No problem

di Luigi Berliri –

Se qualche georgiano vi dovesse dire “no problem”, e’ giunto il momento di cominciare a preoccuparvi. E se poi aggiungesse che un eventuale intoppo si “risolve in cinque minuti”, mettete in programma di dover perdere, se vi va bene, almeno un’ora. Insomma nei paesi ex comunisti si vive in una specie di limbo dove tempo e spazio hanno una dimensione diversa da quella dei paesi occidentali. Un consiglio quindi: se volete visitare un paese come la Georgia (ma anche tutta la Russia) chiudete in una valigia il vostro concetto di efficienza lasciate a casa eventuali programmi basati su orari e coincidenze. Abbracciate la mentalità del luogo basata su concezioni del tutto astratte e tutto scorrerà liscio. Altrimenti saranno guai. E guai seri. Specialmente se vi recate nell’ex Unione Sovietica per lavoro. Lo scopo del mio viaggio era, appunto, di lavoro: andare a Batumi, capitale dell’Adjari una delle quattro repubbliche autonome che formano la Repubblica della Georgia, per assistere alla prima di Otello di Verdi. Con l’occasione, mi era stato promesso, avrei potuto incontrare l’ex ministro degli esteri dell’Unione Sovietica Eduard Shevarnadze, attualmente presidente della repubblica della Georgia. Tempi ben definiti, quindi, tre giorni in tutto con coincidenze prefissate e rientro a Roma passando da Monaco in quanto un volo diretto da Istanbul non era possibile. Un inviato deve sempre mettere in bilancio un piccolo incidente di percorso, ma vedersi trasformare un viaggio, seppure avventuroso, in un delirio, e’ comunque troppo. Mi ero avvicinato, infatti, a questo mondo fantasmagorico senza conoscerne i pericoli, pensando che quanto concordato prima della partenza fosse Vangelo. In Georgia ci sarei andato con Marco Santarelli un collega di Milano Finanza.

Ci siamo subito imbattuti nella prima difficoltà. Abbiamo ignorato una dannatissima nota in calce all’orario ferroviario, piccolissima come le clausole di una polizza assicurativa, che ci avvertiva della soppressione per il periodo estivo del treno che ci avrebbe dovuto portare a Fiumicino. Ci siamo così ritrovati seduti sulla panchina di una stazione di Roma Ostiense deserta, davanti a un binario vuoto, con un’ora in meno di sonno e tanto tempo da attendere. Arriviamo quindi in aeroporto sul filo di lana… e scopriamo che il nostro volo partirà con una mezz’ora di ritardo. Mezz’ora che si trasforma, con l’andare del tempo in più di in un’ora e mezzo di attesa seduti in aereo “causa”, dice il comandante, “traffico aereo congestionato sulla Grecia”. In mezzo a una folla di vacanzieri impazienti di gettarsi nel mare turco, in giacca e cravatta, ci sentiamo come delle mosche bianche. Il nostro aspetto deve essere stato di una grandissima professionalità, visto che una signora ci scambia per dei milanesi. Partiamo finalmente per Istanbul con quasi due ore di ritardo. Il pranzo a bordo, non corrisponde affatto con quanto scritto sul menu, eì modestissimo. Particolarmente cattiva la mela cotta prevista per dolce, coperta da una crema talmente insulsa che sembra acqua. Tanto e’ cattivo il pasto quanto e’ premuroso l’equipaggio che scoperto che siamo giornalisti, si prodiga per coccolarci. Ad attaccare bottone il capo equipaggio che mi dice che ha letto un libro dello stesso autore (G.B.Guerri), di quello che mi sono portato per leggere in viaggio. Insomma, una tessera stampa fa sempre effetto. Gli accordi con le autorità georgiane prevedono che l’aereo personale del presidente ci venga a prendere, non abbiamo ancora capito dove, per portarci a destinazione. Ragione per la quale atterrando a Istanbul tentiamo di individuare l’apparecchio che ci avrebbe rilevato. Arrivati a terra, invece, abbiamo solo il tempo di fare una fotografia ricordo tipo emigranti, davanti all’aeroporto, che veniamo caricati in macchina da Ibraim. Il mio compagno di viaggio, tenta un improbabile approccio con il guidatore (il tizio sa si e no il turco) prima in inglese e poi in francese. Tutto inutile. Santarelli chiede la durata di questo viaggio. Crediamo di capire due ore. Mi tolgo giacca e cravatta, prendo la macchina fotografica e mi rassegno. Santarelli si siede comodo, allacciamo le cinture di sicurezza. Partiamo a razzo…e arriviamo dopo un minuto all’aerostazione