di Francesca Pierantoni –
Giorno 1: Bologna – Munich – New Delhi
Questa notte non ho dormito granché. Il caldo, questioni di pipí di cani e di gatti, l’agitazione hanno frammentato il sonno e scompigliato i pensieri. Pezzi di questi pensieri erano rivolti alla leggera e sana paurina che ti prende prima di affrontare un viaggio come questo. Sola. Randagia. Senza bagaglio. Poi, sul tapis roulant dell’aeroporto di Monaco di Baviera mi ritrovo a sorridere sentendo di nuovo sotto le unghie quella scossa di libertà assoluta che ormai conosco bene.
E se prima di partire non dormo, se ora mi ciondola la testa tra la scritta Luft e la scritta hansa del poggiatesta va bene così.
Tipa italiana dall’attitudine al viaggio pari a quella di un frassino, che ti incazzi se scendo con lo schienale dei soliti 3 miseri gradi e rivendichi stizzita il tuo spazio, o hai sbagliato volo o hai sbagliato vacanza. Povera te, tipa italiana. Sarà un lungo soggiorno.
Il filmaccio americano della selezione di melma offerta dalla Compagnia che che dipinge gli Italiani come caciaroni che fanno ue’ue’ con le mani pranzando in un giardino con sottofondo di mandolino mi fa riflettere su come gli stereotipi siano durissimi a morire. Chissa’ se in questo viaggio riuscirò a liberarmi degli stereotipi sull’India tutta batteri e spiritualità. Frattanto, ora, arrivata in questo hotel di fianco all’aeroporto di Delhi, che da fuori sembra modernissimo e asettico, ma lungo i corridoi secondo me ci sono delle cacche di topo, mi lavo le mani secondo protocollo operatorio. Fino al gomito.
Domani, con la luce, sarà un primo impatto bello potente…
Giorno 2: Delhi – Udaipur
Sicurezza
La sicurezza in India è una priorità. Non si capisce bene di chi, ma è una priorità Per validare il visto necessario a regolamentare l’ingresso nel Paese, le code alla dogana sono inconcepibili. Ti prendono tutte e dieci le impronte digitali, con un macchinino elettronico di ultima generazione che però non va, e tu stai li davanti, e provi, e riprovi, e sudi perché fin quando non hanno tutte e dieci le tue impronte mica puoi entrare, e il poliziotto non fa una piega, mica si commuove se tua moglie che invece poco prima è riuscita a passare di là ormai è in preda al panico e quasi piange e ti dice “glielo giuro nessun precedente, la prego non mi lasci qui da sola”. Mica si scompone se intanto atterrano aerei su aerei e la fila diventa un esodo biblico. Io e due toscani increduli calcoliamo a spanne che ci vorranno un paio d’ore per arrivare al macchinino, con sti ritmi. Ma la sicurezza prima di tutto.
Dopo un’ora e mezza (vedi a volte le sorprese) sono libera e chiedo info per raggiungere il mio hotel che è proprio qui vicino, ma: “Prenda un taxi lo stesso, che è tardi. È per la sua sicurezza”
Anche in hotel, la sicurezza viene messa al primo posto.
Ti accompagno in camera, Madam. Chiuditi a chiave. Fammi entrare che controllo se è chiuso.
Eh no, amico. Se è chiuso lo controlli da fuori. Giusto Madam. Tutto ok allora. Sei perfettamente sicura ora. Buonanotte Madam.
Insomma, safety first. Costi quello che costi. Prenda tutto il tempo necessario.
Allora se siete così bravi, perché non mettete la targa ai topi che tra l’altro circolano senza la benché minima conoscenza delle regole della strada? Perché non regolamentate l’ingresso dei batteri di legionella che spingono per entrare dallo split della mia stanza che sembra di stare ai cancelli di Vasco Rossi? Perché lasciate che si venga assaliti dai muffin palugoni, masse ininghiottibili e tenaci come il mastice con cui mio nonno riparava a le camere d’ aria delle biciclette, che attaccano l’uomo occhieggiando mansueti delle vetrinette dei Caffè? Io non voglio insegnare niente a nessuno, ma qui c’ è qualcosa da rivedere, cari indiani. Che finché non succede niente siamo tutti amici, ma poi se mi tampona un topo dopo voglio vedere chi paga.
Giorno 3: Udaipur – Ranakpur – Udaipur
Chiudi la bocca che entra la polvere
A 90 km da qui c’è uno dei templi più belli di tutta l’India. Mi informo sul bus da poter prendere, ma mannaggia ce n’è uno al giorno ed è già partito.
Ok, ci sarà un altro modo per raggiungere Ranakpur? Si Madam. Il taxi. Ma costa un po’ di più. Però se siete 4 o 5 è molto conveniente.
4 o 5? Su un taxi…? Comunque no. Non siamo 4 o 5. Sono sola. Uhm. Allora devi aspettare domani. Ma domani vado altrove. Uhm. Provo a sentire un mio amico se magari lui facendo un buon prezzo…
A questo punto arriva Fonzie. Il belloccio del villaggio. Col gilet di pelle. Il capello lungo e unto. La moto.
Se vuoi ti porto io. In moto. Sei abbastanza avventurosa?
Guarda, più che di minchiate parliamo di soldi. Quanto costa?
La tua compagnia, splendore.
Madonna che palle mi pari un film di bolliwood. O la smetti o me ne vado.
1000 rupie. Più 500 di benzina.
20 euro e qualcosa. Si può fare.
Sei abbastanza coraggiosa, splendore?
Porco cane mo’ ti tiro una testata.
90 km. Non sono pochi, d’accordo. Ma vuoi mettere la meraviglia di attraversare l’ India più vera in moto? Salgo. Ovviamente non chiedo dove è il casco perché non è che sono una sprovveduta che crede alle favole, e anche perché poi metti che me lo porta ed è il suo, e magari una volta se lo è messo con quei capelli unti. No. Piuttosto il trauma cranico.
Pronta, splendore? E vai, cazzo, che io non sono una mammoletta alla guida, come sa chi mi conooooooosceeeeeee!!!!! Oh mai sei fuori???? Sei contromano!! [ Che poi a ben vedere non c’è una mano, è tutto un intreccio, un incrocio, una perenne gimkana accazzodicane] Tieniti splendore. Oooooohhhh attenzione c’ è una mucca sdraiata in stradaaaaaaa!!!! [ non la vorrai mica svegliare…. È sacra….] un cane!! C’è un cane che attraversaaaaaaa!!! È pieno di capreeeee !!! Vai pianooooooohhhh!!!! (Dio che schifo ho ingoiato un insetto) Aspetta rallenta che ci sono due… Tre… Qua… Cinque in moto. CINQUE IN MOTO? Tre adulti separati da due cinni. Cosa ridi, maledetto, non ti distrarre che sta passando una jeep con 7 ragazzi sul tettoooo sterza caaaaaazzooooooo!!!! Schiva, per Shiva!!! SIETE PAZZI, BRAMHA WEIMERANER!!!! (Minchia sto masticando sabbia, che cazzo di strade).
