Il Maestro dei poveri

di Giancarlo Spadaccini –
Erano le cinque del mattino, l’aria fredda mi obbligava a stringere le spalle nella vana ricerca, del caldo tepore che avevo appena lasciato dentro di casa mia. Questo ventinove di gennaio annunciava una settimana di freddo intenso, fatto che aumentava enormemente il mio piacere per il viaggio che stavo per intraprendere. Nella monovolume che si fermò davanti al mio cancello, mentre mi affrettavo ad aprire col telecomando, c’erano Mario, Gianni, Stefano e Dorino. Solo Stefano era nuovo a questo tipo di viaggio, mentre con gli altri amici avevo già avuto diverse esperienze. Gli altri viaggi precedenti fatti insieme, ci avevano reso enormemente affiatati nell’arte del vivere comune e nelle regole del rispetto reciproco. Quando diverse persone condividono, per molti giorni, un’esperienza di vita così stretta finiscono per creare una serie di leggi non scritte, che salvaguardano la libertà di tutti. Il rispetto reciproco, le volontà comuni, le esigenze personali, fanno parte di quest’arte, ed accettarle sempre e comunque rende, “i viaggiatori”, uniti ed affini alla missione prefissata. Le nostre “leggi” erano già state collaudate in altre occasioni tra di noi, quindi, ci avevano reso inseparabili. Eravamo certi che non ci sarebbero stati problemi nel trovare gli stessi ritmi e gli stessi accordi necessari, nemmeno con Stefano. Lui non era un estraneo, lo conoscevamo molto bene, anche prima che esprimesse il desiderio di aggregarsi a noi in quel nuovo viaggio.

L’ARRIVO A ROMA

Le due ore e mezza di macchina che ci dividevano dall’aeroporto di Fiumicino passarono velocemente e senza nessun problema imprevisto, eravamo già con la testa in vacanza e non avevamo nessuna fretta di arrivare. Il nostro programma infatti, prevedeva di essere pronti, con diverse ore d’anticipo, proprio per evitare sorprese dell’ultimo momento. Nell’auto che tranquilla macinava i chilometri, sull’autostrada Pescara Roma con la temperatura esterna che si avvicinava allo zero, eravamo tutti rilassati e felici. Finalmente, dopo mesi di discussioni e preparativi, stavamo partendo alla volta di Salvador De Bahia, città brasiliana a nord di Rio, collocata a ridosso di uno stupendo promontorio peninsulare. La scelta della località ci aveva impegnato più del solito perché nel nostro primo programma, avevamo previsto di fare una tappa di quattro giorni a Rio, per spostarci solo successivamente, sulle coste più a nord, nella cittadina di Fortaleza. Alla fine, ascoltando i consigli di chi aveva appena fatto un viaggio simile, stravolgemmo l’itinerario e le prenotazioni, e decidemmo di andare direttamente a Salvador de Bahia, con l’intento di spostarci solo nel momento in cui se ne fosse sentita la necessità.

Niente ritardò il nostro arrivo e la nostra registrazione dei voli, tanto che avevamo ottenuto le carte d’imbarco, già verso le nove e trenta della mattina, con tre ore d’anticipo rispetto al volo. L’itinerario comprendeva il primo volo alla volta di Lisbona e di lì, dopo due ore d’attesa, direttamente a Salvador De Bahia, con la compagnia di bandiera portoghese: la TAP. L’aereo partì con puntualità, prendemmo posto sulla fila di poltrone sul lato dell’uscita di emergenza, sedute richieste espressamente da me, in modo da avere a disposizione uno spazio adeguato per le mie gambe, proporzionate alla mia statura di un metro e novantadue. Avremmo potuto dormire un po’, ma la tensione era alta e la gioia che ci dava quella partenza ci fece restare svegli ed all’erta fino all’arrivo, che avvenne regolarmente e senza imprevisti, all’aeroporto di Lisbona.

SALVADOR DE BAHIA:

Ci sono solo tre ore di differenza di fuso orario tra l’Italia e Salvador, e quando i due taxi si fermarono davanti all’ingresso dell’hotel San Marino, l’ora locale segnava mezzanotte e trenta. Ci sistemammo velocemente nelle camere, con l’intento di lasciarle immediatamente alla ricerca di un ristorante, ed infatti uscimmo dopo meno di mezz’ora, con la convinzione che, l’indomani, avremmo cercato un altro albergo, più adatto alle nostre esigenze. Il tassista, ci caricò in cinque sulla sua macchina e ci consigliò una passeggiata nella città alta, zona in cui avremmo potuto trovare più facilmente sia un ristorante sia un locale dove passare qualche ora, prima di andare a dormire.

La zona più vecchia della città, trasformata quasi esclusivamente in un quartiere turistico, era zeppa di ristoranti, bar, negozi, pensioni e quant’altro possa essere utile al turista ed al viaggiatore. A prima vista, il centro storico, ci apparve assolutamente spoglio e tranquillo e non all’altezza della fama di cui godeva nelle descrizioni che ci avevano fatto di questa zona di Salvador, chiamata: Pelorinho. Forse questa apparente delusione era dovuta al fatto che eravamo convinti di dirigerci verso una zona di divertimenti ed attrazioni per i turisti, e quando ci rendemmo conto che così non era, dovemmo rassegnarci all’evidenza che, la stragrande maggioranza dei locali erano già semi deserti, tanto che non ci sentimmo attratti dall’idea di cercare un ristorante, vista l’ora tarda.
Ci dirigemmo subito verso altre zone e percepimmo, in questo spostamento, la grandezza della città. Dal Pelorinho, scendendo verso il Porto da Barra, si accedeva ad un lungomare, che in alcuni punti è composto da quattro corsie: due per senso di marcia.
Questa strada, larga e spaziosa tanto da sembrare una strada a scorrimento veloce, è la più percorsa dai turisti perché consente di raggiungere tutte le spiagge più frequentate di Salvador, che partono dal centro della città e si snodano per circa 35 km ininterrottamente. Ci saremmo accorti, nei giorni successivi, che quelle non erano le uniche spiagge disponibili, e che avremmo potuto trovarne molte altre sia a nord sia a sud della città.

