solo, desolato e affamato, decido di soddisfare almeno lo stomaco; apro il cartone porta-pizza e mi apparecchio sull’erba, coricato su un fianco a mo’ di triclinio e con il coltellino svizzero comincio a tagliare. Per una legge della fisica a me sconosciuta la pizza non si taglia, ma il cartone sì, facendo colare dappertutto il sugo e richiamando dal roseto una colonna di formiche d’assalto (ma non dormono di notte le formiche?) che attacca su tutti i fronti. La ritirata è una fuga disordinata, una rotta, una disfatta che lascia sul terreno una quantità di vittime: cetriolini, capperi, brandelli di melanzane, strisce di peperoni, forse un carciofino e un’intera squadra di funghetti. Con la pizza piegata in due a guisa di gigantesco calzone, ma ormai fredda e disperatamente sguarnita di tutto salvo che di paprika, riattraverso il parco e, un pezzo alla volta, masticando sommariamente, riesco a ingurgitarla tutta.
A mezzanotte e mezzo sono a letto, ma il bruciore della schiena per il sole e dello stomaco per la pizza mi fanno rimanere sveglio a pancia in giù ad aspettare che passi “a nuttata”.
I posteri, se non sopravviverò, sappiano che sono caduto adempiendo il mio dovere, dopo 165 km per 7 h e 10’ di pedalate e 1060 m di dislivelli.

3° giorno

Sveglia da zombie, ma il modo migliore di riscuotersi è una sana terapia d’urto a base di caffè e latte. Scendo nella grande cucina dove trovo le mie due anfitrione davanti a una misera tazzina di caffellatte e a una fetta biscottata a testa. Devono aver visto la mia espressione delusa e preoccupata, perché sorridendo si affrettano a indicarmi la veranda; qui su centrini ricamati fa bella mostra di sé una montagna di cibarie, bricchi di caffé, caraffe di latte, pane di ogni formato e natura, gelatine, composte e marmellate rigorosamente fatte in casa, coppette varie di muesli e di yoghurt, una torta di mele e uno strudel. Mangio a più non posso e di tutto, facendo il vuoto davanti a me, ma per un sussulto di ritegno, corroborato da sussulti esofagei, decido di non intaccare la torta di mele, ma loro approfittano dello spazio liberatosi sul tavolo, per portarmi anche una crostata di amarene. Mi alzo barcollante, prima che imbandiscano nuovamente la tavola e al termine di un’ora di chiacchierata tuttologica riesco a guadagnare la mia camera. Il sole, che prima prometteva una giornata calda e serena, si è velato e nubi consistenti avanzano da Sud. Ne approfitto per chiedere informazioni sulle previsioni del tempo e le risposte non sono confortanti: dopo tanti mesi di siccità, di disagi per il caldo e di danni per le colture, sta per piovere, finalmente! Mi aggrego al “finalmente” anche se con scarsa convinzione e mi auguro che le cateratte del cielo si aprano quando io sarò già passato. Preparo in fretta i bagagli e li carico rapidamente, avendo l’accortezza di porre la mantella al di sopra di tutto. La flemma di prima si è tramutata in febbrile sollecitudine; ad accrescerla è un segno del cielo, o meglio del soffitto: un improvviso, consistente sgocciolio di acqua proveniente dal piano superiore è indice a un primo livello interpretativo letterale di probabile rottura di un tubo, ma una più attenta ermeneutica ne rivela l’arcano e allegorico significato di diluvio incombente. Mi limito a dare qualche suggerimento di grande spessore umano e culturale (“Sarà meglio chiamare l’idraulico?”) e dopo un rapido saluto schizzo via in direzione di Pinerolo. Mi dispiace un po’ essermene andato via così in fretta da persone e da torte così squisite e comprendo come dev’essersi sentito Odisseo, lasciando Ogigia e affidandosi al mare procelloso per adempiere la volontà degli Dei.
Girano rapidi i pedali e la bici divora la pianura; dopo Pancalieri la strada sale impercettibilmente fino a Pinerolo che raggiungo in un’ora e mezzo, pedalando agevolmente a 25 km/h. Le nubi sono sempre più plumbee, ma sono riuscito a distanziarle, garantendomi un buon margine di sicurezza. Da Pinerolo a Perosa la salita è più sensibile, anche perché i bagagli e il vento contrario la rendono maggiormente avvertibile, ma non ci sono problemi, anche perché la brezza gioca sì a sfavore mio, ma anche dell’avanzata delle nubi. Ho tutto il tempo per una rapida sosta, fare uno spuntino, comprare un paio di panini, rifornirmi d’acqua. Dalla commessa di un negozio, appassionata di MTB e di scalate, ricevo anche utili informazioni sul percorso da compiere per arrivare in Francia e calcolo che dovrei facilmente conquistare nel pomeriggio il Sestriere e magari anche Cesana, per fermarmi e pernottare, raggiungendo così la Francia con mezza giornata di anticipo sul previsto: le galoppate di questi giorni mi hanno permesso un guadagno di una sessantina di km rispetto alla tabella di marcia, che prevedeva la seconda notte ad Alba, la terza dopo il valico del Sestriere, la quarta dopo il Monginevro, la quinta dopo l’Izoard e la sesta dopo il Col dell’Agnello.