Poi, poiché Visnu è il Dio Conservatore (e io avevo bestemmiato gli altri due) arriviamo integri al tempio di Ranakpur.
La meraviglia. La meraviglia di marmo bianco.
Fra. Chiudi la bocca che entra la polvere.
Giorno 4: Udaipur – Jodhpur
Esplorazioni
Oggi sono stanca. Oggi mi è piombata l’India addosso.
Mi sono alzata all’ alba per prendere un pullman senza ammortizzatori che doveva portarmi a Jodhpur in 5 ore e ce ne ha messe 7 e mezza. In 7 ore è mezza avrà preso 2200-2300 dossi artificiali che hanno rotto un totale di 462 vertebre di noi passeggeri, calcolando un centinaio di passeggeri soppalcati uno sull’ altro e una media di 4,3 vertebre a testa (i dossi sono evidentemente progettati per rendere avventuroso ed esotico il tuo viaggio perché in una strada dritta in mezzo alla jungla non vedo altra utilità). L’ esperienza limite della sosta pipi /sigaretta / caffè mi porta a contatto per la prima volta con il Bagno Pubblico Indiano. Entrare lì dentro è un’ esperienza psichedelica.
I muri sono così incrostati che lo spazio vitale è ridotto di parecchi centimetri. In compenso il pavimento, ricoperto di liquami e insetti su cui tu devi camminare con le Ipanema, sembra infinito. Ti appare davanti agli occhi una sarabanda di immagini tipo Dumbo quando fa le bolle con la proboscide, in cui ti sfilano davanti i bagni di Tematic Arredi di via San Donato, immagine che poi evolve in un lazzaretto seicentesco, con i morti di peste nei sudari, che poi si trasforma nella sala degli Specchi di Versailles, che diventa una sequenza velocizzata della scissione di protozoi mortali. Poi ti bussano e ti accorgi che non ti sei abbassata neanche le mutande.
In certe situazioni credo sia più igienico farsela direttamente nelle panta e asciugarsi col sole, ma non ho avuto questa prontezza.
Poi arrivi a Jodhpur. E qui vedi la metropoli in via di sviluppo . Col traffico, la sporcizia, la puzza, il rumore. Però vedi anche una fortezza da togliere il fiato, la storia millenaria, il fascino infinito dell’ antica Asia.
Se fossi nata nell ‘800 probabilmente sarei stata un’ esploratrice. Mi ritrovo spesso ad immaginare la meraviglia di chi, arrivando dall’ Europa, si trovasse davanti a tanta maestosa, inattesa, distante bellezza. Oggi mi sono immaginata di essere io per prima a raccontare in occidente di questa fortezza. Sarebbe stata una descrizione bellissima.
Invece quello che posso raccontare è la composta dignità degli uomini, delle donne, degli animali randagi, abituati da sempre ad una vita difficile. Forse. Forse difficile per noi che non possiamo immaginarla. Magari loro non riescono ad immaginare la nostra.
Ed è qui che ho capito.
Ho capito che l’ India non si può visitare, come fanno i turisti. Non si può nemmeno viaggiare come fanno i backpackers coi dread e lo zaino da globetrotter. Non si può esplorare perché è stato già tutto trovato. L’ India si deve guardare, senza giudizio. Senza paura. Senza fascinazioni anni ’70. Te la devi far scorrere addosso per capirla. E in 15 giorni non la si può capire. Quindi io cercherò di assorbire più che posso e vedere cosa mi lascerà sulla pelle.
Oggi sulla pelle mi resta la consapevolezza di quanto è complicato il mondo.
E 7 pizzichi di insetto.
Che a me gli insetti invece mi trovano eccome.
Giorno 5: Jodhpur
Piedi
Jodhpur è difficile. Se piove diventa estremamente difficile. Le strade si riempono di una fanghiglia scura, un percolato di rifiuti organici, pipi di cane/gatto/mucca/capra, sputi (Madonna quanto sputano qui) e acque di scolo. La pioggia amalgama il tutto, e tu te lo ritrovi sui piedi. E per fortuna che hai le Ipanema, così appena puoi ti butti sotto l’ acqua pulita e lavi via tutto.
Pensa se avessi le All Star. Si impregnerebbero, loro e i calzini, e sai che baldoria di vibrioni lì dentro al calduccio.
Così sciabatti in giro pucciando le infradito nel brodo primordiale con l’ arietta schifata, tanto che tutti ti chiedono: “Sei Francese?”
No. Sono Italiana. L’ arietta schifata è per i piedi.
Che poi. Piedi. Dopo 20 metri hai il percolato fino alle ginocchia. E per fortuna che ho il vestitino corto.
E qui si apre il mistero delle donne indiane.
Anche le più povere hanno un’ eleganza innata. Non importa che siano bambine o vecchissime. Le vedi camminare come principesse, lente e accorte, mentre si tengono i sari con le mani per non farli strisciare nella melma. Con le loro cavigliere e gli anelli agli alluci. Con i loro piedi puliti.
Io sembro un porco sciatto.
Sembro Titino dopo che si è tuffato nella pozza.
E loro eteree, con tutti i loro veli, il trucco, le mani dipinte, gli orecchini, i monili bellissimi sulla testa anche per spazzare via l’ immondizia più immonda dagli angoli delle strade.
Sono bellissime. Anche quelle senza denti.
Non sono neanche “femminili” perché il termine sottintende un genere, una sessualità, un’ umanità prosaica. Sono oltre. Sono la grazia incarnata.
Voglio diventare anche io così. Voglio essere una principessa Indiana. Camminare regale in mezzo allo schifo del mondo, veleggiare intonsa sopra le brutture. Guardare le francesi e la loro arietta schifata e sorridere, indulgente e munifica, di tanta misera spocchia.
“Sei Francese?”
“Sono una principessa Indiana, imbecille. “
Mh. La strada per diventare eterea e superiore è ancora lunga.
E forse come prima cosa devo cominciare col lavarmi i piedi.
Giorno 6: Jodhpur – Jaisalmer
That’s India!
Ci sono almeno un paio di espressioni, a quanto è dato di sapere a me che sono arrivata da 5 giorni, che possono avere un significato diverso in questo paese. La prima è “Namaste” che a seconda di come la usi può significare Buongiorno, Arrivederci, Grazie o Levati dal cazzo.
La Seconda è That’s India! Che può voler dire “che meraviglia!” oppure “questa è cultura millenaria” oppure “cosa minchia ti aspettavi?”
Ora faremo un gioco.