Chiudemmo la prima notte in Brasile con qualche birra, la prima esperienza con i ritmi della samba brasiliana, ed un piatto di affettati misti, ordinati in uno dei locali dove, alla fine, il tassista ci portò. Avevamo girato per più di un’ora e mezza visitando diversi locali prima di deciderci: davamo uno sguardo dall’esterno, ci rendevamo conto della quantità delle persone che stavano ancora mangiando e facendo festa e, per quella legge dell’esperienza che impone di non fermarsi mai nei posti dove mangiano poche persone, continuammo a girare fino a che non trovammo un posto che ci piacesse. Il caldo era umido ed appiccicoso, il giorno era stato piuttosto piovoso e l’aria sembrava più pesante del solito.
L’umidità di quella sera era piuttosto inattesa, si sudava più del previsto e, stando seduti in quattro dietro al taxi, non eravamo certo nella migliore condizione di comodità. La scelta di trasportarci tutti insieme su un solo taxi, era dettata dalla voglia che avevamo di stare uniti, perché era quello l’intento ed il bello del viaggio. All’unisono ridevamo, commentavamo e prendevamo le decisioni dei movimenti e degli spostamenti necessari. L’allegria era alle stelle, eravamo arrivati a Salvador De Bahia e quella serata, che avevamo passato dopo ventiquattr’ore dal momento in cui eravamo partiti da casa, aveva inaugurato, finalmente, il nostro primo giorno in Brasile.

LA SPIAGGIA:

Accettando il consiglio di una ragazza, che la sera prima ci aveva spiegato come erano dislocate le spiagge, decidemmo di andare, nel nostro primo giorno di mare, nella spiaggia del Porto da Barra, centralissima riva di Salvador De Bahia, dove ci avevano segnalato una specie di concessione chiamata “VAL”. In realtà la mattina la spendemmo quasi tutta, per il trasferimento nel nuovo alloggio, che identificammo in un residence molto comodo, nelle vicinanze del quartiere Ondina. Ad ogni buon conto arrivammo in spiaggia nel primissimo pomeriggio, quando il sole era certamente all’apice della sua forza, con la sola fortuna di vederne mitigata l’azione, dalle spesse nuvole presenti che, correvano a velocità impressionante nel cielo e che, ad intervalli di pochi minuti, nascondevano il sole totalmente, o lo lasciavano agire indisturbato sopra le nostre teste, friggendo la pelle esposta ai raggi. Alla concessione VAL, trovammo il primo dei brasiliani con i quali avremmo stretto rapporti di stima e di amicizia, il bagnino, barista, messaggero e tuttofare: Felipe.
Ci sistemò immediatamente con cinque ombrelloni e cinque sdraio e, mettendoci del tutto a nostro agio, cominciò a chiederci se volevamo bere, mangiare o se avessimo qualche altra, seppur piccola, necessità. Accettammo le prime birre e bevande della giornata mentre i primi venditori di ciondoli, bracciali, e tante altre inutili chincaglierie, si affannavano ad esporci la mercanzia nel caos di bambini festanti che ci circondavano continuamente e che, con un italiano sufficiente, ci chiamavano: “amico” domandandoci qualche soldo che avrebbe calmato la loro cronica fame. Avremmo imparato a convivere con queste richieste nei giorni successivi, avremmo assimilato completamente questa realtà e, senza nemmeno pensarci più di tanto, saremmo diventati una specie di riferimento, per quei ragazzini affamati, all’ora di pranzo. La spiaggia di Barra è situata sotto un alto muraglione che regge la strada cittadina a ridosso di un lungo marciapiede, utilizzato come terrazza sul mare, da quelli che la percorrono a piedi e che cercano qualcuno tra i bagnanti che si affollano sulla spiaggia. La lingua di sabbia finissima, di colore giallo scuro, che rappresenta tutta la spiaggia di Barra, non è lunga più di trecentocinquanta metri, e si percorre tutta in cinque minuti.



Tutti i venditori autorizzati, per garantire la sicurezza, indossavano un pettorale blu che li distingueva dai venditori abusivi, comunque presenti in numero elevatissimo sulla spiaggia. Tra le varie decine di persone che a turno si affannarono per offrirci i prodotti più disparati, dall’artigianato locale, ai vestiti e agli accessori per il mare, dalle bevande alle diverse cose da mangiare, alcuni colpirono maggiormente la nostra attenzione.