nazionale. Ibraim ci mette in mano due biglietti aerei uno per Ankara e un altro per la tratta Ankara Trebisonda. Piombiamo nello sconforto. Una sensazione che non ci abbandonerà più per tutto il viaggio e che anzi andrà sempre più aumentando. Partiamo per Ankara alle 15. In aereo conosciamo una coppia di Batumi, la nostra meta finale. Più parliamo con loro più il barometro del nostro morale scende verso il brutto stabile. Quello che ci aspetta, secondo il nostro amico, una volta arrivati a Trebisonda, sono minimo tre ore di automobile fino alla Georgia. Siccome l’uomo vive di speranze…e di illusione scacciamo i più tristi pronostici che si affollano al nostro orizzonte. E facciamo male. Saremmo stai più pronti a sopportare quello che ci aspettava. Saliamo dunque a bordo: agnelli sacrificali ancora ignari del loro destino. Simpatico, anche se non eccessivamente buono, lo spuntino che ci viene servito. Una scatoletta di cartone con un club sandwich al prosciutto cotto e formaggio e un dolcetto. Prendo tutto ma assaggio solo il dolcetto. Marco, invece, prende tutto (compreso il mio tramezzino) e lo mette da parte, sottraendo il suo tesoro dalle mani rapace dello steward che lo vorrebbe ritirare. Non si sa mai….Il volo dura una quarantina di minuti. Segue una sosta di un’ora all’aeroporto di Ankara. Nel salone, con grande vetrata che si affaccia sulle piste, c’è la conferma dello scontro tra due mondi che si scontrano e si integrano: donne velate e no, uomini in giacca e in kaftano. Pulizia ovunque (tranne nei bagni). Niente carte in terra portacenere vuotati ogni mezz’ora. Si dovrebbero far venire qui per uno stage dirigenti e dipendenti di Aeroporti di Roma. Intorno a noi trillano i portatili: anche in Turchia impazza il cellulare. Il mio collega si dedica allo sport preferito dell’italiano all’estero: telefonare a casa. E scopre che una telefonata dalla Turchia a un family di un abbonato italiano costa molto meno che chiamare lo stesso dall’Italia. Io intanto parlo con il georgiano che abbiamo conosciuto in aereo. Dirige una società di navigazione sul mar nero e ci spiega che il suo paese e’ molto povero (la paga media mensile h di 10 dollari), ma ci assicura che presto la Georgia diventerà molto ricca grazie soprattutto alla posizione geografica favorevole. Il petrolio appena scoperto nel paese non rappresenta una grande ricchezza: e’ troppo poco e di bassa qualità. Molto meglio il gas. Inoltre la regione di Batumi dovrebbe diventare, nei disegni del governo locale, punto di raccordo tra gli oleodotti in via di costruzione per portare in occidente il petrolio dell’Azebairgian.



La moneta locale ha un valore legato al dollaro e valutato alla pari della moneta statunitense. Parlo con lui del nostro viaggio. Secondo lui sarà molto difficile che arriveremo in tempo per lo spettacolo. Ce lo impediscono il cambio di fuso (tre ore in più da Roma, due dalla Turchia) e la distanza. Al nostro amico si aggiunge un altro personaggio, con moglie e suocera tutte rigorosamente in chador: tema del giorno il nostro viaggio a Batumi. Tutti ci guardano e scuotono la testa. Noi solo non capiamo cosa succede. Ripetiamo che ci aspetta l’aereo del presidente a Trebisonda e con quello arriveremo a destinazione in una mezz’ora. Lo diciamo a loro ma anche a noi stessi. Per esorcizzare le nostre paure. La chiamata del volo ci distoglie dai nostri pensieri. Partiamo e arriviamo a destinazione. Trebisonda, fino a una decina di anni fa era la frontiera del mondo occidentale prima di una zona di duecento chilometri interdetta all’accesso perché troppo a ridosso della frontiera con il mondo comunista. L’unica diretta di un paese non comunista e membro della Nato, con l’Unione Sovietica. Adesso, invece, le cose sono cambiate e Trebisonda (porto franco e molto ricca) rappresenta la porta di accesso alla Russia. Dall’aereo appare una bellissima cittadina con grattacieli, ben alternati a case basse e bianche, piscine e strade ben tenute. Appena atterrati ripetiamo la patetica scena di Istanbul alla ricerca affannosa “dell’aereo promesso” su una pista drammaticamente deserta. Scesi a terra ecco la dura realtà: a Batumi ci si sarebbe andati in macchina. Nessun aereo o elicottero: quello che ci aspetta e’ una bellissima Mercedes nera tipo nomenclatura con tendine