Si deve indovinare di che accezione si tratta.
Devi partire con un treno notturno che dalla baraccopoli di Jodhpur ti porterà nel cuore del deserto del Thar a Jaisalmer. La banchina è gremita di gente all ‘ inverosimile. Ma tu ha prenotato la tua cuccetta, quindi sei sereno. Arriva il treno, e tutta la folla si ammassa sgomitando verso le porte dei vagoni. Ti assale il dubbio che la tua prenotazione valga come il due di coppe con briscola spade. Ma ormai è tardi. Ci sono comunque decine di persone davanti a te in attesa che si aprano gli sportelli. Anche perché cosa fai? Ti metti a sgomitare contro mamme con bimbi piccolissimi in braccio? Giochi a chi è più veloce con anziani decrepiti che fino a un minuto prima dormivano per terra? La prendi persa e bona. Si aprono le porte, e a quel punto tutti corrono e tu ti accorgi che tutti hanno in mano il tuo stesso foglio con la prenotazione, che su questo treno notturno è obbligatoria, allora ti chiedi: ma allora cosa minchia spingete? Lo chiedi al tipo che dorme nella cuccetta di sotto che ti risponde : “è che non siamo abituati al sistema di prenotazione, facciamo ancora col vecchio metodo. E poi non si sa mai. You know…. That ‘s India!”
Hai quasi finito il contante, allora cerchi un bancomat. Metti la carta. PIN. WITHDRAWAL. (Prelevamento) Enter. Transaction denyed . Riprovi. Metti la carta. PIN. WITHDRAWAL. (Prelevamento) Enter. Transaction denyed .
Vai a un secondo bancomat. Metti la carta. PIN. WITHDRAWAL. (Prelevamento) Enter. Transaction denyed . Vai a un terzo bancomat. Metti la carta. PIN. WITHDRAWAL. (Prelevamento) Enter. Transaction denyed .
Ti piglia il panico. Entri in banca tra il disperato e il furibondo e ti dicono: “Devi mettere la carta. PIN. BALANCE. (Saldo) Enter.”
Trrrrrrrrrrrr. Esce il contante. Sguardo di pietà da parte dell’ impigato allo sportello. Ma Cristo.
Perché devo pigiare saldo invece che prelevamento?? “Eh lo so. A volte si incanta. But you know, that ‘s India!”
Arrivi alle dune del deserto in moto (perché tanto hai capito che essendo da solo nessuno impegnerà la propria auto per te e basta, che paghi per uno. Piuttosto passano il cliente ad un amico con la moto che poi gli darà una piccola percentuale). A parte la gioia di girarti il paese in sella, sperimenti un’ altra gioia assolutamente nuova. Il Selfie Post Coloniale. Metti che fori una gomma e raggiungi un chioschetto tipo bar sperduto lungo la strada, dove qualcuno si ingegnera’ ripararti il pneumatico alla brutto Giuda, tipo avvitando una vite nel buco. Metti che allo stesso chioschetto si è fermata anche una famiglia di 11 – 12 persone, tutte su un unica jeep, per risistemare il carico che sta portando sul tetto. Vedere una bionda in sella ad una moto bucata guidata da un indiano alto un metro deve essere cosa rara, quindi parte la caccia al Selfie. Prima timidamente. Di nascosto. Poi, visto che te ne accorgi, a quel punto sbragano tutti e 12 e ti mettono i bambini in braccio manco fossi il Papa: “Nice hair!! Nice eyes! Beautiful colors! Photo! Photo!! You are so cute, so strange!!” E la ragazzina adolescente che parla un po’ meglio l’ inglese: “noi ne vediamo pochi di turisti. Quelli che vediamo li fotografiamo perché sono bellissimi. Noi siamo tutti scuri in famiglia, you know, That’ s India! “
Bene. Però ora che mi avete fatto almeno 40 foto, allegra famigliola indiana, Namaste.
Giorno 7: Jaisalmer
Indian Marketing strategies
Jaisalmer, la Città d’Oro, è molto rilassante se vieni da Jodhpur. Non c’è traffico. Non c’è melma, non c’è un vero e proprio slum. Ci sono catapecchie lorde e cadenti, ma non la povertà da togliere il fiato della Città Blu. Ci sono le montagne di immondizia maleodoranti, ma non la puzza suprema, la puzza definitiva di Jodhpur. Ci sono le capre che mangiano i rifiuti, i cani che si accoppiano, i maiali randagi e le mucche da rotonda. Le mucche da rotonda ad una certa ora della sera, dopo il tramonto, si ritrovano tutte insieme alla rotonda principale della città. Tutte insieme si sdraiano, e ciao. Basta rotonda. Le macchine, le moto, i tuk tuk si affrettano prima del tramonto, perché poi non c’è verso di smuoverle, 20 , 25 mucche che ti guardano bovine dalla carreggiata. Quindi poi i mezzi devono fare il giro più lungo, passando da dietro il forte.
E non è un problema perché non essendoci traffico, ci si allunga di poco. Jaisalmer è rilassante, se vieni da una metropoli del terzo mondo. E se non passi per il mercato.
Ehi my friend!! Da dove vieni? Sei francese? Che bella che sei, nice hair, nice style, magic eyes, hai 25 anni, vero? Photo!! Photo!! Ti offro un masala chay. Non vendo niente. Sei francese vero? No? Avrei detto che sei francese dal viso. Sei americana? No? Avrei detto che sei americana da come parli. Italiana? Si? Certo, si vede dallo stile dei vestiti. Italiana! Sonia Ghandi!! You know? Vieni che ti offro un tè, non vendo niente. Ohlala la mademoiselle! Parisienne? No? Avrei detto che sei francese. Photo!! Photo!! American woman! God bless America! Non sei Americana? Avrei detto di sì dall’accento. Vieni qui, non vendo niente.
Poi ti cade l’occhio su qualche cosa che ti piace. Ma una frazione di secondo. Un niente. Neanche uno stimolo cerebrale, meno di un impulso nervoso, e quell’oggetto ce l’hai in mano.
No senti, guardavo solo, non lo voglio un masala chay, non importa, non voglio offendere nessuno, vabbè allora portami sto chay. Bello eh, molto bello questo bracciale / cavigliera / sari / vestitino / borsa / statuetta di Ganesh (Fra, come è successo che per un attimo hai trovato bella la statuetta di Ganesh? Deve essere stato il bombardamento di “Sei Francese?” che deve averti confuso. Ora respira e allontanati) bello davvero, ma no guarda. Proprio no. Sto viaggiando senza bagaglio e non voglio caricarmi di roba. Ti ho detto di no. Basta chay, grazie sono a posto così. No. Non mi faccio convincere. Grazie ma no. Cosa? “SOLO” 800 rupie per sto coso? Guarda. Non esiste proprio. Te ne dò 200. Ahahahah!!! Non scherziamo. Neanche in Italia costa così tanto. Te ne do al massimo 250. 300 se ci metti pure la cavigliera. E portami un masala chay.