Quando torno in strada, il buonumore mi ringalluzzisce, ma “tosto torna in pianto”, perché il nero del cielo è ormai molto più vicino e sembra deciso a non mollare la sua vittima sacrificale, ora che è a portata di mano. La sosta è stata evidentemente troppo lunga, ma il rischio fa parte del gioco e poi un po’ di pioggia, d’estate poi… Sì, ma se alla pioggia si aggiunge vento, grandine e magari nevischio, vista la quota del Sestriere… Poche chiacchiere e pedalare!
La salita ora si fa aspra con strappi duri e imprevisti, ovviamente la velocità cala e il cielo assume quel colore livido che trasforma il rischio di pioggia in certezza assoluta. A Fenestrelle, superata quota 1000, i primi tuoni e bagliori fessurano la quiete immobile e cupa del cielo; vado in cerca di un ufficio informazioni: se il diluvio dovesse cogliermi e durare a lungo, è bene aver già programmato da qualche parte la sosta notturna. Ma come è prevedibile, data anche l’ora, l’ufficio informazioni è chiuso. Mancano poco più di 20 km al valico; se riesco a tenere una media di 12-13 km/h ci sarò in meno di due ore.
Pragelato e Saucheres, quota 1500, salita dura, ma non impossibile; l’aria odora di ozono e si è raffrescata ulteriormente (se penso che ieri a quest’ora c’erano almeno 25° di più…) i lampi e i tuoni non sono più solo alle mie spalle, ma mi circondano da ogni parte e qualche microgoccia, comincia già a segnare la plastica trasparente del reggi-cartina. Mancano 10 km… 5 km… solo 3, forse ce la faccio… qualche gocciolone smarrito… ecco che dopo un tornante il valico si intravede in lontananza … poi non si intravede più nulla: la pioggia cade a secchi e non solo dall’alto, ridendosene della forza di gravità; con felina agilità e rapidità sono sceso dalla bici, ho infilato la mantella già pronta e le buste da congelatore sopra le scarpe, mentre due cuffie da bagno rosa coprono la borsa anteriore e il marsupio, ma il vento spruzza acqua in tutte le direzioni, solleva la mantella facendomi assomigliare a una suora svolazzante e fa pericolosamente ondeggiare la bici. Pedalo a testa bassa le ultime centinaia di metri e raggiunto il valico cerco rifugio sotto il porticato di un complesso turistico, dove già si accalcano decine di turisti sorpresi anche loro dall’acquazzone. Sono un turista anch’io, perciò non capisco cosa abbiano da guardare; sono in pantaloncini corti, d’accordo, ma la mise è impeccabile: gialla la mantella, gialla la canottiera, gialle le scarpe, neri i bagagli, i pantaloncini e i calzini (vabbene, originariamente erano bianchi, ma con la pioggia, il fango e la morchia…).
Come era venuto, l’acquazzone se ne va; il sole fa capolino tra le nubi e la gente sciama via dal porticato. Lascio la bici a sgrondare e vado in cerca di informazioni. Un’idea balzana mi attraversa la mente: ora è troppo pericoloso scendere verso Cesana su una strada ripida e bagnata, ma se il vento e l’ultimo sole l’asciugano in fretta, potrei tentare… Approfitto della sosta per mangiare, deumidificarmi e indossare una maglietta (imprescindibilmente gialla, s’intende, per motivi di visibilità). Il tempo sta virando decisamente al bello e asseconda le mie ambizioni: ho ancora qualche ora di luce e il fresco ha ritemprato le mie energie, anche perché oggi ho pedalato solo per 5 ore e un centinaio di km. L’impresa di scendere a Cesana (e poi, chissà…) si può tentare.
Torno sul valico, la strada è asciutta, salvo qualche pozzetta qua e là. E allora, via!
Nonostante tutto c’è qualche tratto ancora bagnato che mi costringe ad un’andatura prudente, ma il percorso è più breve e rapido del previsto: in meno di 20 minuti sono a Cesana.
Il posto non mi incanta, è la classica località turistica – come il Sestriere, del resto – invaso da torme di italiani “caciaroni” e dai gas di scarico di motorini, moto, pullman, auto e fuoristrada. Anche l’indagine sul luogo dove dormire non dà risultati soddisfacenti. Faccio rapidi calcoli, tenendo conto soprattutto delle mie energie (che sembrano moltiplicate dall’aria fresca dell’alta quota), del tempo residuo (siamo a pomeriggio inoltrato), della distanza (a Briançon mancano una venticinquina di km in tutto, ma solo una decina sono in salita); mi annodo una-due-tre volte nei calcoli (l’alta quota e la fatica producono ipossia), poi li mando al diavolo e decido di tentare.