FLAVIA:

Flavia era la ragazza diciassettenne che vendeva, al prezzo di tre real, gli spiedini di gamberetti, cucinati dalla madre ed infilzati ad un lungo stecchino, completamente intrisi di aglio, aroma a noi assolutamente sgradito. Fu così attenta alle nostre richieste che, dopo due giorni, ci presentò il vassoio di gamberetti che la madre aveva cucinato senza nessuna aggiunta di aglio.
Lei ci spiegò dopo qualche giorno, che non poteva accettare regali da noi, che la consideravamo una ragazzetta che si guadagnava faticosamente la vita, perché il suo fidanzato era molto geloso.
In questo non vedevamo niente di strano fino a quando non venimmo a conoscenza del fatto che, il suo fidanzato, viveva in Svizzera e passava a Salvador solo quattro o cinque mesi l’anno. Anche sotto quest’aspetto la cosa poteva essere abbastanza normale ma la sorpresa clamorosa della storia, fu la scoperta che, questo “novio” come lei lo chiamava, aveva la bellezza di sessant’anni.

PELE’:

Il venditore di collane che si faceva chiamare Pelè, – “Come il più grande calciatore del mondo” -, aveva i capelli corti e ricci di un colore rosso vivo, assolutamente artificiale. Pelè era simpatico e scaltro e con il suo modo di fare, calmo e tranquillo, nei giorni successivi ci convinse a spendere, da lui chiaramente, molti più soldi di quanti ne avremmo voluti utilizzare per quei ninnoli quasi inutili. Di Pelè ricorderemo per sempre la sua filosofia sessuale, che lo spingeva verso le prostitute, con le quali aveva rapporti più liberi di quelli che la fidanzata gli permettesse. Non potremo nemmeno mai scordare il morso impresso sulle carni del suo fianco, che lo mandò quasi all’ospedale, il giorno che la sua ragazza lo sorprese con l’altra donna, e la sua voce tranquilla e quieta, con la quale ci spiegava che pagava le prostitute solo con collane o bracciali ed al massimo offriva loro – “una bottiglia di acqua, non minerale!” -. Con Pelè vivemmo un’esperienza grazie alla quale ridemmo fino alla fine del viaggio, e che ancora oggi rimane un ricordo molto simpatico del nostro incontro.

Il giorno successivo al nostro arrivo, eravamo seduti ad tavolo di un ristorante pizzeria all’aperto, nei pressi della spiaggia, dove avremmo poi mangiato per il resto della vacanza, quasi tutti i giorni. Il nostro tavolo, si trovava all’ombra di un bellissimo albero, ed era disposto all’estremità del ristorante, che aveva diversi altri tavoli al centro della piazzetta, adiacente alla fermata degli autobus. Ad uno di questi tavoli stavano mangiando una ragazza scura di pelle, che era girata verso di noi, con un accompagnatore molto chiaro, sicuramente uno straniero e quasi certamente al suo primo giorno di mare. La ragazza, per quello strano atteggiamento che molte donne brasiliane hanno nella loro stessa natura, si girava spesso verso di noi ed, incrociando gli sguardi, si lasciava scappare qualche sorriso, assolutamente non vista dal suo compagno. Incuriositi da quel comportamento, chiamammo Pelè per chiedergli se conosceva quella ragazza. Lui ci spiegò che non sapeva chi fosse ma che sarebbe andato al tavolo a chiedere informazioni. Vedemmo Pelè avvicinarsi al loro tavolo, offrire la sua mercanzia al ragazzo e parlare in portoghese, qualche attimo, con la ragazza. Tornò assicurandoci che, se avessimo voluto, poteva darci il suo numero di telefono senza problemi. Alla nostra meraviglia seguì spontanea la domanda:
– Ma non è in compagnia di quell’uomo? –
– Ma che uomo – disse tranquillo Pelè – Quello è un alemao -.
Scoprimmo dopo poco, che si trattava di un tedesco in vacanza a Salvador e come tutti i tedeschi, da quelle parti, non godeva di grossa stima da parte dei venditori e dei commercianti, i quali attribuivano ai teutonici europei, un estremo attaccamento al denaro. Quest’avarizia, li faceva cadere enormemente in basso, nella scala della considerazione dei venditori ambulanti, tanto che, quando potevano fargli un dispetto glielo facevano volentieri. Andammo via ridendo e senza prendere il numero della ragazza, continuando i commenti ironici sull’accaduto.

RODRIGO:

Il venditore di cocco fresco, si chiamava Rodrigo.
Girava la spiaggia con un machete infilato in una noce di cocco, assicurando di vendere, per un real e mezzo, il cocco più fresco di Barra. La sua bancarella era situata sul muraglione, ed ogni volta che qualcuno gli ordinava un cocco, lui saliva sulle ripide scale, ne prendeva uno dal contenitore del ghiaccio sfuso, lo apriva col suo machete, e lo riportava indietro per soddisfare l’ordinazione. Più o meno percorreva sempre quattro o cinquecento metri per ogni cocco ordinato. Lo avevamo soprannominato Big Jim, perché la sua stazza ed i suoi muscoli, lo rendevano, ai nostri occhi, una vera e propria scultura vivente. Il suo fisico era muscoloso oltre misura, ma bello da vedere perché era evidente che non apparteneva a quella categoria di “palestrati” che vanno in giro a fare le competizioni. Lui era proporzionato e forte, in maniera naturale. Si vedeva chiaramente che la natura lo aveva aiutato di suo e che, la parte relativa all’accrescimento artificiale, era avvenuta per motivi quasi spontanei. Aveva, inoltre, un viso buono e gentile, che rispecchiava in tutto i suoi modi discreti e signorili. Una persona dall’animo buono e disponibile, padre di cinque figli e campione di lotta giapponese. Dopo i primi giorni, nei quali ci conoscemmo, non accettava più denaro da noi, ma ci portava le noci di cocco, ogni volta che volevamo, consegnandoci il conto solo a fine giornata. Non dubitammo mai della sua onestà e non facemmo mai i conti su quello che chiedeva, perché Rodrigo era così: ispirava fiducia e sicurezza. Di lui abbiamo conservato un ricordo particolare perché, l’ultimo giorno della nostra permanenza sulla spiaggia di Barra, verso le sei della sera, ci venne a salutare accompagnato da uno dei suoi figli e, stringendoci la mano a tutti ci disse, con la solita voce tranquillizzante:
– Quando vanno via degli uomini che hanno un cuore, si saluta sempre con grande nostalgia -. Nessun regalo poteva essere per noi più bello delle parole che Rodrigo ci seppe dire, con una commozione che non ci aspettavamo.