abbassate. Con lei avremmo fatto un lungo e avventuroso viaggio lungo le coste del mar Nero fino a Batumi, cittadina costruita nel ’41, che avrebbe dovuto, nei piani di Stalin ospitare il vertice dei 4 grandi tenutosi poi, all’ultimo momento a Yalta. A Trebisonda, per la priva volta ci imbattiamo, con una allocuzione che diventerà per noi familiare: no problem !!! Nessun problema, tutto va bene!!!. Ce la dicono subito i nostri angeli custodi David e Kusic Scopriremo più tardi che il nostro autista, Kusic, e’ un agente di polizia addetto alla sicurezza del numero due del regime locale e l’altro, David, e’ un ex marinaio facente funzioni di guardaspalle. I due ci salutano prendono i nostri bagagli, li mettono nel portabagagli e ci dicono di aspettare cinque minuti. I cinque minuti Georgiani, cominciamo a capire, durano in media mezz’ora. Questa volta, la prima, sono durati poco: i due arrivano quasi subito con una busta di bottiglie d’acqua fredda e di lattine di Coca Cola, e ci invitano a salire. Partiamo. Le strade sono molto belle. Abbastanza pulite anche se a sporcarle ci pensa il nostro autista lanciando dal finestrino cartacce e lattine vuote. Lungo la strada sono stese al sole montagne di nocciole. Le case sono basse, molte quelle non intonacate. Lo scenario e’ simile a quello di mille paesini dell’Italia meridionale. Manca pero’ quella sensazione di precarietà che si respira da noi. La Mercedes corre nella notte scesa nel frattempo. Il nostro autista beve come un otre. Meno male che h acqua. David conosce qualche parola di italiano e di inglese. L’altro solo il georgiano. Viaggiamo gia` da un’ora (e abbiamo fatto 75 chilometri) quando Marco si irrigidisce. L’autista sbanda spesso e lui, dallo specchietto si accorge che fa fatica a tenere gli occhi aperti. Spesso scuote la testa e si da` degli schiaffi sulle braccia. Per evitare pericoli inutili proponiamo di prendere un caffè. Ci fermiamo in un ristorante sul mare dove ci portano un graditissimo vassoio di frutta mista tagliata a spicchi e quattro caffè alla turca. L’aria e’ fresca, non sembra di stare in un paese subtropicale. Vicino a noi si mangiano piatti semplici ma appetitosi: una salsa di yogurt alla greca con aglio e cetrioli, verdure miste, cotolette di castrato alla brace, tanta frutta. Torniamo in macchina e Marco, scioccato dal precedente comportamento dell’autista si mette le cinture di sicurezza anche se si trova sul sedile posteriore. L’autista sembra adesso piu’ sveglio. Riprendiamo la corsa nella notte al suono di musica russa alternato con canzoni italiane. L’andatura si aggira sui 12O Km/ora su una strada stretta e tortuosa che attraversa cittadine ancora piene di vita nonostante l’ora. Semafori rossi sono regolarmente ignorati. Strombazzate e sorpassi a destra di rigore. “In confronto”, penso, “a Napoli osservano rigorosamente il codice della strada”. Sulla strada si vede di tutto. A un tratto sorpassiamo un’auto con il portellone posteriore aperto. Sul pianale troneggia una gigantesca torta nuziale a sei piani. Tutti e sei, compresa la statuina degli sposi, esposti all’aria e alla polvere della strada. Viaggiamo, viaggiamo, viaggiamo. Macinando chilometri su chilometri: senza mai arrivare. A un tratto David , quasi leggendo nel nostro pensiero, ci dice “ancora 35 minuti e si arriva”. Tutto ipotetico. In Georgia tutto e’ relativo: cosi’ i trentacinque minuti sono in realtà più di un’ora. Come se non bastasse, improvvisamente, la strada asfaltata lascia il posto a uno sterrato. Ai lati della strada grossi camion e giganteschi macchinari lasciano immaginare lavori cicolopici. La nuova situazione russa esige infatti vie di comunicazione più agevoli e moderne. Giungiamo infine alla frontiera. I Turchi non fanno problemi ma mettono solo in evidenza che manca il visto di ingresso in Georgia. “No problem”, dice David, “a questo pensiamo noi”. E ci pensano tanto bene che rimaniamo fermi per piu’ di un’ora, da mezzanotte all’una, bloccati dai soldati russi e georgiani che non hanno nessuna intenzione di farci entrare nel paese se non abbiamo tutte le carte in regola. Serie di telefonate dei nostri angeli custodi, scambio di battute con un misterioso personaggio che dovrebbe toglierci di impaccio. Nulla da fare. I soldati fanno orecchie da mercante.