I primi 6 km sono abbastanza duri, intorno al 7% e mi fanno venire qualche dubbio sulla bontà della mia decisione. Mi dico che se fossi stato con Alberto (e non oggi soltanto), il suo buon senso l’avrebbe avuta vinta e a quest’ora saremmo sotto la doccia o a cercare un ristorante per la cena; ma, appunto, Alberto non c’è e ormai non posso tirarmi indietro. Raggiungo il confine, ma la strada continua ancora a salire sia pure con pendenza ridotta. Ancora 3 km e finalmente raggiungo il valico del Monginevro. Alla luce del tramonto imminente mi si apre davanti un paesaggio tutto diverso: l’orizzonte non è più chiuso da pareti di roccia o da cupi boschi di conifere, ma alterna in una luce sfumata di rosa pastello prati e boschetti ridenti, qualche malga o casa isolata con fiori e tendine alle finestre, con le lontane montagne azzurrine sullo sfondo. Anche il discreto dislivello tra Monginevro e Briançon viene stemperato nei 16 km di percorso e la discesa risulta veloce, ma dolce e senza brusche frenate.
All’arrivo a Briançon mi si para davanti l’imponente fortezza Vauban con la lunga strada in discesa che porta al centro città. È calata la sera; perciò mi fermo presso un bar sulla destra e chiedo se sanno indicarmi un B&B. Il barman molto gentile ci pensa un po’ su, poi fa un paio di telefonate e alla fine mi dà l’ indirizzo di un hotel dove mi stanno già aspettando. Dieci minuti dopo sono arrivato. L’albergo non è granché, almeno da fuori, ma per quel che mi serve è anche troppo. Mi accoglie una donnetta senza età, ma con un ghigno da megera: in un italiano che fa il pari col mio francese mi chiede un documento e il pagamento anticipato, poi mi dà le chiavi e sparisce. L’interno è peggiore di quanto l’esterno lasciasse immaginare La stanza è al primo piano in fondo a un corridoio angusto e buio, dal pavimento di legno; trovo la porta solo per la luce di un lampione che filtra da sotto l’uscio; lunga e stretta com’è, più che una camera da letto ricorda un loculo; il mobilio è spartano (letto + armadio + comodino) di colore indecifrabile, ma comunque scuro e cigolante, come pure porta e finestra. Il bagno è al piano superiore; dalle porte alla vasca tutto sembra risalire agli anni ’50, compresa la pulizia, che non dev’essere stata più fatta da allora a giudicare dallo strato di polvere. Quasi quasi mi meraviglio che l’acqua esca per davvero e sia pure calda. La doccia, comunque raggiunge il suo effetto e in breve sono pulito e fresco come una rosa, pronto alla ricerca di un posto dove cenare. La megera è introvabile, perciò esco e mi rivolgo a due ragazzi che stanno uscendo anche loro. Il mio francese non è sorboniano, d’accordo, ma quelli non capiscono nulla, in compenso parlano un inglese velocissimo; non ci metto molto a rendermi conto che sono americani. Mi spiegano che si trovano da queste parti con le bici sul tetto dell’auto, per seguire le tappe del Tour e che perciò domani si sposteranno più a nord per fare il Galibier. Chiedo, già che ci sono, informazioni sull’Izoard, che hanno scalato ieri e loro mi rispondono con un sorriso serafico, ma molto poco rassicurante che lo hanno trovato “very nice”. Per quanto poi riguarda il ristorante, dicono che sono proprio fortunato: a poco più di 500 m. c’è nientemeno che un Mc Donald. Wow! Dissimulando il disgusto, saluto e mi avvio verso quel luogo di delizie alimentari, dato che non c’è altra scelta. E poi magari potrebbero avere anche qualche piatto locale, che so?, una soupe d’oignons. Vana speranza: da Tunguska a Trebisacce, da Briançon all’isola di Pasqua, i Mac-menu sono sempre gli stessi e i sapori pure, perciò, scartati i piatti a base di carne, non mi resta che un’insalata di plastica e un gelato da 1000 unità di colesterolo. Dopo tanta gratificazione alimentare non mi resta che consolarmi con quella ciclistica: poco più di 130 km in quasi 7 ore, per superare un dislivello complessivo di 2250 m. Ho raggiunto la metà del viaggio in tre giorni esatti, anziché in quattro; di questo passo dovrei farcela a tornare nello stesso tempo, ma domani mi attende il fatidico Izoard e, successivamente, il colle dell’Agnello. Vado a dormire con la certezza che domani, in un modo o nell’altro, sarà un gran giorno, il clou di tutto il viaggio; ma prima cerco conforto in telefonate e messaggi a parenti ed amici e solo quando questi mi danno del matto, ho la certezza di essere sulla strada giusta!

