Da Chiusi a Mosca in automobile

di Roberto Tistarelli –

Vogliate perdonare l’ardire di chi,
come me,
del tutto privo di una qualche valida ragione,
si è cimentato nello scrivere di se stesso.

Racconti di viaggi. Niente male come lavoro. Penso perlopiù a gente che si gira il mondo a spese delle redazioni di riviste e tv, e che in cambio commenta quello che vede, che mangia … almeno ai giorni nostri.
Quando si andava per continenti interi a cavallo o si veleggiava su brigantini e caravelle era un’altro paio di maniche…
E’ a distanza di un mese dall’arrivo che mi accingo a scrivere queste note di viaggio, ispirato dal libro di un un fiorentino che ha viaggiato per Russia, Cina, Thailandia ed altre località remote ed esotiche.
Ed è grazie alle fotografie che ho fatto se riuscirò a scrivere qualcosa, dato che quella visiva è il tipo di memoria di cui difetto meno.
Fino a qualche giorno fa, nemmeno lontanamente avrei pensato di accingermi in questa impresa narrativa.
Dedico queste righe a Maurizio di Palermo, il quale, durante una delle nostre chiacchierate su di un certo tipo di cinema, mi disse di provare a scrivere.

Premessa

Perché vado a Mosca in automobile?
Eh già, perché, soprattutto se si considera che la data di partenza non è, climaticamente, tra le più indicate, e sarebbe molto più comodo prendersi un aereo?
Ufficialmente perché non sono riuscito a trovarne una usata lassù. Se qui da noi è facile prendere una fregatura, a Mosca hai praticamente la certezza matematica.
E poi, non ufficialmente, perché l’idea di farmela in macchina sortiva in me quell’eccitazione che provi quando ti metti al volante per la prima volta.
Comunque, non è la prima volta che vado a Mosca con questo mezzo. Fu nell’agosto del ’92, in compagnia di altri due avventurieri, il Chioccia ed il Cicala.

il Chioccia
Comprai – anzi, i miei mi comprarono – una Mercedes 200 diesel del ’72 a Roma, da un amico della mamma che l’aveva tenuta gelosamente tutto quel tempo, per un milione delle vecchie lire.
Quei Mercedes che guidano i cattivi nei film con Tomas Milian e Maurizio Merli (in versione a benzina, perché il mio 200 D avrebbe avuto ben poche chances contro le Giulia della polizia).
Auto stupenda, 120 km/h di velocità massima, blu pastello, comodissima, targata Roma a caratteri bianchi, il contachilometri a 5 cifre .
La spia dell’accensione delle candelette era costituita da una piccola griglia metallica sotto alla quale c’era una resistenza che, dopo qualche tempo dall’aver girato la chiave, diventava incandescente indicandoti che solo allora potevi tirare la manopola della messa in moto. Fantastico.
Fu molto diverso da questa volta, dato che il viaggio durò due settimane, con tappe a Salisburgo, Praga, Vienna, Budapest ecc., ed in più avevo la compagnia di due amici.
Una delle più belle esperienze che abbia mai fatto, e la Mercedes non fece una grinza, nonostante i nostri maltrattamenti.
E poi avevo 18 anni.
Ma è un’altra storia, peccato che sia un po’sbiadita, perché ce ne sarebbe per un bel racconto.
Tornando ai motivi, ho iniziato a lavorare nella capitale russa dall’ottobre 2004, con un signore di Bologna che, tra molte difficoltà e una buona dose di pazzia, distribuisce prodotti alimentari di una grande azienda del modenese.
Sentivo l’esigenza di vivermi un po’ questa mia città natale, dopo anni passati nella provincia toscana, dove la vita scorre un po’ lenta, senza grandi emozioni.
Per prolungare la mia permanenza a Mosca, stavo cercando qualcuno nel business del vino, dato che posso fregiarmi dell’altisonante titolo di “manager dei servizi enoturistici”, ed il fato volle che ebbi a conoscere Mr. Valentini, presso la Prodexpo di Mosca,

Mr. Roberto Valentini
una grande fiera dedicata al settore alimentare alla quale partecipano anche aziende italiane.
Lui, essendo tra questi italici protagonisti, catalizzò la mia attenzione, in primis, per l’allestimento fatto con una certa eleganza del suo stand, e poi perché intravidi nei suoi occhi quel barlume di leggera follia che in qualche modo ci accomuna.

Martedì 18 gennaio 2005

Partenza da Sarteano.
E’ da circa una settimana che rinvio la partenza grazie alla scusa dei documenti della macchina, la potente Subaru, che devo passare a prendere a Tirano (che non è in Albania, ma in provincia di Sondrio).
Restare qualche giorno in più non mi dispiaceva affatto, visto che sono stati giorni di relax e piacevoli serate in compagnia di amici e della mia ragazza di allora.
Mi sono goduto la mia amata casetta dentro al bosco, prima di tornare al caos e ai ritmi moscoviti.
Dicevo, partenza da Sarteano verso le dieci, passo per Chiusi a salutare il babbo e a caricare i restanti bagagli. Non ho, da vera volpe, preso il vino, tranne tre bottiglie datemi da mio padre, tra cui – me ne sono accorto all’arrivo – una di novello 2004 (!), perché “alla mamma piace”. (è finito negli scarichi idrici della metropoli russa, anche se avrei potuto tranquillamente regalarlo a qualche russo ed ottenere persino la sua riconoscenza).
La maledettissima spia “check engine” si accende spesso e sento che il motore è come frenato, la macchina va più piano, e la cosa mi fa girare un po’ le balle.
Mi hanno detto i tecnici della Subaru di Perugia, dove ho fatto il tagliando, che dipende dal sensore “del battito in testa” che si è guastato, che non sarebbe successo niente, che semplicemente il motore entra in uno stato di protezione, ma non avendo il suddetto sensore presso la loro officina avrei dovuto aspettare minimo una settimana per sostituirlo.
Troppo. Così parto con la mia fastidiosa spia rossa sul contachilometri come compagna di viaggio. Ogni tanto si spenge, sento il motore “sciogliersi”, la macchina va che è un piacere, mi diverto ogni tanto a spremere i 170 cavalli del motore.
Lo stereo è quello che ho ritrovato in un cassetto polveroso in garage, ce l’avevo nella Golf dell’87, ma funziona ancora. Peccato che mi sono preso solo quattro – cinque cassette sentite e risentite e che gli altoparlanti della Subaru producono un suono di qualità veramente scarsa, anche per un audiofilo dalle modeste pretese come me.
Fino a Milano la strada mi è familiare. Classica sosta in autogrill per mangiare qualcosa. Poi prendo per Lecco, anche questa non mi è del tutto sconosciuta, avendola fatta una settimana prima “cor Bionno”, per andare a prendere l’automezzo trovato tramite internet da un rivenditore di quelli che, quando li vedi, scatta subitaneo il dubbio di prendere la sòla.