Abbiamo tutto il tempo per osservare quella che era e rimane anche nel dopo Urss, la frontiera piu’ delicata del mondo. Doppi cancelli bloccano le autovetture, profondi canali rimangono a testimoniare le ispezioni che durante il regime comunista venivano fatte sotto le autovetture per evitare che, sfruttando i doppi fondi, si potesse scappare all’ovest. L’area e’ tutta illuminata con torri di guardia ormai sguarnite mentre sulla facciata della dogana c’e’ scritto, in perfetto inglese: “Welcome”. Dalla Turchia arrivano, uno dietro l’altro, camion e autovetture. Il primo a essere controllato dalle guardie di frontiera e’ un grosso autoarticolato di proprietà di una società di trasporti Russo-Inglese. Quattro chiacchiere tra guardia e autista, un timbro su un fascio di carte, un pacchetto che cambia di mano finendo nelle tasche di un soldatino diciottenne e una porta a vetri si apre lasciando passare il camion. Dietro al camion arriva traballando una vecchia corriera adibita al trasporto di bombole di gas. L’odore caratteristico del metano si spande per il posto di frontiera. La segue un camioncino pieno fino all’inverosimile di uva. Un controllo veloce dei due automezzi, evidentemente poco interessanti dal punta vista “tangenti” e i due automezzi spariscono nella notte. Al posto di guardia si ferma poi una automobile con targa tedesca. Ne scende un vecchio. Barba bianca, saio scuro portamento da santone. Nota che lo sto osservando e mi guarda con attenzione. Poi a un tratto, tutto si sblocca. Il capoguardia trattiene il tesserino dell’autista, ci rida` i passaporti e ci dice di fare il visto una volta arrivati a Batumi. Ripartiamo e arriviamo in città`. Strade larghissime, tanta polizia, illuminazione fioca. E soprattutto tanti giovani con auto di marca. Arriviamo in albergo. Stile anni 40 costruito per i 4 grandi e che invece di Stalin, Churchill, Roosvelt, De Gaule e del loro seguito, ha ospitato, fino alla caduta dell’impero sovietico, la nomenclatura comunista in vacanza sul mar Nero. Il tempo, in ogni caso, si è fermato a 50 anni fa. Anche la polvere sembra risalire alla prima metà del secolo. Le luci sono soffuse a causa delle poche lampadine accese. Vetrine con volumi erotici in georgiano che fanno tenerezza a chi h abituato alla carta patinata e alle immagini sfacciate che si vedono nelle nostre edicole. Ci danno le chiavi delle stanze. Dormiremo insieme. Percorriamo un lungo corridoio, anche lui polveroso, e saliamo una scala di legno che scricchiola a ogni passo. Ai vari piani, come al tempo dei soviet, siede ancora la guardapiano incaricata di sorvegliare gli ospiti. La sua divisa e’ ancora quella del tempo di Stalin: grembiule nero accollato e lungo quasi fino alla caviglia. Eta` media sessanta anni. Capelli pettinati stile anni quaranta e tanta, tanta malagrazia. Tentiamo di aprire la porta ma la chiave, fatta a mano in ottone tenero, non ha ragione della serratura e si deforma. Arriva tosto la virago che ci aiuta e non senza una certa difficoltà apre la porta. Aspettando una mancia che non viene. Le stanze sono in linea con l’ambiente. Pulizia vaga. Impianti igienici fatiscenti. Vasca arrugginita. Saponette usate. Letti puliti…ma fai da te tipo militare: coperta e lenzuolo superiore piegati in fondo al giaciglio. Letti che, scopriamo il giorno successivo, non vengono rifatti dalle cameriere ma dagli stessi clienti. Le camere danno su una via laterale, poco trafficata e con automobili, poche e datate, posteggiate lungo il marciapiede. I nostri angeli custodi ci vengono a prendere per portarci, finalmente a mangiare. Andiamo in un locale all’aperto molto caratteristico che avevamo adocchiato dalle finestre dell’albergo. Pochi tavolini e un odore latente di latrina. Cosa ovvia, visto che i bagni, a cielo aperto, confinano con lo spiazzo nel quale si mangia. Il menu e’ semplice e appetitoso: insalata di cetrioli, pomodori, cipolla e peperoncino, pizza farcita al formaggio, caciotta sciapa condita con una salsa piccante ai lamponi, un pasticcio composto da patate cipolle e funghi. Il tutto viene annaffiato da vino locale resinato e birra. Da una radio portatile attaccata a un chiodo arriva musica italiana: Celentano (scopriremo che il molleggiato e’ un vero mito in Georgia), Pupo, Tessuto, Morandi. La nostra fatica però non è ancora finita. Appena cenato David ci propone un giretto per vedere il paese di notte. Non ce la facciamo proprio: sono quasi dodici ore che siamo in viaggio. Giungiamo a un compromesso: andremo su una terrazza dell’albergo a prendere l’ennesimo caffè. Torniamo dunque in albergo dove nell’atrio stazionano molte belle ragazze. Non certo prostitute ma giovani che ti squadrano desiderose di attaccare discorso. Il bar dell’albergo e’ al chiuso, in un angolo dell’atrio, con due tavolini e una luce cimiteriale. A ogni piano, invece, ci sono bar privati gestiti da persone industriose che offrono servizi sulle terrazze. David ci presenta quattro studentesse di Tiblisi. Appartengono alla borghesia medio alta e sono un chiaro esempio del riciclaggio della vecchia nomenclatura, visto che una di loro ci dice che la madre, da tempo, passa le sue vacanze a Rimini. La sensazione che appartengano all’attuale classe alta del paese e’ confermata dai prezzi delle camere dell’albergo, circa 70 dollari al giorno. Mangiano cocomero e ridono quando gli diciamo il nome del frutto nella nostra lingua. Riusciamo finalmente a sganciarci e ad andare a letto. Al nostro risveglio ci troviamo catapultati nella Versilia degli anni trenta. trasportata in un clima subtropicale con piante di canfora, di ficus e di eucalipti. Sembra che il tempo si sia fermato portandoci indietro di più di sessantenni. Lungo le strade donne attempate scopano i marciapiedi con corte spazzolette e raccattano l’immondezza con palette da camino. Tutto e’ pulito, lindo. Le strade sembrano appena lavate. Dalle case vicine pendono fasci di fili della luce.