4° giorno

L’aria fresca della notte e la cena non proprio pantagruelica hanno prodotto un benefico effetto non solo sul sonno, ma anche sul morale: la scelta di tentare la grande impresa – due colli al prezzo di uno – che ieri sembrava solo un’ipotesi folle, oggi pare almeno possibile: anziché sostare dopo l’Izoard, si potrebbe provare, se le forze mi sorreggono, a scalare anche il colle dell’Agnello nello stesso giorno, rientrando così a pernottare in Italia. Prima, però, è indispensabile una lauta colazione.

Appena pronto, scendo nella sala della colazione: ci sono solo due silenziosi francesi davanti a una tazzina e a un piattino con delle fette biscottate. Non mi sgomento, memore del fatto che anche a Racconigi l’impressione iniziale era stata deludente, e attendo fiducioso la megera; che poco dopo arriva e mi porta una tazza di simil-caffè, un cestino con delle fette di pane e un piattino con burro e della marmellata. Non le do tempo di posare tutto, ma trangugio velocemente il simil-caffè e le faccio capire di portarmi una tazza, grande stavolta, di caffellatte. Nell’attesa divoro sistematicamente una dopo l’altra le fette di pane e marmellata e ne nascondo tre o quattro nel marsupio; quando la megera ritorna, si blocca esterrefatta a vedermi a bocca piena e col piatto vuoto; con un sorriso serafico prendo la tazza e le porgo il piatto. La gag si ripete un altro paio di volte, con la megera sempre più visibilmente seccata e quando la coppia dei francesi, visto il mio esempio, prende coraggio e le chiede di portare loro non so cosa, lei risponde in maniera sgarbata. Non rimango lì a vedere come evolve il suo travaso biliare, ma la saluto amabilmente, salgo in camera a prendere i bagagli e mi affretto a caricarli sulla bici, prima di ritrovarmi con una gomma squarciata.
Partenza. Per la vetta dell’Izoard ci vogliono una ventina di km con un dislivello di poco più di 1000 m., quindi niente di impossibile; ma con sgomento la strada scende per qualche km fino alla periferia di Briançon, al fondovalle, dove finalmente si imbocca la strada per l’Izoard. La quota è scesa sotto i 1200m, perciò la risalita sarà più dura, ma è assurdo scegliere tappe di montagna e contemporaneamente desiderare di evitare le salite; e poi la giornata è fresca e luminosa e il paesaggio gradevole e immerso nella natura, ora che la città è nascosta da qualche costone roccioso. La strada comincia a inerpicarsi, ma la cadenza delle pedalate è costante ed energica; avvisto da lontano un collega con una bici da corsa e accelero fino a raggiungerlo: ha più o meno la mia età, forse tre-quattro anni di più, ma procede in maniera fiacca, a velocità modesta. Lui si giustifica, spiegando che la salita è traditrice e che lui deve economizzare le forze, se vuole riuscire ad arrivare in cima; annuisco, comprensivo, ma dentro me lo compatisco un po’.Dopo qualche minuto lo saluto e procedo baldanzoso e fischiettante, lasciandomelo alle spalle. Ormai Briançon non si vede più, la strada si fa a tratti più tortuosa e ripida, ma il fondo è buono e si viaggia tra schiere di pini maestosi, con un’aria aromatica e pungente che aiuta la respirazione; questa, peraltro, si è fatta un po’ ansimante e di fischiettare non se ne parla. Non c’è nessuno per strada; da parecchi minuti non ho incrociato né un’ auto né un ciclista. È dura, ma basta stringere i denti e andare. All’improvviso, mentre il paesaggio si è fatto più arido e aspro e ricorda un canyon, la strada prende a scendere, cedendo buona parte della quota guadagnata. La discesa si arresta prima di Cervières, poi ricomincia a salire: mancano circa 10 km alla vetta, avvisto un gruppo di ciclisti davanti a me e provo a raggiungerli, confidando che alcune sono donne; ma il consumo di energia è ampio, quanto infruttuoso: recupero soltanto due ciclisti che tornano indietro e uno che si era fermato a bere ad una fontana e che mi precede di pochi metri. Provo ad affiancarlo e poi a stare al suo passo, ma il mio maggior peso e stanchezza mi costringono a mollare e ad assumere una condotta un po’ più saggia e matura. Gli ultimi km sono, ovviamente i più duri, anche perché il caldo comincia a farsi sentire, nonostante siamo ormai intorno ai 2000. A un certo punto mi raggiunge anche il francese “economizzatore” dell’inizio mattinata. Avvisto un bar; prima di essere del tutto lesso, anche perché ho ormai terminato l’acqua della borraccia, decido di mettere da parte l’orgoglio e di fermarmi; prendo un cappuccino, a causa del quale vengo scippato di ben 3 €; quindi mi rimetto in marcia per scoprire che solo poche centinaia di metri dopo c’è la vetta. La raggiungo: è un poggio nudo, ghiaioso con qualche costruzione e la famosa lapide dedicata a due mitici ciclisti che vi hanno riportato vittorie di tappa: Coppi e Bobet. Ti viene in mente “l’omino con le ruote contro l’Izoard” di Paoli o il Bartali dal “naso triste come una salita” di Paolo Conte e le bici di ferraccio da quasi 15 kg di allora con la loro rozza meccanica -altro che le ultraleggere in lega e carbonio di oggi- e il sudore impastato alla polvere o al nevischio su quelle terribili salite sterrate e allora capisci cosa è il mito e, quasi come un miscredente in chiesa, ti assale il pudore di percorrere le stesse strade…
Mi riposo per qualche minuto, mangiucchiando qualcosa, ma poi il forte vento, il freddo e, forse, l’ansia di completare il progetto di scalare anche il secondo colle, mi spingono a ripartire. La discesa, ripida e veloce, si snoda per una quindicina di km tra paesaggi talvolta bucolici con prati o boschi di conifere, talvolta aspri come la Casse Déserte con le sue guglie che ricordano il Bryce Canyon (qui verifico quasi di persona la pericolosità delle curve, protagoniste di alcune cadute e uscite di strada nell’ultimo Tour), prima di giungere a fondovalle, al bivio per Chateau Queyras.
