Libano: prima tappa di un viaggio in Medioriente

di Rossano –
Libano, prima tappa di un viaggio in Medio Oriente

All’uscita dall’aereoporto prendiamo un taxi; dai finestrini di quel mercedes anni 80 con i sedili in finta pelle nera si colgono le prime immagini di Beirut… È quasi mezzanotte, le gomme lisce del taxi stridono ad ogni curva e qualche colpo di clacson fa da contorno alle nostre parole. Le vie della città sono vuote.. ci sono solo militari armati appoggiati ai carroarmati, piazzati sui marciapiedi; se si alza lo sguardo si vedono palazzi crivellati dai colpi di artiglieria pesante, a tener vivo il ricordo della guerra civile.
…questa è la città che ha fatto fare il giro del mondo a parole quali Intifada, Falange Armata, Green Line…

Il tassista insiste per farci pernottare da un amico suo. Ha la percentuale, è chiaro; questo aspetto ricorrerà spesso in Medio Oriente: gente non in ginocchio, ma comunque povera, che per sbarcare il lunario si appoggia su una rete fittissima di conoscenze, di intrallazzi…chiunque venga fermato per strada ha sempre un qualcuno da proporti in grado di offrirti il servizio che cerchi. Alla fine troviamo l’albergo consigliato dalla Lonely Planet; salendo le scale incrociamo in un letto con le coperte in disordine, c’è anche chi abita tra il secondo ed il terzo piano di un albergo.

Si noleggia una auto rossa; guidare a Beirut è una bella esperienza, soprattutto buttarsi nel traffico cittadino come un bimbo al parco giochi.

I Libanesi, brava gente, non sanno resistere al tic collettivo che li spinge a suonare il clacson in continuazione.

Nel pomeriggio si parte per Sidone. Il percorso è obbligato e si passa per Beirut Sud, a forte presenza Hezbollah.

A Sidone si visita il castello crociato marittimo: non suscita grande entusiasmo.
Andiamo alla ricerca della Grande Moschea, ciondolando lungo le vie del souk…il centro storico ci colpisce per i cavi dell’elettricità che penzolano sopra le nostre teste, a due metri d’altezza, da un’abitazione all’altra. Si può dire che il tutto è a norma di sicurezza… le vie strette hanno un che di medievale… Lungo il cammino si scambiano due parole con un egiziano che intarsia il legno, si apostrofa un bambino grassissimo che corre, si trova finalmente una moschea… È la Grande Moschea di Sayda, anche se di grande ha ben poco.
Il sole pomeridiano è intenso, beviamo molta acqua da bottiglie in plastica ed il canto del muezzin accompagna la nostra scelta di evitare Tiro. Si decide infatti di puntare su Baalbeek. In macchina ripercorriamo la stessa strada dell’andata e notiamo ciò che in precedenza ci è sfuggito: il ponte di Sidone, che i caccia israeliani, partiti dalla base di Tel Aviv, hanno distrutto un mese prima. I resti del ponte, per altro di modeste dimensioni, costituiscono zona militare off-limits.



Il ponte distrutto è tuttavia l’ennesimo simbolo della sofferenza libanese nei confronti del nemico ebreo.

Con l’aiuto di due libanesi troviamo la via per il tempio fenicio di Echmoun, divinità di Sidone simboleggiante la salute. La visita dura poco; il guardiano, in tenuta mimetica ed armato, ci saluta all’uscita offrendoci dell’uva.
La strada per Zahlè, nella valle della Bekaa, è più complicata del previsto… le tendopoli di profughi palestinesi ai lati del fondo in catrame fanno da cornice al percorso. Ad intervalli regolari posti di blocco con militari armati scandiscono nel tempo le distanze coperte in un territorio privo di punti di riferimento. Al calar del sole ci accorgiamo che qui l’illuminazione stradale non è prevista e pertanto dobbiamo proseguire al buio; arriviamo comunque a Zahlè, dove troviamo un dignitoso albergo, anche se dal pavimento un pò ballerino..
Il centro della cittadina si snoda lungo una via di piccoli ristoranti e bancarelle ricche di paccottiglia. La nostra curiosità ci spinge ad una cena libanese in un ristorante all’aperto; si ricorderanno i brividi… non ci saremmo mai aspettati di avere freddo in Libano

Lasciamo Zahlè e ci dirigiamo verso Aanjar, sito omayyade. Come al solito sbagliamo strada, ma come al solito troviamo chi è disposto ad aiutarci: un militare siriano. Questi sale in macchina e a gesti ci indica la strada, in cambio di pochi dollari.
Aanjar è colorata dalla presenza di una francese che si nutre di bacche (in realtà fichi mignon); per il resto, un sole alto e una parte del sito occupata da abusivi.
Proseguiamo verso Baalbek. Entriamo nella città che è stata sede degli Hezbollah e per questo, fino a pochi anni fa, chiusa al turismo: gli ayatollah, rappresentati in gigantografie ai bordi della strada, scrutano i fedeli. Il volto di Khomeini ci ricorda l’Iran…
Grazie alle indicazioni di un poliziotto con incarico di vigile urbano, giungiamo al sito. Il tutto è senz’altro degno di fama, anzi di più. Un paio d’ore sotto il sole non pesano affatto, nella cornice imponente regalata dai resti del colonnato.

