Le strade dell’Albania sono lastricate di buone intenzioni

di Pierluigi Cortesi –

Brindisi – Vlore. Sono quasi le 20 quando raggiungiamo Brindisi dopo una decina di ore di viaggio in cui io e Arianna ci siamo alternati alla guida della sua Lancia Y, con un paio di soste soltanto per pranzare, fare rifornimento e sgranchirci le gambe. La media supera di poco i 100 km/h e per mantenerla ho dovuto imporre qualche forzatura alle mie abitudini di guida, ma volevamo arrivare al porto possibilmente in anticipo, prevenendo i possibili ritardi dovuti a inconvenienti.

In realtà è filato tutto liscio e per fare novecento km da Livorno a Brindisi le ore impiegate sono state meno di nove . soste escluse . anche se a me- sono parse lunghe e fiacche, specialmente gli ultimi km che sembravano non terminare mai. Però poi il senso di stanchezza si è ribaltato in soddisfazione quando ho confrontato questa tappa con quelle previste dal progetto di viaggio originario: all’inizio dell’anno, sollecitato da vari resoconti scovati in internet e da colloqui con alcuni conoscenti albanesi, avevo programmato un tour ciclistico primaverile nel Paese delle Aquile. La durata totale prevista era di una dozzina di giorni; per raggiungere la Puglia, ricalcando (ma ad un’andatura più tranquilla) un raid Toscana-Puglia di dieci anni fa, avevo ipotizzato di pedalare alla media di 150 km/giorno, per sei tappe, di cui l’ultima sarebbe stata a casa di mio cugino a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi. Poi avrei preso il traghetto per Vlorë, ovvero Valona, e in Albania avrei avuto a disposizione altri 5 o 6 giorni per visitare nell’ordine Sarandë, Butrint, Syri i Kalter, Gjirokaster, Berat, Apollonia, Vlorë. Una volta in Italia, sarei poi tornato a casa con un volo Ryan Air da Brindisi a Pisa.

Già, ma perché proprio l’Albania? Me lo sono sentito chiedere da tanti (me compreso) senza mai riuscire a fornire una risposta precisa e univoca: spirito di avventura in un paese che tanti luoghi comuni indicano arretrato, incapace di parlare lingue diverse dalla propria, oltre che privo di vie di comunicazione degne di questo nome, quasi una sorta di Terzo Mondo dietro l’angolo; desiderio di vedere una natura ancora selvaggia e incontaminata dal cemento e dall’asfalto, prima che il turismo di massa snaturi e omologhi tutto; curiosità per un paese tanto vicino geograficamente, quanto lontano per stile di vita; desiderio di sfatare tutti i pregiudizi che vanno a individuare negli Albanesi – come anche Rumeni, Rom, Marocchini e altri immigrati – il comodo capro espiatorio di ogni problema nazionale; un pizzico di snobismo nel fare una scelta , se non proprio controcorrente, almeno poco consueta. Quale che, in origine, fosse la motivazione più profonda, mi ero via via confermato nella mia scelta, documentandomi sul percorso e le singole mete e cercando, ma invano, di coinvolgere nel cicloviaggio anche qualche amico.

All’inizio di Aprile tutto era pronto per il primo colpo di pedale, quando, poco prima della partenza, si è fatta avanti la mia figlia più piccola, Arianna; desiderosa di sfruttare per una vacanza un momento in cui è libera da impegni di lavoro e non è ancora assorbita dai suoi futuri obblighi di mamma. Più che la rinuncia alla bici, è stato il peso della responsabilità di padre e di futuro nonno a farmi esitare, ma poi mi sono rassicurato pensando che dei due è senz’altro lei la persona più assennata e responsabile e poi poter partire, esplorare, vagabondare con un figlio è un’esperienza troppo rara e incomparabile, per potervi rinunziare. Del resto, non è il primo viaggio che facciamo insieme: il nostro sodalizio è stato già rodato in un tour ciclistico all’isola d’Elba e in altri viaggi alla ventura (Irlanda, Puglia…) e so fin da ora che non ci saranno problemi di affiatamento. La proposta è stata dunque accettata e l’unico sacrificio, oltre all’uso dell’auto, è quello di rimandare la partenza di qualche settimana; in compenso il tempo risparmiato col viaggio in auto fino alla Puglia, permetterà di protrarre di qualche giorno la visita dell’Albania.

Ed ora eccoci qui a Brindisi. Lasciata la superstrada Bari.Lecce, seguiamo le indicazioni per il porto. Molti sono in rete i siti che si occupano delle rotte e delle compagnie che collegano Brindisi all’Albania (che poi in bassa stagione si riducono alla nave della compagnia Red Star per Vlorë), ma è un problema individuare quale sia il punto esatto dell’imbarco.
Raggiungiamo il porto, o meglio la Capitaneria di Porto, dato che a Brindisi come in altre importanti città portuali occorre distinguere tra porto militare, commerciale, industriale e turistico; ma – data l’ora – non troviamo aperti uffici informazioni o semplici chioschi per turisti a cui rivolgerci. Ci arrangiamo chiedendo a qualche passante e a dei militari di guardia alla Capitaneria Dopo qualche incertezza otteniamo l’indirizzo: Stazione Marittima “Brindisi Terminal” . Costa Morena Terrare. Seguiamo le indicazioni e finalmente, scartato un molo dalla stessa denominazione a 500 m. di distanza, raggiungiamo il Terminal … solo per scoprire che la maggior parte degli uffici è chiusa e che comunque non è quello il luogo a cui rivolgerci. Veniamo inviati all’ingresso del molo e qui finalmente possiamo fare il check.in presso un botteghino intorno al quale si affollano decine di persone, presumibilmente tutte albanesi. Poco più avanti, oltre un varco presidiato dalla Finanza, si apre l’area riservata alla raccolta e all’imbarco dei mezzi, di cui se ne intravede qualcuno fermo a luci spente.

Parcheggiamo in attesa di un segnale o di un avviso che indichi il momento di imbarcarci. Ci sono anche altre macchine, parcheggiate qua e là senza un ordine apparente. L’attesa è lunga, l’ora ufficiale della partenza è imminente, ma nulla si muove. Vado alla sbarra a chiedere informazioni a un finanziere, ma la risposta è di attendere con pazienza. Intanto la folla delle persone che si ammassano tra il botteghino e il varco cresce: è un turbinio di persone variamente vestite, alcune con qualche bambino al seguito, tutte con trolley, grandi sacche, borse, buste colorate, che si circola incessante tra le auto, parlottando, chiamando a distanza, telefonando, tornando a sedersi sulla propria valigia.
Finalmente la sbarra si alza; riprende l’agitazione, alcuni di noi mettono in moto, ma è l’illusione di un momento: si tratta solo di un’auto della polizia che viene fatta entrare. Dopo poco il varco si riapre, ma solo per lasciar uscire un tir e poco dopo un altro paio di camion. La scena si ripete a distanza di minuti interminabili; non si capisce se si tratta di automezzi provenienti dall’Albania che vengono fatti uscire solo ora oppure di camion a cui per qualche motivo è stato rifiutato l’imbarco. In compenso sopraggiungono altri militari in mimetica e ben armati. Sembra che ci siano dei problemi, forse stanno cercando qualcuno o qualcosa. Alcune persone appiedate cominciano a entrare, ma col contagocce: c’è un solo finanziere che deve controllare individuo per individuo, mentre un altro militare esce e si avvicina a ciascuna macchina per esaminare documenti di auto e passeggeri.

L’ora prevista per la partenza, le 23, è stata già superata, ma adesso la sbarra viene alzata senza essere più riabbassata e, come a un segnale convenuto, tutte le macchine e i tir contemporaneamente accendono i motori e si muovono convergendo verso l’apertura in una sorta di ingorgo perfetto. Per sbrogliarlo passa dell’altro tempo, anche perché prima devono ancora uscire alcuni camion e poi perché, nuovamente, un poliziotto vuole ripetere il controllo casuale delle prime auto. Quando è il mio turno inizia a esaminare i miei documenti, poi, richiamato da un collega, lascia perdere e si dedica ad altro. L’impressione di disorganizzazione e approssimazione è notevole e solo in minima parte è imputabile ai civili; ci chiediamo se questa sia la routine o si tratti di una situazione d’emergenza dovuta a motivi a noi ignoti. La sensazione non migliora una volta varcata la sbarra: prima per un nuovo ingorgo creato da camion che si bloccano a vicenda nell’incolonnarsi verso la nave e poi per un autoarticolato che non riesce a districarsi tra alcuni container parcheggiati disordinatamente sulla banchina.
Finalmente saliamo sul traghetto: è più piccolo di quelli e cui siamo abituati nella tratta Livorno-Sardegna, ma sembra molto più pieno, tanto gli automezzi, grandi o piccoli, sono stipati vicini gli uni agli altri, costringendo i passeggeri a buffe contorsioni per uscire dall’abitacolo. Per liberarci dall’oppressione provata nella lunga attesa e dal penetrante odore di cherosene e gas di scarico, raggiungiamo rapidamente i ponti superiori e otteniamo l’assegnazione della nostra cabina: è decisamente essenziale, stretta, senza finestrino e con due letti a castello, ma ha un piccolo bagno e a noi non serve altro e poi non costa molto. Giriamo per la nave che conferma la prima impressione di essere poco “vacanziera” e molto più spartana dei traghetti che fanno la spola con le nostre isole. Anche il personale di bordo è ridotto (le stesse .poche. persone ricoprono evidentemente ruoli diversi nelle varie fasi della navigazione) e non ha bisogno di sfoggiare ampi e accattivanti sorrisi. Pure i passeggeri, dagli abiti, dai bagagli e dall’espressione del viso, ricordano più i pendolari che sui treni locali tornano a casa dopo una giornata di lavoro, che non dei turisti che vanno o tornano dalle ferie. Mi sento quasi fuori posto, come se fossi un privilegiato o stessi ostentando chissà quale ricchezza.

Saliamo sull’ultimo ponte, anche per respirare un po’ d’aria pulita. Il cielo è stellato e non c’è altra illuminazione all’infuori della luce gialla dei riflettori accesi sul piazzale che inondano di una luce irreale, oltre ai cordami, agli argani e alle paratie del traghetto, il mare nero come la pece e la banchina, disseminata di container, camion, auto e persone. La mezzanotte è passata da un pezzo; proviamo ad aspettare il momento della partenza, ma dopo un po’ l’aria frizzante della brezza notturna ci spinge a rientrare nel nostro loculo. Non ci resta che sdraiarci nei nostri lettini e cercare di addormentarci prima possibile, dato che domattina dopo lo sbarco previsto per le 6 (ma sicuramente posticipato, visto che siamo ancora attraccati con quasi due ore di ritardo) avremo un bel po’ di strada da fare e cose da vedere. Il sonno arriva poco più tardi, dopo che il rumore dei motori e un leggero rollio ci annuncia che siamo finalmente salpati.

2 VLORË – BERAT
Verso le 6 un crescente tramestio, attraverso le sottili pareti della cabina, ci avverte che la maggior parte dei passeggeri è in movimento e che l’approdo non dev’essere lontano. Infatti la costa appare vicinissima, anche se i contorni e i colori non sono molto nitidi per la forte luce diffusa che filtra da un cielo velato da una leggera caligine. Attracchiamo a Vlorë (ovvero la città che i Romani chiamavano Aulona e noi oggi Valona) quasi in orario: il traghetto deve aver recuperato durante la notte. Ma la soddisfazione per la puntualità riconquistata si dissolve presto a causa del lentissimo controllo alla dogana, che viene effettuato anche qui un’auto alla volta da un solo agente e in maniera molto meticolosa; l’impressione è, comunque, che siano soprattutto gli albanesi ad essere oggetto di un controllo a dir poco scrupoloso.

Usciti dall’area doganale, parcheggiamo subito per renderci conto di dove siamo e di come impostare la giornata, ma veniamo raggiunti da uno sconosciuto in abiti civili che ci ricorda che dobbiamo dotarci di un’assicurazione per la nostra auto, visto che quella che abbiamo in Italia non è valida in Albania. Lo sapevamo, ma quando il presunto impiegato ci chiede una cinquantina di euro e si allontana per redigere i relativi documenti assicurativi, non riesco a dissipare qualche dubbio e diffidenza, tanto più che poco dopo si avvicina un altro a chiederci se per caso vogliamo cambiare del denaro in valuta locale. Decliniamo l’invito e poco dopo sopraggiunge l’impiegato che sorridendo ci porge il foglio con l’assicurazione. Lo ringrazio, un po’ imbarazzato per i miei precedenti sospetti, e finalmente partiamo avventurandoci nel cuore di Vlorë, alla ricerca come prima cosa di un cambiavalute ufficiale.
Lungo la strada in prossimità del porto ce ne sono alcuni, ma il traffico è intenso e non trovando dove parcheggiare a norma di legge finisco per allontanarmi dal centro e non incontrare più botteghini o uffici con la scritta Exchange. Poco male, avrò modo di trovarne altri proseguendo. Piuttosto quel che preoccupa sono le previsioni del tempo, che già da oggi dovrebbe peggiorare e portare pioggia fitta lungo le coste meridionali dell’Albania, per poi spostarsi verso Nord e l’interno nei prossimi giorni. Il nostro programma originario prevedeva di scendere a Sud fino a Sarandë e Butrint e poi, dal terzo giorno, procedendo in senso antiorario, dirigerci verso Est, Nord, Ovest per puntare infine a Sud su Vlorë per il rientro. Considerata la prospettiva di passare sotto l’acqua buona parte del viaggio e soprattutto quella dedicata alle zone costiere ricche di spiagge e panorami mozzafiato, decidiamo all’unanimità (a maggioranza, sarebbe stato un problema) di invertire il percorso e riservare la costa agli ultimi giorni, quando il meteo sarà sicuramente migliorato.
Prima tappa, dunque, il sito archeologico di Apollonia.
Attraversiamo Vlorë in direzione Nord; la città si prende la rivincita (ma non sarà l’unica volta, ne siamo sicuri) sulle nostre aspettative preconcette: è moderna, iperattiva, in un variopinto e caotico groviglio di persone, auto, palazzi, hotel, negozi, attività, rumori, viali alberati, persino piste ciclabili, che non ci aspettavamo; niente pare distinguerla da un’affaccendata cittadina di mare italiana, se non fosse per un minareto, il primo, che ci appare fugacemente a sinistra lungo un viale molto trafficato. È la periferia a ricondurci ad una realtà differente che lascia affiorare il retroterra nascosto di un Paese in transizione da una povertà uniforme allo sviluppo disordinato: case basse di aspetto più modesto, poche botteghe di generi alimentari o di prima necessità, piccoli stambugi con prodotti variopinti appesi all’esterno, persone di abbigliamento più dimesso, rifiuti di plastica colorata e mucchietti di spazzatura, strade con ciuffi d’erba ai bordi e qualche buca o tratto di sterrato.

Quello che ci colpisce – anche se già ne avevamo letto prima di partire – sono però le auto: in centro avevamo notato la frequenza di molte auto di grossa cilindrata prevalentemente tedesche, Mercedes, Audi, BMW, ma non ci avevamo fatto caso più di tanto; adesso invece è sorprendente la netta predominanza di Mercedes, dai modelli più nuovi e ben curati a quelli meno recenti e magari con i segni dell’età e di una manutenzione approssimativa. Per ingannare il tempo e per curiosità, mi metto a calcolare quante Mercedes incrocio per strada e in pochi minuti il mio improvvisato calcolo statistico mi porta a contarne la bellezza di 43 su 100! Scartando il malevolo pregiudizio che vede molte di queste auto frutto di furti nella ricca Europa, cerchiamo di trovare una spiegazione,: auto come status symbol, per cui un individuo appena uscito da una condizione di povertà cerca attraverso la grossa cilindrata straniera di riscattare la propria immagine sociale, come del resto avviene anche da noi? Maggiore durata e affidabilità dei modelli di questa marca, tanto più considerando le frequenti strade dissestate? Un’astuta strategia dell’industria automobilistica tedesca che mira a dominare un mercato in espansione attraverso una politica di sconti, incentivi, offerte allettanti di auto nuove o usate? La conseguenza del ritorno in patria con un’auto di prestigio dei molti lavoratori albanesi emigrati in Germania? Probabilmente non c’è una risposta unica, fatto sta che lo stupore per questa insolita asimmetria resta
Lasciata la periferia di Vlorë, a causa della scadente segnaletica eravamo finiti su una strada secondaria che andava a restringersi e a perdersi nella campagna; perciò attiviamo il navigatore e con qualche difficoltà troviamo l’imbocco dell’autostrada per Fier, o quella che come tale viene indicata anche se sarebbe più esatto parlare di superstrada. Non c’è alcun casello o cartello d’ingresso che ne indichi l’inizio o che vieti l’accesso a veicoli non autorizzati, ma non si può sbagliare: non ci sono altre strade se non malmesse, mentre questa oltre ad avere un ottimo fondo stradale e ampie corsie secondo gli standard europei, sembra anche recentissima, tanto da dare l’impressione di non essere stata ancora inaugurata. La querula voce femminile del navigatore continua a proporcela con insistenza e l’arrivo di un’altra auto (una Mercedes, inutile dirlo) in senso contrario ci toglie ogni dubbio. In perfetta solitudine percorriamo la superstrada, mantenendoci paralleli al mare sulla sinistra e a una serie di colline sulla destra.
All’altezza di Novosele usciamo sulla statale (?) e, superato il paese, a un bivio, in mancanza di indicazioni, prendiamo a sinistra; troppo tardi ci accorgiamo che si tratta di una strada (molto) secondaria che ci costringe prima a oltrepassare un fiume su un ponte di assi traballanti, poi a proseguire su uno sterrato. Poco male, ci diciamo, vedendo scorrere a pochi metri da noi la strada giusta, alla prima intersezione torneremo sulla retta via. Ma non è così facile, anche perché la retta via si allontana fino a scomparire dalla nostra vista. Ad una curva ad angolo retto ritroviamo l’asfalto e vorrei seguirlo, ma il navigatore impone di attraversarlo e di continuare a diritto sullo sterrato; lo assecondo, anche perché è quella la direzione in cui dovrebbe trovarsi Apollonia. Solo che la strada non solo si restringe, ma comincia a presentare un numero crescente di buche e pietre che ci costringono a viaggiare in prima a meno di 5 km/h; poi quando gli avvallamenti del fondo stradale diventano così frequenti e profondi, da mettere a rischio la coppa dell’olio e il sottoscocca dell’auto, ci fermiamo e Arianna, maledicendo la scelta della sua Y invece della mia Panda che è leggermente più alta da terra, si mette alla guida, mentre io a piedi le indico zigzagando il percorso per evitare le buche più profonde. Il navigatore, imperterrito continua a spronarci a proseguire per altri 500, 300, 100, 50 m. fino all’incrocio e lì svoltare a sinistra. Solo che di incroci non c’è neppure l’ombra: ci troviamo su una specie di sassoso argine o terrapieno con un fossato a destra e a sinistra, un metro più in basso, si stende all’infinito una radura umida senza alcuna traccia umana se non qualche altro lontano terrapieno. Ci fermiamo dubbiosi sul da farsi, mentre il navigatore insiste a volerci far precipitare di sotto, “a sinistra”.
Di tornare indietro non se ne parla: troppo tempo (anche se per pochi km) abbiamo impiegato per arrivare fin qui; d’altra parte la direzione è più o meno quella giusta e la strada dovrà prima o poi finire. Quindi, avanti, si prosegue. Quasi a voler rimarcare il suo dissenso, il navigatore prima tace, poi ci comunica di aver perso il segnale GPS. Mentre Arianna con la Y e io a piedi disegniamo arabeschi tra pietre e solchi, incrociamo un anziano pastore che porta al pascolo le sue pecore. Ogni tentativo di comunicare risulta vano, con evidente disappunto del vecchio, perciò non ci resta che procedere. Ormai è più di un’ora che continuiamo ad avanzare, c’è afa, in cielo le nubi hanno sostituito il sole, ma non sembra che ci sia rischio di pioggia imminente.
Da lontano vedo uno scooter che avanza verso di noi con la stessa lentezza. Per non farmi trovare impreparato prendo il mio dizionarietto italiano.albanese e cerco qualche parola e quando sopraggiunge lo scooterista gli scodello la mia frase su misura “Kjo rruga nuk mire. Ku rruga qe te Apollonia?” (più o meno “Questa strada [è] non buona. Dove [è] strada per Apollonia?”) La mancanza di verbi e articoli e la presenza di chissà quanti sfondoni in una sola frasetta lo fanno sorridere, ma deve aver capito il senso delle mie accorate parole, perché torna serio e un po’ a cenni, un po’ con qualche termine albanese che riesco a capire, drejt djathtas, majtas, kilometer (a dritto, destra, sinistra, chilometro), accompagnato da gesti e dai numerali indicati con le dita, mi spiega cosa fare. Mi fa ripetere alla meglio le istruzioni impartite e, quando è sicuro che io abbia capito, mi saluta calorosamente e riparte.
Mezzora dopo raggiungo un ponticello da cui tre ragazzini che stanno pescando in una gora con una canna improvvisata ci guardano come se fossimo la prima auto che vedono in vita loro. Siamo di nuovo sull’asfalto, tornati alla civiltà. Poco prima di Pojan c’è un posto di blocco in cui tutte le auto vengono fermate e controllate; quando è il nostro turno, però, il poliziotto, intuendo che siamo turisti diretti ad Apollonia, non ci chiede documenti, ma gentilmente ci mostra la strada da prendere. La stradina che da Pojan conduce al sito archeologico è stretta, ma ben tenuta e si inerpica con decisione su una collinetta, arrestandosi in un piazzale dove sostano vari torpedoni e una decina di auto (7 le Mercedes!).
Parcheggiata la nostra e pagati pochi euro per i due biglietti d’ingresso, iniziamo la visita: a destra si varca la cinta muraria del monastero bizantino di Shen Meri (Santa Maria) sorto – pare . sui resti di una chiesa paleocristiana. Il custode ci indica sulla destra un grande locale che doveva essere il refettorio della comunità monastica e che al suo interno contiene alle pareti degli affreschi, ma la sala è troppo buia e malridotta per capire di cosa si tratta. Lo spazio centrale del complesso, invece è occupato da una chiesa ortodossa a forma quadrata, sormontata da una cupola secondo lo stile bizantino; l’edificio è preceduto da un bel porticato delimitato da colonnine con capitelli zoomorfi e da pilastri con iscrizioni in un alfabeto che mi pare strano eppure familiare, prima di rendermi conto che è greco e che il pilastro su cui si trova è stato inserito capovolto. L’interno della chiesa è stato in parte rifatto come anche l’iconostasi i cui pannelli ritraggono, tra gli altri, Cristo e la Madonna al centro e gli arcangeli Gabriele e Michele agli estremi. Bello il pulpito in legno intagliato. Ma non c’è molto tempo per osservare i particolari, perché nella navata si precipita un’orda di bambini guidati dalle maestre che li fanno sedere per ascoltare le loro spiegazioni. Fatta qualche foto, saliamo al museo posto al primo piano sopra il portone d’ingresso.
L’Antiquarium è ben tenuto, articolato in diverse sale con vari manufatti, oggetti d’uso quotidiano, monete, monili, armi, busti, statue. Interessante, anche se non c’è niente di veramente eccezionale. Attira tuttavia la nostra attenzione per il suo realismo un grosso piede calzato, quel che resta, evidentemente di una statua in bronzo a grandezza assai maggiore del naturale raffigurante un generale o comunque un personaggio illustre.