La discesa ripida, i frequenti tornanti e la tensione che ne è derivata, unitamente al netto rialzo di temperatura (ci si trova a oltre 1000 m. più in basso della vetta e in questa gola non c’è vento), richiedono una pausa di riposo prima di affrontare lo spauracchio dell’ Agnello. Perciò, dopo una manciata di km in falsopiano, mi concedo una sosta a Ville Vieille, su una panchina in ombra sotto un pino in un miniparco di 12 m2. Ma il riposo è breve e poco efficace (provare, per credere, ad appisolarsi su un asse duro e nemmeno perfettamente orizzontale, durante un’esercitazione di formiche-scout…); per cui di nuovo in marcia.
Dopo il bivio che segnala il colle dell’Agnello e l’Italia, la strada comincia a salire subito, senza tanti preamboli e ancora una volta il paesaggio muta: le folte conifere del fondo valle cedono il posto a alberi sparsi e a prati. A Molines en Queyras si superano i 1700 m., a Font Gillarde i 2000. Non sto nemmeno a guardare l’orologio, ma dal sole e dallo stomaco, sento che l’ora di pranzo è arrivata e se n’è anche andata; inoltre la fatica accumulata finora conferisce legnosità alle articolazioni delle gambe e comincia a indolenzire tricipiti e quadricipiti. Mi metto alla ricerca di ristoranti-osterie-bar, ma non trovo nulla, di aperto, almeno. Approfitto quindi di un’altra sosta per mangiare il pane e marmellata portato da Briançon, e una barretta energetica; quindi, ad una fontana che fa onore al nome del paese, mi do una sommaria risciacquata e faccio una solenne scorpacciata di acqua fresca, riempiendo pure la borraccia, sotto gli occhi ammirati di un paio di ragazzini, a cui deve sembrare strano che una specie di orso marsicano sbuffante e a torso nudo, ma con un fazzolettone tipo Legione Straniera sulla testa, si aggiri sotto il sole per una stradina pochissimo frequentata, oltre quota duemila.
Mancano 11 km e, quel che è peggio, ancora 750 m. di dislivello prima della vetta; sono tanti, ma è sbagliato guardare continuamente orologio e contachilometri; mi rassicuro dicendomi che a 11 km/h fra un’ora circa mi troverò in cima e potrò pensare alla fatica e alla sofferenza di questi momenti come a una cosa passata. L’importante è non crollare e per farlo devo stare attento a non ripetere l’errore compiuto nella scalata all’Izoard (e in tante altre occasioni del genere) di gettarmi a capofitto nella salita bruciando subito le energie residue. Decido quindi di economizzare le forze, salendo piano, ma costante; non riuscendo a fischiettare, ripeto mentalmente, come un mantra, un motivetto orecchiabile; inoltre, consapevole del rischio di disidratazione, ogni tanto bevo un sorso dalla borraccia. È sicuramente la strategia giusta, ma la stanchezza comincia ad appesantire ogni movimento e in un paesaggio fattosi ormai completamente brullo e assolato, mi pare di avere addirittura delle allucinazioni auditive: “Ch-ss … M-ss…”, un rantolo strozzato, un raschio, o un sibilo sembra ogni tanto superare il rumore dei pedali, lo sfregare delle ruote sull’asfalto, il fruscio dei pantaloncini, il cigolio dei bagagli. A volte ho l’impressione che si tratti del mio stesso ansimare o di un fischio dei miei orecchi, che appare e scompare a seconda dello sforzo. Provo a rallentare, ma il suono misterioso sembra addirittura aumentare, anzi ricorda il grido rauco di qualche rapace. Vuoi vedere che magari un’ aquila… Con lo sguardo scruto il cielo, cercandola in alto, a destra, a sinistra, davanti, dietr… E allora lo vedo: a un centinaio di metri alle mie spalle un ragazzino arranca in mtb, gridandomi qualcosa con voce ormai spenta. Mi fermo e quando mi raggiunge esausto, mi indica e mi porge la causa di quel suo inseguimento disperato: a Font Gillarde avevo dimenticato sul bordo della fontana i miei guanti neri e lui mi aveva rincorso per tutto quel tempo gridando (qualcosa come “M’sieur”) per restituirmeli.