er Bionno

La settimana prima, dopo una ricerca in internet, opto per una Subaru Forester del ’98: mezzo ideale per la Russia, costa relativamente poco, non dà nell’occhio, è 4×4, e poi dicono che siano delle gran macchine. Il problema è che questo tipo di automobile, in Italia, è particolarmente amato dai nostri connazionali alpini, piuttosto distanti da casa mia. Ed infatti, mi tocca andare in Valtellina, a Villa di Tirano, praticamente in Svizzera.
E magari prendere un bidone.
Parto col Biondo.
Nel tratto Bologna-Milano, dopo un”aperitivo”, scatta il ricordo delle settimane bianche di qualche anno prima.
Tra i momenti più esilaranti, durante quei meravigliosi giorni montanari, oltre a quelli sulle piste o in discoteca, vi erano quelli al supermercato, luogo dove potevamo dare libero sfogo ai nostri istinti più bassi e primordiali, soprattutto a dànno degli ometti e delle donnine, locali e non.
Arriviamo nel pomeriggio. Ed eccola, la Forester, parcheggiata in bella vista nel piazzaletto di una rivendita di auto usate lungo la strada principale.
La macchina non è proprio nuovissima, il contachilometri segna 151.000, ma si presenta bene.
C’ha pure un gran bel tetto apribile. Apriamo il cofano, il motore è in ordine e pulito, guardo se ci sono i classici segni di riparazioni alla carrozzeria, l’usura di pedali, volante, marmitta, cerchi, gomme ecc.. Ad occhio e croce i km segnati dovrebbero essere quelli effettivi.
Il Sig. ******* è un ometto non molto più vecchio di me, con una faccia da persona onesta ma non troppo, e dopo il controllo visivo si passa alla prova su strada. Tutto ok, la macchina mi trasmette solidità, anche se la sento un po’ondeggiante, a causa degli ammortizzatori non freschissimi. Ha il cambio automatico, una figata per la città. I diabolici costruttori giapponesi hanno disseminato all’interno una gran quantità di pulsanti di cui ignoro la funzione. Frena dritta, accelera bene, ma ad un certo punto tac! “check engine”, la spia maledetta! Vai – mi sono detto -, e ora? Chiedo naturalmente spiegazioni al *******, il quale minimizza e mi dice che è questione di fare il tagliando, e che, dato il prezzo molto basso (effettivamente mi chiede 2500 – 3000 euro in meno rispetto al prezzo di mercato, ed è anche per questo che la cosa mi puzza un po’), non potevo pretendere la perfezione. E comunque c’è un anno di garanzia. Che fare? Fossi stato prudente e precisino, avrei dovuto chiamare la Subaru, chiedere informazioni, ecc., ma la fretta di partire, l’impressione tutto sommato positiva datami dal mezzo, e una certa predisposizione per la fatalità mi fanno soprassedere, e l’acquisto va in porto.
O la va o la spacca.
Cerco di tirare un po’ sul prezzo, ma il nostro *******, nonostante l’aspetto da candido uomo delle nevi, si dimostra un osso duro, con il suo strano dialetto cantilenante.
E nonostante i miei 5.600 euri fossero in contanti, non riesco a strappargli manco un centone. Ripartiamo nel tardo pomeriggio, dopo essere passati dall’agenzia di pratiche automobilistiche di una giovane e piacente signora.
Arriviamo al raccordo di Milano per cena, non ci si vede praticamente nulla grazie alla simpatica nebbia padana.
Lascio il nuovo acquisto al Biondo, il quale doveva deviare per Ferrara dove aveva un dolce nido d’amore ad aspettarlo, e mi rimetto alla guida dell’automobile con la quale siamo partiti.
Facciamo la strada fino a Bologna insieme, la nebbia sempre più fitta comincia a stancarmi, non mi ricordo nemmeno se e dove abbiamo mangiato.
A questo punto, confidando nella buona sorte, sia per la Forester che per l’incolumità del mio compagno di viaggio, ci separiamo ed io prendo per il simpatico tratto appenninico, lasciando “er Bionno” alle insidiose nebbie padane e ad un amore fugace.
Quando sei al volante da diverse ore e la stanchezza ti assale, scatta un curioso fenomeno: invece di rallentare, in considerazione della diminuita capacità di risposta ad eventuali spiacevoli imprevisti, che fai? Acceleri, non vedendo l’ora di arrivare.
Prima di Arezzo, col nebbione presente ancora a tratti, sorpasso una volante che andava pianissimo a 160. A quel punto ho fatto una breve considerazione, sul fatto che se mi avessero raggiunto avrei potuto seriamente giocarmi la patente (il limite con la nebbia è 60? O 50?). Quindi, non rallento, ma proseguo speditamente fino all’area successiva, dove esco e parcheggio dietro la rimessa per auto. Mi bevo una cosa e dopo una quindicina di minuti riparto.
Nessuna traccia degli ometti blu.
Arrivo verso mezzanotte, e, nonostante fosse un venerdì, me ne vado dritto dritto a casa.
Naturalmente (dico naturalmente perché questo mio carissimo amico è perseguitato da ogni genere di sfiga) al Biondo gli si scaricò il telefono e non ne seppi più nulla fino al giorno successivo, quando mi rese partecipe delle mille tribolazioni e disavventure occorsegli per raggiungere la dolce mèta.