Torniamo all’esterno del complesso monastico e entriamo nell’adiacente area archeologica, posta sul declivio erboso di una collinetta che probabilmente nasconde sottoterra ancora parte dell’antica Apollonia; che fu un’ importante città fondata da coloni greci al confine tra le regioni storiche dell’Illiria e dell’Epiro, secoli prima che queste venissero assoggettate dai Romani. Lungo una breve strada lastricata in mezzo agli olivi saliamo verso l’acropoli. I resti visibili portati alla luce dagli scavi consistono nelle rovine delle mura e nell’agorà, in cui fanno bella mostra di sé soprattutto due edifici pubblici, l’Odeon e il Bouleuterion (la cui facciata scambio inizialmente per quella di un tempio) destinati rispettivamente a ospitare spettacoli musicali e il Consiglio cittadino. Nella stessa area si trovano la Biblioteca, alcuni templi e ciò che resta di negozi e abitazioni. Non mancano cartelli esplicativi per i monumenti più importanti e l’insieme merita senz’altro una visita, anche se il turista esigente, abituato ai siti archeologici di altri Paesi (a cominciare dalla nostra Magna Grecia), può sentirsi un po’ lasciato a se stesso e lamentare la mancanza di opuscoli, guide o altro materiale illustrativo, oltre che di personale che faccia da accompagnatore.
Pranziamo al ristorantino interno all’area degli scavi in mezzo a un nugolo di bambini portati in gita dalle proprie insegnanti, i quali vociano allegramente e fanno impazzire i camerieri. È un pasto frugale, ma saporito: verdure grigliate, un vassoio di formaggi in cui spiccano una specie di ricotta (Gjize  è il nome che leggiamo sul menu e che per curiosa coincidenza si pronuncia in modo simile a cheese), un formaggio stagionato dal sapore penetrante (Djathë), e una provola un po’ più morbida (di nome Caçkavalli, ma simile più a un pecorino fresco che al nostro caciocavallo).
Ridiscesi nella piana di Fier attraversiamo la città, che, almeno apparentemente, non offre nulla di interessante, salvo l’opportunità di cambiare finalmente i nostri euro in moneta locale (al tasso ufficiale di 1 €=140 lek) e sotto la prima pioggerella della giornata, riprendiamo verso Nord sulla SH4 una strada (a tratti in via di risistemazione), per uscirne una decina di km dopo, all’altezza di Kolonje, e salire una ripida stradina fino al monastero ortodosso di Ardenice. Come tutti i luoghi di culto, sotto il regime di Hoxha, anche questo era stato chiuso e abbandonato; ma, caduto il comunismo, è stato restaurato e riaperto al culto e ora ospita una rinata comunità di monaci ortodossi di clausura. Parcheggiamo e al termine di un’ulteriore salita su uno sdrucciolevole lastricato fiancheggiato da cipressi, raggiungiamo il muro di cinta e, pagato un biglietto dal costo modesto, entriamo.

L’interno del complesso è diviso in due parti: in fondo quella riservata ai porticati coi dormitori dei monaci e all’inizio quella accessibile ai visitatori. Un piccolo piazzale costeggiato da roseti divide il portone d’ingresso con i locali alloggiati nel muro di cinta dalla chiesa vera e propria, a cui si accede tramite una breve scalinata. Dei cartelli che proibiscono severamente l’uso di macchine fotografiche e un occhiuto guardiano che ci segue muto passo passo (al momento siamo gli unici due visitatori) ci impediscono di scattare foto. Nonostante l’illuminazione non sia delle migliori, la vista dell’interno è notevole: l’unica navata, ampia ed alta con soffitto in legno, contiene affreschi pregevoli alle pareti e i tradizionali arredi delle chiese ortodosse, compreso un bel pulpito e il seggio episcopale; ma la nostra attenzione va soprattutto all’iconostasi dove le consuete immagini sacre sono immerse in un enorme pannello di legno intagliato e impreziosito da dorature. Saliamo anche al piano superiore; i locali sono vuoti , però da alcune finestrelle è possibile dare un’occhiata sia nella chiesa, sia nel cortile che ospita le celle e gli altri edifici riservati ai monaci, ma tutto appare deserto.
Riprendiamo il viaggio sotto una pioggia sempre più fitta, quando il pomeriggio ormai volge al termine. Seguiamo le indicazioni del navigatore su cui abbiamo impostato la meta finale di questa tappa odierna: Berat. Seguendo i suoi suggerimenti, lasciamo la SH4 all’altezza di Krutje, raggiungiamo Fier Shegan e puntiamo su Berat. Ma un’interruzione della strada di cui il navigatore non è al corrente ci costringe a scegliere un’alternativa che ci lascia perplessi dopo pochi km la carreggiata, paragonabile a una nostra comunale si restringe e inizia a salire serpeggiando tra le colline; proseguiamo con qualche apprensione fin quando ai torrenti di acqua e fango che solcano la strada si aggiunge prima lo sterrato, poi le immancabili buche. A questo punto non ce la sentiamo di proseguire e torniamo indietro fino alla deviazione scegliendo un’altra strada. Riusciamo a riprendere la via per Berat oltretutto su una bella strada destinata probabilmente a diventare superstrada in futuro, tanto è larga, diritta e nuova; anzi troppo nuova, dato che ad un’intersezione con una strada locale dei blocchi la sbarrano e ci costringono a prendere a destra, nonostante il cartello per Berat continui a indicare di proseguire a diritto, per una volta d’accordo col navigatore che rischia un esaurimento nervoso a forza di dover continuamente ricalcolare il percorso ad ogni nostra deviazione.



Finalmente a Ura Varjugore, superato il fiume Osum, abbiamo la rassicurazione di essere nel giusto, a pochi km dal traguardo.
È il tramonto quando raggiungiamo prima l’area industriale, poi, seguendo il lungofiume, quella del centro storico di Berat, su cui due.trecento metri più in alto incombe una cittadella fortificata. Guardando dal basso la città arrampicarsi verso la cima con le sue file di case addossate al colle per stratificazioni successive, più delle pareti bianchissime sotto i tetti scuri, si notano a centinaia gli ampi finestroni rettangolari che sono valsi alla città la definizione di “Berat dalle mille finestre”.

Cercando inutilmente un parcheggio o un ufficio informazioni, compiamo due o tre giri della zona compresa tra la rruga (via) S. Lucia lungo l’Osum e la rruga Antipatrea all’interno. Poi troviamo un po’ di spazio vicino a una moschea e decidiamo di lasciare lì l’auto per muoverci a piedi alla ricerca di informazioni o, comunque, di un posto dove dormire. Ad un incrocio troviamo casualmente un’agenzia turistica dove una ragazza in piedi sulla soglia pare appostata a caccia di turisti da spennare. In realtà la ragazza, molto gentile e disponibile si adopera a cercarci una sistemazione, vicina al centro, di buon livello e non troppo cara: la vediamo armeggiare tra i suoi fogli, chiedere a dei vicini e chiamare al telefono; dopodiché ci propone un B&B a due passi, gestito da un proprietario il sig. Shehu che tra l’altro parla un buon italiano.
Meno di cinque minuti dopo il sig. Shehu arriva di buon passo e ci guida al suo B&B: siamo fortunati si trova proprio dietro la moschea dove abbiamo parcheggiato. Aperto un portone siamo introdotti in un piccolo cortile dove si affacciano le stanze del B&B e, al piano superiore, l’abitazione del proprietario. La nostra stanza è piuttosto piccola, con due letti, un armadio a muro, un tavolino e il bagno; ma è tutto quel che ci serve ed è pulito e curato. Fuori, sotto un minipergolato c’è il tavolino per la prima colazione. Il tutto a una ventina di euro in tutto. Io e Arianna ci scambiamo uno sguardo d’intesa, è fatta.
Il sig. Shehu, prima di allontanarsi ci tiene a sottolineare che tra l’altro i materassi sono stati cambiati proprio oggi; torna poco dopo con un caffè (rigorosamente alla turca e senza zucchero!) e dei dolcetti. Visto che accettiamo la sistemazione, mi accompagna a prendere i bagagli dalla macchina e intanto chiacchieriamo: mi parla di sé, della sua famiglia e del suo lavoro: è un uomo di mezza età, funzionario del vicino museo etnografico ed è felice di poter parlare in italiano che ha studiato da autodidatta per amore dell’Italia e della sua cultura. Se domattina non dovesse venire a trovarlo la figlia, che abita nel Nord dell’Albania, sarà felice di accompagnarci nel suo tempo libero per la città e farci da guida. La sua disponibilità è quasi eccessiva e potrebbe sembrare affettata e interessata, ma guardandolo in viso mentre parla si capisce che il suo entusiasmo è sincero. Mi spiega che il quartiere in cui ci troviamo è Mangalem, il cuore pulsante della città storica (prevalentemente musulmana) e la moschea dietro la quale alloggiamo è la Xhamia e Beqarëve ovvero Moschea degli Scapoli, caratterizzata da un bel porticato e da antichi affreschi al suo interno, che mi mostra solo sbirciando da fuori, dato che è l’ora della preghiera e non è possibile entrare. Mi indica anche i due migliori ristoranti caratteristici della zona: uno è il Mangalemi annesso all’omonimo hotel a un centinaio di metri dal B&B; l’altro è l’Antigoni, al di là del fiume, poco più lontano. Ed è a quest’ultimo che Arianna sceglie di cenare.
Dopo aver utilizzato il wi-fi del B&B per telefonare a casa e tranquillizzare i rispettivi partner, usciamo e a piedi raggiungiamo il vicino ponte pedonale sull’Osum, il quale divide Mangalem dal quartiere contrapposto (anche per il prevalere della religione cristiana ortodossa) e simmetrico di Gorica, anch’esso caratterizzato da file di case bianche dalle ampie finestre appoggiate ai pendii di un colle. Il ponte è molto recente, la sua struttura in plexiglas e la forte luce bluastra dei riflettori posti sotto i nostri piedi lasciano intravedere in basso le acque vorticanti del fiume in piena, con un effetto davvero suggestivo.
Appena raggiunta l’altra sponda, saliamo al ristorante Antigoni, che, situato in un edificio a due piani,si presenta subito come un locale di buon livello, con pretese di eleganza e stile, a cominciare dalle livree del personale e dalle piante che adornano le ampie scale. Un cameriere che pala italiano ci conduce fino alla terrazza, dove scegliamo l’ultimo tavolo, quello più vicino alla ringhiera, perché permette di osservare meglio il panorama. E, in effetti, la vista è davvero incantevole: al di là della passerella, il cui blu elettrico accende di bagliori le acque del fiume, si può scorgere la Berat antica nella sua totalità; l’insieme delle abitazioni forma un triangolo luminoso che si restringe man mano che sale verso l’alto, incuneandosi prima tra i riflessi rossastri degli alberi e delle rocce sovrastanti, poi cedendo alla massa scura della cittadella che si staglia in cima al colle nel nero assoluto della notte. Peccato che un’improvvisa pioggerella ci costringa a cercare riparo in una zona più riparata della terrazza, mentre i camerieri rapidamente spostano tutta l’apparecchiatura su un altro tavolo. Scegliamo piatti tipici albanesi, riducendo l’ampia scelta alle sole pietanze vegetariane, tra cui il classico byrek (una torta salata ripiena di vari ingredienti, nel nostro caso, formaggi e spinaci), degli involtini di erbette cotti in foglie di vite accompagnati da riso bianco.
Nel dopocena approfittiamo della cessazione della pioggia per concludere la serata con una lenta passeggiata sul lungo.fiume fino al secondo ponte (in pietra, su ampie arcate e anch’esso pedonale) che collega le due sponde e le due città che si affacciano sull’Osum.

3_BERAT
Colazione nel mini patio sotto una pioggia battente che non ha smesso di scrosciare durante tutta la notte. Oltre a due espressi all’italiana ci viene portato pane, burro e marmellate fatte in casa latte freddo (anzi freddissimo, ma ieri sera ero stato incompleto nelle mie indicazioni) un formaggio fresco locale, salato e molto simile alla feta greca, che si abbina perfettamente a una specie di gnocchi fritti ancora fumanti.
La prospettiva di dover passare gran parte della giornata al riparo dall’acqua non è allettante, ma per fortuna la pioggia si attenua e io azzardo una sortita esplorativa, con l’intenzione recondita di cercare qualcosa di bollente da trangugiare. Evito di passare dalla strada principale e mi avventuro nelle stradine che dalla Moschea degli Scapoli salgono nell’interno della città vecchia, stando attento a non scivolare sul lastricato bagnato. Le viuzze si arrampicano sulla collina, interrotte da frequenti gradini, fasciate dai muri bianchissimi tanto vicini da dare l’impressione che una persona affacciata ad una finestra possa facilmente sfiorare il proprio dirimpettaio; in alto del resto sono spesso chiuse da arcate che sostengono stanzette di passaggio tra due abitazioni contrapposte; si snodano tortuose e sono tanto strette da permettere il passaggio solo a una o due persone per volta. Inoltre, grazie ai loro muri intonacati a calce, ricordano, ma in miniatura, i vicoletti di certi paesi del nostro Meridione o del Nord Africa o di qualche isola greca; e, nonostante le nuvole, riflettono bene la luce, ma immagino che siano in grado di offrire ombra e frescura anche nelle calde giornate estive.
Girovagare tra di loro è piacevole, anche se è difficile mantenere l’orientamento. Per evitare di perdermi e soprattutto di farmi aspettare troppo a lungo da Arianna, che è rimasta al B&B, riesco a tornare su rruga Antipatrea e andare alla ricerca di un bar. Il primo che scorgo ha un nome italiano, Mario, ma è un buco scuro in fondo a una scalinata e non mi va di faticare a spiegare che desidero un cappuccino e un croissant. Ne vedo un altro, ma è troppo affollato sia dentro che ai tavolini posti all’esterno, dove gli avventori, tutti uomini, fumano, bevono e parlano tra loro con chiassosa allegria.
Proseguo per la strada perfettamente rettilinea, che deve essere una delle principali, come desumo sia dall’ampiezza che dai numerosi negozi che vi si affacciano esponendo le loro merci sui marciapiedi, oltre che nelle vetrine: si tratta prevalentemente di botteghe di ortofrutta, o granaglie o altri generi alimentari, come in tanti nostri centri rurali, a cui si aggiungono mini.market o piccoli bazar, mesticherie, qualche modesto negozio di stoffe o abbigliamento; ma ciò che lascia interdetti è la quantità da noi sconosciuta di lavanderie, lavazho (cioè lavaggio auto) e barbieri. La strada è affollata, non si vedono bambini (evidentemente a scuola, data l’ora), ma neanche donne, se non poche indaffarate a portare borse con la spesa o intorno ai banchi di qualche bottega. La maggior parte degli uomini, giovani, di mezza età o anziani, sembrano invece sfaccendati impegnati a far passare il tempo tra un pasto e l’altro insieme agli amici tra bevute e discussioni di natura politica o sportiva come quelle che nell’Italia del dopoguerra animavano il sabato pomeriggio nel bar del paese.
La strada ora si allarga in una lunga piazza che mostra in fondo la chiesa ortodossa e più vicino una moschea col suo alto minareto, ma io le ignoro, perché ho avvistato un paio di bar, di cui uno di recente costruzione, che emana un’impressione di modernità e quasi di eleganza anche negli arredi e nei pochi e distinti avventori. Lo raggiungo a rapidi passi e al barman che accorre chiedo un cappuccino, prima in italiano, poi, vedendolo esitante, glielo spiego in inglese; lui mi risponde che, sì, sì, ha capito, ma al momento… poi mi chiede di attendere un attimo e improvvisamente sparisce. Io aspetto più che per qualche attimo e sto quasi per andar via, quando lo vedo sopraggiungere trafelato con in mano qualcosa (probabilmente una bustina di latte liofilizzato) che poi aggiunge, mescolando, al caffè. Il gusto è più quello di un caffellatte che di un cappuccino, ma va bene lo stesso, però mi stupisce che in un bar alla moda non abbiano latte e che sia dovuto ricorrere a un aiuto esterno. Ancor più mi sorprende il suo smarrimento quando gli chiedo un croissant o una brioche o qualunque altra cosa dolce o salata si possa mettere sotto i denti. Mi guarda desolato e al tempo stesso anche lui sorpreso, manco gli avessi chiesto un paio di scarpe. Sulla via del ritorno al B&B scorgo un altro bar che nell’insegna porta scritto anche Pasticeri; entro, avanzo anche qui la stessa richiesta e ottengo il medesimo diniego meravigliato. Cercherò poi di scoprire il perché di questa stranezza.
Mi affretto verso il B&B dove Arianna mi sta aspettando pronta a partire all’esplorazione della città. Il sig. Shehu non potrà accompagnarci, perché, come ci ha spiegato al momento della colazione, è arrivata da lontano sua figlia, però ci elargisce i suoi consigli su cosa visitare. Partiamo perciò alla volta del “Kalaja e Beratit”, il Castello di Berat, arroccato sulla cima del colle che sovrasta la città. Può essere raggiunto in auto dall’ingresso ufficiale per i turisti, a pagamento, dal punto d’incontro fra rruga Antipatrea e rruga Komneni, oppure gratuitamente dall’ingresso laterale, conosciuto solo dai locali, ma a piedi. L’imminenza di una nuova ondata di maltempo e la strada che pare salire ripida ci fanno propendere per la prima ipotesi ed è una fortuna, perché il lastricato reso viscido dalla pioggia sembra vetro su cui le stesse ruote della Y minacciano di slittare, soprattutto quando la pendenza diventa a due cifre e poi supera sicuramente il 20%. Affronto la salita nell’unica marcia possibile, la prima, lavorando con la frizione, attento a non perdere aderenza, ma anche a non far spegnere il motore. Poche volte in Italia mi è capitato di affrontare salite così impegnative e sono lieto di aver dovuto sperimentare questa in auto anziché in bici.
Finalmente, superati gli ultimi tornanti, dopo meno di un km e quasi 150 m. di dislivello, arriviamo sotto le mura del Castello. Qui un uomo, che guardiamo con l’innato sospetto che gli italiani nutrono verso i posteggiatori abusivi, ci aiuta a parcheggiare senza chiedere nulla in cambio; paghiamo i soliti 200 lek, poco più di un euro, a testa, ed entriamo attraverso un’apertura ad arco attraverso le mura.