UNA PERSONA DAVVERO SPECIALE:

Gli incontri sulla spiaggia di Barra continuarono per tutti i dieci giorni della nostra permanenza a Salvador De Bahia, ma l’apice dell’interesse ed il segno indelebile che ancora portiamo dentro di noi, lo lasciò: Alemao da Itaparica. Itaparica è un’isola che si vede chiaramente di fronte a Salvador, lunga diversi chilometri e famosa per alcune sue spiagge che si trovano sia a nord sia a sud delle sue coste. Alemao arrivava a Salvador, ogni lunedì mattina dalla sua isola, facendo diversi tragitti che lo obbligavano a servirsi prima di un autobus, poi del traghetto e, dopo il suo arrivo in porto, solo e comunque delle sue gambe. Un gran camminatore Alemao, girava le spiagge e le strade della città con il suo passo deciso e svelto servendosi del solo mezzo che non costasse nulla: i suoi duri e callosi piedi. Si presentò, al nostro ombrellone, con il suo negozio ambulante sulle spalle, composto da un telaio di canne di bambù sul quale era tirato un telo rosso. Sul telo aveva appeso tutte le sue collane, bracciali e pendenti che, insieme a sua moglie, costruiva in proprio a casa sua.
Il suo cavallo di battaglia, però, era rappresentato dalla costruzione artigianale di bastoni di bambù, arricchiti con piccole sculture fatte in resina: facce, con bocche strane o occhi molto grandi e barbe alla mago Merlino. Nei vari punti del bastone di bambù incastrava pietre colorate di varia dimensione che lui definiva pietre preziose. In realtà scoprimmo, dopo qualche giorno, cheAlemao si riforniva da un grossista di pietre, dal quale acquistava, a peso, rimasugli e scarti di tagli, pietre di scarso valore o altre con difetti evidenti non utilizzabili per il taglio. I bastoni, però, avevano tutti un comune segreto: la parte alta, alla quale si appoggiava la mano, poteva essere sfilata, con due giri su se stessa, e ne veniva fuori un’affilata spada stilettata, diventando così una vera e propria arma. Alemao, che la sapeva lunga, ci spiegò subito che avremmo potuto riportare in Italia quel souvenir, solo infilandolo nella valigia da imbarcare, in quanto non ci avrebbero mai permesso di portare nel bagaglio a mano una simile arma. Non comprammo quei bastoni da Alemao, ma procurammo che facesse uno dei migliori affari dell’anno, proprio prima che partissimo.

Alemao, si chiamava così, non perché fosse tedesco ma perché, i brasiliani chiamano così tutti quelli che sono chiari di pelle ed assomigliano agli europei. Lui era veramente chiaro di carnagione, portava una barbetta non curata anch’essa con le tracce dell’età, e con un taglio di capelli raccolti in un codino dietro la nuca.
Il suo aspetto, era evidentemente influenzato dalla cultura hippy degli anni 60, e lui si trascinava dietro queste reminiscenze giovanili in maniera evidente, senza nasconderne l’origine. La prima cosa che mi colpì di lui, fu che parlava correttamente lo spagnolo e che dal primo momento nel quale ci incontrammo, mostrò un sorriso ed un bagliore negli occhi, che rendevano evidenti la sua cultura, la disponibilità al colloquio e la voglia matta di parlare con le persone che incontrava. Da qualche tempo mi ero abituato a tenere in considerazione particolare le persone che hanno quella luce negli occhi, e quella di Alemao era chiara e splendente.
Chi viaggia con quel bagliore nello sguardo, è sempre una persona particolare, da tenere in assoluta considerazione e da contraccambiare con altrettanta disponibilità. Non ebbi assolutamente dubbi, dal primo momento che lo incontrai, capii che dovevo parlare con lui per saperne di più sulla sua vita.

Il nostro primo incontro durò circa un’ora e dopo che mi spiegò da dove arrivava, mi raccontò che possedeva una casa con duecentocinquanta metri di terreno acquistato ad Itaparica, dieci anni prima, per la somma di duecentocinquanta dollari. Il suo terreno si trovava a fianco di una grande piramide che lui chiamava “piramide esoterica”.
Non riuscii a capire meglio cosa volesse dire con quelle parole, anche perché, nonostante la mia insistenza, lui non fu mai molto chiaro ed esplicito a questo proposito. Mi assicurò che in quella grande piramide, visibile ad occhio nudo dalla nostra spiaggia, si riunivano diversi “fedeli” o “praticanti”, e che suo figlio di ventun’anni, era uno di loro già da diverso tempo. Indossavano tuniche bianche e la loro attività di esoterismo, che aveva certamente a che fare con le leggi degli alchimisti, si espletava anche attraverso l’uso di un’antica pratica yoga.
Forse non ne fu capace, o forse, non volle essere più preciso su questo argomento, e probabilmente nemmeno suo figlio gli aveva raccontato con precisione la reale attività che si svolgeva nella piramide esoterica. Non c’erano dubbi che Alemao sprigionasse luce dallo sguardo fiero e senza alcun’alterigia. Già in quel nostro primo incontro, durante quell’ora di conversazione, convinse me ed i miei quattro amici, a trascorrere due giorni al Morro Di San Paulo, isola assolutamente naturale nella quale non esistevano strade e dove solo la natura avvolgeva i turisti, che la raggiungono con diversi mezzi. Alemao, ci consigliò un battello grande che impiegava due ore per la traversata. Avevamo deciso subito: la mattina dopo saremmo andati a prenotare i biglietti per il Morro di San Paulo.