Comincio a godermi il paesaggio premontano della superstrada che inizia dopo Lecco, costeggiante il manzoniano ramo di uno specchio d’acqua di rara bellezza. Mi trovo al cospetto di quelle montagne che mi hanno sempre trasmesso un’emozione di rara potenza, indipendentemente dalla loro dislocazione geografica.

la Morbegno-Sondrio

Comincio a godermi il paesaggio premontano della superstrada che inizia dopo Lecco, costeggiante il manzoniano ramo di uno specchio d’acqua di rara bellezza. Mi trovo al cospetto di quelle montagne che mi hanno sempre trasmesso un’emozione di rara potenza, indipendentemente dalla loro dislocazione geografica.
  
 
L’idea di dover deviare dalla strada maestra per guidare sulle mille curve di un valico alpino non mi dispiace affatto, tanto più che con la Subaru ho a disposizione il mezzo ideale.
Sono al secondo pieno e mezzo che finisce, e in questa superstrada non c’è l’ombra di un benzinaio. Ne esco, trovo il benzinaio, finisce la superstrada ed inizia la statale per Sondrio.
Nevica, e la cosa mi dà gusto, se non altro posso da subito provare le mie Pirelli da neve costatemi un occhio (“sai com’è, è una misura particolare…”).
Ma dopo poco la nevicata cessa. Comincia a fare buio, devo arrivare in agenzia, dalla prosperosa signora, prima che chiuda.
Trovo lungo la strada una concessionaria della nipponica marca, mi fermo per chiedere del sensore maledetto, ma non ce l’hanno nemmeno lì. Alfonso, capomeccanico dal volto percorso da incredibili rughe, mi tranquillizza, ribadendo la versione dei perugini. Mi dice che se vado alla Subaru Italia, vicino a Trento, lo trovo sicuramente. Ma sarebbe stata una deviazione esagerata, almeno tre ore di viaggio, ed era già pomeriggio inoltrato.
Quindi non prendo in considerazione l’opzione del rugoso Alfonso e proseguo.
Arrivo verso le cinque, è già buio, ritiro i documenti, chiedo alla signora se ha da consigliarmi un albergo in paese…azz… sarebbe molto meglio fermarmi da lei…ed ecco entrare un signore: ”ciao tesoro, ho fatto io la spesa”. Peccato.
Faccio un breve giretto, ma la “geometricità” di Tirano non mi attrae un granchè. Ha ben poco del paesino di montagna che ho in mente.
Consulto lo stradario, decido di proseguire per Bormio, visto che sono solo le sei.
Arrivo dopo un’oretta, percorrendo una strada tutto sommato priva di curve, con molti tratti sopraelevati lungo la vallata.
Giretto esplorativo in macchina, il paese è carino, molto più caratteristico di Tirano. Dopo un po’, in centro, trovo il classico alberghetto a conduzione familiare, per niente sgradevole, legno dappertutto, mi confermano la disponibilità di una singola. E’ piccolissima ma accogliente, il pino trionfa ovunque, presa al volo.

Albergo meublè Dante

Il fatto di aver dimenticato le ciabatte mi dà quel pizzico di giramento di coglioni.
Il bagno è pulito, mi faccio un lunga e calda doccia.
Esco, armato di macchina fotografica, per andare a cena.
Il paesino è praticamente deserto, nessuno in giro. Vedo un insegna, scendo una scalinata che mi porta in una specie di ex ricovero per animali trasformato con una certa accuratezza in ristorante-enoteca.
Non male. Oltre a me ci sono due signore, madre e figlia presumo, che sono alla frutta, e, un po’ più in là, una tavolata di sei signori con, penzolanti dalle sedie, piumini firmati RAI. A capotavola il “le so tutte” della situazione, un lungagnone con chioma alla Sgarbi – ci passava le dita con lo stesso, lascivo autocompiacimento – che teneva banco con i suoi racconti nonché suggerimenti per un’intelligente programmazione aziendale.
Data la poca distanza, non potevo non ascoltare i suoi discorsi, ai quali, i restanti cinque della combriccola, ogni tanto replicavano con poca convinzione e voglia.
“Anche noi dovremmo produrre dei format come quello inglese che ho visto sul satellite. Documentari su esperimenti fatti da universitari improvvisatisi scienziati sui quali però, alla fine, ha prevalso il genio di una casalinga che è riuscita a far funzionare il suo razzo fatto con una bottiglia di plastica e trielina. Costano poco e sono divertenti”.
La cosa cominciava ad interessarmi, avrei quasi voluto partecipare al dibattito e dargli ragione.
Bresaola – essendo in Valtellina -, pizzoccheri, ½ rosso e via.
Fuori cade quel tipo di neve che ispira la poesia: fiocchi paffuti, lenti, l’atmosfera è fiabesca.
Poche luci (tranne sulla pista olimpica che è illuminata a giorno), vicoli stretti, nessuno in giro. Mi incuriosisce una vespa bordeaux metallizzato, targata Milano, appoggiata ad un muro.
Beh, una serata con un po’ di movimento – penso alle discoteche di montagna – non mi sarebbe dispiaciuta, ma questo paesino semideserto, sprofondato in una candida quiete d’altri tempi, mi trasmette delle belle sensazioni.
                 