Insomma è finita che dopo un paio di ore mi hanno venduto due collanine. Tre paia di pantaloni. Un vestitino. Due gonne. Due monili da mettere in testa. Otto cavigliere. Un bracciale e una serratura antica. Che ho pagato una follia e la cui trattativa è proseguita per tre masala chay, il te col latte tipico di qua. Però bella la serratura. Con la chiave e tutto. Pesa parecchio. La serratura di un bastione è bella grossa.
Si, mi sa che compro anche quel trolley lì.
Poi basta che mi rimangono solo i soldi del tuk tuk per tornare in hotel.
Solo che intanto era arrivato il tramonto. Le mucche da rotonda già tutte stese. E niente. Ha dovuto fare il giro lungo. E ho dovuto passare in camera a prendere la differenza dei soldi.
Giorno 8: Jaisalmer
Meditazioni
Ho notato una cosa bellissima. Qui tutti i viaggiatori si portano dietro carta e penna.
Tutti scrivono.
Con il taccuino. Tutti a buttare giù pensieri in analogico.
Anche i ragazzetti inglesi che fanno colazione con porridge e birra.
Forse è la meta in sé stessa che attira viaggiatori con una forma mentis per la quale portarsi dietro un taccuino e una penna è una cosa normale. O forse perché quello che vedi (e vedi tanta roba: gente, colori, animali, miserie e splendori) ti costringe a sfiatare , come le teiere. Come i termosifoni.
Ad un certo punto devi buttare fuori per allentare la tensione. Allora ti metti a scrivere, perché è nel lasciare un tratto su un foglio che il pensiero astratto prende forma concreta, è nel momento della pallina che scorre sulla carta che un germe di sensazione di diventa comprensione vera.
Alla fine la scrittura è la forma occidentale della meditazione.
Sono tornata al tempio giainista di ieri. Avevo bisogno di starci dentro ancora un po’.
La luce che entra in questi luoghi di culto è così diversa dal buio delle nostre chiese. È la luce che da serenità.
Un monaco in drappi colorati mi spiega che guardando negli occhi la statua della divinità, sentirò immediatamente una risposta, ma che è l’ animo con cui guarderò la statua che influenzerà quella risposta.
In realtà mi sembra un po’ il discorso di Quelo. La risposta è dentro di te. Ma è sbagliata. Trattengo a stento una risata vergognandomi moltissimo, perché so perfettamente che è vero ciò che dice il monaco, ma continua a tornarmi alla memoria “La seconda che hai detto”. Riacquisto un aplomb e ricomincio a seguire il discorso del monaco: voi cristiani sbagliate punto di vista. Non si deve “credere”. Si deve “sentire” Ed è una cosa bellissima, se non che dal mantra monotono che intonano tutti gli altri monaci seduti a gambe incrociate a un certo punto si leva un grido: “RIO! “
Mi parte in automatico il pensiero dei monaci tutti in cerchio che fanno:”PEPPE’ PEPPEREPPE” PEPPE’ PEPPEREPPE'”.
Non resisto. Comincio a ridere e fingo in modo acrobatico un attacco di pianto mistico. Poi scappo fuori a scompisciarmi da sola.
Sono la pippa mondiale della meditazione.
Per chiudere in bellezza il mio passaggio a Jaisalmer (e per scappare dai mercanti “sei francese?” ) decido di farmi fare un massaggio Ayurvedico. Mi portano in una stanzetta luridina. Incensi e musichina d’ ordinanza. Rilassati. Lasciati andare.
Che è difficilino, visto che ci sono 4 gradi in stanza. Ma è un problema che dura poco, perché tanto qui salta la luce ogni 20 minuti e infatti…. pop. Namaste all’ aria condizionata. Comincio a rilassarmi davvero. Il massaggio è veramente benefico. L’ unica cosa negativa è l’ oliazzo putrido e maleodorante con cui mi hanno cosparso. Vabbè, una bella doccia al volo prima di cena e mi lavo via tutto. Tanto stamattina ho fatto tutti i passaggi Kerastase e ho i capelli puliti, profumati e meraviglio…. And now the best part of the massage Franshesha. The head. The two most important chakra…
E mi piazza le manazze con l’ oliazzo sulle onde ricette perfette, modellate dal vento.
Visualizzare modi cruenti di uccidere una massaggiatrice non vale come meditazione vero?
L’ ho già detto che sono una pippa?
Giorno 9: Bikaner
Nel Vecchio Rajasthan quante bestie ha lo zio Kaan C’è la mucca.
Anzi ce ne sono a centinaia. A migliaia. La mucca non è imperturbabile come pensiamo noi in Europa. La mucca è imprevedibile. La mucca vive in strada e non ha le frecce. L’abilità dell’Indiano alla guida si vede dalla capacità di leggere nel pensiero dell’animale. Tra l’altro, le scene di inseguimento dei film d’azione americani con gli scarti all’ ultimo secondo prima dell’impatto le girano qui. Sicuro.
Perché pagare degli stuntmen visto che qui è gratis?
C’è il cane.
Centinaia di cani. Tenerissimi. Che tra due mesi saranno centinaia alla sesta, calcolando come 6 il numero medio di cuccioli concepito negli accoppiamenti che ho visto live in giro per le città.
C’è la capra.
Riccetta. Nera. A pelo lungo. Carinissima. Sembra uno barboncino. Cattiva come un mastino da guardia.
C’è l’elefante. Dipinto. Istoriato. Costretto nel traffico. Una spina nel cuore.
C’è il cammello. Che si riconferma anche in Rajasthan come un animale superiore, per il suo odio manifesto nei confronti dell’uomo, di cui disprezza con occhio superiore l’inaccettabile ruolo di comando, scalciando, soffiando, tentando la fuga ad ogni distrazione e che, una volta riacchiappato dice Namaste.
C’è il pipistrello. Da piccino a gigante. Il minigeko, che è un robino delizioso ma se ti cade in faccia di notte c’è chi urla fino a far arrivare il receptionist dell’albergo. Non è successo a me. A una mia amica.
C’è il gatto.
Uno in tutto il Rajasthan. Per un attimo ho temuto se li mangiassero. Poi ho capito che il gatto è un animale troppo fighetto per accettare di vivere in strada con tutti questi altri homeless.
C’è il pavone, che è l’animale nazionale, c’è il maiale randagio, tutto pieno di croste, con la rogna e spelacchiato, la lucertola del deserto, gli scoiattoli ladri di offerte votive nei templi, le scimmie, che in effetti sono dispettose come scimmie, e infingarde anche, e ti tirano i capelli appena dai loro le spalle ( vedi, scimmia, se mi tiri i capelli con quelle zampacce bananate appena che ho fatto il kerastase che fine che fai, scimmia. Visto mai Indiana Jones e il tempio maledetto?) E ci sono i topi.