Più che un castello quello di Berat è un villaggio fortificato risalente al Medioevo, tuttora abitato, quasi un quartiere cittadino distaccato, che al suo interno, nella parte più alta, ospita l’antica rocca andata in rovina. Dallo spiazzo all’ingresso partono alcune vie: due conducono lungo le mura, un paio salgono verso la parte alta del Castello Il selciato corre più spazioso e regolare dei vicoli di Mangalem, ma identiche sono le case imbiancate a calce che offrono un piacevole contrasto cromatico col verde dell’erba o dei cespugli e l’azzurro intenso dei pochi squarci che il cielo si degna di aprire tra le nubi; al muro di qualche abitazione adibita a improvvisato atelier, bluse, camicie, tovaglie, capi di biancheria, merletti, ricami e varia passamaneria lavorata a mano sventolano in cerca di possibili acquirenti.
Andiamo a zonzo un po’ qua e un po’ la, fino a raggiungere l’estremo della cittadella nella parte più alta e meno abitata. Una costruzione parzialmente in rovina, a metà tra una chiesa e un edificio pubblico, attira la nostra attenzione; seguendo le non molte persone del luogo che vi entrano ed escono, verifichiamo che si tratta effettivamente di una chiesa, anche se piuttosto anomala. Un signore che lì vicino ha allestito un banchetto su cui ha poggiato dei bicchieri colmi di piccole prugne verdi, ce ne offre alcune in assaggio e intanto ci spiega che l’edificio che vediamo era in realtà la chiesa ortodossa di S. Giorgio, una delle tante della cittadella, ma che sotto il regime di Enver Hoxha era stata chiusa al culto, adibita a palestra per il gioco del ping.pong dei funzionari del partito e lasciata decadere, così come erano state fatte andare in rovina le due antiche moschee del luogo: la moschea Rossa in cotto (il cui sottile minareto, semi crollato, avevo poco fa scambiato per la ciminiera di qualche opificio) e la Moschea Bianca in pietra, le cui rovine si trovano a Nord.Ovest, oltre la piazza d’armi. Lo ringraziamo per le spiegazioni e mi sento in dovere di acquistare una confezione di prugne che peraltro sono terribilmente acerbe.
Oltre la chiesa di S. Giorgio la cinta muraria si chiude, lasciando solo un’apertura in ripida discesa a gradini che conduce a uno spiazzo panoramico; da qui oltre ad ammirare la scenografica vista della città distesa ai piedi del colle, si può scendere a piedi e raggiungere l’abitato; noi però non andiamo oltre i primi metri di discesa. Sulla via del ritorno ci imbattiamo nella chiesa di Santa Maria che al suo interno alloggia il Museo Onufri; si tratta di un museo che ospita una preziosa collezione di oggetti liturgici e soprattutto icone bizantine, molte delle quali opera del più importante pittore cinquecentesco dell’Albania, il maestro Onufri, creatore di una vera e propria scuola pittorica che cercava tra l’altro di mantenere viva la tradizione religiosa cristiana in una fase storica in cui l’invasione Ottomana aveva quasi imposto la conversione all’Islam di molti albanesi. Peccato che anche qui non sia possibile scattare foto, né disporre di opuscoli e guide.
Completiamo la visita raggiungendo l’acropoli al margine occidentale della cittadella, dove passando per i resti della piazzaforte militare, invasi dalla vegetazione,si giunge alla spianata che ospita i ruderi della Moschea Bianca. Non ne restano che i ruderi e una bella scala a chiocciola che permette , dall’alto delle rovine, di godere un panorama a 270°: la vallata sottostante, segnata dalle curve sinuose del fiume Osum a Nord.Ovest,è delimitata da due gruppi contrapposti di rilievi: l’alto monte Tomorr a Est e lo Shpiragu a Ovest, entrambi legati ad antiche leggende sull’origine della città. Subito sotto i contrafforti che sostengono la spianata si scorge la chiesa ortodossa della S. Trinità, gradevole con le sue cupole in stile bizantino e l’alternanza di mattoni rossi e pietre bianche. Scatto qualche foto; un albanese ci chiede da dove veniamo e quando gli diciamo Italia, gli si illumina il viso e ci tiene a raccontarci in un italiano maccheronico che anche lui è stato nel nostro Paese, lavorando a lungo come manovale vicino a Torino. Sembra che tutti in Albania abbiano una gran simpatia per l’Italia, nonostante quello che sicuramente sentono dire degli atteggiamenti intolleranti verso gli immigrati.
Ritorna la pioggia, ma, nonostante l’intera mattinata sia stata contrassegnata da condizioni di tempo incerto, ci riteniamo fortunati per aver potuto visitare questo luogo così caratteristico in un periodo quasi privo di turismo chiassoso e invadente. I pochi abitanti del luogo incontrati per strada, il rumore del vento fra le case anziché quello dei motori, la vicinanza al cielo, pur così poco amichevole, il senso del trascorrere del tempo e della storia nella strana commistione tra antiche rovine e nuclei abitativi ancora vitali, tutto questo ci ha fatto vivere per un paio d’ore come fuori dal mondo, regalandoci un’esperienza inconsueta.
Torniamo alla macchina e iniziamo la discesa con molta cautela, anche perché ora che vediamo davanti a noi tutta la strada precipitarsi in basso diritta verso le case giù in fondo rimpicciolite dalla lontananza, la pendenza ci sembra ancora maggiore e più insidiosa. Ci fermiamo subito prima di rruga Antipatrea: di fronte all’agenzia turistica dove ieri abbiamo chiesto informazioni c’è un albergo ristorante: è il Mangalemi, uno dei due che ci erano stati consigliati ieri sera. Entriamo; a differenza dell’Antigoni, non si sale, ma si scende in una sala tutta rivestita di legno che crea un’atmosfera accogliente e gradevolmente calda dopo tutta l’umidità della mattinata. Il locale è pieno di persone, molti sono gli stranieri fra cui alcuni tedeschi ma soprattutto italiani, ben più di quanti mi aspettavo. Di comune accordo, Arianna ed io scegliamo di sederci dalla parte opposta della sala, dove si trovano dei tedeschi e un altro gruppo familiare di nazionalità ignota. E facciamo bene perché dal tavolo dei nostri compatrioti ogni tanto dei bambini, senza che nessuno li richiami, fanno delle rumorose incursioni per tutta la stanza, mettendo a rischio sia le portate che i camerieri devono distribuire fra i vari tavoli, sia la pazienza di tutti.
Ci facciamo aiutare dai camerieri, di cui uno parla bene l’italiano, per individuare i piatti vegetariani tra quelli della cucina tipica albanese che certo non lesina pietanze a base di carne o pesce; alla fine scegliamo un’insalata del tipo alla greca, mista di verdure fresche e feta, e un pasticcio al forno; nell’attesa facciamo fuori un intero cestino di pane, molto soffice e saporito. Ci scambiamo i piatti per gustare sapori diversi, ma sono tanto abbondanti che solo spinti dalla golosità o dalla curiosità ci azzardiamo a chiedere anche il dolce.
Quando usciamo barcollando, grazie anche alle generose quantità di birra, l’ennesimo scroscio di pioggia ci aiuta a smaltire il pranzo, costringendoci a una corsa a piedi verso il Museo etnografico, distante poche centinaia di metri. Pagati i 200 lek di routine, saliamo al primo piano condotti da una guida. Qui, conservando le caratteristiche originarie dell’arredamento e della disposizione dei locali, in una serie di stanze sono stati ricostruiti i vari ambienti ed attività della casa di una famiglia benestante; per prima cosa, infatti, ci accoglie un ampio verone coperto, nel quale oltre a lavorare al telaio, le donne passavano il loro tempo libero al fresco nelle giornate più calde, chiacchierando, ricamando,bevendo the. Con questo locale, che è al centro dell’abitazione, comunicano poi quasi tutte le altre stanze, quelle da pranzo, la cucina (con tutti gli utensili a vista, la dispensa e il camino.forno), quelle del telaio (in cui sono raccolti i vari strumenti per il lavoro della tessitura) le varie stanze per gli ospiti (che oltre a divani e alle stuoie per terra comprendono un basso tavolino con tutto l’occorrente per bere e mangiare, un caminetto e, più in alto una loggetta chiusa da persiane da cui le donne e i bambini potevano assistere senza esser visti alle conversazioni degli uomini). Inoltre un ingegnoso sistema a doppia porta faceva sì che in presenza di ospiti maschili, i locali occupati dalle donne risultassero chiusi e invece aperti quelli dove erano gli uomini o viceversa.

Berat - Museo etnografico

A piano terra, infine è stato ricostruito il molteplice ambiente del bazar in cui si alternavano le botteghe di sarti, orafi, ricamatori, calderai, fabbri… Approfittiamo della disponibilità di una impiegata -o dirigente- del museo per soddisfare le nostre curiosità relative alla vita nel passato lontano e recente dell’Albania, finché non ci accorgiamo che siamo gli ultimi visitatori rimasti e che l’orario di chiusura è trascorso da una buona mezzora.
Uscendo incontriamo il sig. Shehu, che sta per finire il suo turno di lavoro; lo ragguagliamo su tutto ciò che abbiamo visitato oggi e, dato che si mostra ansioso di conoscere i nostri giudizi, lo rassicuriamo sul nostro pieno gradimento; dal modo in cui ne è quasi infantilmente felice, come anche dalla premura con cui lui e gli altri suoi connazionali cercano di accattivarsi la simpatia e la considerazione degli stranieri, mi pare di ricavare il bisogno di riscatto di un popolo troppo a lungo considerato da molti come arretrato, di bassa cultura, di scarso senso civico, inaffidabile, scansafatiche,solo per usare le definizioni più benevole, che poi non sono molto diverse da quelle generalizzazioni che con pari superficialità e presunzione alcuni stranieri applicano a noi italiani.
Su sua indicazione troviamo facilmente la strada per la Xhamia Mbret o Moschea del Sultano (o del Re). Entriamo in un ampio cortile alla sinistra del quale individuiamo la moschea, per la presenza dell’alto minareto. Raggiungiamo il loggiato col portone d’ingresso, ma questo risulta chiuso; forse è troppo presto.
Un po’ delusi, anche per l’impressione di trascuratezza che promana dal porticato, torniamo indietro, ma vediamo un uomo seduto a fumare sotto il portico dell’edificio di fronte alla moschea, il quale ci fa cenno di avvicinarci. Dev’essere il custode, anche se dall’aspetto trascurato e dal modo di fare burbero non si direbbe. Si esprime in albanese, incurante del fatto che non capiamo una parola, poi in un grammelot di albanese, tedesco, inglese, italiano e chissà che altro ci fa capire che la Moschea è chiusa, ma si può visitare la Tekke, cioè l’edificio in cui ci troviamo. Faccio per pagare il biglietto d’ingresso, ma ridendo lui mi fa capire che ha finito i blocchetti e non ha voglia di andarli a prendere, poi ci fa entrare e ci descrive il locale: se ben capisco la Tekke è una via di mezzo tra una scuola coranica e un edificio religioso (un monastero?) sotto la guida di un dede, un’autorità islamica; ma – ci tiene a precisare – niente a che vedere coi fanatici talebani.
La sala, l’unico locale che visitiamo, è quadrata con un soffitto in legno riccamente lavorato e decorato con disegni geometrici; inoltre per migliorare l’acustica nei muri vennero aperti dei fori e anche inseriti dei catini di ceramica per meglio riflettere i suoni. Il complesso della moschea comprende anche un’ala che un tempo ospitava le celle dei Dervisci, che però sotto il regime di Hoxha vennero eliminati. Stiamo per andarcene, quando il lunatico custode ci ferma e ci indica una porticina laterale della moschea che si è appena aperta e da cui tre uomini stanno uscendo in silenzio.; poi ci fa cenno di seguirlo, raggiunge il porticato, apre il portone principale e ci invita a entrare, naturalmente dopo esserci tolte le scarpe. Evidentemente prima ha voluto attendere che fosse terminata ogni funzione religiosa. L’interno, osservato in silenzio e nella penombra, è quello di qualunque altra moschea: il pavimento è interamente coperto da tappeti, nel bel soffitto di legno intarsiato e decorato geometricamente si inscrive una cupola e sulla parete di fronte, accanto alla mihrab, la nicchia che indica la direzione della Mecca, c’è il pulpito da cui vengono pronunciate le preghiere o commentate le letture dei passi del Corano; nella parte retrostante ad un piano rialzato accessibile tramite una stretta scala di legno, si trova il matroneo. Nell’insieme l’aspetto è un po’ dimesso e non ha nulla delle grandi ed eleganti moschee di Istanbul o del Cairo, ma è proprio questa natura modesta a conferirgli un senso di quotidiana autenticità.
Lasciamo la moschea del Sultano, prima gironzolando tra i vicoli della città vecchia poi dirigendoci lungo la rruga Antipatrea. Poco distante, leggo l’insegna “Barberi” scritta a mano su un fatiscente stambugio in legno, isolato al centro di uno spiazzo sterrato; è più piccolo di una cabina telefonica e contiene a malapena un omino dalla faccia triste, che, seduto su un trespolo, attende clienti che non arrivano. Qualche decina di metri più avanti c’è l’elegante bar moderno dove ho preso un cappuccino stamattina e il contrasto tra le due realtà è evidente e emblematico dell’Albania di oggi. Poco lontano c’è la grande Moschea di Piombo, che deve il nome al rivestimento della sua cupola; ma è chiusa e non è perciò visitabile. Per par condicio raggiungiamo la vicina cattedrale ortodossa di Shen Dhimitri ed entriamo: è di aspetto moderno, luminosa, ben curata, con una bella iconostasi d’epoca recente, ma non mi dice nulla di particolare. All’uscita l’unico mendicante che abbia visto finora.
Ci spingiamo ancora più avanti e sfioriamo l’imponente edificio dell’Università, in uno stile neoclassicheggiante, ma con una mole da Realismo Socialista. È una costruzione moderna, ma non è statale, bensì privata, quindi a pagamento e riservata solo a chi se la può permettere, come ci ha spiegato il sig. Shehu. Raggiunto il lungofiume, risaliamo verso Mangalem, passando attraverso un bel parco verde dotato di panchine e frequenti spazi attrezzati per luoghi di incontro di adolescenti, ma anche anziani. A sinistra scorre limaccioso l’Osum, mentre dinanzi a noi, sullo sfondo, si staglia il colle a strapiombo sormontato dal Castello. Continuiamo sull’adiacente Bulevardi Republika, un gradevole tratto – in via di completamento – riservato ai pedoni, il quale, nonostante l’ampiezza, è affollatissimo di persone di ogni età e per la prima volta vedo anche donne (ma nessuna oltre l’età adulta) girare con la famiglia, a gruppi e talvolta anche da sole; Bar e caffè, tuttavia, restano solo appannaggio degli uomini.
Ceniamo all’hotel.ristorante Mangalemi, lo stesso di stamani; stasera è meno affollato e più tranquillo. Anche stavolta, cibi vegetariani, ma variati e saporiti, e un conto più che accettabile: calcoliamo che con la stessa cifra per due, in Italia avremmo preso una pizza da asporto e una birretta soltanto e forse neanche quella. Breve passeggiata fino al ponte pedonale di pietra nel quartiere di Gorica e poi a dormire: domattina vorremmo partire per tempo verso Elbasan e raggiungere Pogradec sul lago Ohrid.