Il ristorante dove facciamo colazione conferma la mia sensazione di essere tornato indietro nel tempo: sala immensa, grandi vetrate, lampadari di cristallo dalle mille gocce, tavoli piccoli con poltroncine al posto delle sedie. Dalle finestre si vedono i giardini pubblici e sullo sfondo il Mar Nero. Scarto la solita pizza con il formaggio arricchita, questa volta da un uovo al tegamino nel centro. Scarto anche il piatto forte costituito da due salsicciotti e due cucchiaiate di purea di patate e una bottiglia di vino per annaffiare il tutto. Opto, con grande disapprovazione della cameriera, per un semplice caffè (ovviamente alla turca). Scendo nell’atrio. Di fronte al banco con le riviste ce ne un altro con i “tesori” del mondo post comunista esposti come fossero bracciali d’oro o pietre preziose. In una bacheca a giorno fanno bella mostra rasoi a mano, pacchi di calze da donna, confezioni di crema solare, tubetti di dentifricio e lamette da barba. Il tutto a prezzi esorbitanti. Calcolando che il salario medio di un operaio è di 10 dollari al mese e il cambio con la moneta e’ paritario, per comperare un rasoio (13,30 lari) un comune cittadino dovrebbe metterci circa un anno. Sull’atrio si aprono varie stanze. In una c’è la bottega del barbiere e in un’altra il lucida scarpe. Esco fuori e mi tuffo nel mondo esterno. L’albergo dà su un parco pubblico ricco di piante delle più diverse specie. Donne ginocchioni nei prati eliminano le erbacce, mentre tre o quattro fotografi ambulanti reclamizzano il loro lavoro esponendo su grandi cartelloni fotografie di sposi in viaggio di nozze o di bambini in triciclo. Agli angoli dei viali donnine sedute davanti a grandi canestri vendono ai passanti semi di girasole. L’unico tocco di modernità è costituito da due chioschi costruiti da poco, nei quali si vendono Coca Cola e rullini fotografici. Lo sfondo e’ dominato da un tempietto in falso neoclassico riverniciato di fresco in un bianco abbagliante. Arrivo alla spiaggia di sassi traversando un largo viale lungo il quale scheletri panchine avrebbero permesso di vedere bagnanti in costumi anni ’60 prendere il sole. Pochi gli ombrelloni molte le seggiole pieghevoli e i fazzoletti annodati sulla testa. Un grosso barcone diffonde musica ad alto volume e carica qualche avventuroso che desidera vedere la costa dal mare. E’ tempo di tornare in albergo per iniziare il nostro programma. Nell’atrio incontriamo l’ambasciatore della Georgia a Roma (la repubblica ha un ambasciatore senza la reciproca presenza di un diplomatico italiano). Scopriamo che il motivo per il quale siamo arrivati fino qua già, la prima di Otello, c’e’ gia` stata. Anzi, a causa del fuso orario, tutto era gia` concluso quando eravamo ancora ad Ankara in attesa del volo per Trebisonda. Una vera rovina. Al termine della prima di avvicinare Scevarnadze e per intervistarlo. L’ambasciatore ci spiega quindi i nostri impegni: visita al circolo del tennis dove incontraro un certo Levan, numero due della nomenclatura locale. Avremo quindi fatto una puntatina alla sede della televisione locale per vedere la registrazione dell’opera che non avevamo potuto vedere dal vivo. Qui erano previste una serie di interviste nel corso delle quali avremmo dovuto dare il nostro giudizio sull’avvenimento. A seguire era prevista una visita al teatro dell’Opera per un incontro con il regista e il tenore che aveva impersonato Otello e per vedere le scenografie. Chiedo “Il nostro ritorno come avverrà? E per il visto, come si fa?”. Solita riposta: “nessun problema….anzi si'”. Prima di una settimana non e’ possibile partire: sui voli per Trebisonda o Istanbul non ci sono posti”. Santarelli ed io ci guardiamo perplessi. L’ambasciatore, pensoso, però aggiunge: “nessun problema: troveremo una soluzione. Intanto cominciamo la visita”. Ci avrebbe accompagnati il figlio ventunenne dell’ambasciatore, tifa per la Roma, e che ci farà anche da interprete. Arriviamo al circolo del tennis ed entriamo in un complesso modernissimo che stona in quell’atmosfera di mezzo secolo fa. E’ dipinto in un verde ramarro, assolato. Costruito da poco gia` presenta i segni di un inizio di decadenza. Levan, pancetta prominente, altezza medio bassa, pantaloni corti e rolex d’oro al polso, ci accoglie con modi e parole da gerarchetto di bassa tacca. Chiarisce subito di essere il numero due del regime locale e tiene a precisare che se siamo a Batumi e’ solo per merito suo. Ripeto anche a lui la domanda: “come si torna a Istanbul in tempo per l’aereo che ci dovrebbe riportare in Europa?”