Da quella mattina, vedemmo Alemao tutti i giorni, e lui passava con noi sempre più tempo. Si fermava, cominciava a parlare, a rispondere alle nostre domande, ma senza invadenza e con la massima discrezione e tranquillità. Arrivava, gli offrivamo una birra, e cominciava a far sentire la sua presenza. Mi raccontò che aveva due figli, uno di ventuno e l’altra di dieci anni e che tutti e due studiavano in scuole private costosissime per il suo tenore di vita. Quella scelta era dettata dal fatto che, anche a costo di grossi sacrifici, lui aveva coscienza che la scuola pubblica brasiliana, non riconsegna figli istruiti ed educati, ma si limita ad accompagnarne la crescita, senza preoccuparsi molto della qualità del prodotto finale. Mi spiegò che quasi sempre le classi sono composte da sessanta ragazzi che hanno a disposizione un solo maestro.
– I miei figli non mi hanno mai rivolto una parola scorretta ed hanno un rispetto enorme per la madre. Anche quando io manco per diversi giorni da casa, so che non lascio in pericolo la mia famiglia che, grazie all’istruzione che riceve, è sempre unita – Alemao sosteneva di sentirsi più amico che padre e che i suoi figli, mai avrebbero fatto qualcosa senza dirglielo. Era convinto che essi non avrebbero esitato un solo istante ad interpellarlo, nel momento in cui avessero avuto un problema qualunque, nella loro vita di tutti i giorni. A questo proposito ci raccontò alcuni episodi della sua vita, nei quali era intervenuto in aiuto dei figli, dietro loro esplicita richiesta. Mi disse, con la sua solita tranquillità che faceva diventare semplice anche le cose più difficili, che lui fumava marijuana da quando aveva dodici anni, e che utilizzava questo fumo, che non considerava assolutamente una droga, tre o quattro volte al giorno, al posto delle normali sigarette. Espresse, come se fosse la cosa più semplice del mondo, la convinzione che il tabacco ammazzava le persone con il veleno che il fumo lasciava dentro i polmoni, e che la sua marijuana, non faceva assolutamente male, anzi lui le attribuiva proprietà terapeutiche. Sosteneva, inoltre, che a cinquantadue anni, era in forma perfetta anche grazie al quel fumo che giornalmente assumeva. Ci volle fornire una prova del suo stato di forma e ci sfidò a fare alcuni piegamenti con lui; ci rendemmo conto subito che era imbattibile, e Stefano che volle provare, dovette soccombere e proclamarne la superiorità. I suoi muscoli erano tirati ed evidenti, si allungavano senza sforzo e rispondevano alle sue sollecitazioni in maniera naturale. Qualche anno prima, il figlio, gli aveva confessato che alcuni suoi amici avevano iniziato a fumare marijuana e che avrebbe voluto provare anche lui, ma non ne aveva avuto il coraggio anche perché per procurarsi il fumo, ci volevano dei soldi di cui lui non disponeva. Alemao senza pensarci su gli disse di non preoccuparsi, di non cercare denaro in giro perché avrebbe provveduto lui a fargli provare quell’esperienza. Il giorno successivo, a casa sua, chiuse le porte e fece il primo spinello per il figlio, il quale nervoso e teso, non provò nessun giovamento o piacere, ma Alemao gli accese un’altra sigaretta e lo fece provare di nuovo. Ancora una volta il ragazzo, non riuscì ad apprezzare il gusto di quel fumo che, anzi, gli dava anche fastidio. Alemao non si arrese gli ficcò un’altra sigaretta in bocca e insistette che provasse ancora. Il figlio, alla fine, cominciò a sentirsi male e rifiutò il fumo respingendo le insistenze del padre, che imperterrito continuava ad avvolgere sigarette per lui. Finì che il figlio uscì disgustato da quell’esperienza e non chiese mai più al padre di fumare, anzi da quel giorno, vietò a quell’ispirato genitore di fumare in casa in presenza dei famigliari. Mi appartai un attimo con Alemao e gli dissi, senza mezzi termini, che ero assolutamente contrario alla marijuana, che non l’avrei mai fumata e che mi avrebbe spaventato molto, l’idea che un mio figlio, avesse avuto la voglia di provarla. Lui, chiaramente, mi rispose che parlava con l’esperienza dei suoi quarant’anni di fumo e che, ad ogni modo, visto l’abuso che si fa di questo “stupefacente” nel mondo, è meglio che un padre ne controlli l’uso da parte dei figli, piuttosto che questi lo facciano di loro iniziativa all’insaputa di tutti. I rischi, in quest’ultimo caso, sarebbero maggiori, che si sia a favore o contrari al fumo. La realtà, anche in questo caso, era dalla parte di Alemao.