Mi spertico in ringraziamenti e sorrisi, che lui riceve orgoglioso e compiaciuto, neanche io fossi Lance Armstrong, poi riprendo il mio calvario, cercando una fontana, dato che la borraccia è ormai vuota, ma né una fonte, né in bar, né una casa si prospettano. Finora avevo incontrato parecchie fontanelle, ma da Font Gillarde in poi sembrano scomparse del tutto. La sete è ora imperiosa e l’occhio cerca con ansia qualunque cosa possa portare sollievo alla gola riarsa. Ad un tornante, ecco un ruscelletto, esiguo, ma gorgogliante di acqua fresca e limpida; fermarsi, mollare la bici su un paracarro e precipitarsi verso l’acqua è tutt’uno. In un’area in cui non ci sono case, né fabbriche che possano inquinare, non dovrebbero esserci problemi. Ed invece, proprio mentre sono a un passo dall’acqua, lo sguardo si posa, qualche metro più in alto su una mucca, la quale sta dando il proprio contributo contro la siccità. Non so se essere più contento per lo scampato pericolo o affranto per la delusione. I nostri saggi antenati in terra d’Ellade avrebbero detto che terribile e giusta era la punizione per chi nella sua ybris aveva voluto sfidare gli dei (e si sa che gli dei abitavano su montagne ancora più alte del colle dell’Agnello).
Rimonto in sella e, nel cercare qualcosa nel borsetto, mi imbatto in qualche chicco d’uva randagio e in un paio di albicocche, un po’ rinsecchite, ma provvidenziali: con quel poco di liquidi, zuccheri e sali, affronto le ultime rampe e finalmente conquisto la vetta.

Ce l’ho fatta!!! Ma l’Agnello è una delusione, dopo tanta fatica: la cima è brulla, sassosa con una vista mediocre, anche perché traboccante di auto e moto (verosimilmente provenienti dall’Italia), con relativo corredo di gas di scarico e schiamazzi. Ma soprattutto non c’è acqua. Mi informo: la prima fontana è a Chianale, fra 10 km. Non mi resta che aspettare di essere arrivato fin là; se non altro è tutta discesa, che mi farò tutta d’un fiato. In realtà il fiato dev’essere un po’ corto, se, dopo tre tornanti alla massima velocità consentita dalle leggi della fisica, sono costretto a fermarmi sul ciglio della strada, messo in avviso da un paio di sgradevoli “scodamenti” in curva: la sensazione viene confermata dalle condizioni della ruota posteriore: è sensibilmente sgonfia, ma quel che è peggio noto solo ora sul copertoncino un’ abrasione profonda fino alla trama interna; e dire che prima della partenza avevo comprato due gomme, una economica montata davanti e una Michelin, molto più costosa, montata dietro in considerazione del maggior attrito e sforzo. Allora come la mettiamo con il “chi più spende, meno spende”? Recriminazioni a parte, occorre cambiare la camera d’aria. Mi fermo dapprima in curva, poi la pericolosità del posto e il calore insopportabile del sole, implacabile nell’aria tersa dei 2700 m., mi consigliano di rifugiarmi poco più avanti sotto un albero fronzuto; qui sciorino sulla mantella stesa a mo’ di tovaglia la mia mini-officina meccanica e inizio a lavorare alla ruota. Come ad un segnale convenuto d’attacco, uno sciame di zanzare guerriere si slancia in un raid incontenibile; accerchiato da ogni parte provo a lavorare alla ruota con una parte del corpo e a dimenarmi con l’altra, nell’intento di non farmele posare addosso, ma è tutto vano: ne esce fuori una danza pirrica, scomposta e comica a vedersi, ma penosa e inutile, anzi controproducente; ne esco sconfitto e punzecchiato, mentre parte degli attrezzi si sparpagliano nei dintorni. Faccio qualche altro tentativo cercando di ignorare quei piranha volanti e di concentrarmi sulla riparazione della gomma, ma è materialmente impossibile. Indispettito e sbalordito (ma se è vero – come si dice – che in città le zanzare non si trovano già più all’altezza del quarto piano, com’ è che in montagna ti affliggono anche a queste quote?) alla meglio raccolgo gli attrezzi e rigonfio la gomma, per ripartire e fermarmi qualche centinaio di metri dopo. Qui nonostante il prurito e il caldo, vengo a capo della foratura e posso ripartire dopo una ventina di minuti, ad una velocità un po’ più di prudente, però, per evitare che la gomma danneggiata possa scoppiare in una curva affrontata ad alta velocità in discesa.