. Levan candidamente conferma che non c’è modo di partire nel breve periodo, ma che poi si vedrà come fare. Insistiamo e alla fine ci promette un’auto e un autista che ci avrebbero portato in 18 ore a Istanbul. “D’altra parte”, dice Levan e traduce in romanesco il figlio dell’ambasciatore, “nessuno ci aveva detto che avevate fretta di ripartire. Nel frattempo, però, parliamo d’opera”. Per una buona mezz’ora ci intrattiene sull’argomento rifiutando ogni risposta su argomenti diversi dal bel canto. E tacendo prontamente non appena tiro fuori il registratore. “Siete qui per l’opera”, dice, “ogni altro argomento e’ escluso”, sbotta seccamente il nostro ospite bloccando i miei tentativi di portare il discorso su altri argomenti. Unica concessione a qualche cosa di diverso e’ la visita al residence di proprietà, come il circolo, del nostro amico Levan. “Dotato”, tiene a precisare con orgoglio il nostro ospite, “di tazza del gabinetto e bidè”. Costo medio di un appartamentino con annesso giardino 100 dollari al giorno. E’ arrivato comunque il momento di andare alla sede della televisione. Ci andiamo con la solita Mercedes che ci aveva portato, la notte precedente, a Batumi. La sede della televisione Adjara non ha nulla a che vedere con una moderna stazione televisiva. Una porta a vetri, vecchia e scrostata, del tutto simile a quella di una comune bottega di una drogheria della Sila più profonda, immette in uno stretto corridoio male illuminato e ad una scala in legno. La sensazione di essere entrati in una vecchia e’ confermata da una vecchia venditrice ambulante che offre dolci e pagnotte da una tavola apparecchiata e appoggiata ad una parete del corridoio. A meta’ della scala c’è la sala di regia. Più su ci sono le sale di trasmissione vecchie e piene di polvere, illuminate da lampadine da 25 candele sulle quali hanno lasciato il loro ricordo generazioni di mosche. Le stanze sono buie e le pareti piene di manifesti di mari lontani o di artisti sconosciuti. Ma se l’ambiente e’ vecchio e le apparecchiature obsolete, lo spirito e l’entusiasmo sono alle stelle. La televisione Georgiana, apprendiamo, trasmette 5 ore al giorno e quella Adjara 2 e mezzo. Visioniamo la cassetta dell’Otello (discreta visto i sistemi di registrazione). Spingo il mio zelo fino a chiedere la cassetta dell’Aida che era stata rappresentata l’anno precedente. “Voglio vedere”, dico, “il progresso fatto dagli artisti”. In terrazzo ci fanno due interviste nelle quali ci lasciamo andare a commenti entusiasti sugli artisti, e quindi, dopo un’ora e mezzo si riparte. Scendiamo le scale e noto subito che la vecchia e la sua mercanzia sono scomparsi. Aspettiamo per la strada i soliti 5 minuti georgiani in attesa di una cassetta con alcuni passi dell’opera da riportare in Italia. La pausa ci consente di dare un’occhiata intorno. Sulla facciata della palazzina della televisione, squadre di operai sono all’opera per dare una rinfrescata all’intonaco. Nell’edificio a sinistra ci sono due o tre negozi. Semplici botteghe con bancarelle all’aperto sulle quali si vede di tutto. Ad un angolo del palazzo in un avveniristico negozio si sviluppano e si stampano le fotografie in un’ora. Torniamo a piedi, attraverso strade ampie e alberate, al circolo del tennis che, scopriamo, si trova in un’isola pedonale. Appena il tempo di bere un bicchiere di acqua fresca e si riparte per il teatro. Qui, altra intervista, visita alle scene e stretta di mano al tenore che ha cantato l’Otello e al regista. Si torna poi in Albergo dove ci arriva, finalmente il visto di entrata in Georgia. Resta da risolvere il piccolo problema del timbro di ingresso nella repubblica georgiana, visto che per quasi 20 ore non siamo stati in nessuna parte del mondo. L’ambasciatore risolve il tutto con il classico “no problem”.