Il terzo giorno che Alemao ci venne a trovare si fermò da noi già dalle prime ore della mattina. Alla mia domanda su come gli stessero andando le vendite si limitò a assicurarmi che non aveva ancora venduto niente ma che, per questo, non era affatto preoccupato. Mi spiegò che lui era un uomo felice perché viveva in armonia con la sua natura, quella stessa natura che gli consigliava di accontentarsi di tante piccole cose senza farsi catturare dalla voglia di possedere altri beni. Mi ricordai, che proprio alcune settimane prima avevo letto “La Vita Felice” di Seneca e che questo concetto, espresso da Alemao con semplicità, altro non era che il sunto di alcuni insegnamenti del grande filosofo, maestro e tutore di Nerone. Respirava a polmoni aperti e mi chiedeva: – Non senti come la natura fluisce dentro di noi? Come la calma e la certezza che oggi è una bella giornata fanno, di ogni giornata, quella più bella dell’esistenza?- Alemao sosteneva che bisognava prendere da ogni giorno il massimo che poteva offrire, senza abbattersi se questo massimo non era poi tanto.
– Il giorno va vissuto come se fosse l’ultimo della nostra vita utilizzando ogni minuto in esso contenuto.- Filosofia spiccia, certamente sì, inutili consigli che tutti conosciamo ma che mai utilizziamo.
Quel giorno scoprimmo che Alemao compiva cinquantadue anni e che quindi non aveva tanta voglia di lavorare. Oltretutto asseriva che, il denaro non guadagnato quel giorno, sarebbe arrivato nei giorni successivi e che lui, sarebbe tornato nella sua Itaparica, solo quando avesse avuto denaro a sufficienza. La moglie questo lo sapeva e quindi non lo aspettava mai a casa in giorni fissi. Lui si limitava a rientrare quando i suoi affari gli avevano procurato il denaro sufficiente per la famiglia.
Quando si fermava a Salvador, viveva a casa di tanti amici che lo ospitavano a turno.
Era molto fiero del fatto che ogni sera riceveva svariati inviti da parte di amici che lo avrebbero ospitato volentieri. Questo fatto era frutto della sua ottima disponibilità a conservare le amicizie, a parlare con la gente, a rendere allegre le serate a Salvador.
Quando veniva ospitato da qualcuno, lui si occupava della cena e faceva la spesa per entrambi così da ripagare l’ospitalità in maniera fattiva ed evidente. Le nottate le passavano girando per il centro del Pelorinho, da un bar all’altro, ballando per le strade e facendo amicizia con tutti quelli che incontravano. La notte terminava non prima delle sette della mattina successiva, quando i due amici rientravano, stanchi ma felici, a casa.
Nelle due ore successive si riposavano, ripreparavano il loro negozio ambulante e, sempre a piedi, cominciavano a battere le spiagge di Salvador.
Non si trattava, come poteva sembrare, di una vita sregolata, chi conosce il Brasile sa che la vita notturna fa parte delle abitudini dei suoi cittadini e non è scandaloso per nessuno, fermarsi l’intera notte fuori di casa in compagnia di amici e compagni dell’ultima ora. Alemao mi parlò anche del suo rapporto con la moglie e del fatto che lei, di sedici anni più giovane, fosse una donna stupenda, che faceva ancora girare gli uomini per le strade. Viveva con lei da ventun’anni, quindi da quando avevano avuto il primo figlio, e facendo brevemente i conti mi accorsi che questa prima gravidanza era arrivata, più o meno, quando la moglie aveva quindici anni.
– Io faccio l’amore solo con lei, perché non potrei fare sesso senza il cuore, e poi il nostro rapporto si basa sulla conoscenza reciproca ed anche sulla fiducia. Lei sa che non la tradirei, è per questo che non si preoccupa quando non rientro. – La cosa che mi lasciò di stucco fu la semplicità con la quale ci consigliò di dire sempre la verità alle mogli. La sua teoria era molto semplice: i rapporti di coppia si devono basare sulla verità, solo la verità non teme confronti. Ammise però, che a volte, a fin di bene, con le mogli non si deve usare sempre la verità assoluta ma anche qualche verità macchiata. Mi fece quest’esempio: – Se compri un regalo per tua moglie, qui sulla spiaggia, quando tornerai in Italia, le puoi dire che lo hai preso in una boutique e che ti è costato fatica raggiungere il centro per scegliere il regalo. Questo tipo di verità macchiata darà gioia a tua moglie ed accrescerà il vostro rapporto. – La pratica a volte non è semplice come la teoria, ma i consigli di Alemao avevano sempre qualcosa di vero al loro interno. Quella mattina, vista la convinzione, con la quale asseriva di voler festeggiare il suo cinquantaduesimo compleanno senza lavorare, decidemmo di offrirgli qualcosa da mangiare, ma Alemao non accettò di ordinare del pesce sulla spiaggia, come facevano tanti altri brasiliani. Ci disse che costava troppo e non se la sentiva di pesare così tanto sui nostri bilanci delle vacanze. Lui mangiava in un ristorante, adiacente alla spiaggia, a prezzo fisso, e per cinque real: meno di due euro, Decidemmo quindi di uscire elegantemente dal dubbio e gli comprammo quattro collane per sedici real. Preso il denaro, ci ringraziò e ci avvisò che sarebbe andato a mangiare e che, per questo, sarebbe mancato un’ora circa.