E qui a Bikaner c’è un tempio in cui si venerano. Un tempio pieno di topi sacri. E come dice testualmente La Fio: ” e’ chiaro il loro meccanismo: non riusciamo a disfarcene quindi facciamo che son sacri. Allora pure io c’ho la cellulite sacra.”
E poi c’è Kaan, il tuk tuk che mi ha portato in giro oggi. Vedendo che mi scioglievo ad ogni quadrupede pieno di croste mi ha portato a casa sua un attimo perché anche lui ama tanto gli animali e mi ha fatto vedere quattro canarini disperati chiusi in una gabbietta infame. Quando gli ho fatto presente che povere bestie vivevano male, perché le teneva rinchiuse in quel modo crudele? mi ha detto che quei canarini sono i suoi animali preferiti. Che gli vuole bene davvero. Mica come la sua mucca che va in giro sa sola e torna di sera, o il suo cane che fa bisboccia fino all’ alba con gli altri regaz.
Quindi bestie indiane, sappiate che tutto sommato è meglio essere randagi. O sperare in un upgrade e diventare sacri.
Di zanzare ce ne sono a miliardi. Ma sono tutte mie.
Ie ie oooooohhhh.
Giorno 10: Jaipur
The King of Bollywood
Arrivo a Jaipur alle 6 del mattino dopo aver viaggiato in treno tutta la notte. Il treno indiano è un’esperienza che potrebbe essere resa solo in una vecchia puntata di quel telefilm grottesco che si chiamava “Ai confini della realtà” o dal più moderno Black Mirror nelle puntate più disturbanti.
Mollo le valigie e mi butto nella bolgia di Jaipur.
Tra i mille “Sei francese” spicca un ragazzo veramente bellissimo. Seduto in un bar, mi vede passare e rapito dal mio fascino mi chiede se sono francese. No. E blabla. Mi colpisce perché non vuole vendermi niente. Così, bella serena mi ci metto a parlare. Parla italiano benino, viene spesso a Milano a fare qualche lavoro come modello, (è stato Mr Rajasthan) e a fare spettacoli, perché è un ballerino do Bollywood. Ma dai, dico io, che bello! Insomma, ve la faccio breve, mi carica in moto e mi porta nella periferia più estrema nella scuola di ballo dove insegna. Ok. Dai ho capito. Vuoi vendermi la lezione di ballo. Ci sto alla grande. Quanto vuoi? Niente. Se vabbè. Vedremo alla fine. Un’ora di danza bollywood in uno scantinato con altri due ragazzi. Favoloso. Mi son divertita come una pazza. Bene, grazie, fantastico, quanto costa? Niente. La tua compagnia a cena. E qui mi insospettisco. Perché secondo me questo Manny è gay. Poi può essere che sbagli. Però boh. I modi. Le mani. La voce. Ballerino. Modello. Mr Rajasthan…. Non scherziamo. Gli dico: “chissà quante ragazze hai!” lui ride e mi dice: ” No ho un ragazzo.” Io non faccio una piega. Mi complimento tra me e me per l’occhio infallibile. Lui mi fa: ” ho detto ragazzo…. “
e io: “ho capito” e lui : “nel senso di uomo!” e io: “ho capito, amico. Guarda che dalle mie parti è accettabilissimo anche senza schiamazzi”
A questo punto comincia a dire che scherzava, che non è vero, che un gioco. A me frega cazzo, anzi meglio, così gli pago la cena come ringraziamento e non devo neanche stare tesa perché chissà cazzo vuole. Invece.
Invece comincia con delle avances sempre più esplicite. Che io boh. Cioè non è che sono da cacciare via, ma sto tronco di Sandokan, 24 anni, che mi si vuole fare, a me, tutta sudata, lorda coi piedi indiani, stanca morta e struccata, con tutto che secondo me continui ad essere gay… Boh a me mi pare strano assai. E questo che a più riprese tenta di infilarmi la lingua dappertutto, e io che minaccio di gettarmi al volo dalla moto e di tornare in hotel col tuk tuk. Al che si placa. Arriviamo al mio albergo, dove avremmo cenato, poi tu te ne vai affanbrodo, e io vado a dormire. Invece no. Perché a 20 metri dal mio albergo abita un super Guru famosissimo che è il suo maestro di vita e io lo devo conoscere. Allora. Se l’alternativa era cenare con questo che mi mette le mani dappertutto, allora meglio il guru, che così oggi facciamo filotto con le esperienze paradossali.
Questo guru super famoso abita in un tugurio con due discepoli. Uno è suo figlio di undici anni. L’altro è un suo amichetto che passa il pomeriggio a giocare in strada con lui. E vabbè. Stai a guardare al discepolo……
Mi fa entrare in una stanzetta che dici minchia se non era un superguru dove mi riceveva? Nel cesso pubblico sulla strada per Jodhpur? E vabbè. Stai a guardar la stanzetta…… Si siede di fronte a me. Mi da un foglio e mi dice scrivi il tuo nome e la tua data ti nascita. Io eseguo. Scrivo 30 marzo. “Ah. Pesci. Certo. E’ evidente che sei dei Pesci.”
“……. Veramente sarei ariete…..”
“no ti sbagli. Pesci. 03 marzo è pesci.”
“………….”
“ah no scusa è che da qua di fronte vedevo il numero girato”
Io già gongolo pensando al diario da scrivere quando finalmente tutti i pezzi vanno al loro posto: “Sei molto potente. Hai una grande energia. Però non indossare biancheria scura. Hai il terzo chakra chiuso. È un casino. Bisogna aprilo. Per aprilo devi portare al collo due pietre preziose che guarda caso tengo qui nel cassetto e per un ottimo prezzo……”
Al che non faccio una piega. Prendo il tempo per decidere. Tanto domani sono qui. Tanto domani recuperiamo la nostra cenetta che ora sono tanto tanto stanca. Namaste Guru. Namaste King of Bollywood.
Indovinate cosa stringevo in tasca salutando? Il biglietto per domani per Agra.
Oh comunque a ballare era bravo. Si sa che i gay hanno un dono.
Giorno 11: Jaipur – Agra
Gli inganni della lingua
In India l’ ostacolo della lingua può essere un problema serio. Qui tutti parlano inglese, ma l’inglese che parlano è bastardo come i loro cani randagi. Quindi spesso capirsi diventa complesso.