Bormio by night

Cerco di catturare l’atmosfera locale con qualche scatto. Le uniche persone che incontro lungo il corso principale sono una coppia di mezza età che cammina mano nella mano.
Dopo il breve giro rientro in albergo per godermi la mia mega camera.
Comunque sono a mio agio e il pensiero vola alla camera d’albergo che ci dettero, a me e al Gianola, fedele compagno di quasi tutte le mie settimane montanare, a Kitzbuhel una decina di anni fa, più o meno, con le sue dimensioni lillipuziane, assolutamente inadatta a due spilungoni come noi.
Però foderata interamente di legno.
Dopo un po’ di televisione sdraiato su di un letto per nani che mi costringe ad una posizione da fachiro, mi dò la buonanotte.

Mercoledì 19 gennaio

Dopo l’abbondante colazione nell’alberghetto mi metto in moto.
Il mio itinerario è abbastanza improvvisato e non so ancora quali strade percorrerò.
Per farla più veloce sarei dovuto passare per Polonia e Bielorussia, ma la cosa mi fu vivamente sconsigliata per motivi di sicurezza. Sembra che da quelle parti si aggirino dei banditi che ti assaltano alla prima occasione per privarti dell’automobile e anche delle mutande, se ti va bene.
Altro che far west, la gente ama ingigantire eventuali pericoli. E comunque, visto che non era nel mio interesse fare troppo alla svelta e restare senza macchina e mutande, opto per il passaggio più a nord, cioè per Germania, Danimarca, Scandinavia, fino a Pietroburgo e poi Mosca, percorso più lungo, ma decisamente più interessante.
Quindi, per adesso, direzione nord. Anzi, ovest, visto che il passo dello Stelvio è chiuso, e devo deviare per Livigno. E’ una bella giornata e posso godermi la vista di questi luoghi meravigliosi.
   

La strada è abbastanza pulita, sfogo l’istinto rallistico con qualche tirata di freno a mano visto che il traffico è praticamente assente.
Su queste strade la Subaru è fantastica, gli manca solamente un po’ di quel sovrasterzo che hanno le trazioni posteriori per godersi lo scodinzolamento.
Dopo essermi quasi schiantato addosso ad un omino su una Ford che sbucava da una curva a gomito che mi ha scagliato contro una serie di maledizioni montanare, ho deciso di assumere una guida più rispettosa delle norme di sicurezza.
Sono alla ricerca di qualche stazione che trasmetta quelle musichette di montagna che mi fanno impazzire, ma non c’è verso.
C’è solamente la solita musica di tutte le solite radio.
Salendo di quota la vegetazione si fa sempre più rada, fino a scomparire del tutto in prossimità del valico.

Ad un certo punto, a centro strada, c’é un casottino delle guardie, dal quale una biondona in divisa e occhiali a specchio mi guarda passare.
Dovrei essere entrato nella zona franca, “tax-free”.

La strada si fa in discesa, scatto qualche foto dall’abitacolo, mi godo, nel vero senso della parola, queste curve e soprattutto la vista delle montagne che mi circondano.

 

 

 
Passo per un paesino il cui nome si presta a varie interpretazioni: “Tre Palle”.
Dopo poco arrivo a Livigno, che si trova in mezzo ad una valle piuttosto estesa, quasi priva di vegetazione.
Parcheggio ed entro in uno dei numerosi negozi che vendono un po’ di tutto, intenzionato a comprarmi un paio di stecche delle mie sigarette preferite, ma ce l’hanno solo con il pacchetto duro, in tutta Livigno. Come negli aeroporti. Perché si trovano solo quelle col pacchetto duro?

 

Proseguendo per la Svizzera ormai vicina, costeggio il Lago del Gallo, stretto e ghiacciato, che termina con una diga sulla quale passa la strada.

Dopo la diga, un tunnel ad un’unica corsia. E’ abbastanza lungo e denota un’ epoca di costruzione, o meglio, di perforazione, piuttosto antica.

Ed eccomi alla dogana. Che strano tipo di uomini, i doganieri, soprattutto quelli svizzeri e austriaci. Anni fa, al ritorno da Monaco di Baviera col Cannuccia, un doganiere austriaco ci fermò e mi costrinse a tornare indietro per segare un pezzo del paraurti anteriore della mia Golf.



 

 

 

il Cannuccia “balcanic style”
Perché? Avendo dato una botta qualche tempo prima e non avendo avuto la volontà di riparare quella che era ormai una vettura giunta alla fine di una lunga e gloriosa carriera, il sopracitato elemento di carrozzeria si trovava senza il suo rivestimento plastico e, a causa dell’urto, sporgeva di qualche centimetro. Questo fu sufficiente a far ravvisare, nella subdola mente del doganiere, un grave elemento di pericolosità per la circolazione, o, più semplicemente, per rompere le palle a due italiani in virtù di un pretesto idiota.
Quello che mi ritrovo davanti adesso, invece, è un ragazzone occhialuto dalla tipica fisionomia teutonica, nella sua divisa verde. E’ provvisto pure di un orecchino da pirata, tanto amato dalla gioventù hitl… ehm, volevo dire, alpina.
È incuriosito dai grandi sacchi neri che intravede distesi sui sedili posteriori, mi fa aprire lo sportello, ne verifica il contenuto – sono le gomme estive -, mi lascia passare dopo un ulteriore controllo del bagagliaio. Non una parola.