4_VERSO IL LAGO OHRID
Ci alziamo un po’ di malavoglia e neanche tanto presto: durante la notte è piovuto ininterrottamente alternando scrosci a tuoni. Usciamo nel mini.patio riservato a noi e asciughiamo le sedie umide. Sentendoci almanaccare, il padrone di casa si precipita giù a portarci il caffè e la colazione; è uguale a quella di ieri, ma stamani il latte è bello caldo e si beve ancor più volentieri. La feta poi è più abbondante e facciamo fatica a finirla tutta, ma lasciare nel piatto il cibo (quando è buono e soprattutto … già pagato) va contro i nostri alti principi etici.
Salutato il sig. Shehu, partiamo alla volta del lago di Ohrid. Ieri sera su Google Maps avevo ben programmato il percorso: 150 km per circa tre ore di viaggio da Berat a Kuçove, Elbasan e Pogradec, sul lago. Ma già pochi km dopo Berat, vicino a Ura Varjugore, incominciano le difficoltà: la SH72 si interrompe per lavori in corso e seguendo la deviazione obbligata finiamo per perderci su una strada secondaria priva di indicazioni. Quello della segnaletica scadente e delle strade in rifacimento, che fanno sembrare l’Albania un continuo cantiere, sono un bel fastidio. A parte questo, la campagna umida, sfumata nei contorni e nei colori, ha un suo fascino: alle mille gradazioni di verde si somma l’odore di terra bagnata e di erba tagliata, di camomilla o finocchio selvatico; noi procediamo a un’andatura così lenta, quasi ciclistica, che dai finestrini aperti assaporiamo ogni variazione di odore. Si tratta probabilmente delle stesse esalazioni primaverili che madre natura produce anche alle nostre latitudini, ma qui il contatto è diretto, senza mediazioni olfattive, uditive o visive da parte di motori o insediamenti umani e risulta perciò più intenso e “primitivo”.
Torniamo indietro fino a incrociare nuovamente la SH72 e dopo un altro paio di tentativi di cercare una via che tagli direttamente per Elbasan attraverso un’area ricca di acque e boschi, ci arrendiamo e adattiamo a seguire il percorso più lungo, sulla strada che passa da Lushnje. Anche questa cittadina, che pure passerebbe per insignificante rispetto a tanti nostri borghi ricchi di storia e di arte, testimonia di un crescente relativo benessere, attraverso le attività che vi si svolgono, le molte case in costruzione, l’atteggiamento dinamico degli abitanti che si muovono per strada; e, nel contrasto con i tetri bunker che numerosi costellano le campagne, attesta la volontà degli abitanti di superare –  costi quel che costi – la chiusura e la povertà non solo economica di neanche trent’anni fa.
L’ennesima interruzione poco prima di Rrogozhine, ci fa sostare nei pressi di una rotonda, ma subito da un’auto scende un poliziotto che, visti due turisti in difficoltà, con gran gentilezza ci spiega l’itinerario da seguire e ci augura buon viaggio, mentre un altro ci saluta da lontano; mi chiedo se sarebbero stati altrettanto cordiali con dei locali fermatisi a metà di una rotonda. Ma ci piace pensare che il sorriso letto sui loro visi aperti più che un’interessata e accattivante lusinga nei confronti di stranieri portatori di valuta sia un tratto del carattere, a dispetto di ogni pregiudizio sull’ autoritarismo di forze dell’ordine di un Paese da poco uscito da un regime dispotico.
Seguendo la SH7 nel fondo valle del fiume Shkumbini, superiamo anche Peqin e infine costeggiamo la periferia di Elbasan senza addentrarci nella città. Improvvisamente il paesaggio diventa quello deprimente di un’area industriale dismessa e abbandonata: imponenti impianti (cementifici? Fabbriche?) decaduti a rovine, colore grigio sporco degli edifici, assenza di strutture abitative creano uno scenario desolante. Noi tiriamo dritto e per fortuna ce lo lasciamo presto alle spalle.
La strada comincia a salire serpeggiando: si tratta di superare la barriera montuosa che separa la pianura dall’altopiano in cui si trova lago di Ohrid. Anche il paesaggio cambia rapidamente: alle ampie distese coltivate si sostituiscono sempre più frequentemente colline di boschi interrotti qua e là da frammentari appezzamenti agricoli e pascoli dove soprattutto pecore, ma anche bovini e cavalli vagano liberamente. Purtroppo la pioggia continua, anche se leggera, ha prodotto una nebulizzazione diffusa che trasforma in foschia la luce filtrata da un cielo uniformemente grigio. Provo a scattare qualche foto, ma i risultati sono sconfortanti; ci rinuncio e provo a fotografare mentalmente ciò che vedo, rielaborando le immagini con la fantasia per riprodurre un paesaggio solare, nitido e saturo di colore.
Dopo Elbasan, fortunatamente, il traffico è diminuito e il fondo strale è prevalentemente buono; però occorre sempre guidare con prudenza a causa dell’asfalto bagnato, delle frequenti curve e della pendenza spesso ripida, che i cartelli indicano immancabilmente al 7% anche quando è palesemente superiore o inferiore. Che l’equivalente albanese del nostro ANAS si sia rifornito esclusivamente di cartelli con questa sola cifra?
La salita finalmente si addolcisce, dovremmo aver superato i 1000 m., secondo il mio altimetro, quando arriviamo al passo; qui il panorama diventa grandioso, aprendosi a 270° sul lago Ohrid, tra i più antichi d’Europa, stando alle informazioni del mio smartphone. Davanti a noi a una quota di due.trecento metri più bassa, la massa d’acqua si presenta come una lastra immobile color canna di fucile, delimitata da una cornice di indistinte montagne sul lato opposto, quello macedone. Raggiungiamo rapidamente il lago prima della cittadina di Lin; le acque, calmissime senza neanche un’increspatura, sono quasi al livello della strada, dalla quale le separano solo qualche ciuffo di canne palustri o una sottile striscia di ghiaia. Ogni tanto incrociamo uomini ma soprattutto ragazzi che, al sopraggiungere di un’auto, si avventurano pericolosamente al centro della strada, esibendo lunghe anguille che si dimenano come serpenti o del pesce fresco, che sperano di vendere ai turisti ancora rari in questo periodo.

Ancora qualche km ed entriamo in Pogradec, affacciata sull’Ohrid e sviluppata linearmente intorno a un lungolago e a un paio di vie principali sulla direttrice Ovest.Est. Parcheggiamo in un punto che ci sembra centrale, ma quando chiediamo informazioni su qualche B&B e su un ufficio turistico non riceviamo risposte comprensibili né in inglese, né in italiano, salvo l’indicazione a gesti di un albergo proprio alle nostre spalle, che però non ci soddisfa. Proviamo nella strada parallela, dove un signore, capito che siamo italiani, ci porta in un negozio; qui un commesso ci prende in carico e ci fa cenno di seguirlo in un vicino ristorante; ci conduce infine in presenza di un signore, probabilmente il proprietario del negozio, che sta beatamente pranzando davanti a un piatto di pasta fumante. La sua conoscenza della nostra lingua è molto limitata, ma deve capire il significato dell’espressione “ufficio turistico”, perché si illumina e vorrebbe alzarsi per accompagnarci da qualche parte, ma noi non possiamo acconsentire e ci limitiamo a farci spiegare come arrivarci a forza di djathtas, majtas,, e drejtë, dopo di che lo ringraziamo vivamente, lasciandolo ai suoi maccheroni ormai tiepidi e partiamo alla ricerca del fantomatico ufficio.
Scendiamo fino alla successiva parallela e cerchiamo di localizzare la misteriosa piazza “Bascià” o “Baskià” che lui ha nominato più volte e che noi non riusciamo a trovare né sul vocabolarietto, né nella realtà. Alla fine chiediamo a dei ragazzi che stanno salendo su una moto; neanche loro parlano inglese (ora . mi chiedo . vada per gli anziani, ma i giovani, a scuola, possibile che non studino lingue straniere?) e non riescono a capire cosa voglio, nonostante io infarcisca le mie frasi con vari “Plaza Bascià”, “Burò Turistik” “Informasiòn, Auskunft, Informescion” in puro stile “Noio vulevon savuàr”. Poi uno di loro si rischiara in volto: “Bashia?” chiede; “Po, Po! Bascià! ” rispondo io, precipitosamente, quasi temendo che una mia esitazione possa fargli perdere l’ispirazione. Allora il volenteroso giovanotto lascia l’amico a guardia della moto e mi trascina a uno slargo poche decine di metri più in là; quindi indica trionfante un edificio su cui sta scritto qualcosa come “Bashkia te Pogradeci”. Solo allora capisco che quella parola misteriosa indicava non una piazza, ma un edificio pubblico che . escludendo un ospedale o una caserma . dev’essere un Municipio o la sede di qualche ente governativo. Non fidandosi, comprensibilmente, delle mie capacità comunicative il giovane mi accompagna dentro, parlotta con un usciere e infine mi saluta fiero della sua buona azione quotidiana. L’usciere fa una serie di telefonate, facendoci cenno ogni volta di aspettare un attimo.
Di attimi ne passano parecchi e a questo punto, per la verità, noi vorremmo eclissarci e rinunciare a qualunque informazione o ufficio turistico: per trovare un posto dove dormire e gli eventuali siti interessanti da visitare in zona, possiamo arrangiarci da soli. Finalmente arriva un impiegato che ci fa cenno di seguirlo; passando per scale, piani, corridoi… infine, dicendoci qualcosa, probabilmente invitandoci a entrare, ci “deposita” davanti a una stanza. In effetti, abbiamo l’impressione di essere diventati un pacco ingombrante di cui nessuno si vuol prender carico, pronti a scaricarlo sulle spalle del collega più vicino.
Invece la persona che ci riceve è quanto mai accogliente e disponibile e oltretutto parla in inglese. Cedo ad Arianna, che se la cava meglio di me con le lingue e non ha la mente ottenebrata da stanchezza e calo di zuccheri (sono le 15 e siamo digiuni dalla colazione!), l’onore della conversazione, che seguo svogliatamente, ma da quel che sento capisco che il nostro interlocutore deve essere una specie di assessore comunale alla protezione ambientale e/o alla cultura. Per una buona mezzora ci illustra il trend positivo dell’economia della zona, spiegando l’importante ruolo svolto dal turismo e quanta parte di esso derivi da sapienti investimenti sulla salvaguardia dell’ambiente, dalla sensibilizzazione dei giovani soprattutto attraverso la scuola, dallo sviluppo di infrastrutture ecocompatibili, dalla sinergia con i dipartimenti omologhi della vicina Macedonia… e via di questo passo
Noi siamo visibilmente imbarazzati, soprattutto per il grosso equivoco che si sta creando. Non so cosa gli abbiano detto di noi prima del nostro incontro, forse che siamo ecologisti, o giornalisti, o insegnanti o comunque studiosi interessati al rapporto uomo.ambiente. Fatto sta che lui deve aver interpretato male la nostra richiesta di depliants sulle bellezze naturali e sulle risorse culturali del Sudest albanese (per la verità gli avevamo chiesto qualcosa anche sugli alberghi della città). Anche se noi cerchiamo di ridimensionare e neutralizzare questa commedia degli equivoci, lui continua a sciorinare dati, mostrare grafici e riempirci in doppia copia di opuscoli riguardanti la qualità delle acque del lago, le relazioni del loro ministero della Pubblica Istruzione o i progetti di collaborazione con le istituzioni macedoni su questioni economiche e ambientali. Man mano, però, deve rendersi conto dell’errore, perché il suo entusiasmo progressivamente si smorza al pari della voce, finché con una formula semiufficiale di ringraziamento e di saluto ci congediamo. Aspettiamo di essere fuori dall’edificio prima di scoppiare a ridere. Poi di corsa a cercare un posto dove mangiare e un altro dove trovare un letto.
Pogradec è una cittadina di grandezza medio.piccola affacciata sulla sponda occidentale del lago con una fila di negozi, botteghe, case colorate e ristrutturate nella via centrale e hotel nella passeggiata litoranea. La sua naturale vocazione turistica, soprattutto estiva, è legata alla presenza del lago Ohrid e pare consentirle una certa prosperità che traspare dagli abiti delle persone, dalle immancabili Mercedes, dagli alberghi, dalla cura di case e strade nel centro; ma basta entrare in uno dei vicoli più nascosti o recarsi in periferia per assistere a uno spettacolo ben differente: case molto più anonime e modeste, spesso edifici non terminati di costruire, fondo stradale non asfaltato o dissestato, persone dall’apparenza più dimessa. Un’Albania a due velocità, insomma.
Non mancano gli hotel nel cuore di Pogradec, ma più difficile è trovare qualcosa di simile a un ristorante, anche data l’ora pomeridiana. Individuiamo con fatica il B&B Chill Out, verso cui ci ha indirizzato un’insegna. Quando finalmente lo raggiungiamo, scopriamo che è arredato con un simpatico stile “etnico”, con bambini per le scale e persone giovani e “alternative” impegnate a lavorare alla piscina, ma diventerà operativo tra una settimana, quando saranno terminati i lavori. I proprietari, vista anche la nostra delusione, ci chiedono però di aspettare; ci fanno sedere in soggiorno tra un quadro del Che e un murale a soggetto floreale e nel frattempo ci portano caffè, uova sode e da bere. Attendiamo per quasi un’ora; e finalmente, dopo aver visto un telegiornale in cui, pur senza comprendere le singole parole, si capiva che i temi erano esattamente gli stessi dei nostri notiziari (politica, corruzione, cronaca nera ed Europei di calcio), riceviamo la lieta novella: ci hanno trovato una stanza. E che stanza! In realtà si tratta di un appartamento di un’ottantina di metri quadri costituito da una enorme salone con triplice funzione di ingresso.soggiorno.camera da letto, un locale di passaggio adibito a cucina e una seconda cameretta, più un bagno spazioso. La discutibile suddivisione degli spazi, la presenza di un maxi.TV non ancora installato, un letto nella stessa stanza del tavolo da pranzo fanno pensare che abbiano rimediato un locale all’ultimo momento, improvvisando un B&B in un locale in via di sistemazione. Comunque a noi va più che bene e dopo aver sistemato alla meglio le nostre cose, si esce alla scoperta della città.

Pogradec, purtroppo non è Berat e non offre molto oltre a quello che abbiamo già visto, oltretutto ha ripreso a piovigginare con quello stillicidio mesto e umido di certe giornate autunnali aggravato dal fatto che siamo a oltre 700 m. di altitudine. Anche il lungo.lago, pur nella sua decadente bellezza, non incoraggia le passeggiate. No, non siamo stati fortunati col tempo; d’altra parte sarebbe stato peggio dedicare, secondo il nostro progetto originario, questi primi tre giorni al tratto costiero. E poi da domani dovrebbe migliorare. Riscaldati da questa speranza e infreddoliti dal magro pranzo a base di uovo sodo, andiamo alla ricerca di un ristorantino o facente funzione. Non se ne trova uno che sia uno: pare che qui siano sconosciuti. Facciamo il giro dell’intero lungolago e gli unici ristoranti sono quelli degli alberghi di lusso per turisti, ma nessun locale per gli abitanti del posto, salvo un Kebab e una specie di Mc Donald indigeno da asporto.
Poi finalmente in una stradina secondaria, al primo piano di un condominio troviamo un piccolo ristorante dove, incredibilmente, un gruppo di sole donne sta festeggiando qualcosa. Mangiamo un buon piatto di pasta ed una zuppa calda molto gradita, data la temperatura. Prenderemmo volentieri anche un dolce, ma i camerieri sono lentissimi a servire e finiamo col rinunciarci. Pare che ci abbiano dimenticati e alla fine siamo noi a doverci muovere e andare a cercarli per pagare il conto.

5_ POGRADEC – GJIROKASTER
Torniamo al (futuro) B&B “Chill Out” per la colazione: le immancabili uova sode, succo d’arancia, formaggio, pane, burro, marmellata, latte e caffè si alternano alle chiacchiere in soggiorno con la signora che a turno gestisce il B&B. Paghiamo volentieri i 25 € previsti e usciamo. Subito fuori c’è una bella panetteria, anzi un forno, che dai manifesti attaccati alle vetrine promette, oltre a pane di ogni forma e qualità, anche croissant e dolci locali di vario tipo. Non resisto alla tentazione ed entro, anche se Arianna me lo sconsiglia e a ragion veduta, perché la padrona del forno mi fa capire a gesti che dispongono solo di un grosso pane casalingo.
Giornata incomparabilmente migliore di quelle passate: c’è il sole, finalmente, pur se in compagnia di nuvole ancora numerose; queste scarrocciano nell’ azzurro del cielo per effetto di un vento forte e continuo che increspa il lago con onde nervose. Ma il vero spettacolo è assicurato quando il sole comincia a illuminare le cime innevate delle montagne al di là del lago, in territorio macedone. La strada che segue il lago porterebbe al confine e da lì si potrebbe andare a visitare il lago Prespa che –mi è stato detto. è forse anche più bello dell’Ohrid, ma il nostro programma, che ci impone di raggiungere Gjirokaster nel primo pomeriggio, non prevede deviazioni così significative verso Est; perciò, usciti dalla periferia disordinata e trafficata di Pogradec, ci si dirige alla volta di Korcë.
L’altopiano prosegue alla stessa quota per una manciata di km, poi la strada, giunta alla fine della pianura, improvvisamente si impenna e con una rapida sequenza di tornanti sale a 900 m. s.l.m. Non è la prima salita ripida, ma non posso fare a meno di pensare al mio progetto originario di viaggio in bici. Anche dopo essere ridiscesi su un altopiano, non si allenta la presenza delle montagne, sia pure sullo sfondo. Arriviamo finalmente, dopo una quarantina di km, a Korcë, antico e importante centro albanese, ricco di storia e cultura, a quanto abbiamo letto prima di partire. Per la verità di antico non scorgiamo granché: è sicuramente una città popolosa, ma i caseggiati si susseguono moderni e anonimi ben oltre la periferia; anche quando giungiamo in centro, lungo il Bulevardi Fan Noli, gli edifici pubblici e privati appaiono di recente costruzione (simili ai condomini dei nostri anni ’60) e non rendono conto delle tradizioni di una città che oltre ad ospitare la prima scuola albanese in ordine di tempo, è un centro culturale importante, ricco di musei e patria di poeti, scrittori e patrioti.
In cerca di un parcheggio, sfioriamo due importanti edifici religiosi vittime in passato dell’ oscurantismo del regime di Hoxha: l’imponente Cattedrale ortodossa della Resurrezione (ricostruita dopo che la precedente chiesa di S. Giorgio era stata distrutta) e la bella moschea Iljaz Mirahori, riaperta al culto solo di recente, dopo il restauro del minareto abbattuto nel periodo comunista.
La parte più interessante, comunque, si rivela l’animato quartiere del bazar, o Pazar, che si trova poco lontano dalla cattedrale intorno a una piazza di forma circolare piena di bancarelle. Qui si affacciano case basse a un piano adibite a negozi che vendono ai turisti, ma anche ai locali, un incredibile bric a brac di ricami, tessuti lavorati a mano, abiti tradizionali, oggetti (per lo più di seconda.terza mano) d’uso quotidiano, pezzi di ricambio di tecnologie obsolete e da noi introvabili, zappe, vanghe e altri utensili agricoli, prodotti in cuoio, vimini o legno, mobili, pollame, cibi pronti, frutta e verdura…
È uno spettacolo piacevolmente caotico e stordente anche per un italiano passeggiare in mezzo a una marea di gente tra colori, aromi, voci e rumori d’ogni genere. Purtroppo tra le case della piazza, molte di aspetto malandato più del necessario (volutamente, secondo me, per dare al mercato un’impronta più realistica, secondo le aspettative dei turisti), si avverte anche la nota stonata di un centro commerciale tutto vetrine tirate a lucido, scale, piante ornamentali e merci in franchising. Se noi ce lo giriamo tutto non è per l’improvviso desiderio di comprare un golf Benetton o una borsa di Fendi, ma solo per soddisfare due esigenze fisiologiche essenziali per dei viaggiatori: un caffè e, soprattutto, una visita alle toilette, tanto più che queste in Albania non sempre sono facilmente individuabili oppure rispondenti agli esigenti standard reclamati da una donna.
Giriamo un po’ per il quartiere che dalla piazza si dirama in viuzze lastricate, costeggiate da abitazioni basse e modeste con muri di vecchie pietre squadrate. Case e stradine sono bianche e inondate dalla luce del sole, come quelle di certi paesini di Sicilia o Puglia, ma trasmettono una sensazione di povertà e trascuratezza, accentuata da qualche mucchio di rena lasciata per strada da un cantiere edile, muri sbreccati o bordati da erbacce e qua e là cartacce e rifiuti. Non che i nostri capoluoghi, a cominciare dalla capitale, siano esenti da simili incurie causate dai cittadini e/o dai (dis)servizi pubblici, ma il problema dell’ immondizia e del decoro urbano è sentito almeno a parole, magari per sentirsi in pace con la coscienza, salvo addossarsi reciprocamente le colpe e poi non farne di niente. Qui, invece, sembra che la questione ambientale del territorio, sia urbano che extraurbano, non rivesta importanza per nessuno.
Dopo un rapido spuntino a base di byrek e di birra (non per niente la città dà il suo nome ad una pregevole birra sia chiara che scura che viene prodotta proprio qui), ripartiamo verso sud. Si esce un po’ a fatica da Korcë seguendo le indicazioni per Erseke, distante quasi una cinquantina di km. La strada larga e diritta presenta, praticamente da subito, una serie di buche così fitte e quasi “regolari” da sembrare non dovute a incuria e deterioramento nel tempo, ma fatte ad arte come se avessero voluto scarificare il manto stradale con dei bulldozer per predisporlo a una successiva cementazione o asfaltatura. È come se le autorità locali avessero deciso di sovrapporre alla precedente strada che da Korcë portava a sud una nuova magnifica superstrada, senza però predisporre, almeno temporaneamente, una via di comunicazione alternativa. Man mano che si procede, anziché migliorare, buche, dossi e solchi diventano così frequenti e profondi da costringere ad un’andatura lenta e zigzagante non solo noi, ma anche veicoli ben più attrezzati come SUV e 4×4, che a passo d’uomo ondeggiano come ubriachi da un lato all’altro della carreggiata. Alcune strade secondarie intersecano la nostra dirette a qualche paesino dei dintorni e, incredibilmente, appaiono in buone condizioni; agli incroci abbiamo la tentazione di imboccarle e cercare un’altra via, ma il navigatore che le fa morire tutte sulle montagne ci dissuade.