Tipo che quando prenoti una camera singola, pagando già con la carta di credito, dicendo che arrivi da sola, il gestore eluda di capire Singola e ti mostri un antro atroce a sei letti dove già dormono 4 Nibelunghi e una Valchiria obesa. Al che tu fai presente ONE SINGLE ROOM e lui ti dice: “ma come… Quelli che viaggiano da soli vogliono il letto in ostello….” A quel punto ti viene la luce assassina negli occhi, che è quella la vera lingua universale, e magicamente spunta la tua camera. Sorry Madam. Misunderstanding.
O paraculism. Eh. Diciamolo.
Prendi il solito tuk tuk, per farti portare dalla stazione. Ehi hello! Sei Francese,? Ah! Italia!! Schiau amigu! Como estas? Sonia Ghandi! Juve! Milan! “vai piano!”.
Che tra le 4 parole in italiano imparate dal tuk tuk ci sia “vai piano” offre un quadro esaustivo della situazione.
Il cibo in India è buonissimo. Però dopo qualche giorno senti che il tuo stomaco ti odia. Te lo esprime con bruciori furibondi, gli stessi che hai sulle labbra e sulla lingua. Queste spezie gialle che usano, che sono curry, cumino, masala e boh, insieme fanno un mix che alla lunga diventa mortale. Ogni tanto devi fare uno stop. Cibo cinese. Finti hamburger vegetariani. Quando non trovi altro, riso bianco e pane al burro. “e poi madam?” “niente. A posto così” e ti guardano con compatimento come guardiamo noi gli americani che ordinano la pizza col cappuccino.
Io, lo giuro, non ho mai mangiato cibo italiano all’estero per una sorta di razzismo culinario alla rovescia, e anche perché di solito il cibo italiano all’estero fa cagare. Ma oggi, col bruciore furibondo, ho visto il Ristorante Desert Delite e non ho resistito. Ma non al richiamo del patrio cibo. All’impulso della gag che mi suggeriva l’insegna fuori: italion restaurant. Entro. Mi siedo ed ordino Ono dosh of delocious italion spogotti.
Non ha fatto una piega. Non si è accorto di nulla e me li ha portati. Quindi due volte l’ ho presa in saccoccia. Per la gag che non mi ha cagato nessuno. E per il cibo che ovviamente faceva cagare.
Vado a fare il biglietto per Agra e dopo una fila lunghissima finalmente è il mio turno. Il bigliettaio mi guarda come si guardano gli imbecilli e batte la mano sul vetro all’altezza di una scritta in Hindi. Lo guardo smarrita e mi si incazza. Non lo vedo che quello è uno sportello per gli indiani? Ma vogliamo noi stranieri stare un po’ attenti, Krishna? Sempre a fargli perdere del tempo. Quando bastava leggere.
Mi allontano indignata smadonnando a mezza voce “cosa devo leggere che è scritto in hindi” alzo gli occhi davanti allo sportello indicato e vedo una scritta enorme in rosso in inglese che dice “FOREIGNERS TICKETS DESK” è un foglietto di carta con su scritto a penna “PLEASE TAKE THE GOOD DESK”.
Eh però se siete pignoli.
Giorno 12: Agra – Tundla
Lacrime
SPOILER ALLERT: il report di oggi non è divertente o argutamente buffino. E non è per animi sensibili. Tanto vi dovevo.
Agra, la città del Taj Mahal, a dispetto di quanto si possa pensare, è una città poverissima.
Lo splendore della tomba più bella del mondo, in cui ogni più piccolo dettaglio è replicato in una perfetta simmetria su tutti e quattro i lati, stride come un gesso sulla lavagna con la miseria assoluta di tutto ciò vi sta intorno.
La storia racconta di un imperatore che perde la bellissima moglie e, disperato, in suo ricordo fa erigere questo capolavoro di marmo bianco intarsiato di pietre semipreziose. Nei secoli poi, lì accanto è stata costruita una moschea.
Per entrare al Taj Mahal non si possono portare armi, coltelli, accendini, non si può fumare e non si può avere il rossetto sulle labbra.
Il che è strano, e stride con tutta la storia. Entrare col rossetto è come portare rispetto a quella bellezza che ha mosso tanto ingegno, tanto sforzo, tanto amore.
Poi io me lo levo senza storie, per carità, per rispetto della moschea e delle indicazioni che mi vengono date. Ma non so se l’ imperatore e la sua bellissima moglie, sepolti vicini, sotto la cupola perfetta, sarebbero contenti.
E poi c’è la Agra di oggi. Quella cadente. Quella sporca. Con tutti i bancomat che non funzionano. Con i bambini luridi e nudi. Con le capanne improvvisate lungo le strade che sono case e botteghe. Con gli animali che razzolano nell’immondizia.
C’è un cane ad Agra (e spero che ci sia ancora per poco) tutto storto, con le zampe che vanno ognuna per i fatti suoi e questo cane ha una specie di avvallamento sul dorso, tipo una ciotola nera che va in dentro. Caracolla. Cade. E dalla ciotola si leva un nugolo di mosche che andavano a coprire un buco di carne viva. Un cane mangiato a metà da qualche infezione.
Non ce la faccio. Comincio a piangere, sul tuk tuk che mi porta di bancomat in bancomat. Un pianto che si porta dentro tutto. I cani malati, le mucche scheletriche, gli elefanti schiavi, i cobra a cui tolgono il veleno. I bimbi nudi. Ma sono gli animali che mi dilaniano l’anima. Questi esseri indifesi, puri, queste vittime deboli e vessate. Come i bambini. Ma gli animali ancora di più. Il dolore che provo per loro è grandissimo.
Questo cane mi ferira’ per tutta la vita.
Vorrei tanto abbracciare Peo.
Giorno 13: Varanasi
I fuochi
Sono arrivata a Varanasi di notte. Dopo l’ennesimo viaggio in treno. Stanca, sporca, sudata, senza un soldo in tasca perché gli sportelli ATM non funzionano mai. Arrivo in questo albergo molto bello, costosissimo per i canoni indiani, e penso che sono contenta di tornare a casa. Che ho fatto bene a tenere questa città come ultima tappa di questo viaggio, perché qui tutto è ancora più amplificato in termini di sporcizia, puzza, miseria e difficoltà a 360 gradi.
Incontro Rishi, un ragazzo “Sei Francese?” e inizialmente non lo cago. Continua a seguirmi. Parla un inglese comprensibile, dice cose interessanti sulla sua città. Diventa la mia guida, perché capisco dopo pochi passi insieme a lui che questa città se non hai un appiglio ti fagocita.
Di più. Diventa il Virgilio di questo Inferno.
Lo seguo. Lui mi accompagna.
Mi accompagna attraverso un percorso che non è fatto di strade. È fatto di budella.
Quelle degli esseri umani che incroci nei vicoli pieni di cacca, pipi, gente che vive negli anfratti. Delle budella spesso in vista degli animali squarciati da una vita peggio che medievale. Delle tue. Che ti si torcono davanti a immagini che non posso descrivere perché non ci sono parole, non ce ne saranno mai, per dire la morte e la vita. Per come ti scorrono addosso, la morte e la vita, e dentro, attraverso gli occhi e le narici, come ti colpiscono e ti picchiano duro.