La strada si svolge lungo vallate mozzafiato, l’ingresso di un tunnel ferroviario mi fa pensare a quanto sarebbe bello viaggiare con il treno da queste parti. Se avessi tempo e denaro, due fattori fondamentali per il benessere dell’uomo moderno, mi girerei tutte le Alpi, alla ricerca di quei magici posti dimenticati dalla civiltà moderna (civiltà?), linfa vitale per lo spirito.
Cerco ancora le musichette alpine alla radio, ma non ce n’è nemmeno l’ombra.
 

 

Cerco di immaginarmi come scorre la vita da queste parti.
Pallosa e monotona tra stalle, fienili e focolari domestici, oppure, dentro a queste casette di pietra e legno ne combinano di tutti i colori, incuranti delle vicende delle genti delle pianure e della restante parte del mondo? Chissà…
Arrivo al confine con l’Austria. Qui i doganieri hanno le divise grigie. Quello che mi si avvicina è un ometto con la faccia poco simpatica e due baffetti da sparviero, rossi.
Anch’egli incuriosito dai grossi sacchi neri sui sedili mi chiede, in tedesco, indicandoli col dito, qualcosa. Gli apro lo sportello, apro uno dei sacchi, e ricomincia con delle domande incomprensibili. “I don’t speak German.” Dopo qualche secondo di silenzio durante il quale mi scruta con i suoi diabolici occhietti di ghiaccio, mi chiede di aprire il bagagliaio.
Dopo averci guardato e rovistato un po’ dentro, tanto per tentare di innervosirmi, mi fa cenno che posso andare. Gli faccio un sorriso che lo meraviglia e che non ricambia, e riparto. Ma vai a cacare, o inutile ometto.
Di cosa si occupano i doganieri svizzeri e austriaci nel tempo libero? Ma chi se ne frega…
 

 

l’Inn

Lungo la strada c’è un bellissimo corso d’acqua, l’Inn.
Mi fermo e faccio un paio di scatti a questa meraviglia che pare incontaminata.
Dopo poco mi immetto nella superstrada e seguo le indicazioni per Innsbruck, la capitale del Sudtirolo.
Passata Innsbruck, oramai in autostrada, proseguo per Monaco di Baviera, città che inevitabilmente mi fa pensare non all’Oktoberfest, ma alle avventure che ci ho vissuto.
Le disinibite veronesi col Gianola.
La musica e la birra dell’Hopfbrauhaus (spero di averlo scritto bene), col Cannuccia.
E l’omone solitario coi mastodontici baffi in costume bavarese che, seduto al tavolo col boccale da un litro, ogni tanto tirava fuori un piccolo specchio e, dopo una rapida occhiata, sorrideva con autocompiacimento. Gli scattai pure un paio di foto, chissà che fine hanno fatto.
Era da un’oretta che sentivo l’esigenza di mangiare, avrei voluto fermarmi in qualche ristorante caratteristico, prima ancora che iniziasse la superstrada, e ne ho passati tre – quattro veramente attraenti, ma chiusi.
Alla terza area di servizio mi fermo e dopo essermi seduto al tavolo di uno dei tre ristoranti semi deserti, guardando dall’ampia vetrata mi accorgo che questo posto non è una semplice area di servizio. Ci sono infatti, nello stesso fabbricato, un albergo, un centro commerciale, tra i cui negozi, al piano interrato al quale ero sceso per andare in bagno, c’è n’è uno bellissimo di salumi, il re dei quali è lo speck. E poi, fuori, un parco giochi, ed altre amenità.
Dopo una breve occhiata alle pietanze in bella mostra la scelta cade su una particolare arista di maiale dal bel colore rosa e dalla crosticina succulenta, patate al forno, il tutto condito con una deliziosa salsa rossa, e delle verdure. E una birra.
Gran bella mangiata e, via, si riparte.
Azz…ma dove ho messo gli occhiali da vista? Non riesco a trovarli da nessuna parte. Mi fermo, guardo in tutte le tasche, nei vari vani portaoggetti (nella Forester ce ne stanno due per ogni sportello, più due sulla plancia, più altri due centrali), nello zainetto, niente. Ma porca puttana, possibile che li ho persi? Dunque, facciamo mente locale… dove li ho potuti mettere …ricontrollo tutto: niente.
Mavaff….
Rifaccio il pieno, è il 4° o il 5°? O il 6°? Ho già perso il conto. Essendo abituato ad un diesel le pretese di carburante del mio neo acquisto mi lasciano un po’ perplesso. Sarà colpa del sensore…
Sentiamo se alla radio si sente qualcosa di tirolese…macchè, queste sonorità montane sembrano del tutto estinte.
La dogana tra Austria e Germania praticamente non esiste, non devi nemmeno rallentare con l’automobile.
Ma quegli occhiali, che mi piacevano pure parecchio, possibile che li ho persi davvero? Eppure stamattina ce li avevo.
Dopo la costante ed incombente minaccia di multe salatissime, d’ora in poi si può dare sfogo alla cavalleria, anche se sono più i tratti soggetti a limite di 130 e a volte di 100 che quelli “no limits”, qui, nelle famose autostrade tedesche.

autobahn
Le prime ombre della sera si avvicinano, il traffico è piuttosto intenso, la spia si accende, poi si spenge, poi si riaccende, maledetta. Che strada devo fare? A parte il fatto che la direzione, per adesso, è nord, non sono ancora certo sull’itinerario da seguire.