Il giorno successivo, nel punto in cui ci fermavamo al mare e sotto i nostri cinque ombrelloni, si radunò una folta schiera di amici. Da Alemao al suo amico Rasta che viveva facendo braccialetti con il nome del cliente che lo desiderava. Rasta, componeva quei bracciali utilizzando alcune bobine di filo colorato che intrecciava, a mano e sotto i nostri occhi, ad un velocità impressionante. Alemao ci spiegò che la bravura di Rasta lo rendeva simile ad una macchina automatica. C’erano anche Pelè, che si beveva una birra ogni tanto, Flavia, che si sedeva a riposare per qualche minuto, sempre con più frequenza, e il cantante, felicissimo, Camarao, che con la sua voce annunciava il suo vassoio di gamberetti, in concorrenza con Flavia. Quella mattina Camarao ci cantò una canzone con una voce deliziosa attirando, l’attenzione di molti bagnanti e meritandosi, per la sua allegria, una buona birra gelata, naturalmente seduto sotto il nostro ombrellone. Offrimmo da bere anche alle persone degli ombrelloni vicini, così, tanto per evitare che si creasse troppa ressa, mentre il nostro amico Rodrigo continuava, nella sua spola incessante, a servire noci di cocco in continuazione. Alemao, non ci lasciò nemmeno un attimo, anzi sembrava, ormai, uno di noi. Si era messo in costume, aveva lasciato il suo negozio ambulante appoggiato vicino al nostro ombrellone, tanto che i venditori sembravamo noi, nella speranza vana che qualcuno, passando, gli chiedesse delle mercanzie. Lo vidi tuffarsi con frequenza in mare, bagnarsi e respirare a pieni polmoni il soffio della vita che riteneva entrasse nel suo corpo attraverso il naso. Ricordo che gli dissi: – Oggi per te è veramente una bella giornata vero Alemao? –
– Sì, è vero, ma non serve a molto, se è una bella giornata solo per me e non per tutte le altre persone al mondo. Per me, poi è sempre una bella giornata quando mi alzo, posso uscire tra la gente e parlare con tutti quelli che incontro.
– Ma hai sempre voglia di lavorare? In fin dei conti, qui siamo in Brasile, al mare, tra la gente che si sta preparando al carnevale e che fa festa per tutte le ventiquattro ore del giorno. –
– Io non considero, quello che faccio un vero lavoro.
Io giro tra la gente, parlo con la gente. Che siano brasiliani, italiani o francesi, non ha importanza, io apprendo da tutti qualcosa. Conosco le persone, ne assimilo la cultura e poi quando è possibile vendo un po’ della mia arte. –
– Ma se non vendi come fai a guadagnare quel denaro che ti occorre per
vivere con la tua famiglia? –
– Non ho mai avuto problemi per il denaro. Il denaro che mi occorre arriva sempre al momento giusto, non mi è mai mancato, e poi io ho bisogno di tanto poco! Ho imparato ad accontentarmi delle cose essenziali e da queste cose traggo i miei doni quotidiani. – Alla fine era vero, Alemao vendeva cose belle per pochi soldi, pezzi originali fatti con le proprie mani di artista e si faceva pagare quel tanto che gli serviva per sopravvivere con il suo “essenziale”. L’arte, quella che metteva in ogni suo pezzo, l’amore con il quale lo costruiva, e la bellezza che quei pezzi avevano, erano un regalo per tutti gli acquirenti.

UN AFFARE D’ORO:

Avevamo parlato con altri italiani che ci avevano suggerito di comprare alcune pietre preziose da riportare in Italia ma eravamo alquanto scettici. Non capivamo nulla di pietre, non conoscevamo i prezzi, non eravamo per nulla informati sul mercato, né tantomeno avevamo mai comprato pietre in altri viaggi precedenti. L’insistenza di molti altri turisti e la certezza che avremmo rischiato solo poche centinaia di euro, ci convinse che potevamo anche comprare qualcosa, proprio in virtù del fatto che il rischio di prendere una fregatura, era limitato ad una cifra non molto alta. Individuammo, dopo alcuni conciliaboli con altri Italiani, nell’acquamarina, la pietra più adatta alle nostre esigenze. Alemao, che conosceva quel prodotto, ci spiegò che potevamo comprare qualcosa o nei negozi del centro, o al Mercato Modelo, o da un grossista dal quale lui stesso si riforniva, insieme a molti altri ambulanti. In ordine di importanza, secondo le sue spiegazioni, avremmo pagato molto meno dal grossista, dal quale lui ci avrebbe accompagnato volentieri. Ci spiegò anche, e senza indugio, che se avessimo comprato qualcosa lui avrebbe percepito una ricompensa nella percentuale del cinque per cento dal grossista, del dieci per cento al Mercato Modelo, e del trenta al negozio del centro. Chiaramente, ci disse che si considerava nostro amico e che non ci avrebbe mai portato al negozio del centro, per questo prendemmo appuntamento per le undici del giorno seguente, per andare dal suo amico grossista. Il giorno successivo, era sabato, alle undici, dopo un tragitto in taxi ci accompagnò in una viuzza vicino al porto, dove al primo piano di uno stabile, vigilato da due guardie del corpo, c’era un appartamento, chiuso con inferriate e con lucchetti enormi, nel quale il suo amico grossista aveva la mercanzia. Dovemmo desistere subito dall’idea di comprare qualcosa perché la persona che avrebbe potuto servirci non c’era. Il grossista era stato trattenuto fuori città, la cassaforte con le pietre era chiusa a chiave e nessuno aveva la delega per trattare affari o per aprire la cassaforte. C’era la possibilità di comprare solo chincaglierie o piccoli souvenir, sempre fatti con pietre di varia natura, ma non ci interessò e lasciammo l’appartamento quasi subito. Capimmo, dalla disperazione di Alemao, che stava svanendo per lui, la possibilità di guadagnare qualcosa da quella vendita oramai sfumata, cosicché gli chiedemmo se fosse stato possibile andare da qualche altra parte. In effetti, la seconda possibilità era quella del Mercato Modelo. Questo Mercato, vicino al porto di Salvador, si trova ai piedi della piazza dove è stato costruito “l’elevador”, un futuristico e moderno ascensore che con un balzo di circa trenta metri, porta le persone dalla parte bassa della città, quella del porto nella quale noi eravamo, alla parte alta e più suggestiva del centro storico: il Pelorinho. Nel Mercato, paradiso dei turisti che vogliono comprare souvenir, c’è di tutto. Assomiglia molto ad un bazar africano, con merci esposte fino all’inverosimile e con centinaia di bancarelle, disposte sui due piani, con venditori che ti invogliano a comprare, e con trattative dove il prezzo richiesto, il più delle volte è abbondantemente dimezzato. Dagli abiti, alle magliette, dagli strumenti musicali tipici, alle collane e ai bracciali, dai legni intagliati ai tappeti e ai quadri; tutto quello che è possibile pensare di portare via, al Mercato Modelo lo trovi. Nel piano superiore trovammo anche due splendidi ristoranti tipici, con terrazza sul porto, vivacizzati da splendide ragazze in costume locale che invitavano a bere e a mangiare. Alemao ci condusse al piano superiore all’interno di una bancarella nella quale si vendevano solo pietre preziose, ma non prima di averci avvisato che qualunque cosa avessimo comprato, l’avremmo pagata il trenta per cento in più del grossista e che lui avrebbe percepito, per questa vendita, il suo dieci per cento. Lo sapevamo ed eravamo coscienti, quindi cominciammo le trattative. Non aspettammo molto a decidere e dopo meno di mezz’ora avevamo comprato alcune pietre chiare per un totale di settecento dollari, da dividere in tre. Il commerciante ci ringraziò lungamente, probabilmente non avevamo fatto un grosso affare, ci sorrise con tutti i suoi denti in bellavista e consegnò, davanti a noi, la provvigione ad Alemao: sessanta euro! Alemao, prese i soldi, festeggiò in maniera euforica e senza timore si sedette a terra e fece alcuni balzi con il sedere che strusciava sul pavimento, ci ringraziò ancora una volta e, con lo sguardo sempre alto e quel bagliore negli occhi, che era spaventosamente aumentato, ci accompagnò di nuovo al taxi e tornò con noi alla spiaggia di Barra.
– Hai fatto un buon affare questa volta vero Alemao?
– Sì, il migliore di quest’anno per me. Come ti avevo detto, il denaro arriva sempre al momento giusto e quando ne hai bisogno. –

Eravamo arrivati ormai al sabato mattina, e dal Mercato Modelo andammo, per l’ultima volta, nella pizzeria della piazza adiacente alla spiaggia. Mangiammo soli, senza la compagnia di nessuno dei venditori, ma non senza i bambini, che oramai ci aspettavano impazienti, e che ogni giorno mangiavano qualche pezzo di pizza, o quant’altro ci era possibile offrire loro. I bambini, si sedevano ad un tavolo vicino a noi, gli facevamo servire anche una o più bibite e terminavano, quando anche noi ci alzavamo per andare via, dopo aver pagato il conto. La sera stessa avremmo raggiunto, con due taxi, l’aeroporto dal quale saremmo ripartiti alla volta dell’Europa; naturalmente salutammo Alemao che ci disse:
– Quello che avete fatto a Salvador, le esperienze che abbiamo vissuto e questa breve ma forte amicizia, dovremmo scriverla in un libro. – Gli risposi senza indugi: – Stai tranquillo Alemao, io lo scriverò e tu farai parte di questa breve storia perché solo ciò che è scritto non si perde. Io so che non vorrò mai perdere questo ricordo, quindi ti assicuro che lo scriverò. –

Non so quando Alemao da Itaparica potrà leggere questo breve diario: forse mai. Non so se avremo l’opportunità di rivederci un giorno, ma so per certo che Alemao da Itaparica conserverà il nostro ricordo, come noi lo conserviamo di lui. So, per certo, che quel bagliore che sprigionano i suoi occhi, sarà certamente notato da altre persone. Ci saranno altri turisti che vedranno quella luce nei suoi occhi, e spero che qualcuno di questi, possa dire ad Alemao che il suo ricordo è conservato in queste brevi pagine, scritte da un italiano che è stato suo amico a Salvador de Bahia. Ho la certezza che, quelli che riusciranno a notare il bagliore negli occhi del Maestro dei Poveri, lo riconosceranno subito, perché Alemao da Itaparica sa parlare cogli occhi.

Questo pensavo mentre attendevo l’aereo che sarebbe partito alle due e trenta della notte e che mi avrebbe riportato, nel tragitto inverso, fino a Lisbona. La notte, in aereo, dormii tutto il viaggio sognando un ritorno a Salvador, sognando i venditori che avevamo conosciuto, le mercanzie che stavamo riportando in Italia, meditando sui ricordi che ci avrebbero assalito durante i giorni successivi accompagnati dalla solita nostalgia ma, più di tutti, sognai Alemao, la sua tranquillità, la sua saggezza e la sua arte di vivere.

Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati a Salvador de Bahia

 

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