Non ha senso. Non si può dire. Per pudore. Per rispetto. Perché è inutile. Se ti racconto a parole, faccio il verbale della denuncia di questi colpi inferti. Lascio la fredda cronaca. Tolgo il dolore.
Il prezzo al chilo della legna. I barbieri che rasano le teste dei parenti. Le fiamme che sciolgono. Come faccio? Come faccio a dire cosa ho nelle budella.
Io non sono capace.
Posso dire che non si riesce a piangere. Perché non è un dolore tuo. Perché non puoi togliere le lacrime a chi accende le pire. Ai figli. Ai padri. E loro non piangono. Le donne le lasciano fuori. Che quelle invece frignano eccome, ma non c’è niente da frignare. ‘Che se muori qui salti tutte le altre incarnazioni terrene e fili dritto nel Nirvana, quindi cosa piangi?
Posso dire che certe immagini non le riesci a guardare non perché facciano orrore, ma per pudore. Perché un po’ ti vergogni ad essere vivo, a essere li, coi tuoi piedi sporchi che poi stasera nel tuo albergo di lusso laverai.
Posso dire del fumo, delle fiamme che prima sono piccine poi diventano altissime, del caldo infernale del fuoco che arde sempre. Giorno e notte, sempre. Tutti i giorni. Tutti i giorni. Sempre.
Il resto non lo dico. Non sono ancora pronta. Ce l’ho nelle budella, ancora. Ce l’ho troppo dentro per riuscire ad aprire la bocca e a farlo uscire. Devo lasciarlo lì un po’. Sentire come si assorbe nel mio corpo, nella pancia, negli occhi e nel cervello. Poi potrò dirlo con la lingua, o con le dita su una tastiera.
Varanasi è una città sacra. E lo è davvero.
Lo capisci alla sera, all’ora della Cerimonia di ringraziamento del Ganga, il grande Fiume, quando navighi su un barcone le sue acque fangose, terribili e sante, con le tue budella attorcigliate piene di roba che ancora devi accettare, prima che capire.
Senti che qualcosa dentro di te si scioglie. Senti un calore dentro, nonostante stia diluviando sul tuo vestino a fiori ormai a brandelli. Senti che c’è un ritmo nel creato. Un disegno. C’è qualcosa di superiore che ti deresponsabilizza, a te, piccolo umano col vestitino a fiori. Che non è colpa tua, vai in albergo a lavarti i piedi e sii felice. Che tutto scorre, come queste acque vorticose e atroci, piene di cadaveri e candele votive. E prega. Prega chi vuoi. Ma senti che questo mondo, nonostante i fuochi, i cani squarciati, la cacca nelle strade è un mondo bellissimo.
Virgilio ti guarda e ti dice: “È la prima volta che sorridi oggi. Visto? Varanasi è una città magica”.
Giorno 14: Varanasi
Stanchezze
Sono arrivata a Varanasi molto provata, dopo una notte in treno, dopo l’impatto pesante con lo slum di Agra, dopo 13 giorni di peregrinazioni senza sosta, dopo aver lavato vestito e mutande quotidianamente, per poi rimetterli al mattino ancora umidini, dopo aver viaggiato sul serio.
Ero stanca. Ho pensato che fosse un bene essere rimasta un giorno in più del previsto a Jaisalmer, giorno rubato a Varanasi per la rilassante bellezza del mio albergo e per il fascino della cittadella e del deserto.
Dopo il Cane di Agra temevo il peggio.
Varanasi è lo spettro più cupo dell’India, quindi forse del mondo intero, e io non avevo più voglia di stare male.
Poi questa cosa dei bancomat che non danno soldi e mi ti trovo sempre a girare come una cretina in cerca di contanti, mi innervosiva. Insomma, ero contenta che stavo per tornare a casa. Due giorni a Varanasi, nel posto più difficile del mondo erano più che sufficienti.
Notti in sleepers class, capelli bisognosi di Kerastase, piedi indiani e scoramento da treno in ritardo di un’ora e mezza, mi convincono che anche basta guest house dignitose ma squallidine. Ho bisogno di riposo. Di un bagno con una parvenza di occidente, con l’acqua caldissima che scende per benino. Una camera bella come nel deserto, dove rifugiarmi dopo le giornate intense che avrei scelto di vivere. La prima notte me la gioco col ritardo del treno, che invece che alle 3 del mattino arriva alle 5. Taxi per la città e soste multiple per cercare un cazzo di ATM che eroghi banconote vere e non il solito lezioso foglietto “Benvenuto in India, ci dispiace un sacchissimo ma non possiamo inoltrare la tua richiesta”. Quindi check in in hotel alle 6, dove mi presento con un diavolo per capello, dicendo che non trovo contante, e ho bisogno di un’agenzia di quelle strozzine che ti strisciano la carta in cambio della cessione della tua anima. L’indianone baffuto alla reception valuta velocemente il vestitino mangiato dalla capra, i capelli alla brutto Giuda, i piedi indiani e la storia dei contanti e mi dice “Paga subito, vero Madam?”
E quanto te la tiri, amico Indianone. Tie’. Ecco la carta. Guarda che i soldi ci sono. Sono i vostri cazzo di sportelli che confondono saldo con prelevamento e hanno i circuiti mangiati dai topi per cui non vanno mai. Striscia sta carta e dimmi che ci sono i soldi. Subito, porco diavolo, che mi sta salendo l’ansia.
Ok Madam. Signature.
Madonna che paura. Comunque, tra una pippa e l’altra sono le sette, quindi apre il ristorante per la colazione. Si fanno le otto, non ho dormito niente ma che fai, sei venuto a Varanasi a dormire? Tanto sono così stanca che starò in giro un po’ poi torno a fare un riposino al pomeriggio, poi a letto presto poi dormo fino alle 11, che di miserie e scoramenti ne avrò avuto abbastanza. E poi.
Poi ti piomba addosso tutto. I fuochi. Le bestie malate, i tuguri malsani con la gente che dorme, I bimbi lavati nel fango del Ganga. Eppure.
Eppure non valuti nemmeno per un istante la possibilità riposino, perché questa città ipnotica ti attira in un vortice che ti tiene lì con sé.
Ti dice “Guardami. Sono la potenza della vita. Sono il dominio della morte. Sono Vishnu il Costruttore e Shiva il Distruttore. Guardami e valuta tu cosa è giusto, cosa è sbagliato. Guardami nell’assurda bruttezza dei miei angoli più vomitevoli, guardami con il mio piscio e con la merda. Guardami negli occhi dei cani, guardami nelle botteghe raccapriccianti, negli scoli di acqua putrida e dimmi se vedi più vita o più morte”.