Certo però, che questi tedeschi sono molto più disciplinati rispetto al pilota italico.
Hanno una guida, come dire, imbalsamata.
Mai va a cacare, Roberto! gli occhiali li hai messi nel “pratico” vano portaocchiali, vicino al pulsante del tettino apribile, testina! Meno male, la guida notturna senza occhiali sarebbe stata una seccatura.
Quando passo accanto alla città di Ingolstadt, con le sue molte ciminiere,

Ingolstadt
non posso che pensare alle Audi – oltre che ad un film di Fassbinder [1] – , così come, se fossi passato per Stoccarda, avrei pensato a Porsche e Mercedes.
Chi dice di essere disinteressato alle belle macchine è, per un buon 90%, un bugiardo, il resto è fatto di persone appartenenti ad un livello spirituale che non ho ancora raggiunto.
Sosta in autogrill, davanti a me entrano due camionisti italiani che per il caffè pigiano un bottone del distributore automatico e poi pagano alla cassa, imitati dal sottoscritto.
Norimberga. Un nome un po’ inquietante. E’ un posto che vorrei visitare, come quasi tutti del resto, ma non posso prenderla troppo comoda, visto che il Valentini mi aspetta già da una settimana e che le risorse monetarie non mi consentono grandi divagazioni.
Un conto è viaggiare fermandosi nei motel in autostrada, un altro è andar per strade secondarie e godersi il paesaggio e le bellezze locali.
Questa parte di Germania è piuttosto collinosa, e l’autostrada si prolunga tra larghe curve e morbide pendenze.
Bayreuth, la città di Wagner. Architetture barocche testimoni di un passato fastoso, un teatro dell’opera di straordinaria bellezza.
Per il sottoscritto sarebbe una mèta interessante, Werner Herzog vi ha girato uno dei suoi film meno conosciuti, con il festival musicale per tema.
Ma tutto quello che vedo sono le luci dell’autostrada, oltre alla sagoma del bellissimo paesaggio bavarese ormai quasi del tutto avvolto dall’oscurità.
Per oggi potrebbe bastare così, sono circa le sette della sera e non sono più freschissimo.
Ma neppure stanco.
Mi fermo in un’area di servizio con motel annesso, il parcheggio è pulito, le luci soffuse, l’impressione è gradevole. Ma non c’è nessuno e una scritta mi informa che la reception è presso la cassa dell’autogrill. Il vecchio portiere d’albergo, anzi, di motel, qui non esiste più.
Risalgo in macchina e decido di proseguire il viaggio.
Il traffico è piuttosto sostenuto, ma lo stile di guida dei tedeschi è ineccepibile, lineare, preciso. I camionisti rispettano le regole e sorpassano solo dov’è consentito. L’autostrada è tutta a tre corsie, ed è GRATIS.
Però le aree di sosta sono molto meno frequenti (qualche difetto ci doveva pur essere).
Alla radio cerco qualcosa di bavarese, ma anche questa volta il mio desiderio di sonorità tipiche rimane inappagato.
Mi fermo all’area successiva, dopo un’oretta di viaggio, prendo la chiave della camera alla cassa dell’autogrill, salgo e mi accomodo.
Anche questo motel, come quello intravisto prima, non è male.
E’ Pulito, comodo, e provvisto pure di una certa dignità estetica. I due letti hanno una lunghezza e una “durezza” decorosa.
La doccia fatta dopo un lungo viaggio in macchina dà il doppio della soddisfazione di una normale.
Mi guardo un po’ di tv e rimango affascinato dalla giacca color fucsia del mezzobusto del tg locale, poi scendo per cenare al self service dell’autogrill.
Mi guardo intorno alla ricerca di una qualche forma di umanità interessante, ma le persone sedute ai tavoli sono poche e nessuno di loro suscita il mio interesse, a parte un gruppo di giovani tra cui una ragazza con i capelli fucsia, come la giacca del mezzobusto, e diversi piercing sul viso.
Quando la bellezza è sciupata un po’ dispiace, non tanto per il colore dei capelli, che, anzi, mi attrae, ma per le ferraglie varie che deturpano dei lineamenti particolarmente gradevoli.
Finito di cenare me ne risalgo in motel, accendo la tele, ma visto che non c’è niente di interessante e comprensibile, inizio a leggermi un libro.
Domani dovrò prendere una decisione fondamentale: imbarcarmi vicino a Lubecca, sulla costa nord della Germania, o proseguire per Danimarca e Svezia e solamente a questo punto prendere il traghetto per la Finlandia?

Giovedì 20 gennaio

Dopo una sontuosa dormita apro le tende e vedo un bel cielo color piombo dal quale scendono catinelle d’acqua.
Sarei stato molto più felice di veder cadere la neve, ma la temperatura è di pochi gradi sopra lo zero.
Poca strada mi separa da Berlino, dalla quale, poi, proseguire per la costa. L’idea di passare per Danimarca e Svezia è allettante, ma deciderò di imbarcarmi qui in Germania, per motivi di praticità di cui poi mi sono pentito, in quanto avrei preferito le strade di questi paesi nordici a 36 ore di cargo.
Parto sotto la pioggia e durante il tragitto rimango colpito dall’impressionante numero di quella che è la versione moderna dei mulini a vento, eliche gigantesche montate su alti sostegni che catturano la forza di venti che da queste parti battono in continuazione.

Musica turca! Ecco quello che mi incuriosisce tra le sonorità che colgo nell’etere.

La superstrada dall’aeroporto, innevata di recente, costeggiava una specie di laguna. Eravamo atterrati da poco, era con tutta probabilità mattina. C’era una bella luce ed era una giornata di sole.
Non ricordo chi ci fosse alla guida, ma la velocità era esagerata e ogni curva era motivo di grande strizza. Si scorgeva in lontananza la sagoma di una, tipica metropoli nordamericana. Un enorme e solitario grattacielo in mattoni color sabbia ci si faceva sempre più vicino, sulla sinistra. Molte delle finestre erano rotte, sembrava del tutto abbandonato ed emanava una sorta di magnetismo ancestrale. Arriviamo in città, ed entriamo nella hall di un grande e moderno albergo, dove tutto è rivestito di marmo. Siamo comodamente seduti sulle poltrone di cuoio nero ad un tavolo del bar, con i nostri occhiali da sole, aspettando la signora che ci farà da guida, tra lussuose vetrine di boutiques dai nomi esotici.