Facciamo le valigie e siamo pronti a partire. Resta ancora una cosa da fare: incontrare il presidente della repubblica Adjara, Abashyz. Torniamo quindi al circolo del Tennis. Levan, sorridente e ammiccante ci dice: tra cinque minuti arriva Abashyz. I cinque minuti, si trasformano nella solita ora. Sotto il sole, con l’occhio fisso sull’orologio, frementi perchè inesorabilmente il tempo passa e nessuno si vede, aspettiamo. Finalmente la scorta si agita. Levan ci fa un segno invitandoci a entrare nella palazzina. Siamo ammessi alla presenza del gran capo. Un uomo basso e semipelato, 56 anni ci dicono, ma ne dimostra un decina di più. Camicia celeste a maniche corte. Ci sediamo intorno a un tavolo con frutta, olive, noccioline e pistacchi. Iniziamo il colloquio intervista. Tutto, ovviamente, imperniato sulla musica. Abashyz si crede un vero Mecenate. Parla con voce monotona ed elenca i suoi meriti nel campo della cultura con un occhio particolare alla lirica. “Siamo alla quarta edizione della stagione”, dice Abashyz in Georgiano e il figlio dell’ambasciatore traduce. “Ma vorremmo che venisse organizzata una tourne in Italia”, aggiunge, “voi ci dovrete aiutare”. Chiedo: “avete preferenze? “. Lui “la Scala di Milano o l’opera di Roma”. Faccio fatica a non ridere e visto che quello e’ serio, propongo:” e perchè non a Verona?”. Abashyz, bonta` sua, lo esclude: “troppo grande”. Veniamo poi al tipo di opera che si vorrebbe rappresentare. Santarelli, perfido, suggerisce l’opera di un autore locale: Lella. “E’ ambientata a Roma”, dice, “quindi la sede naturale e’ la Capitale”. Il presidente dell’Adjari, ovviamente, e’ d’accordo. Passa il tempo. Guardo l’orologio: l’ora della partenza h trascorsa da tempo e Abashyz continua a parlare. Arriva un cameriere con un bottiglia di champagne. “Brindiamo all’arte” dice il nostro ospite. Eseguiamo. Brucio per i minuti che trascorrono lentamente ma inesorabilmente. Abashyz inizia a parlare della bravura e della perizia dei tenori adjari. A sentir lui Pavarotti, in confronto, h un corista di chiesa. Mentre Abashyz parla, io mangio a sazieta` la frutta che e’ sul tavolo. Ottima idea, in quanto non mangiamo dalla notte precedente e, visti i tempi che si allungano non sappiamo quando potremo mangiare di nuovo. A un tratto dico: “veramente bravi, i cantanti. Abbiamo visto le registrazioni dell’opera: ci hanno commosso”. “Voglio inviarli in Italia per un corso di perfezionamento”, dice a sua volta il presidente, “ma l’ambasciata di Italia a Mosca ci mette una vita per darci il visto. Ci potete aiutare”. “Senza dubbio”, ribatto prontamente, pentendomi di avere affrontato l’argomento e con il pensiero gia` in viaggio per Istanbul, “appena arrivati a Roma presenteremo il caso al presidente della commissione affari esteri del Senato”. Ma il nostro ospite ha un’idea brillante: dovete conoscere i tenori per darmi un giudizio. Levan parte a gambe levate. E allora capisco: l’aereo personale di Abashyz non e’ venuto a prenderci a Trebisonda, perche’ nessuno glielo ha mai chiesto. Levan ha voluto fargli trovare i due giornalisti facendogli una sorpresa. Noto che il presidente fa per alzarsi. Occhiata a Santarelli e scatto. Falso allarme, Abashyz brinda alle donne. Finalmente c’è il via libera a partire. Scappiamo come due scolari alla fine delle lezioni. Baci, abbracci, saluti e inviti “a tornare con mogli e amanti”.