Ad alcuni km dalla vetta si entra ufficialmente in Italia, anche se la frontiera non è particolarmente segnalata, e dopo una decina, senza un’ombra di fontana, arrivo finalmente a Chianale, 900 m più in basso; qui , finalmente, posso soddisfare la mia sete, ubriacandomi d’acqua, versandomela sulla testa, sulle braccia e le gambe, sulla schiena, sotto gli occhi divertiti di qualche paesano. Rinvigorito nell’animo non meno che nel fisico, riprendo la strada verso il fondovalle e raggiungo Casteldelfino e Sampeyre (altri 900 m più in basso) con una discesa che lascia facilmente immaginare quanta fatica debba costare lo stesso percorso in salita. Non per niente la salita al Colle dell’Agnello (soprattutto dal versante italiano) è considerata una delle più dure. Ora si impone la scelta del luogo dove pernottare, dato che è ormai il pomeriggio inoltrato; considerata la situazione (l’ora, il percorso già fatto e la fatica sostenuta), la saggezza suggerirebbe di fermarsi a Sampeyre; perciò, coerente coi criteri adottati finora, decido di continuare in direzione di Cuneo. Naturalmente per strada non trovo nulla di soddisfacente Sulla via per Costigliole vengo sorpassato da un ciclista che mi sfila accanto a 35 km/h senza degnarmi di uno sguardo. Più che la sua irriverente baldanza giovanile o l’orgoglio ferito, mi spinge all’inseguimento il bisogno di informarmi sulla possibilità di trovare un tetto, tanto più che il pomeriggio scivola ormai verso la sera. Con uno scatto giustamente compiaciuto lo raggiungo, lo affianco e senza calare di velocità (ancora una volta il fresco e la consapevolezza che le difficoltà maggiori sono alle spalle mi trasmettono nuova energia e allegria), cominciamo a chiacchierare. Si dimostra un buon diavolo e dieci minuti dopo devia dal suo percorso per accompagnarmi fino a un bivio da cui, dirigendomi verso Cuneo, potrò trovare un hotel su misura per cicloturisti. Lo saluto e in breve tempo, presso Ceretto di Costigliole, raggiungo il luogo indicato. Effettivamente l’ albergo, di costruzione recente (anzi non ancora ultimata in certe sue parti), è di discreto livello, ad un prezzo abbordabile, fornito di box chiusi per biciclette e affiancato da un ristorante. Dopo una doccia ristoratrice di 3/4 d’ora, in cui probabilmente per qualche minuto mi addormento anche, scendo al ristorante e dopo cena tento una passeggiata; ma intorno c’è poco da vedere e soprattutto è poca la voglia di resistere alla stanchezza; per cui, dopo qualche telefonata di rassicurazione a casa, mi infilo a letto a godermi la consapevolezza che ormai il più è fatto: oggi in 6h.20’ ho percorso “solo” 120 km, ma ho superato oltre 2850 m. di dislivello

5° giorno
L’alba del quinto giorno (un’alba poco mattiniera, per la verità, visto che quando riapro gli occhi il sole è già su da un pezzo) mi trova in buona disposizione d’animo e di corpo. La colazione è adeguata alle mie aspettative e alle richieste caloriche standard della mia categoria; del resto il gestore mi spiega che quell’ albergo in un progetto di valorizzazione turistica (forse completeranno una pista ciclabile nei dintorni) nel giro di pochi mesi sarà completato in tutte le sue componenti e sarà principalmente dedicato a cicloturisti. Cerco nei paraggi un ciclista per fargli esaminare ed eventualmente cambiare il copertoncino danneggiato, ma non ne trovo nessuno, nonostante le volenterose indicazioni degli indigeni; per cui mi rimetto in marcia, fiducioso nella buona sorte e nella Michelin: se ha tenuto finora, non sarà così irrispettosa da farmi brutti scherzi negli ultimi 400 km, no?
La strada, diritta come un fuso, in direzione Cuneo, sembra scendere impercettibilmente o forse sono l’aria ancora fresca del mattino ed il buonumore a farmi apparire gradevole il percorso. Sullo sfondo intravedo l’ombra grigia dei rilievi, ma ormai non mi fanno più paura… 20 km verso sud per raggiungere Cuneo; poi, senza entrare dentro la città, l’aggiro e, oltrepassato il ponte sullo Stura, punto su Mondovì, lungo una strada ampia, senza ombra di alberi e abbastanza trafficata, ma sostanzialmente scorrevole e piana. Dopo 25 km la lascio all’altezza del bivio Carrù-Mondovì, per salire in centro città a 560 m., da cui si gode una bella vista sulla vallata sottostante e sul Tanaro.