Il sogno di stanotte mi è piaciuto e ne ricordo il seguito: la sera capitai in un negozio di abbigliamento fuori dal centro di questa imprecisata città, vicino ad un ponte di ferro nero dall’ aspetto antico.
Era un negozio particolare, curato da qualcuno che sapeva il fatto suo e vi regnava un disordine voluto. Uno di quei posti nascosti dove trovi le cose piu’ belle.
C’erano dei bellissimi giubbotti in pelle e la commessa di colore dalla chioma anni 70 fu particolarmente gentile.
Come in tutti i miei sogni il susseguirsi dell’azione non ebbe una trama logica.

La pioggia cade a tratti di 5 – 10 minuti per poi smettere e ricominciare, ma quello che dà più fastidio è il vento.
Passata Berlino mi fermo per mangiare e fare l’ennesimo pieno. Wurstel, patatine e birra, alla faccia della fantasia. Dall’enorme vetrata vedo un’A6 con un rimorchio per cavalli. Le pareti del corridoio che portano ai bagni sono dipinte in modo molto semplice ma gradevole, con nordici paesaggi marini. Ci sono quasi arrivato alla costa di questo freddo mare. Mi squilla il telefono, assicuro il babbo che il viaggio prosegue liscio. Scrivo e ricevo qualche sms.
Vedo arrivare nel piazzale un’A8 e un’A6 nere, nuove di pacca, dalle quali scendono un ragazzo con una signora ed un altro giovane, probabilmente membri della stessa famiglia.
Scoprirò qualche minuto dopo, sentendoli parlare, che si tratta di russi.
Esco sul piazzale e mi incammino verso la macchina, e vedo, dall’altra parte della strada, una bionda che cammina nella stessa mia direzione. Mamma mia, una bionda mica da poco. Si gira, mi guarda e mi sorride. Una bionda notevole. Non smette di guardarmi e continua a sorridermi, sono quasi imbarazzato. Sale su di un’automobilina con targa polacca, con a bordo il resto della famigliola. Acc…
Salgo anch’io e parto. Mi accorgo che nel piazzale dell’area di fronte ci sono delle motrici con a rimorchio le pale degli enormi mulini eolici. Mantidi giganti!

pale
Il paesaggio è cambiato, non ci sono più colline, i campi dai contorni geometrici sono spesso divisi da canali e file di alberi piantati in precisa successione. Si vedono, ogni tanto, delle grandi case con gli annessi per gli strumenti agricoli. E’ bellissimo, nonostante l’omogeneità della luce filtrata dal cielo plumbeo che conferisce un tocco di malinconico grigiore a tutto.
Questo ultimo tratto di autostrada è a due corsie, e tolgo la musica turca per sentirmi qualcosa di più occidentale.
Non vedo l’ora di poter vedere quelle coste nordiche a cui ho spesso rivolto il pensiero in passato.
La mia destinazione è Travemunde, porto da cui, come segnato sull’atlante stradale, parte il traghetto per Helsinki.

 
Ho ormai calcolato che la mia amica spia rossa rimane accesa per un buon 70% del cammino.
In un ultimo tratto di strada statale, prima di immettermi di nuovo nel raccordo, scorgo un piazzale di sosta accanto ad un laghetto da favola, ma non freno in tempo. Peccato, avrebbe meritato uno scatto. Qui, come nella maggiorparte dei paesi nordici, le strade statali hanno una corsia per i ciclisti. Complimenti.

 
 
Sono le quattro circa e percorro l’ultimo tratto di strada prima di arrivare al mare. Seguendo le indicazioni per Travemunde, percorro ancora dei chilometri di raccordo, ma del mare nessuna traccia. Guido attraverso periferie portuali, molte costruzioni sono in mattoni rosso porpora, per assorbire i deboli e presumo rari raggi di sole, e denotano una certa età.
Vedo cartelli con le indicazioni dei traghetti, ma niente mare.
“Helsinki”, ecco la mia uscita. Traghetti attraccati sulla banchina di un piccolo porto mercantile in un golfo strettissimo. Rimango deluso dal constatare che si vede solamente una specie di canale, niente di neppure somigliante alle vagheggiate coste dei mari del nord. Mi accodo ad una fila di neanche dieci automobili e scendo per chiedere informazioni agli ultimi, una coppia di tedeschi un po’ in là con gli anni.
C’è un vento misto a pioggia che porta via, e dopo aver avuto la conferma che si tratta dell’imbarco per Helsinki, chiudo la macchina e mi dirigo verso un grosso edificio con le biglietterie. Passo a fianco di piccoli supermarket marinari, il vento è veramente forte.
Forse, se il traghetto parte tra qualche ora, potrei fare un giretto per vedere se riesco a fare delle foto a questi lidi germanici.
Arrivato alla biglietteria completamente deserta, chiedo al giovane impiegato un biglietto per Helsinki.
– One person, one car, to Helsinki.
– Threehundred and fifty euros.
– Minchia….
Have you got some alternatives?
– Wait two hours, and we can put you up with the last passengers in the last cabin.
– Uhmm…
– Last passengers? But the cabins are not individual?
– Not sir. They are for four persons.
– All of them?
– Yes sir.
– So if I buy the ticket now or later what is the difference?
– You pay 320 euros instead of 350.
– Uhmmmmmmmm…
Excuse me, but I don’t see a big advantage.
Something else?
– We have a cargo to Turku, that’s 150 kilometers before Helsinki. For 270 euros.
– Is there a cabin with the bathroom and a shower?
– Yes, of course.
– I have to share it with other persons?
– No sir.
But there are no passengers, except for the crew.
– E chi se ne strafrega.
That’s wonderful. I’ll take it.
– Ok, wait a minute sir, our staff will show you the way to the ship.
Hai capito il minchione? O non c’ho capito niente, o le cabine sul traghetto non erano individuali, ma per quattro persone, e non credo che mi sarei ritrovato tre belle figliuole pronte a festeggiare come compagne di viaggio. E un posto costava 350 euri, con uno sconto di 30 se avessi aspettato la fine dell’imbarco. Che affare! Mentre sul cargo, che arrivava sì a Turku, 150 km prima di Helsinki (e che sono per me 150 km in più o in meno?), ma provvisto di cabina individuale, il biglietto costava 270. “Ma non ci sono altri passeggeri, tranne l’equipaggio”: ma pensa te che dispiacere. Non riuscivo a capire se in quel giovane bigliettaio vi fosse la premeditata volontà di tirarmi una fregatura o semplicemente se la sua mentalità fosse ben lontana dalla mia.
Certo, 36 ore sono un po’ lunghe, ma c’ho i miei tre libri ed il pc con un paio dei miei film da guardare.
Un signore sbucato dall’ufficio con una tuta da tecnico mi fa cenno, con fare cortese, di seguirlo.
Saliamo su di un pulmino, accende il lampeggiante arancione e si parte.
– Bad weather today.
– Yes, not very nice, gli replico.
Mi accompagna alla macchina. Gli occupanti delle auto in fila mi guardano partire seguendo il pulmino lampeggiante perplessi, pensando forse che goda di un qualche privilegio. Non faccio file e c’ho pure la scorta!
Dopo qualche centinaio di metri attraverso rotaie ed aree di carico giungiamo all’imbarco del cargo. L’uomo del pulmino mi fa cenno di accodarmi all’unica auto in fila e mi saluta.
 