Penso alla mia, di moglie, così rigida negli orari: sarebbe già scoppiata. “Resta un piccolo problema”, obietto, “abbiamo il visto sul passaporto, ma non abbiamo quello di entrata nel paese”. Scatta il solito “no problem” e quello che fino ad allora avevamo creduto un cameriere, avendoci servito a tavola, si rivela, invece un pezzo grosso della polizia. Sara` lui, ci dice il rubicondo Levan, a parlare con le guardie confinarie e a sistemare tutto. Usciamo finalmente all’aperto. Levan ci regala una bottiglia d’acqua a testa e dice: “presto verrà in Italia. Ci sono stato quindici anni fa. Ho visto Capri”. Facciamo due conti: il nostro amico galleggia da molto tempo e deve essere passato indenne da un regime all’altro. La macchina non si vede. Guardo preoccupato l’orologio.” Five minutes”, dice Levan, “e la macchina arriva”. Il nostro timore e’ che ci diano l’autista dell’andata. Sedici ore in auto con uno sempre in procinto di addormentarsi sarebbe un incubo. I cinque minuti, ovviamente, sono minuti georgiani e così, solo dopo un quarto d’ora abbondante vediamo, arrivare una Toyota con un uomo e un bambino. Saranno loro, Robert e suo figlio Serghei, i nostri angeli custodi per le prossime 24 ore. Anche qui baci e abbracci con il sottopancia.

Saliamo a bordo e finalmente partiamo preceduti da una vecchia 125 Lada, la Fiat russa costruita a Togliattigrad, con a bordo il poliziotto che dovrà farci passare la frontiera. Ai posti di blocco i poliziotti si mettono sull’attenti e ci salutano. Alla luce del giorno la strada fatta la notte scorsa e’ completamente diversa. Rettilinei molto larghi fiancheggiati da eucalipti. Poche le automobili, molte, invece, le mucche. Quasi alla moda indiana passeggiano tranquillamente per la strada e i nostro autista fa lo slalom tra le vacche. A destra e a sinistra scorre velocemente la campagna. Vediamo l’aeroporto di Batumi…pieno di mucche e capre che passeggiano tranquillamente brucando l’erba delle piste. Robert, l’autista, parla solo georgiano. Serghej, suo figlio di 14 anni, mastica un po’ di inglese. Chiediamo: “quanti chilometri a Istanbul?”. Risponde Robert nella sua lingua, tenta la traduzione il figlio, rinuncia e scrive su un foglio 1300. Riprende Robert e traduce il ragazzino: “a che ora dovete essere a Istanbul?”. Rispondo: “alle 15”. “E il biglietto e’ a posto?”, chiede l’autista. “Tutto in ordine”, dico io. Robert insiste: “volete dormire lungo la strada? Volete mangiare?”. “Assolutamente no”, diciamo per evitare ogni scusa per rallentare un viaggio che prevediamo avventuroso. Siamo intanto arrivati alla frontiera. Molto meno imponente di quanto ci era sembrato durante la notte. Ci fermiamo alla sbarra del piazzale della dogana georgiana. La nostra scorta prende i nostri passaporti, entra in un edificio, parla con un tizio seduto sui gradini di una scala. I documenti passano di mano e un giovanotto trotterella verso un container che funge da ufficio. Trascorrono una decina di minuti e poi ci vengono restituiti: siamo finalmente entrati in Georgia. Adesso dobbiamo uscirne. Ci indicano un altro gabbiotto. Ci mettiamo in fila dietro un turba di locali vocianti. Viene il nostro autista ci prende i documenti, passa davanti a tutti e ci fa dare il visto d’uscita. Altro visto, questa volta per l’autoveicolo. Dopo tre quarti d’ora un soldato indolente che fuma una sigaretta alza la sbarra di confine: siamo in Turchia. Dobbiamo anche qui farci mettere il visto di ingresso. Ci mettiamo in coda dietro gli occupanti di un vecchio autobus. Interviene Robert: “Effendi”, dice al poliziotto, “questi sono due giornalisti italiani e io sono il loro autista. Stiamo correndo a Istanbul”. Il turco, fra le proteste dei viaggiatori, timbra i nostri passaporti e ce li restituisce.

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Giorgio
Giorgio
7 anni fa

Salve Sig. Berliri. Ho letto il suo racconto tutto d’un fiato, davvero incuriosito perchè dalla Georgia sono tornato neanche 10 giorni fa; la mia è stata una brevissima avventura di poco più di 72 ore nette passate nel paese (quindi voli non compresi in tale lasso temporale). Si, ammetto e concordo che la Georgia è un paese particolare ed aggiungo anche “ovviamente”; è una repubblica caucasica e viaggiare li non può essere come girare la Francia o la Germania. Io stesso avevo messo in programma di vedere 10 cose (numero casuale) e poi ne ho viste 8, proprio perchè gli… Leggi il resto »