E quando una città ti parla, e Varanasi ti parla davvero, sono parole che non senti con le orecchie, ma le senti davvero, che fai? Vai in albergo a riposare o cerchi la risposta?
Io, per quanto stanca, ho cercato la risposta.
E la risposta l’ho avuta alla Cerimonia.
Più vita. E quanta vita., se ce ne è più di quanta sia la morte.
Questa città è davvero Sacra. Questa città è magica. Ti fa suo. Ti ammalia. Ti dà le chiavi dell’umanità, della tua umanità. Ti mette in contatto con le tue corde profonde, quelle che non hai mai sentito suonare.
Ero stanca. Volevo tornare. Ora vorrei restare molto, molto di più, a non dormire.
Ovviamente ho dormito pochissimo.
All’alba ero di nuovo in riva al Grande Ganga.
A guardare.
Giorno 15: Varanasi – Delhi – Munich – Bologna Il senso del VIAGGIO L’ ultimo atto della mia India è ora. Su questi tre aerei. In questi tre aeroporti per un triplo salto che da Varanasi, il mondo più lontano che io abbia mai visto, mi riporterà a casa. Le mie lenzuola. Le mie tazze. Il mio cane.
Questo è stato IL viaggio.
Ripenso ad ogni passaggio, in attesa degli imbarchi.
Se scompongo il concetto “VIAGGIO IN INDIA” mi accorgo che ho analizzato tantissimo il concetto INDIA, e pochissimo il concetto VIAGGIO.
Che invece è altrettanto importante. Anzi. Forse pure di più.
Il senso del Viaggio l’ho capito a Tundla, un paesino piccolo, fuori da ogni passaggio turistico. Io ci sono finita perché da Agra i treni per Varanasi erano pieni, così sono partita da questa stazione sconosciuta.
Li sono stata veramente “la straniera” con la gente incredula che rideva al mio passaggio.
Li ho realizzato un sogno: sono stata esploratrice.
Ho mangiato in una baracca di lamiera arrugginita sulla strada, insieme ai vecchi del villaggio. Sono stata oggetto di ilarità, di sospetto, di scherno. Mi sono fatta toccare i capelli blu, che forse la leggenda di qualche biondo era arrivata fino in paese, ma di sicuro mai avevano visto una straniera coi capelli blu.
Ecco il senso. Non avere paura. Paura di essere soli, paura di ammalarsi, paura di essere oggetto di qualche violenza.
Quello che ho esplorato non è stato il paesotto di Tundla, quello che ho esplorato è stato cosa succedeva dentro di me al mio passaggio a Tundla. E dentro di me ho sentito una lucidità, una attenzione a cosa mi capitava intorno, una prontezza a cogliere ogni stimolo, che mi ha dato un’ebbrezza strana.
E non ho avuto paura, con tutti e 5 i sensi allertati. Nessuna paura, anche se non c’erano esperienze pregresse, perché nessuna guida parla di Tundla.
Mi sono sentita vivissima. Presente a me stessa, in sfida con il “fuori” da me.
La stessa sensazione che provo quando corro forte in macchina.
Questo è esplorare, per me. Ed è stato esaltante.
E questa lucidità, questa non paura mi ha accompagnato in tutte le tappe di questo viaggio. Mi ha fatto fare cose che mai avrei immaginato, mi ha fatto vivere come quando facevo improvvisazione teatrale.
Qui ed ora. Si… E.
Senza alcuna pianificazione, senza paletti, senza pregiudizi, senza condizionamenti. Solo così si è in Viaggio. In totale immersione nel tempo e nello spazio in cui ti stai muovendo.
Ecco come ho fatto a fare tante esperienze in 15 giorni soli.
“Ma tu sei matta” “Ma non hai paura!?”
No. Non sono matta. E non ho paura.
Sono in viaggio.
Sono un’esploratrice.
Poi atterro. E trovo un’amica con un cartello oltre la sliding door degli arrivi.
Ed è bellissimo anche tornare.
Bologna, 8034 Km di distanza
Un ultimo pensiero scritto sull’ India (i pensieri nella mia testa invece mi accompagneranno per sempre).
Da questa distanza cosa cambia, se guardo le foto e rileggo i miei appunti di viaggio?
Cambia che mi do dell’imbecille a pensare che qualche volta sono stata stanca. Che non dovevo dormire mai, invece di lamentarmi delle notti in treno. Dovevo succhiare tutto. Dovevo succhiare di più.
Cambia che vorrei di nuovo sentire la sensazione di avere sempre le mani sporche. Che vorrei ancora tirare fuori dallo zaino il gel all’amuchina e domandarmi come Lady Macbeth “Saranno mai pulite queste mani?”
Cambia che vorrei togliermi le scarpe, e camminare per le strade scalza, per sentire ancora quel contatto, quella connessione. Camminare con quella attenzione. Piano, guardando. Stando nel momento di ogni singolo passo. (tanto che mi frega. I miei piedi, come le mani di Lady Macbeth non saranno mai più puliti) Cambia che mi sono liberata forse per sempre dell’ossessione di finire tutto il mio cibo nel piatto, come mi insegnò mia nonna, che aveva patito la fame della guerra: quello che tu lasci lo buttano in strada e lo mangiano gli animali randagi.
Cambia che non devo più valutare al volo la potenziale puzza di un angolo di strada e non devo più andare in apnea preventiva, e questa non è una cosa malvagia.
Cambia che perderò l’abitudine a dormire nelle posizioni più assurde, in orari che non mi spiego.
Cambia che non sentirò più quell’imbarazzo nello scattare una foto. Mi è sempre sembrata un’intromissione, una mancanza di rispetto, un voler giudicare. Ci stavo scomoda. Per contro, cambia anche che nessuno fotograferà più me strusciandomisi addosso con l’esuberanza dei suoi 12 anni.
Cambia che non sembrerò più francese a nessuno, e un po’ mi dispiace perché faceva chic.
Cambia il mio sguardo sulle cose. Ancora non lo so come, ma sento che è cambiato. Che certe sofferenze piccine e inutili stanno per passare per sempre.
Non cambiano invece i luoghi comuni, perché l’India è veramente un luogo di spiritualità e batteri, ma i batteri più importanti sento di averli dentro, sento che ancora li ho in incubazione, e presto esploderanno in una malattia feroce che si chiama nostalgia e bisogno di tornare.
Del resto, That’s India! E’ una meraviglia.
Che ti meraviglia nel bene e nel male, cosa minchia mi aspettavo?
Namastè, India.
Che tradotto per bene vuol dire
Mi Inchino a Te.
La più bella penna viaggiatrice/esploratrice di questo blog!
Tanti complimenti a questa fantastica donna!