Solo a momenti la situazione sembra migliorare e azzardiamo una velocità di 20 km/h, ma si tratta di brevi tratti di sterrato non ancora “lavorati”. Temiamo di dover affrontare in queste condizioni il resto del percorso e sono preoccupato soprattutto per i continui sobbalzi a cui è sottoposta Arianna. Il percorso, lasciato l’altopiano, comincia a salire diventando meno rettilineo. Ad un certo punto, parallela e non lontana dalla nostra, osserviamo con preoccupazione un’altra strada su cui pare che ci dobbiamo innestare: è in realtà solo una massicciata in costruzione, sulla quale stazionano dei bulldozer.
La mia pazienza, già messa a dura prova dal senso di responsabilità verso figlia e (futuro) nipote, comincia a vacillare: va bene che le infernali strade albanesi siano lastricate da buone intenzioni, come quella di voler dotare il Paese di una moderna rete viaria indispensabile allo sviluppo del turismo e dell’economia, ma non potrebbero fare un passo alla volta, iniziando a ammodernare un nuovo breve tratto solo dopo aver terminato i precedenti e magari predisponendo dei by-pass?
Poi per fortuna, arrivati al punto di convergenza dove la nostra strada si arresta davanti a un dirupo preceduto da un alto cumulo di ghiaia, veniamo deviati su una stradina stretta ma asfaltata che, pur tra mille saliscendi da brivido, ci fa percorrere gli ultimi km prima di Erseke a una velocità accettabile, considerate le continue curve e le pendenze.
Adesso ci troviamo nuovamente su un altopiano, a circa 1000 m. di altitudine; ma lo scenario è ora spettacoloso: il vasto pianoro verde d’erba si stende morbidamente sotto un cielo mutevole di nuvole e d’azzurro, mentre sfilano a Est incappucciate di bianco le montagne che fanno da confine con la Grecia e a Ovest altre montagne più basse ricoperte di verde. Ci fermiamo su un prato per consumare un altro sbrigativo spuntino con quello che ci siamo portati dietro da Pogradec, mentre il vento trasporta intorno a noi odori di primavera e in alto nuvole in rapida successione. Ancora salite spesso ripide e tortuose, tra boschi di conifere che ora si sono sostituiti ai prati. Pochi i villaggi lambiti dal nostro percorso, pochissime le auto incontrate; sembra una regione quasi deserta, non fosse per la presenza di un paio di carri dalle ruote gommate trainati da animali e, soprattutto di bambini che con lo zainetto in spalla, isolati o a coppie, spuntano e scompaiono tra una curva e l’altra. Già ne avevamo visti altri nel corso del viaggio, ma tutti in prossimità di città o paesi; qui fa una certa impressione vederli apparire all’improvviso, quasi dal nulla; viene da chiedersi dove abbiano le loro case sparse e dove la scuola che li riunisce e soprattutto quanta strada debbano fare a piedi ogni giorno per raggiungerla.
Dobbiamo aver raggiunto il punto più alto, perché ora la strada inizia a scendere con decisione con una serie di tornanti, aprendosi a scorci di forre di un verde quasi nero. Raggiungiamo il fondo di una stretta gola rocciosa in cui scroscia rumorosamente un corso d’acqua e iniziamo a risalire sul costone opposto. Incredibilmente su questo versante, pur alla stessa altitudine, la vegetazione è completamente mutata: non più abeti o larici, ma una grande varietà di latifoglie. Superata Leskovik, poco più che un paesone da cui però parte un’importante via di comunicazione verso la vicina Grecia, si scende definitivamente verso il basso. A Carcove si entra sulla SH80, lasciandoci alle spalle le indicazioni per il confine greco e iniziamo a seguire il fiume Vjosë in direzione di Permet. Il Vjosë, mi rammenta Arianna, è lo stesso che abbiamo superato presso Fier il nostro primo giorno di viaggio; evidentemente, il fiume, nato in Grecia, riesce a raggiungere la costa adriatica a Nord di Valona dopo una lunga serpentina fra i rilievi albanesi.
Il traffico è aumentato e in qualche punto il fondo stradale si presenta dissestato o in riparazione; questo, aggiunto al timore (peraltro infondato) di sbagliare strada e di arrivare troppo tardi a Gjrokaster non mi permette di distogliere l’attenzione dalla guida per osservare come meriterebbe questa bella valle fluviale che ora scorre stretta tra rive verdi, ora si allarga in un ampio letto di sassi bianchi, dando origine ai tortuosi meandri del fiume.
Il cielo ha cambiato umore e si è messo a piovere, ma è una pioggia bonaria, quasi riluttante. Sfioriamo qualche modesto villaggio di pastori e contadini che ricorda alla lontana gli sperduti paesini dell’Irpinia degli anni ’50; non incontriamo abitanti salvo qualche donna; i pastori e contadini che verosimilmente ci vivono devono essere al lavoro oppure al riparo delle loro case; ma i loro figli, ancora una volta, li incrociamo a qualche distanza dal villaggio: vanno o tornano da scuola allegri e spensierati lungo la SH80, che – d’accordo – non è un’arteria trafficatissima, ma insomma è pur sempre una statale. Inoltre camminano a testa scoperta sotto l’acquerugiola, privi di ombrelli o mantelline e senza nessuna apparente preoccupazione da parte dei familiari. Naturale il confronto con i genitori di casa nostra, assai più apprensivi, almeno stando al cliché italico che vuole soprattutto le madri chiocce iperprotettive e timorose anche davanti a una normale influenza, tanto da determinare figli insicuri e “bamboccioni”.D’altra parte, davanti a questi bambini sottoposti alle possibili insidie del maltempo e del traffico, io stesso non mi sentirei tanto tranquillo; ma forse è lo status di nonno a rendermi più protettivo di un tempo. Con la coda dell’occhio spio Arianna, che tra pochi mesi sarà mamma anche lei, ma non rilevo i segni di una particolare apprensione. Per ora, mi dico, ma voglio vedere fra un anno…
Ad un bivio dopo Permet vedo segnalata una strada per Berat e per Gramsh, che ignoriamo tirando diritto verso Tepelene; però mi resta la curiosità sulla cittadina di Gramsh. Quando avevo progettato di compiere in bici la mia esplorazione dell’Albania, avevo ipotizzato di raggiungere il lago Ohrid da Gjirokaster passando appunto da Gramsh, incuriosito dalla scoperta che la famiglia di Antonio Gramsci era originaria di questo sperduto paesino dell’interno, probabilmente privo di particolari attrattive.
Arrivati vicino a Tepelene, cambiamo decisamente direzione, lasciando la valle del Vjosë; puntiamo a Sud per prendere la SH75 e poi svoltiamo a sinistra per Gjirokaster: potrebbe essere una superstrada, tanto è ampia, pianeggiante e ben tenuta; anche se andiamo solo a 70.80 km/h sembra di volare in confronto all’esperienza della mattinata. Quasi ci dispiace, quando una ventina di km dopo, la valle si allarga e ci mostra la meta finale di oggi, Gjirokaster (che noi conosciamo col nome italiano di Argirocastro), adagiata alle base dei monti sulla nostra destra, mentre sul lato opposto, oltre un corso d’acqua e un’ampia striscia di campi coltivati, si scorgono verdi colline e un’altra catena montuosa.
Superiamo rapidamente la periferia e ci inoltriamo nella città, lungo un ampio e trafficato viale alberato, che ci restituisce l’immagine di un capoluogo moderno e indaffarato con auto, palazzi, negozi, insegne luminose, folla che potrebbero essere benissimo quelli di una qualunque città media europea. Ma appena, all’altezza dello stadio, giriamo a destra su via Laboviti, tutto cambia: la strada, più stretta e in crescente pendenza, è delimitata da due file di case per lo più bianchissime, a uno o due piani, con alte finestre; il fondo stradale è costituito da un selciato di pietre larghe e levigate dal tempo, ma irregolarmente connesse tra loro; non sempre c’è lo spazio per il transito di auto nelle due direzioni e quando ne incrociamo una che scende dobbiamo accostare e ripartire con qualche difficoltà.
A metà salita, dopo un paio di tentativi a vuoto, individuiamo il B&B “Hashorva”, che avevamo trovato e prenotato ieri su Booking.com. Un breve cortile fiancheggiato da piante e fiori, nel quale parcheggiamo l’auto, introduce all’abitazione dove abita anche il proprietario. Lo troviamo sulla soglia ad attenderci; subito ci fa entrare e nell’ingresso si toglie le scarpe infilando un paio di sandali, invitandoci implicitamente a fare altrettanto con quelli riservati agli ospiti; poi ci mostra la stanza, è spaziosa, luminosa, a piano terra e dà sul giardino; a fianco si apre il bagno privato, altrettanto ben tenuto. Ci piace; lui, palesemente soddisfatto, ci presenta i genitori e ci saluta per andare a lavorare. Proviamo ad accordarci sulla colazione di domattina, ma con qualche difficoltà, perché loro a differenza del figlio non capiscono l’italiano né l’inglese; alla fine della contrattazione alla cieca, abbiamo spuntato le 8.30 e colazione senza uova sode né insaccati.
Dopo aver sistemato alla meglio le nostre cose (eufemismo per dire: bagagli rovesciati alla rinfusa sui letti e per terra) usciamo per una ricognizione. La salita fino al B&B, che prima ci era sembrata tanto lunga in auto, ora si rivela ancor più laboriosa a piedi, mettendo a dura prova caviglie e polpacci, ma in pochi minuti raggiungiamo una moschea e, subito dopo, un crocicchio al culmine della via che qui assume il nome di Ismail Kadarè, lo scrittore albanese premio Nobel.
Ci fermiamo su una sorta di schiena d’asino, dove Google segnalava un ufficio informazioni, ma non ce n’è neanche l’ombra. All’incrocio di tre strade che scendono verso il basso e di una che sale verso il Castello, vedo un negozietto a forma triangolare sovrastato da un’ampia veranda, che vende di tutto, ma soprattutto tessuti, abiti, lavori a maglia e ricami, oltre alle abituali mercanzie acchiappa.turisti. Entro e chiedo informazioni alla proprietaria alla quale non pare vero inondarmi in un buon italiano di notizie d’ogni genere, tendenti comunque a farci gravitare intorno al suo negozio. Ci fornisce anche una cartina non ufficiale della zona, in cui ovviamente il suo locale fa bella mostra di sé al centro. La ringrazio con la insincera promessa di rifarci vivi più tardi e torno alla ricerca del fantomatico ufficio informazioni.

Scendiamo lungo la caratteristica Rruga Zenebishti che coi suoi negozietti e soprattutto ristoranti e Hotel pluristellati dimostra di essere una via da movida, almeno relativamente alla parte alta della città. In uno slargo, prima di raggiungere la sede del municipio, adocchiamo un chiosco che pare proprio un ufficio informazioni; dentro ci sono due persone un uomo sulla quarantina accattivante e loquace e un ragazzo assai più taciturno che si limita ad assentire ogni volta che l’altro guarda dalla sua parte; pare una coppia male assortita più simili al Gatto & la Volpe che a due impiegati del locale ente del turismo. Quando poi il primo comprende che siamo italiani, va in brodo di giuggiole, ci tiene a farci sapere con crescente entusiasmo che lui adora l’Italia, la nostra lingua e padre Dante di cui ci parla a lungo arrivando a mostrarci sul suo telefonino la foto del busto del poeta. Poi passa a elencarci le bellezze e i punti d’interesse della città e dei suoi dintorni e infine si propone come nostro accompagnatore per un tour guidato tra le bellezze note e meno note della città, a cominciare dal Kalaja e Gjrokastre, cioè al Castello di Argirocastro o dal tunnel.bunker antiatomico fatto costruire da Enver Hoxha per sé e la sua famiglia proprio a Gjirokaster, sua città natale. Quella dei bunker deve essere stata una vera e propria fissazione del dittatore, che ne ha disseminati migliaia per tutta l’Albania in vista di un’improbabile invasione, non si sa se veramente convinto che qualche Stato ostile (praticamente tutto il mondo, secondo la paranoica fobia di gran parte dei despoti) potesse avere interesse a conquistare il Paese delle Aquile, oppure per consolidare il proprio potere tra le masse popolari solleticandone le pulsioni nazionaliste e al tempo stesso creando qualche opportunità di lavoro. Intanto l’albanese continua a sfornare proposte di località come possibile alternativa alla visita della città: se siamo appassionati di archeologia, potremmo effettuare un’escursione ai siti archeologici di Adrianopoli o di Antigonea, se invece ci interessa la natura incontaminata potremmo puntare a…
Riusciamo a disimpegnarci dalla nostra aspirante guida con la vaga promessa di pensarci su per domattina, anche perché ormai si avvicina l’ora di cena. Ci saluta calorosamente, non senza proporci prima un paio di ristoranti di sua fiducia in cui andare a suo nome. Forse la sua gentilezza è sincera e la mia impressione a pelle che sia motivata da tornaconto personale è viziata da disdicevoli pregiudizi, ma preferiamo cavarcela da soli andandocene alla ventura. Giriamo così senza una meta precisa per il Bazar dando un’occhiata poco più che distratta ai negozietti, che presentano più o meno tutti le stesse mercanzie per turisti; riserviamo maggiore attenzione alle strade, in cui le pietre del selciato presentano qua e là delle decorazioni geometriche, e soprattutto alle tipiche case che , come quelle di Berat, si presentano a due o tre piani oltre al pianterreno, ma più alte, coi loro bianchi muri a calce e verande aggettanti.
L’ora di cena, preannunciata dai barbagli del tramonto e da un languorino alla bocca dello stomaco, ci sorprende all’improvviso e la nostra attenzione si rivolge alla ricerca di un ristorante dove cenare; scartiamo subito quelli che ci erano stati proposti perché troppo pretenziosi e poi parecchi altri, perché troppo affollati, o insignificanti, molto cari, o poco “locali”. Al termine di questa schizzinosa selezione ci ritroviamo ad aver perlustrato inutilmente tutto il quartiere e a avvertire i morsi della fame. Ci spostiamo più in basso, verso il nostro B&B e poi oltre, fino a lasciare il centro storico, scendendo fino alla base della lunga salita. Qui finalmente abbiamo la fortuna di trovare un locale aperto. Ci sembra elegante in maniera anonima; in un altro momento, magari avremmo giocato ancora a fare gli incontentabili, ma ora sarebbe un lusso che non possiamo più concederci. Invece, contro ogni aspettativa la scelta si rivela felice: una bella zuppa di legumi diversi e zarzavate, cioè verdure di vario tipo, con un pane semi.integrale molto buono, il tutto annaffiato da birra marcata “Korcë”. Il cibo è gustoso, il servizio è rapido e inappuntabile e il costo si aggira su una dozzina di euro soltanto; oltretutto disponiamo di un efficiente collegamento wi.fi con cui comunicare col resto del mondo, visto che quello della nostra stanza non funzionava. Ritemprati dalla cena non abbiamo difficoltà ad affrontare la lunga salita verso il B&B

6  GJIROKASTER -SARANDA
La colazione, puntualissima, si svolge al primo piano, su un piano apparecchiato con una candida tovaglia ricamata; anche alle finestre, su un altro tavolino, sulle mensole, sui mobili, fanno mostra di sé trine, ricami, merletti, chiaramente frutto della passione e dell’abilità dell’anziana padrona di casa; del resto tutto sa di pulito, curato, ordinato con attenzione quasi maniacale. Anche il cibo sarebbe ottimale per quantità e qualità, non fosse che avevamo chiesto di non portarci il tradizionale uovo sodo e nel piattino ne troviamo due a testa. Evidentemente, non devo essere riuscito a spiegarmi bene ieri sera. Mangiamo comunque a sazietà, accantonando anche, per il pranzo, pane, formaggio e uova (d’ora in poi farò finta di non sentire gli ululati d’allarme inviati dal mio tasso di colesterolo in crescita esponenziale). Paghiamo come previsto 45 €, una cifra più alta delle precedenti, ma in ogni caso inferiore al costo per una persona sola in gran parte d’Europa, tanto più tenendo conto che Booking.com ne trattiene una percentuale.
Lascio Arianna a fare la doccia, a preparare i bagagli che abbiamo indecorosamente sparpagliato dappertutto e a ridare una parvenza d’ordine alla stanza stravolta dalla nostra invasione, mentre io mi avvio su per la salita con la scusa di fare un po’ di moto, ma in realtà per reintegrare le scorte di caffeina, dato che quella assunta a colazione mi pareva piuttosto blanda. Vicino alla Moschea trovo un piccolo e fumoso bar frequentato, naturalmente, solo da uomini. Non parlano altro che albanese, ma parole come caffè o cappuccino sono universali. A questo punto mi viene in mente di riparare alla mia maschilista divisione dei compiti con Arianna, portandole un caffellatte caldo. Dopo aver guardato sul mio dizionarietto tascabile, azzardo un ”Kafe me qumësht”, che il barista capisce subito, ma quando, per poterlo portar via senza versarlo, aggiungo aiutato dalla mimica “en shishe i vogël”, cioè in una bottiglietta, lo vedo perplesso; in realtà ha compreso, solo che in mancanza di bottigliette, mi costruisce un doppio bicchiere di plastica con tappo e cannuccia e me lo consegna riempito di caffellatte bollente. Poi prima che io esca, contento forse per essersi inteso con uno straniero o divertito dalla mia performance mimico.linguistica, insiste per offrirmi un bicchierino di raki, versandone una dose abbondante anche per sé. Lo ringrazio con un “Faleminderit” incerto quanto il sorriso che lo accompagna. Sarà che sono quasi diventato astemio, ma mi sembra una bomba di alcool puro che incendia progressivamente bocca, esofago e stomaco. Fortunatamente non sono a digiuno, ma quando esco non so se attribuire alle irregolarità del selciato o al raki il mio barcollio.
Dal B&B, dopo aver pagato e salutato ciascuno nella propria lingua, con muti sorrisi e ampi cenni del capo, l’anziana proprietaria, partiamo per risalire al Pazar, che di mattina mostra meno turisti e più botteghe artigiane aperte, tra cui quelle di un falegname, di uno scalpellino e di un anziano marmista che effettua artistici intagli su rettangoli di ardesia grigia. Poco più avanti ad un incrocio ci fermiamo a fotografare un incredibile groviglio di fili, derivazioni elettriche, cavi telefonici, tiranti metallici tesi molto approssimativamente e pericolosamente tra i muri delle abitazioni.
Così, dopo aver girato un bel po’ zigzagando per il quartiere, ci decidiamo a tornare indietro e a puntare al Castello.