La strada verso la valle del Kadisha ci offre un panorama eccellente:dalla continua ascesa tra curve e tornanti si lancia lo sguardo in un profondo avvolto dalla nebbia. Scendendo a valle ci fermiamo in un paesino e veniamo ammaliati da una ragazza con i capelli neri e i pantaloni azzurri…il negozietto in cui la ragazza trascorre le proprie giornate è desolante e alla nostra domanda “per Bcharrè?” segue un euforico “se vengo anch’io a Bcharrè?”…

Un sergente ci guida con la sua scassatissima auto arancione a Bcharrè. Qui ci rifocilliamo presso la bottega di Eliano, un libanese cristiano maronita.
La ricerca dell’albergo non ha l’esito sperato. Poche e ad alto prezzo le sistemazioni che il luogo offre. Spinti da una molla di barbonismo puntiamo verso una soluzione estrema: speranzosi di trovare un prete disposto ad accoglierci, ci troviamo sul sagrato di una chiesa. Siamo disposti a dormire anche tra un confessionale e l’altro. Tuttavia non troviamo nessun religioso bensì una donna che si rivelerà la nostra salvezza. Gentilissima ci invita a dormire a casa sua. Senza esitazione accettiamo e ci sistemiamo a dollari zero.
Lasciati gli zaini ci rechiamo in centro. Seduti all’aperto in prossimità della casa museo di Kahil Gibran (grande poeta visionario libanese, autore de “Il giardino del profeta”) ed avvolti dalla foschia fumiamo il nostro primo narghilè!
Tra una boccata e l’altra siamo distratti da un imbecille che continua a sgommare con la sua vespetta.

Con calma rientriamo e ci intratteniamo con la nostra ospite sul terrazzo di casa. La stessa non perde occasione per rimproverarci visto che a suo dire a trent’anni non siamo sposati e siamo in giro per il Libano a fare i buffoni…tutto vero e per questo tutto molto bello! In mattinata raggiungiamo il monastero di Deir Qannoubin. È un lungo cammino e la meta non giustifica, secondo chi scrive, il tempo e la fatica spesi sotto il sole.

Nel pomeriggio guidiamo verso Tripoli o meglio verso “l’immondizia”. Tripoli è una città allucinante: le persone vivono come ratti, immerse nel fetore. Il traffico è a prova di riflessi. Ad oggi non so ancora spiegarmi come abbia potuto guidare senza investire qualcosa/qualcuno. In città ci fermiamo poco. A parte la fortezza, che tra l’altro vediamo da fuori, non c’è nulla degno di nota.
Andiamo verso Byblos.
Byblos era quartiere fighetto del Mediterraneo by night negli anni ’60 e ’70. Qui sbarcarono, tanto per intenderci, le forme della bionda B.B. E’ incredibile, ma quanto segue risponde a verità: i nostri abiti sono sporchi, ci sentiamo un pò out in questo angolo di Libano da bere. Siamo veramente dei barboni!
Facciamo un paio di fotografie, ciondoliamo per la via centrale in cerca di qualcosa da acquistare, lanciamo l’occhio verso una tizia seduta in barca.

In serata siamo a Beirut e dormiamo presso uno Student Hostel gestito da un musicista.
Lungo la strada è bello fermarsi per scolarsi un litro di acqua gelata stoccata in un bottiglione di plastica.

Prima di trovar sistemazione, facciamo una conoscenza interessante. In un locale, affondato in una viuzza, un malavitoso carico d’oro mangia noccioline e beve alcool. Il tizio si pavoneggia parlando francese ed italiano… È la classica situazione in cui quattro chiacchiere potrebbero portarci in una stanza ricca di guai; ma a noi interessa trovare un posto dove dormire e ci viene pertanto messo a disposizione un “collaboratore”.

In serata troviamo finalmente la stazione degli autobus; è una gioia per le nostre orecchie ascoltare uno scalmanato che continua a gridare “Halab, Halab!”.

Sul tardi scopriamo una Beirut nella Beirut. Lungo i cornicioni dei palazzi nuovi si articolano giovani artisti in equilibrio. Gli sguardi di donnine piacenti, il movimento, la voglia di vita che si respira in questa calda serata d’agosto ci fa provare emozioni positive. In mattinata si cercano contatti con l’ambasciata iraniana. Dopo aver parlato al telefono con un fanatico che continuava a dire “Allah”, giriamo in macchina nel quartiere Hezbollah: qui sono tutti iraniani. Siamo in una di quelle zone che i comunicati della Farnesina definiscono ad alto rischio.

Il pomeriggio è dedicato al passeggio in Beirut. Ci aggiriamo nel quartiere fantasma della ricostruzione, passeggiamo lungo la Hamra, facciamo qualche foto.

Con un service (pulmino autogestito) partiamo per Damasco. Giunti alla frontiera con la Siria vediamo un gruppo di persone ammanettate; saranno una ventina. Senza problemi si entra in Siria.

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