La tappa successiva è Ceva: si trova a una quota inferiore a Mondovì, ma nei 25 km di avvicinamento, vedo approssimarsi sempre più la silhouette bruno-verde dei monti. Consultata la cartina, decido di salutare con un’ultima scalata le Alpi proprio là dove esse cedono il passo ai nascenti Appennini, al colle di Cadibona: impresa modesta (dato che l’altezza è di appena 460 m., cioè appena 70 m. più della quota attuale), ma simbolicamente significativa. La carta non mi dà altre indicazioni, se non quella di passare per un non meglio identificato paesino, Montezemolo, dove stabilisco di fermarmi per il pranzo, una volta tanto in anticipo e in tutta tranquillità.

Ancora una volta, però, le cartine si rivelano spudoratamente fallaci o quanto meno incomplete, vanificando le speranze più prudenti: pochi km dopo Ceva la strada si impenna, arrampicandosi senza mezzi termini su per i monti; quando verso le 14, tra ruscelli di sudore e nugoli di moscerini, raggiungo finalmente Montezemolo ho modo di leggere sul cartello la quota oltre 730 m. Non devo faticare molto a trovare un ristorante: ce n’è uno proprio sul colmo del poggio, con un panorama incantevole su due vallate e la vista di Alpi e Appennini insieme. Data l’ora e il luogo piuttosto isolato, sono l’unico avventore, ma questo si rivela un vantaggio: il personale è premuroso e la cucina è semplice, ma genuina; oltre a un buon piatto di tagliatelle fatte in casa con sugo di funghi e innevate di parmigiano, mi concedo le solite verdure ed un assaggio di varie crostate casalinghe; il tutto innaffiato da un buon quartino di rosso locale. So bene che a pranzo l’abbondanza di cibo e soprattutto il vino sono controindicati alle pedalate pomeridiane, ma stavolta posso fare un’eccezione, visto che, se non altro per Cadibona e poi Savona dovrò scendere anziché salire ancora.
Nulla di più sbagliato! La strada discende sì – e a rotta di collo – per un bel po’ fino a Carcare, ma poi comincia di nuovo a inerpicarsi fino ad Altare, dando ogni mezzo km l’illusione di voler scendere di nuovo, cosicché io, che non ho preso sul serio questa salita, mi incaponisco a voler contemporaneamente mantenere una media relativamente alta e a digerire crostate, vino e tagliatelle.
Finalmente raggiungo le Bocche di Cadibona, ma, un po’ perché sfiancato dalla fatica, un po’ per la foschia, non riesco a congiungere in un’unica panoramica ideale Appennini, Mar Ligure e Alpi. Da qui, per fortuna la discesa per Savona è continua e piacevole, a velocità sostenuta, su una strada frequentemente ombreggiata e non particolarmente trafficata da auto e camion. Mi stupisce però non aver incontrato dalla mattina nemmeno un ciclista.
Raggiunto il lungomare prendo in direzione di Genova, con un po’ di timore dovuto al ricordo del caldo, del traffico e dei faticosi saliscendi della Riviera di Levante nel viaggio di andata, ma tutto sommato non incontro particolari difficoltà. Dopo una trentina di km a media andatura, raggiungo Voltri e il bivio per il Passo del Turchino, dove inizia e si conclude il percorso ad anello di 560 km Turchino-Sestriere-Monginevro-Isoard-Agnello-Cadibona. Meno di 20 minuti sono necessari da Voltri a Genova-Sestri, che raggiungo nel tardo pomeriggio. Qui, nell’ospitalità fraterna, mi attendono in abbondanza doccia, cena e narrazione della epica impresa ormai conclusa.
Il viaggio è infatti virtualmente terminato: anche se mancano gli ultimi 230 km, questi sono solo una tappa di trasferimento, peraltro già effettuato all’andata e perciò di scarso interesse ciclistico. Anche per questo decido di bypassare in treno il tratto Genova-La Spezia, per evitare il traffico e la confusione sperimentati cinque giorni fa. Posso andare a dormire senza sensi di colpa, considerando che in una tappa semplice come quella di oggi ho pedalato per quasi 160 km in 6h: 9’, superando 670 m. di dislivello
Domani, 6° giorno, dopo una galoppata di 4h: 30’, ininterrotta (salvo che per acquistare un kg di testaroli a Marina di Pietrasanta) e prevalentemente pianeggiante, avrò coperto una distanza totale di 900 km in 39 ore e 3/4 alla media globale di 22,6 km/h, superando un dislivello totale di 8130 m. Mi viene da pensare che, se avessi fatto il Bracco e il Bracchetto anche al ritorno, avrei superato gli 8800 del monte Everest… Be’, posso sempre tornare indietro e ripetere il giro, no?

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