La fortezza, situata in una splendida posizione panoramica in cima alla collina, insieme al sottostante quartiere del Bazar, grazie anche alla sua posizione strategica, è probabilmente l’area originaria degli insediamenti di genti diverse nel corso dei secoli, ma non pare particolarmente curata, nonostante rientri nei Patrimoni Culturali dell’Umanità. Dall’ingresso si accede ad una imponente galleria a volta, piuttosto buia, che sul ramo sinistro ospita pezzi d’artiglieria di varia epoca e provenienza; i cannoni sono disposti in modo che il visitatore passi sotto le canne come tra due file contrapposte di soldati con la sciabola sguainata. Al termine della galleria fa mostra di sé anche un piccolo carrarmato italiano che, se si pensa ai Panzer tedeschi o agli Sherman americani, fa quasi tenerezza: sembra poco più che un giocattolo e la dice lunga sulle assurde velleità di Mussolini di competere in campo militare con potenze mondiali ben più attrezzate. Con un senso di sollievo si esce all’aria aperta e alla luce, per ritrovarsi su una spianata in cui il suolo e parte degli edifici sono invasi dalle erbacce; ma il panorama dal parapetto è stupendo: la vista sulla vallata si apre fino alle opposte montagne sfumate nella luce del pomeriggio, oltre le quali scorre il Vjosë, mentre, a ridosso del pendio sotto le mura è appoggiata la città, col quartiere storico più in alto e la parte più moderna centocinquanta metri circa più in basso. Da qui osservando il colore grigio.ardesia di tetti e muri delle alte case, si comprende perché la definizione di Argirocastro “città di pietra”.
Procedendo oltre, un aereo militare americano, catturato forse ai tempi della guerra fredda, colpisce per la sua incongruità, appoggiato com’è su uno stretto rialzo del terreno a ridosso del parapetto, quasi un albatros prigioniero che volesse nuovamente spiccare il volo.
Dopo alcune basse costruzioni non visitabili, tra le quali si insinuano rovi e rampicanti, raggiungiamo un ampio spiazzo con una sorta di moderno palcoscenico al centro: un cartello spiega che qui si svolge il Festival Nazionale del Folklore. Più avanti ancora una chiesetta e alcuni edifici di natura militare concludono la parte Nord.Est della fortezza con una vista a strapiombo di notevole effetto sulla vallata sottostante. Ritorniamo nella galleria principale, inoltrandoci nel ramo occidentale, ma le aree accessibili sono poche, spoglie e tutte al chiuso; l’unica cosa interessante è rappresentata da una cappellina dedicata alla tomba di due “santi” particolarmente venerati dal culto bektashi.
Solo ora ci accorgiamo di essere gli unici visitatori; anzi, perfino il custode che ci aveva fatto i biglietti, ora è sparito dal suo sgabuzzino. Ed è quasi con sollievo che torniamo fuori. Se si eccettua il panorama, l’insieme della fortezza con le sue tetre gallerie, le armi, gli edifici un po’ cupi che in più di un’epoca sono stati adibiti a carceri e la vegetazione spontanea che si è ripresa buona parte degli spazi prima controllati dall’uomo, conferiscono al luogo un che di tristezza.
Completiamo la nostra frettolosa visita di Gjirokaster nella parte bassa della città, soffermandoci a un passo dal ristorante in cui abbiamo cenato ieri sera, ma solo per sbafare un quarto d’ora di connessione internet allo scopo di cercare indicativamente un albergo in cui pernottare stasera dalle parti di Sarandë e per salutare mia moglie e il compagno di Arianna.
Poi usciamo dalla città puntando sulle colline opposte, in mezzo alle, quali in un punto imprecisato, dovrebbe trovarsi Antigonea la città costruita da Pirro e successivamente distrutta dai Romani al tempo della loro conquista dell’Epiro.
Il sito è indicato nei pressi del villaggio di Saraqinishte ed è lì che ci dirigiamo, lasciando la pianura alle nostre spalle e insinuandoci tra aspre colline assolate. Le povere case, basse ed essenziali, i muretti a secco, la strada a tratti sassosa, i prati stepposi nonostante siamo ancora in primavera, intervallati da querce, olivi e viti, un gregge lontano, parlano di un tempo fuori dal tempo. Nell’aria ferma e calda del mattino, il silenzio è assoluto, ma non mi stupirei se venisse rotto da un frinire di cicale, impossibile a maggio. In mancanza di cartelli abbiamo affidato il compito di guidarci al navigatore, ma questo, nel bel mezzo di una salita, ci pianta in asso, sostenendo che la meta è stata raggiunta. Anche Komoot, la app che ho caricato sul mio smartphone, non ci è di grande aiuto: ci fa proseguire per un altro mezzo km, per poi arrestarci in mezzo al nulla. Proseguiamo con attenzione anche perché la strada, franosa in più punti, a un tratto presenta una voragine in cui spiccano sospesi sul vuoto il guardrail e dei cavi; poi, ad un bivio, finalmente veniamo premiati da un cartello che indica il sito archeologico.
Altri 500 m. e, alla buon’ora, un parcheggio, la fine della strada e una sbarra con un uomo appoggiato confermano che la nostra ricerca è terminata. Un cartello ci avverte che all’interno del parco archeologico si trova la biglietteria con la possibilità, tra l’altro, di disporre di opuscoli e audio.guide. L’uomo, che non capiamo se sia un custode o il pastore di un gregge non lontano da lì, a cenni ci invita a proseguire. Percorriamo alla ricerca della biglietteria un sentiero fiancheggiato da cespugli di vegetazione fiorita fino a un pannello scolorito dal sole in cui è riportata una mappa del sito, senza però che venga indicata la nostra posizione.
Proseguiamo. Il cielo ora velato nasconde il sole e, in mancanza di precisi punti di riferimento, orientarsi non è agevole. In una pozza circondata da consunte pietre squadrate crediamo di riconoscere un ninfeo di cui riferiva il pannello. Alla sua destra era indicata l’acropoli, ma il terreno è molto scosceso e non ci sono sentieri, così, per risparmiare ad Arianna una salita troppo faticosa, preferisco partire io in esplorazione per cercare una via più agevole. Salgo con qualche difficoltà, aiutandomi anche con le mani, fino a ritrovarmi tra lecci e macchie di rovi sulla cima del colle, ma dell’acropoli nessuna traccia, solo qualche masso affogato nel verde o nella terra, che nulla indica trattarsi dei resti di qualche edificio di 23 secoli fa. Solo qualche centinaio di metri lontano si intravedono dei blocchi che potrebbero più verosimilmente essere i resti di un tratto delle mura. Ridiscendo un po’ deluso e riprendiamo il cammino.
Della biglietteria neanche l’ombra, però un altro pannello indica i resti di una costruzione e di una torre; le rovine sono molto malridotte e sembrano annerite, non so se per effetto dei secoli trascorsi o della distruzione della città operata dai Romani. Continuiamo sul sentiero ben tracciato che sale leggermente fino a un pianoro piuttosto glabro, una gariga interrotta qua e là solo da qualche albero come il leccio o cespugli di rovi, lentischi, corbezzoli, rosmarino e varie altre piante aromatiche e xerofile. E qui c’è il primo avvistamento sicuro di tracce di un abitato, che sono state evidentemente riportate alla luce da recenti scavi archeologici: il netto perimetro di bassi muretti in pietra bianca traccia sul terreno la mappa di abitazioni private e locali commerciali; poco più avanti affiorano dal terreno altri ruderi di edifici tuttora in corso di scavo. La parte più interessante e completa dell’antica Antigonea si trova verso sud.est, poco più in basso: è l’area dell’agorà in cui spiccano le colonne di un tempio, i resti di una stoà dal lungo porticato, i muri di vari edifici pubblici e commerciali disposti ai due lati della via principale. Ma, anche qui, di biglietteria, centro informazioni, audio.guide etc. nessuna traccia. Dobbiamo arrangiarci con quello che leggiamo negli scarni pannelli esplicativi, o che rammentiamo dalle nostre ricerche in Internet prima di partire o addirittura con i confusi ricordi scolastici.
Raggiungiamo il bordo del pianoro, oltre il quale la collina precipita a valle con una pendenza impraticabile; e qui Antigonea ci fa dono della sua ultima attrattiva: una spettacolare veduta panoramica della vallata e di Gjirokaster allungata sui pendii delle montagne di fronte. Gironzoliamo ancora un po’ tra le rovine, poi ci incamminiamo verso la macchina su un sentiero diverso da quello dell’andata. Inaspettatamente ci imbattiamo nella fantomatica biglietteria di Antigonea. Quello che avrebbe dovuto essere il cuore pulsante del sito archeologico, il centro propulsivo di tutte le sue proposte culturali e iniziative turistiche è un edificio in legno di stile vagamente tirolese, chiuso e lasciato in desolato abbandono da chissà quanto, come dimostra anche uno sgangherato gabinetto senza acqua e dall’uscio sfondato.
Certo questo della inadeguata o mancata valorizzazione dei propri beni, a cominciare da quelli culturali, da parte di amministrazioni miopi e indifferenti, è un film già visto e noi italiani siamo forse quelli con meno titoli per salire in cattedra; ma di sicuro fa rabbia constatare come anche chi non riesca a concepire altro interesse oltre a quello del profitto immediato non veda quale ricaduta anche economica potrebbe avere una intelligente promozione delle bellezze del proprio territorio che non si limiti alle licenze edilizie sulle coste per costruire seconde case, hotel e stabilimenti balneari.
Al ritorno notiamo, dissimulato tra la vegetazione di un canneto, l’ennesimo bunker che non ha niente di diverso dai tanti già visti se non che deve essere abitato, come dimostrano dei panni stesi ad asciugare e, incredibilmente, un’antenna parabolica collocata sulla cupola.
Raggiunta la statale, svoltiamo a sinistra, in direzione sud.est, o meglio della Grecia, il cui confine non lontano è preannunciato dai cartelli con duplice iscrizione in caratteri latini e greci. Noi però, a una ventina di km da Gjirokaster, lasciamo la SH4 per la SH78 che ci porterà verso Sarandë, dove dormiremo stanotte, come da programma. La prossima sosta, tuttavia, sarà tra pochi km soltanto. Prima occorre valicare un passo che non si fa ricordare per il nome, ma per la strada scoscesa e tortuosa che vi sale da entrambi i versanti e che renderebbe faticosa la pedalata a qualunque cicloviaggiatore con bagaglio al seguito (la mia natura di ciclista non riesce a fare a meno di riportare a parametri ciclistici gli aspetti più “stradali” di questo viaggio). Se non altro, il traffico è limitato.
A una decina di km dal passo un cartello avvisa del bivio per Syri i Kalter (ovvero “Blue Eye”, come recitavano le guide sia cartacee che internettiane consultate a casa), una risorgiva di acqua dolce immersa nel verde. Imboccatala stradina, raggiungiamo rapidamente l’ingresso del parco e, pagato il biglietto, partiamo per l’esplorazione. Attraversiamo subito un ponte di legno, un lato del quale si affaccia su uno specchio d’acqua incuneato tra i due versanti di una bassa vallata. Il sole che filtra da sotto le nubi grigio.violacee, dà vita ai colori della vegetazione e del cielo che si riflettono nell’acqua; è uno spettacolo sicuramente bello ma non eccezionale come ci era stato descritto.

Con un po’ di sano scetticismo proseguiamo sullo sterrato per un altro km o due, fino ad arrivare ad uno spiazzo con due locali affacciati sul lago, che il fumo e l’odore di carne arrosto rivelano come probabili ristoranti. Dato che l’ora di pranzo è passata da un pezzo, decidiamo di fermarci a mangiare un boccone, anche se lo stomaco si sente ancora sazio dall’abbondante colazione fatta al mattino. Ma in realtà il primo dei due locali è ormai chiuso al pubblico (quelli che stanno mangiando sono i proprietari con lo staff) e l’altro è semplicemente un bar. Ci sediamo ugualmente a quest’ultimo, ordinando da bere e dando fondo alle provviste accumulate a colazione. Ci troviamo su una piattaforma posata direttamente sull’acqua che ci scorre trasparentissima a fianco, mostrando un fondo di sassi e alghe fluttuanti e trasportando impetuosamente fiori, foglie e rametti. Più che un lago, ora, sembra trattarsi di un fiume. Anche se non si capisce bene perché questa località prenda il nome di Occhio Blu, il quadro incorniciato dai rami fioriti delle piante che si protendono sull’acqua è bucolico e incoraggia la contemplazione.
Ma il meglio deve ancora arrivare. Un paio di persone sbucano da un sentiero a dimostrazione del fatto che il percorso continua oltre il punto in cui avevamo lasciato la stradina. Lo percorriamo seguendo al contrario la direzione della corrente e, in pochi minuti, ci troviamo davanti a uno spettacolo ben più stupefacente: al termine di una stretta radura tra salici, canne, felci e piante acquatiche che lo costeggiano, il corso d’acqua si interrompe improvvisamente, terminando con un rigonfiamento gorgogliante come se un potente geyser sotterraneo facesse uscire in superficie dalle viscere della terra una impressionante massa d’acqua. Mi arrampico su una specie di trampolino sulla verticale di quel ribollimento e lì mi si chiarisce il perché del toponimo “Occhio Blu”: l’acqua che prorompe incontenibile, forma una sorta di liquida protuberanza di forma circolare che dai margini verso il centro contiene tutte le sfumature del blu, dal turchese all’azzurro intenso al color pervinca al blu scuro; inoltre, a differenza di quanto avviene solo poche decine di metri più indietro, dove il fondale di pietre e vegetazione acquatica è ben distinguibile, qui il punto da cui scaturisce la risorgiva è a tale profondità da non essere visibile da fuori, anzi il cartello spiega che i sommozzatori immersisi per accertare la profondità esatta della scaturigine non sono riusciti a individuarla nemmeno a una cinquantina di metri sotto la superficie, anche a causa della pressione e dell’impeto dell’acqua che è in grado di far tornare in alto i sassi che i visitatori gettano dentro l’Occhio Blu. Proviamo a scattare delle foto, ben consapevoli che nessuna potrà mai render conto della forza sorprendente di questo fenomeno naturale. L’acqua è gelida (è accreditata a una temperatura di 12° C, ma a me pare molto più fredda), inadatta a fare un bagno, ma mi è utile per dare sollievo a una mano che ho incautamente avvicinato a un ciuffo di foglie seghettate e pelose grandi un palmo, prima di rendermi conto che si trattava di ortica gigante.
Riprendiamo la strada verso Sarandë, distante ormai meno di 30 km; il percorso si snoda morbidamente seguendo a tratti il corso di un fiume (forse quello alimentato proprio dalla risorgiva di Syri i Kalter) tra colline sempre più basse, fino a raggiungere la pianura, salvo poi impennarsi presso Gjashte per raggiungere un piccolo valico che apre la vista su Sarandë e il suo bel golfo. Cercando sullo smartphone informazioni sulla città, scopro che il nome albanese derivava dal greco Aghioi Saranta (cioè Santi Quaranta che è poi anche l’iniziale toponimo italiano) in riferimento a quaranta martiri morti per la loro fede cristiana.
Scendiamo costeggiando il mare dall’alto fino alla zona dello stadio, per dare una prima sommaria occhiata alla città e a un posto dove dormire. Deliberatamente abbiamo deciso di non ricorrere a booking.com e di cercare con le nostre forze, ovvero lasciar fare al caso. La città, moderna e irrequieta come tante delle città di mare che si affacciano sul mediterraneo, vive delle attività portuali e soprattutto di turismo, come dimostrano i collegamenti via mare con Brindisi (però solo in estate), Corfù e altre località della costiera adriatica e la gran quantità di Hotel e naturalmente di turisti di varia provenienza (ma soprattutto italiani e tedeschi) che sciamano sulle strade, nonostante la stagione delle vacanze sia ancora lontana.
Dopo aver scartato senza un preciso criterio un albergo dopo l’altro, scendiamo sul lungomare e percorriamo la strada che dal porto riconduce verso il centro. Di B&B e affini, nemmeno l’ombra. Finiamo così col fermarci presso un albergo, dal quale vediamo uscire una coppia di giovani escursionisti zaino in spalla. In realtà l’attribuzione della categoria di albergo è piuttosto avventata in questo caso: si tratta di una struttura dal numero indefinibile di stelle che pare ancora in via di sistemazione, in cui non si riesce a distinguere il maitre, o comunque chi lo gestisce, da chi fa le pulizie. La stanza non è niente di che, ma è passabile e ha perfino un balcone con una bella vista sulla baia e il costo è di 20 € soltanto. La prendiamo. Stando in piedi sulla soglia, in mancanza di un locale che faccia da reception, paghiamo la somma a uno sconosciuto che non ritiene necessario registrare i documenti d’identità e che ci auguriamo in cuor nostro sia davvero un dipendente dell’albergo, poi entriamo, disfiamo i bagagli e dopo una lunga doccia ristoratrice ci avventuriamo nella città. La giornata ormai scivola verso la sera e il lungomare si fa via via più animato e rischiarato dalle prime luci di insegne, bancarelle, lampioni, alberghi, discoteche, negozi..; agli incroci e all’ingresso nei parcheggi si formano code di auto impazienti che reagiscono a suon di clacson; ragazzini in mtb o in skate fanno lo slalom tra le palme della passeggiata. Insomma, se fosse per questo, Sarandë potrebbe essere scambiata per Riccione. Poi, però, sulla passeggiata troviamo un chiosco giallo che funge tra l’altro anche da ufficio informazioni turistiche (finalmente! ci diciamo), ma tutto ciò su cui chiediamo indicazioni – cartine della città o della provincia, monumenti o luoghi da visitare, dolci o piatti tradizionali da gustare, prodotti artigianali tipici etc . non deve rientrare tra le informazioni di cui la gentile,ma spaesata impiegata dispone. Alla fine usciamo ringraziando – anche se non saprei dire di cosa . la povera ragazza, imbarazzata almeno quanto noi siamo delusi.
Ci rifacciamo regalandoci una cena in un ristorante di lusso sul lungomare, il cui piatto centrale è una vellutata al pomodoro, buonissima, seguita da un piatto di formaggi locali e da un dolce dal nome impronunciabile; il tutto per una quindicina di euro, bevande comprese. Quasi mi vergogno ad usare il bancomat.

7 SARANDA – BUTRINT – SARANDË
La passeggiata mattutina alla ricerca di un posto dove fare colazione, visto che l’hotel non la prevede, ci presenta una Sarandë più popolana e meno da movida. Donne con la borsa della spesa, mercati di verdure e mercatini generici, banchetti che vendono chiocciole. La colazione vede due soste, una al bar per il solito cappuccino, l’altra presso un fornaio che sul bancone presenta una serie di dolci; prevalgono quelli al miele, o con pasta di mandorle, oltre a pasticceria secca e altri tipi dagli ingredienti non ben individuabili. Soprattutto quelli al miele ricordano da vicino, com’è naturale, i loukoumi tipici greci e, per quanto terribilmente zuccherosi, sono gradevoli; ci ripromettiamo perciò di comprarne un po’ prima del ritorno in Italia, da portare a casa. Al rientro decidiamo di prolungare il soggiorno presso lo stesso albergo. Cerchiamo, con i 20 € già pronti in mano, la stessa persona di ieri, ma non troviamo nessuno, finché una signora che sta rifacendo i letti in un’altra stanza dice di dare pure a lei. Fissata la stanza in modo così informale, partiamo per la nostra meta odierna, Butrint (o Butrinto in italiano), distante una quarantina di km.
L’uscita da Sarandë non è molto agevole: il lungomare è intasato di auto e pullman oltre che di passanti che si spostano imprevedibilmente da un marciapiede all’altro; si procede a passo d’uomo, ma non mi azzardo a cercare un’altra strada più a monte. Usciti dalla lunga periferia meridionale e saliti sulla collina, la situazione non migliora di molto: a rallentarci facendo procedere a singhiozzo sono stavolta i frequenti lavori in corso che costringono a continue deviazioni su strette stradine parallele o a delle brevi soste. Ne approfittiamo per tentare di scattare dall’auto qualche foto alla baia che col suo mare dal blu intenso abbraccia la linea di costa su cui si affacciano le candide abitazioni di Sarandë, ma è quasi impossibile combinare quegli attimi con tratti in cui la visuale sia libera da altre vetture, betoniere o intrecci di cavi elettrici, telefonici o chissà che altro.
La situazione cambia quando lasciato definitivamente alle spalle il territorio urbano, ci troviamo in aperta campagna, a percorrere una sorta di istmo. A sinistra si scorge un verde reticolo di appezzamenti coltivati e sulla destra il mare con la punta settentrionale di Corfù; l’isola pare vicinissima (è lo è: da qui, in obliquo, saranno una decina di km circa, ma più avanti non credo che la distanza superi i due.tre km) e appare come una ampia montagna che si innalza sulle acque con le macchie chiare delle scogliere e dei suoi borghi costieri. All’improvviso l’isola e il mare scompaiono alla vista, celati da un promontorio, mentre un’altra distesa d’acqua si apre stavolta alla nostra sinistra: è l’ estesa laguna di Butrint, in pratica un mare interno che attraverso lo stretto canale di Vivari comunica con l’Adriatico e fa parte dell’omonimo parco nazionale; vicino alle rive spiccano numerosi impianti di coltivazioni di mitili. Il bel tratto panoramico si snoda ora lungo una strada ondulata, ma in buono stato e per niente trafficata; distratti dallo spettacolo della laguna ci perdiamo il bivio che porta a Manastir, un sito sulla cima di un colle che ospita. –come si intuisce dal nome- un antico monastero bizantino, quello di Shën Gjergjit ovvero S. Giorgio: ci rifaremo al ritorno. Poi un nuovo scollinamento ci riporta in vista di Corfù e di litorali dalla sabbia bianchissima. È la decantata Ksamil dai lidi simil.caraibici; dalla costiera deviamo verso il paese, che di per sé è solo un brutto esempio di urbanizzazione selvaggia e conserva ben poco di quello che doveva essere un piccolo e povero villaggio di pescatori: ora blocchi di condomini a più piani, villette pretenziose, case non finite, abitazioni dallo stile minestrone, parcheggi selvaggi deturpano il litorale. Ma le spiagge, se si volgono le spalle all’entroterra, sono sempre meravigliose con la loro rena finissima e chiara e l’acqua cristallina che permette di scorgere nitidamente il fondo in cui in un’alternanza di colori si mescolano sabbia, alghe e roccia. Al largo in direzione di Corfù, un traghetto e un paio di barche, verosimilmente di pescatori.

Torniamo sulla statale e in una manciata di minuti arriviamo al sito archeologico di Butrint, l’antica Buthrotum romana (e prima ancora greca) dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’umanità. Nonostante siamo lontani dalla piena stagione turistica, il piazzale è pieno di pullman e auto di visitatori e altri ne stanno arrivando, o affollano le bancarelle. Per non farci sommergere dall’orda dei turisti, dei quali peraltro anche noi facciamo parte, ci affrettiamo a entrare. Il nostro timore di mancanza di organizzazione (pregiudizio motivato dalla visita alle rovine di Apollonia e, ancor più, di Antigonea) viene sfatato subito: non solo una coda breve e ordinata ci fa raggiungere in un attimo la biglietteria, ma qui ci viene fornito anche una cartina del sito, con l’itinerario consigliato. Del resto, i vialetti di tutta l’area archeologica sono ben tracciati tra siepi di oleandri, alberi di alloro o ulivo e cespugli ben curati, mentre pannelli esplicativi illustrano abbastanza dettagliatamente i vari punti d’interesse del percorso, mettendoli in relazione con le vicende storiche, economiche e ambientali dell’area.
Butrint, fondata secondo la leggenda da esuli troiani e, più realisticamente, da Epiroti 2700.2900 anni fa divenne presto un centro importante del mondo greco per la sua particolare ubicazione nell’Adriatico, la posizione tra mare e terra, la ricchezza di acque, la prosperità dell’agricoltura e del commercio, la presenza di un prestigioso santuario dedicato ad Asclepio. Di tutto ciò restano a testimonianza i ninfei, il santuario stesso, il teatro adagiato sul fianco della collina e le “ben costrutte mura”; tra queste ultime, notevoli per l’altezza e per la precisione degli incastri (che ricorda un po’ quella delle mura incaiche), si aprono alcune porte, fra cui quella cosiddetta del Leone per la presenza di un bel bassorilievo (in verità in posizione diversa da quella originale) raffigurante un toro ucciso da un leone. Sotto il dominio romano, l’area urbana venne ampliata, furono costruiti nuovi palazzi, le terme, il foro, il mercato e l’acquedotto, oltre a un ponte che collegò la città con la sponda opposta, oltre il canale di Vivari. In epoca bizantina diversi edifici vennero trasformati e altri vi si aggiunsero: qualche torre e tratti delle mura, la grande Basilica e il bel battistero, ricco di colonne e di uno splendido mosaico (che a noi è dato vedere solo in cartolina, perché protetto da uno strato protettivo). Ma a causa di terremoti, bradisismi e invasioni era ormai già iniziata la decadenza, che portò al semi.abbandono di Butrint, fino alla sua riscoperta nella prima metà del ‘900 durante campagne di scavi a cui presero parte anche archeologi italiani.
Saliti sull’acropoli raggiungiamo il castello che; costruito in epoca medioevale sulla sommità del colle e poi ampiamente rimaneggiato nel secolo scorso, offre un’ ottima vista sullo stretto di Corfù e sul Canale di Vivari, al di là del quale si erge la bassa Fortezza Triangolare costruita dai Veneziani. Al castello, che ospita anche un interessante museo, incontriamo una coppia di italiani della mia età, spinti anche loro dalla curiosità di conoscere l’Albania. Ci mettiamo a conversare per una buona mezzora, approfittando dell’ombra della torre e della brezza che spira dalla laguna. I nostri interlocutori. di cui ignoro l’occupazione, sono comunque persone di un certo spessore culturale e si mostrano esperti conoscitori dei siti archeologici non solo albanesi, ma anche di tutti i Balcani e della Bulgaria in particolare, della quale elogiano gli aspetti umani, culturali e naturalistici, fino a dipingerla come una nazione ideale, ben superiore all’Albania per quanto riguarda la ricchezza e la conservazione del patrimonio ambientale, storico e artistico.
In effetti, anche se prima e durante questo viaggio mi accorgo di essermi atteggiato ad aprioristico difensore e magnificatore di tutto ciò che esiste nella terra degli shqipëtari, devo ammettere che ben più di certi aspetti di disorganizzazione o delle pur discutibili condizioni delle vie di comunicazione, mi ha dato fastidio lo scarso rispetto per l’ambiente, manifestato nei tanti sacchetti di plastica colorata e nelle cartacce abbandonate lungo le strade o peggio nei rifiuti galleggianti nei fiumi o scaricati all’interno di boschi o in prossimità di monumenti; ma in misura forse maggiore mi ha colpito il diffondersi a macchia d’olio di esempi di cementificazione selvaggia e abusivismo edilizio lungo le coste, fenomeni che noi in Italia conosciamo bene per aver guastato tanta parte del Bel Paese e che ora rischiano di ripetersi senza aver insegnato nulla anche in Albania, che pure ospita un popolo sensibile e fiero della propria nazione.
Tornati al parcheggio antistante gi scavi, notiamo che il piazzale termina con un pontile il quale si affaccia direttamente sul canale di Vivari. Decidiamo lì per lì di farci traghettare dall’altra parte e di tornare a Sarandë da una strada differente da quella dell’andata. L’attesa all’ imbarcadero è breve; dopo pochi minuti saliamo con la Y su uno zatterone collegato a un doppio cavo con il pontile della sponda opposta. Anche se l’argano che lentamente ci fa muovere è sicuramente a motore e non azionato manualmente da uomini o animali, fa un effetto strano: più che nello spazio sembra quasi un viaggio nel tempo. Dall’altra parte ci attendono le basse mura della Fortezza Triangolare, curiosa costruzione cinquecentesca eretta dai Veneziani a difesa dalle incursioni turche. Possiamo solo percorrerne il perimetro e spiare l’interno attraverso le grate che ne chiudono l’accesso; ma non pare proprio che ci sia nulla di notevole.
Riprendiamo la marcia verso Xarre e da qui, dopo una breve deviazione verso la cima della collina per poter ammirare il panorama della laguna dall’alto, puntiamo verso Pllake e infine nuovamente Sarandë. Questa seconda parte del viaggio è senza dubbio meno scenografica della prima, immersa com’è nella campagna albanese a tratti brulla e assolata, con poche .e povere. costruzioni rurali, qualche agricoltore e nessun mezzo meccanico, ma ha ugualmente un suo fascino perché riporta a una realtà contadina un tempo anche nostra, ma ormai scomparsa. Un gregge di pecore ci sbarra la strada per qualche attimo, ma subito un ragazzino, agitando una canna a mo’ di frustino, si affretta a riportare la mandria ai margini della carreggiata. Non incontriamo altri ostacoli fino all’arrivo alla periferia di Sarandë, anche perché la strada è priva di traffico salvo nelle vicinanze della città, dove si ripetono gli abituali inconvenienti del traffico cittaino: auto mescolate ai pedoni, lavori in corso, code, bislacche deviazioni. Prima di tuffarci nel groviglio, ci godiamo da una piazzola sopraelevata lo spettacolo del sole che si tuffa nel mare in uno sbuffo arancione, mentre sul lato opposto, sopra di noi, si erge scura la collina con le rovine del Castello di Lëkurësi.
Ceniamo sul lungomare in una sorta di ristorante fast food che ieri ci era stato caldamente consigliato dal cosiddetto albergatore, ma che non eravamo riusciti a trovare. Il locale è assolutamente senza pretese e la caratteristica più evidente è un ragazzino autistico che, lasciato solo con se stesso, gioca al videogame e emettendo incomprensibili urli ad ogni pausa; i parenti lo ignorano, intenti a seguire una soap opera alla tv. Anche il cibo non ha niente di speciale e, per mancanza di alternative, si riduce a delle verdure miste con patatine fritte. Tornando in albergo, ci concediamo il lusso di un cono gelato che ci mangiamo sul lungomare, come al solito affollato di persone, locali, luci e suoni e indistinguibile da un qualunque centro balneare della riviera romagnola.
Sì, Sarandë è senz’altro una cittadina più vivace e moderna di tante altre che abbiamo toccato, però – sarà che siamo vicini alla fine del viaggio . non presenta attrattive che la rendano una meta imperdibile, non fosse per le vicine località di Syri i Kalter, Ksamil e Butrint. Domani, però, nel viaggio di ritorno a Vlorë, avremo modo di fermarci a visitare località interessanti, prima di raggiungere la città, dalla quale dopodomani ripartiremo alla volta di Brindisi.

7_ SARANDA – VLORË
Sveglia anticipata (si fa per dire), perché dobbiamo riunire i bagagli in maniera un po’ più ordinata di come abbiamo fatto ultimamente e soprattutto cercare qualcosa da portare in patria come pensierino compensativo per i rispettivi partner rimasti a casa. Dopo aver girato invano per negozi, mercati e bancarelle sparse, ci riduciamo all’acquisto di dolci al miele e alla pasta di mandorle, tipici – o almeno tali ci vengono presentati – dell’Albania centro.meridionale, rimandando la ricerca più approfondita nel pomeriggio a Vlorë. Poi torniamo in albergo e dopo aver atteso inutilmente qualcuno del personale per avvertirlo che lasciamo la camera (premura inutile, visto che abbiamo pagato in anticipo e non ci sono documenti da recuperare), carichiamo i bagagli e partiamo.
Valicato il colle che separa Sarandë e la costa dall’interno, Arianna mi avverte che ho oltrepassato il bivio per Vlorë. Freno un po’ bruscamente per invertire la marcia e la Y ha una reazione strana, quasi una sbandata. Non ci faccio caso più di tanto e imbocco la via giusta. Un’altra curva in discesa e stavolta la sbandata, accompagnata da un forte rumore di rotolamento e dal lampeggiare di una spia, è innegabile. Mi fermo a controllare se per caso ho una gomma a terra, ma tutto sembra regolare. Riparto con qualche timore e provo a frenare su rettilineo, utilizzando anche il servomotore. Ancora una volta il fenomeno si ripete in maniera inequivocabile. A questo punto è chiaro che c’è un problema di tenuta di strada, tanto più preoccupante per il fatto che per arrivare a Vlorë dobbiamo superare una montagna di oltre 1000 m. e affrontarla, soprattutto in discesa, in queste condizioni è inquietante. Procediamo perciò con la massima circospezione non superando i 30-40 km/h in salita e riducendo la velocità a 5-10 in discesa, tanto più nelle curve. Certo che in queste condizioni ci vorrà l’intero pomeriggio per raggiungere Vlorë.
Fare delle ipotesi sulle origini del problema, anche se non è di nessuna utilità pratica, può servire a tenere sotto controllo l’ansia: un guasto di qualcuno degli impianti di sicurezza dell’auto (ABS.ESP.EBD o che altro), un cedimento meccanico, una macchia d’olio… Forse è stata proprio la persistenza di qualche sostanza oleosa sugli pneumatici a determinare la perdita di aderenza delle ruote sterzanti; e l’ipotesi sembra avvalorata dal fatto che noto che altre due auto andare alla nostra stessa velocità senza tentare di superarci e, dopo che noi ci siamo fermati, continuare alla stessa lentissima andatura, come se avessero il nostro stesso problema.
La strada si snoda serpeggiando lungo la costa, rivelandone il delicato equilibrio tra le sue componenti: cielo, terra e acque, relativamente incontaminate dalla presenza umana. È un’area ricca di bellezze naturali dai vividi colori, come le spiagge di Dhermi e Drimadhes, ma anche di siti storici come il parco archeologico di Orikum e la fortezza di Ali Pashe di Tepelene, o di affascinanti insediamenti umani, quali i borghi antichi di Himare e Dhermi, o antichi edifici come chiese e monasteri, sparsi in quest’area. Purtroppo, data la situazione, dovremo rinunciare a visitare tutte queste località.
Arrivati però a Porto Palermo, ci troviamo davanti una piccola baia; al centro, immersa in un mare blu cobalto, una penisoletta che solo una sottile lingua di sabbia separa dalla terraferma. Al centro su una collinetta appena accennata si intravede un’ ampia costruzione: è il Castello di Ali Pashe, come confermano i cartelli. Dato che si trova sulla strada per Vlorë, senza richiedere deviazioni, ci concediamo una breve sosta per visitarlo, nonché per riprenderci dallo stress delle ultime ore.
Paghiamo l’abituale biglietto da poche centinaia di lek ed entriamo. Più che di un castello vero e proprio, si tratta di una ampia fortezza a forma triangolare provvista di tre bastioni di cui due rivolti verso il mare e uno verso terra. Questo rivela chiaramente la sua funzione di fortilizio a difesa dalle incursioni marine delle navi turche; ma naturalmente intorno ad esso sono fiorite varie leggende, tra cui quella secondo cui due secoli fa Ali Pashe l’avrebbe fatta erigere sia in onore della moglie sia per nascondervi le proprie ingenti ricchezze (facendo poi uccidere i costruttori per far morire con loro il segreto), tanto che negli anni successivi è stato in parte “scarnificato” dai soliti cercatori di tesori.

Da un ambiente centrale a forma circolare sul quale si aprono varie stanze, saliamo al piano superiore e attraverso una casamatta sbuchiamo sulla terrazza. Qui si gode una bella visuale dall’alto sulla baia, sulle brulle montagne che si guardano la costa e sulla spiaggia, in parte deturpata da un moletto per imbarcazioni turistiche. Scendendo al piano sottostante ci si ritrova in un dedalo di stanzoni bui e umidi collegati e tra loro e utilizzati nel corso del tempo sia come locali d’abitazione di una guarnigione militare, che come prigione. Il pensiero di coloro che debbono essere stati incatenati e torturati qui dentro da Ali Pashe – che aveva fama di efferata crudeltà – le tenebre assolute dei locali più remoti e la sensazione claustrofobica di chiuso rendono quanto mai gradevole l’uscita all’aperto, tanto più che il sole ci restituisce, oltre alla luce e al caldo, anche il profumo di resina, di ginestre, di rosmarino, di mirto e altre piante aromatiche in piena fioritura. È questo il bello dei viaggi compiuti in primavera: clima mite, più ore di luce a disposizione e il fascino della natura in completo risveglio.
Potremmo fermarci a mangiare un boccone nel vicino ristorante; è molto affollato e c’è da fare un po’ di coda, ma nessuno dei due ha appetito e l’ansia di dover affrontare la montagna, col timore che qualche altra noia meccanica possa ritardare l’arrivo a Vlorë, ci spinge a ripartire subito.
Presso Vuno, non lontano dalla costa, ci fermiamo a fotografare un paesaggio surreale: immersi e quasi nascosti da una folta vegetazione si scorgono solchi profondi, creste affilate e calanchi, frutto dell’incessante azione di piogge e vento, che ricordano i fenomeni erosivi del nostro Appennino, non fosse per il vivo colore rossastro dell’ arenaria al posto del grigio delle argille.
Ci lasciamo alle spalle fugacemente e non senza rimpianto Himara, Dhermi, Palase e dopo una serie di saliscendi tra la costa e l’interno, finalmente la strada inizia a salire con decisione sui primi contrafforti del massiccio del monte Çika, affrontando con prudenza i primi tornanti. Man mano che si sale, ai cespugli di macchia mediterranea e di agavi subentrano arbusti e poi pini, abeti e altre conifere sempre più fitte, fino a formare un bosco compatto che ricopre le pendici del monte. Il panorama dall’alto è incredibile: la montagna scende quasi a picco sul mare e in lontananza si scorgono bene Corfù e qualche isolotto non so se albanese o greco; all’orizzonte mi illudo perfino di avvistare la costa italiana.
Ci fermiamo ad uno degli ultimi tornanti, per scattare una foto prima di entrare nella zona più boscosa e qui un’altra sorpresa ci attende: sul brullo pendio roccioso che precipita verso le spiagge di sabbia bianchissima parecchie centinaia i metri più in basso si scorgono tanti puntini neri apparentemente immobili: si tratta di una ragguardevole quantità di capre, abbarbicate alla roccia, delle quali non intravedo né pastore, né cane. Un banco di nuvole basse ci accoglie nel Parco Nazionale di Llogara, ricco di biodiversità per quanto riguarda sia flora che fauna, grazie anche a una gran varietà di microclimi, stando a quel che scrivono le guide; ieri il parco era riservato ai soli burocrati del regime comunista, ma oggi è luogo di vacanza dei cittadini albanesi e di non pochi turisti stranieri , come dimostrano le frequenti strutture alberghiere.
La lunga salita termina finalmente al passo di Llogara. Qui presso un hotel.ristorante ci fermiamo per regalare all’auto una pausa prudenziale e a noi un caffè (a cui poi si aggiungono dei dolci, tanto per non saltare completamente il pranzo).
Approfittiamo della sosta anche per qualche giro intorno all’edificio da cui si gode un’ottima vista e per una chiacchierata col proprietario, che parla un discreto italiano, per aver lavorato a lungo in Italia. Ci racconta che poco lontano dal passo si trova il cosiddetto sentiero di GiulioCesare, venuto in Albania per combattere contro Pompeo e ci spiega poi che la statale, che noi abbiamo trovato in ottime condizioni (una volta tanto!), fino a pochi anni fa era molto malridotta: risaliva agli anni ’20 ed era stata costruita dagli italiani, ma era stretta e ormai piena di rattoppi; dopo il 2009, invece, il manto stradale era stato completamente rifatto e allargato; pure stavolta erano stati ingegneri italiani a dirigere i lavori e come questa, anche per numerose altre strade del Paese erano state avviate opere di ammodernamento (cosa peraltro che anche noi eravamo in grado di testimoniare per esperienza diretta); anzi in seguito a un accordo preso qualche anno fa tra le autorità albanesi e il governo Berlusconi, anche l’edilizia residenziale ha ricevuto un nuovo impulso (e pure di questo possiamo dire di essere stati orripilati spettatori). Anche di recente sono stati firmati dei protocolli d’intesa per favorire l’ingresso di imprese italiane soprattutto nei settori del commercio, dell’edilizia e delle infrastrutture turistiche. Lui ne parla con soddisfazione e orgoglio, io invece non so quanto la cosa si rivelerà utile anche per l’ambiente del suo Paese, ma tengo la considerazione per me.
A proposito del passato gli chiediamo se in Albania c’è del risentimento nei confronti dell’Italia per le vicende storiche che ci hanno visto tentare di imporre con le armi il dominio italiano sul loro Paese; ma lui, alzando le spalle e con un largo sorriso dice che gli Albanesi sono un popolo che guarda avanti e spera nel futuro; del resto, dove ci sono gli affari, le vecchie questioni non contano più, perciò sono proprio Italiani e Tedeschi i turisti più graditi in quanto i più numerosi e nessun Albanese vede in loro gli eserciti fascisti e nazisti che occuparono il loro territorio agli inizi degli anni ‘40. Se proprio devono esprimere un giudizio negativo sul passato, lo focalizzano sul periodo del governo di Enver Hoxha che, oltre a privarli della libertà politica, ha concorso a farli sentire a lungo i più arretrati in Europa, negando loro ogni possibilità di sviluppo economico, di crescita sociale, di autodeterminazione per quanto riguarda anche la sfera privata, a cominciare dagli aspetti religiosi.
L’argomento a questo punto si sposta sulla religione, dato che l’Albania almeno un primato lo vanta: essere il primo paese a maggioranza mussulmana d’Europa, anche se in una forma particolare, il bektashismo. Nella conversazione che segue riesco a riordinare alla meglio l’insieme di informazioni sparse raccolte qua e là sia prima di partire nelle guide e sui siti internet dedicati all’Albania, sia nel corso del viaggio sui pannelli esplicativi delle moschee o all’interno del Castello di Gjirokaster, oltre alle chiacchierate col signor Shehu o col custode della tekke di Berat.
Il bektashismo è una particolare corrente della religione islamica; di derivazione sufi, nata in Turchia nel XIII sec. contiene elementi basilari della tradizione sciita, ma anche del cristianesimo (i Bektashi venerano i santi, hanno una specie di battesimo e di comunione; non proibiscono le raffigurazioni di uomini o animali, né le icone; inoltre non prevedono alcun tipo di velatura per le donne, possono mangiare maiale e bere alcolici, anzi il raki , una sorta di grappa di vinacce, è il loro liquore nazionale. Per questa sua natura non ortodossa, la religione bektashi venne considerata eretica e repressa in molti Paesi islamici; oggi è particolarmente diffusa in Albania, a Tirana si trova il Centro Mondiale Bektashi, organizzato gerarchicamente in modo simile al cattolicesimo: a capo della confraternita c’è il Gran Dede (nonno) di Tirana, assistito da un Consiglio (di 5 dede dei centri religiosi più importanti). Al livello inferiore stanno i baba (babbo) alla guida delle varie tekke, poi i dervisci (membri delle tekke) e infine i fedeli.
Si tratta quindi di una religione islamica sui generis, ispirata a sincretismo e tolleranza. Del resto, come ci aveva spiegato il sig. Shehu, in Albania, a differenza di altri Paesi balcanici, non ci sono problemi connessi con le differenti fedi religiose. Con il crollo del comunismo, che aveva imposto l’ateismo di Stato, e la nuova Costituzione, l’Albania non ha una religione di Stato, ma rispetta e tutela tutte ogni confessione presente nel territorio, considerando la fede semplicemente come una questione privata dell’individuo. Peraltro l’intera società albanese è piuttosto elastica nei confronti delle norme religiose: così i bektashi, i musulmani sunniti, la Chiesa Autocefala Ortodossa d’Albania e i cattolici, convivono in armonia tra loro e, ovviamente, anche con atei e agnostici, al punto che non è raro che, ad esempio, cristiani e mussulmani partecipino insieme ai festeggiamenti del Natale o della fine del Ramadan. In fondo, come ho letto da qualche parte, più che la propria fede religiosa per l’orgoglioso cittadino del Paese delle Aquile conta il senso di appartenenza alla comunità nazionale, la sua vera religione è la cosiddetta albanesità.
Dopo aver verificato che a Vlorë non ci sono concessionari o officine autorizzate Lancia, concludiamo la nostra lunga sosta. Il tempo sembra volgere al brutto con qualche spruzzo di pioggia modesto per entità e durata. Percorriamo con qualche apprensione la ripida discesa fino alla pianura, tenendo sempre le marce più basse per non essere costretti a frenare di colpo, ma la Y si comporta bene e l’inconveniente non si ripresenta; appena tornati in Italia, comunque, la porteremo a controllare in un’officina specializzata.
Raggiungiamo la periferia di Vlorë nel tardo pomeriggio e ci infogniamo – è il caso di dirlo – nel traffico caotico della città. La strada infatti è in rifacimento – tanto per cambiare – ed è tutta infangata a causa di un recente acquazzone, mentre la coda di vetture è rallentata da un pesante camion pieno di ghiaia che procede a fatica. Pur restando dietro all’automezzo sono costretto a zigzagare continuamente per evitare le pozzanghere più grosse di cui non conosco la profondità. Dopo 5.10 minuti di marcia si raggiunge il lungomare e la strada si allarga, ma non accenna a migliorare, anzi si rallenta ulteriormente a passo d’uomo, dato che ci si affiancano anche pedoni e ciclisti. Poi il camion si ferma e non accenna a ripartire. Alla fine scendo per capire cosa ci impedisce di proseguire e la risposta la trovo inequivocabilmente da solo: la strada non c’è più, o meglio non c’è ancora, dato che deve ancora essere realizzata. Si tratta infatti di un segmento ancora in costruzione e il camion che ho davanti a me ha appunto il compito di trasportare la ghiaia necessaria. Per fortuna un anziano signore in bici, coi calzoni rimboccati al ginocchio per evitare il fango, compreso il mio scoramento, inverte la marcia e si offre da guida; torniamo indietro di un centinaio di metri e inizia un percorso a serpentina tra pozzanghere, marciapiedi o aiuole in allestimento, finché passando attraverso un paio di parcheggi condominiali ci porta in salvo, ennesimo esempio di gentilezza e disponibilità disinteressate, che vale la pena ricordare più di qualsiasi strada dissestata, bunker o Mercedes. Quando lo ringraziamo, non comprende il nostro italiano né l’inglese, ma sicuramente dall’espressione mia e di Arianna intuisce la nostra sincera gratitudine, alza una mano sorridendo e riprende la sua strada.

Giriamo un po’ per la città, senza riconoscere nulla di quanto avevamo visto di Vlorë la mattina del nostro sbarco: è come se fosse tutta un’altra città; ma è anche vero che allora dal porto c’eravamo diretti verso Nord, mentre ora proveniamo da Sud. Prima di partire stamattina abbiamo dato un’occhiata ai possibili alberghi, possibilmente vicino all’imbarco. Ne abbiamo individuati parecchi, naturalmente, tutti diversi per qualità e prezzi; ma ora, per una volta, vogliamo fare i signori e concludere in bellezza: decidiamo di cercarne uno a 4 o 5 stelle. Percorriamo la via principale, la rruga Sadik Zotaj, fino in fondo e parcheggiamo vicinissimo al porto spulciando il nostro elenco.
La scelta cade subito sul Pavarësia, facilitata dal fatto che oltretutto ce lo troviamo di fronte appena alziamo gli occhi: è, un edificio giallo, squadrato, di quattro piani, di costruzione recente, ma di aspetto non propriarmente avveniristico. Maitre e camerieri parlano correntemente italiano ed accettano carte Visa, il che ci risparmierà la noia di cambiare altri euro in Lek. Per di più il prezzo, nonostante le stelle, è contenuto. È fatta. Saliamo nella nostra stanza, spaziosa, pulita e con una bella vista dal balcone e, scaricati i bagagli, torniamo subito in strada, per sgranchirci le gambe prima di cena e liberarci dalla tensione che ci ha accompagnati tutto il giorno.
La Sadik Zotaj è un lungo viale molto ampio, bordato da palme, che inizia nella zona dell’Università a due passi dall’albergo e dal Museo Nazionale dell’Indipendenza; vi si affacciano grandi magazzini e negozi d’ogni genere, per lo più in franchising, e le vetrine illuminate riflettono ambizioni di lusso e di moda, che ora probabilmente cominciano ad essere condivise anche dall’albanese medio. Anche la gente che affolla il marciapiede ha indossato il vestito buono e si gode, per lo più a coppie o con tutta la famiglia, lo “struscio” serale. Non mancano comunque anche donne sole, prevalentemente giovani o giovanissime, che sfatano il clichè della donna costretta a rimanere in casa o a uscire solo se accompagnata dal proprio marito, fratello o padre, secondo il luogo comune riguardante i paesi a religione musulmana. Del resto, per la costituzione albanese, l’uomo e la donna, godono di pari dignità e hanno gli stessi diritti (almeno sulla carta, dato che nei paesini di montagna più sperduti sopravvivono le discriminazioni e i forti condizionamenti della mentalità patriarcale codificata nel Kanun, come ha sottolineato anche il recente pluripremiato film “La vergine giurata”).
Camminiamo senza una meta precisa fino alla Moschea Muradi, incontrando cinema e teatri, hotel, discoteche, sale giochi, internet cafè, agenzie di viaggi, attività commerciali di vario tipo e quasi tutte aperte e frequentate, nonostante l’ora. È chiaro che questo è il cuore della città, il vero centro .non solo in senso materiale. di Vlorë e forse (ma non conosco Tirana né il resto del Paese) dell’Albania che verrà.
Al ritorno decidiamo di non ripercorrere rruga Sadik Zotaj, ma di seguire vie traverse; e qui naturalmente l’animazione di luci, brusii, persone e automezzi è meno vivace. Proseguiamo poi in direzione del porto, per renderci conto del percorso da fare domani e individuando un paio di supermarket in cui spendere gli ultimi lek che ci avanzeranno dalla cena stasera.
Già, la cena: nella nostra frenesia podistica non ci siamo resi conto dell’ora e non vogliamo rischiare proprio l’ultima sera albanese, di restare digiuni o di doverci accontentare di una pizza. D’altra parte la sera avanza e soffia una brezza di mare che ha ben poco di primaverile. Dopo aver scartato un paio di locali, entriamo in una trattoria posta in un vicolo, modesta d’aspetto, ma “verace”, con pochi tavolini, ricoperti da tovaglie a quadretti d’altri tempi, illuminazione discreta e con solo due avventori ad un tavolo. In realtà si tratta di imprenditori italiani che parlottano d’affari in tono sommesso e con un’espressione che mi piace immaginare da contrabbandieri levantini. Il cameriere è rapido ad arrivare e ancor prima di sentirci parlare ci interpella in italiano: dobbiamo avercela stampata in faccia la nazionalità. Nel menu Arianna scopre una zuppa calda di fagioli (la prima che trovo in Albania) e io, incalzato da un desiderio impellente di proteine vegetali e da un brivido di freddo, non perdo tempo a ordinarla. In realtà è un minestrone in cui i pochi fagioli sono annegati in mezzo a tanti altri vegetali; ma è calda (anzi la terrina è da ustioni di secondo grado) ed è molto saporita; di secondo involtini di pasta sfoglia con spinaci e djathe, il formaggio stagionato di qui, mentre Arianna sceglie un lakror: una specie di tortino di melanzane all’aglio in salsa di yogurt.
Un ultimo giro sul viale che unisce l’area portuale alla rruga Sadik Zotaj ci permette di gustarci un gelato e l’ultima passeggiata serale shqipëtara. Infine, il ritorno all’albergo.

8 VLORË – BRINDISI
La mattina, calda e luminosa, non reca traccia delle nuvole di ieri e anche il nostro umore sembra rasserenato dopo le passate preoccupazioni per il possibile guasto ai freni. Ad ogni buon conto ieri sera, al rientro in hotel, ho telefonato al mio cugino Piero, che abita vicino a Brindisi, per chiedergli di cercare, da qualche parte nelle sue vicinanze, un’officina autorizzata Lancia per effettuare un controllo di sicurezza sulla Y.
Fatta una più che abbondante colazione a buffet, saldiamo il conto, carichiamo i bagagli sull’auto che lasciamo al parcheggio dell’hotel e ci apprestiamo a trascorrere le ultime ore in Albania visitando le strade interne e i quartieri attigui a quelli della camminata di ieri sera. Durante la passeggiata, la nostra attenzione si sposta anche sulle scritte e le insegne che incontriamo. In tutti questi giorni, per curiosità più che per necessità, ho annotato vari termini in cui via via ci siamo ripetutamente imbattuti. La quantità di parole corrispondenti a quelle italiane, pur con qualche differenza di trascrizione, ci sorprende; troppo simili per essere casuali, alcune sono sicuramente dei prestiti moderni (spesso proprio dalla nostra lingua), riguardanti l’alimentazione, tecnologie o attività di origine recente: barberi, gomisteri, lavanderi, tapiceri, pasticeri, piceri, restorant, tavolinë; pjatë, vegjetarian, supë, spageti, makarona, salcë, pica, birrë, lavazho, makinë, trageti, ambulancë, kamion, semafor, autostradë, biletë, kosto, drejt, shkallë, shkollë kishë, parku, muzeu, manastir … altre come rruga, (che mi fa venire in mente il veneziano ruga o il francese rue), rrota (dal latino rota), ishull (dal latino insula?), shën (dal latino sanctus?) sono certo più antichi. Mi riprometto di cercare di saperne di più una volta tornato a casa.
Camminiamo alla ricerca di qualcosa da portare a casa, come simbolico ricordo del nostro viaggio. Poiché la passeggiata di ieri non ci ha mostrato nulla che valesse la pena di essere acquistato . almeno con la manciata di spiccioli che ci è rimasta – ci orientiamo verso qualche prodotto alimentare locale. Dopo qualche tentativo a vuoto, scoviamo un supermarket che . ironia della sorte. è affiliato alla CONAD; qui oltre a prodotti identici a quelli acquistabili in Italia, ma a un costo decisamente inferiore, troviamo finalmente un reparto che vende alimenti tipici, ci indirizziamo verso il banco dei formaggi e, calcolatrice alla mano, scegliamo alcune formaggette di djathe al naturale o con aggiunta di olive, peperoncino o altre spezie, una provola di caçkavalli (più stagionato e salato del solito) un paio di grosse bottiglie di kos, il tipico yogurt gustoso e dissetante, dei dolci al miele, in tutto simili nel nome e nel sapore agli stucchevoli loukum e baklavas turchi e infine delle birre, tra cui la ritrovata Korçe. Riusciamo a spendere fino all’ultimo lek e, soddisfatti andiamo a imbarcarci, con un’ora di anticipo, nella speranza di non dover attendere troppo in coda sotto il sole.
Speranza vana: sul molo ci sono più macchine e camion di quanti ne avevamo visti nel porto di Brindisi; la fila sembra interminabile; quando finalmente è il nostro turno di arrivare alla garitta della dogana, un solerte funzionario ritira patente e documenti per il consueto controllo al computer, mentre un altro militare sbircia dentro la macchina, poi con sguardo severo e gesti autoritari ci fa segno di scendere e ci chiede per quale motivo siamo venuti in Albania. Arianna mantiene la calma, mentre io sono già nel pallone e faccio un concitato esame di coscienza per cercare di capire quali errori, colpe, reati, delitti posso aver inconsapevolmente commesso o per chi posso essere stato scambiato. Dev’essere la classica reazione dell’italiano medio “codipagliuto” davanti all’autorità, immortalato da tanti film della commedia all’italiana; e la constatazione mi infastidisce non poco. Quando poi mi chiedono la targa della Y di Arianna, e io rispondo con quella della mia Panda, mi vedo kafkianamente già deportato nell’equivalente locale della Lubianka o di Guantanamo, ma a questo punto i militari, che hanno evidentemente scherzato a fare i duri col turista imbranato, scoppiano a ridere e, smessa l’aria burbera, mi invitano gentilmente ad andare. Ancora un po’ seccato (soprattutto con me stesso per la figura fatta) mi accodo alle altre auto e vengo finalmente ingoiato nel capiente ventre del traghetto, già pieno come un uovo.
Anche stavolta la partenza avviene con sensibile ritardo, ma noi ci godiamo dal ponte scoperto e in pieno sole l’allontanamento della nave dal molo. Un po’ alla volta, mentre diciamo addio (o arrivederci) all’Albania, ci sfilano davanti a distanza crescente le isole di fronte alla città, il promontorio della penisola di Orikum e Corfù, velata dalla lontananza. Gli altri passeggeri sembrano meno interessati di noi a godersi lo spettacolo: quel mare di cobalto, ora tanto tranquillo, probabilmente lo hanno già visto tante altre volte e magari meno ben disposto e d’altra parte il loro non è un ritorno in patria al termine di un viaggio di piacere come per noi, che passiamo ore a rammentare quella città, quel personaggio o quell’aneddoto che ci hanno colpito durante questi otto giorni.
Il tramonto “color nostalgia”, che tinge d’arancio la ciminiera, di rosa il cielo velato e di grigio il mare, ci coglie nel silenzio a tre quarti della traversata, quando la terraferma di entrambe le sponde è invisibile e si rinnova l’antica fascinazione dei viaggi senza meta, nell’ignoto, in solitudine. Poi con l’apparire delle prime stelle, si scorgono basse sull’orizzonte, verso sud, delle luci che stelle non sono e nemmeno possono appartenere a barche da pesca né provenire da Brindisi o da isolotti che qui non esistono; forse si tratta di quelle piattaforme petrolifere su cui verteva il referendum di qualche settimana fa. Chissà in quanti ci lavorano e ci vivono, se mai questi due momenti possano essere disgiunti in questa sorta di confino: uomini di terraferma prigionieri del mare, per settimane, mesi, anno dopo anno, in una parvenza di vita più dura di quella di chi – imbarcato su una nave, con un monotono orizzonte fatto solo di acqua e cielo – almeno sa che è in viaggio per raggiungere un porto…

Infine, quasi all’improvviso, ecco stagliarsi davanti a noi la costa pugliese contrassegnata da tanti puntini luminosi che diventano una nebulosa sempre più sfavillante, man mano che ci avviciniamo: è Brindisi e la fine del nostro viaggio nel Paese delle Aquile.

e leggere altri racconti di Pierluigi nel suo sito web

 

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piero
5 anni fa

Il mio viaggio in Albania, che si conclude oggi 6 settembre 2018, è stato simile per alcuni versi al suo. Nel resoconto ho ritrovato molte delle sensazioni provate durante i 10 giorni passati qui. Gli hotel li ho sempre scelti con booking com perché il riposo notturno è essenziale e per me è di fondamentale importanza, molto più che non cercare posti di buona tavola… Lascio l’Albania contento di aver visto alcune cose belle (Tirana, Argirocastro, Dhermi, Butrinto) e leggermente deluso da tante altre che non pensavo così appariscenti. Le case mai finite, nell’intonaco e nelle mura, le macerie e… Leggi il resto »