Scendo, nonostante la pioggerellina malefica ed il vento per vedere se si scorge un po’ di mare, ma le mie aspettative rimangono deluse, tutto quello che si vede è uno scorcio dello stretto canale da cui fra poco partiremo.
Addio romantiche e decadenti coste tedesche, di voi serberò un’indelebile ricordo.
Almeno con l’orario sono stato fortunato, dopo dieci minuti ci fanno salire a bordo.
Quindi non era vero che non c’erano altri passeggeri, ce l’ho un compagno di viaggio.
Fosse stato una donna, magari discreta, sarebbe stato il massimo. Ma con quale frequenza si incontrano belle signore che utilizzano come mezzo di trasporto tra la Germania e la Finlandia un cargo mercantile?
Ed infatti il mio compagno di viaggio è un omone alto e biondo in una monovolume con targa tedesca.

Saliti a bordo mi accompagnano fino alla mia cabina. A fianco c’è quella del tedesco.
Bella! Non mi aspettavo un ambiente così grande e accogliente. Addirittura due letti, un bagno con doccia, un comodo divano a “L” ed un tavolo. E le pareti in laminato color mogano.
Ci si potrebbe organizzare una festicciola! Alla faccia del bigliettaio.
 

 

 
Leggo sulla porta che la cena è da effettuarsi tra le sei e le sette, mentre il pranzo dalle 11 a mezzogiorno. La colazione dalle 7 alle 8.
Bene, visto che c’ho già una fame della madonna. Dopo un’oretta salpiamo e dall’oblò vedo le luci del porticciolo turistico, che purtroppo non ho potuto visitare.

Leggo sulla porta che la cena è da effettuarsi tra le sei e le sette, mentre il pranzo dalle 11 a mezzogiorno. La colazione dalle 7 alle 8.
Bene, visto che c’ho già una fame della madonna. Dopo un’oretta salpiamo e dall’oblò vedo le luci del porticciolo turistico, che purtroppo non ho potuto visitare.

Scendo nella saletta passeggeri, mi aspettavo di cenare con il resto della “ciurma”, ma solo uno dei tavoli è apparecchiato, per due.
“Buonasera signore!” Il membro dell’equipaggio che si occupa di me è un uomo sulla quarantacinquina, finlandese come tutti gli altri, dalla faccia simpatica ed è molto gentile. Mi restituisce il passaporto e mi accenna della sua stima per la nostra penisola.
Il suo strano nome me lo sono ricordato per non più di 5 secondi.
Mi porta una zuppa di cipolle, poi una porzione gigantesca di fette di carne bollita con salse finlandesi, verdure lesse e birra. Mi divoro tutto e rifiuto il dolce che non mi c’entra. Intanto è arrivato quello che scopro essere un finlandese e non un tedesco. Dopo brevi convenevoli mi spiega che è venuto a comprarsi la macchina in Germania perché costa la metà che dalle sue parti. Gli chiedo della Finlandia, dicendogli che me la immagino un posto bellissimo dove ancora esistono zone incontaminate – che fantasia – e ottengo la sua conferma. Non essendo un tipo molto loquace, come me del resto, il dialogo non prosegue molto oltre.
Se avessi premeditato di scrivere queste righe avrei immortalato le facce di coloro che ho incontrato, mi sarebbe piaciuto rivederle.
E anche se non l’avessi scritto sarebbe stato meglio fotografarle lo stesso.
Risalgo in cabina, dopo essere stato informato che alle 8 avrei potuto comprare alcolici e sigarette al duty free (una porta aperta su una piccola cabina- magazzino).
La mia cabina è proprio figa. Controllo l’eventuale presenza di corpi estranei sulle lenzuola, il letto è abbastanza comodo e c’entro per un pelo. Comincio a disseminare le mie cose un po’ dappertutto e guardando dall’oblò non vedo più nulla, ad eccezione delle bianche increspature dell’acqua sottostanti ed alcune luci rosse ad una distanza di circa un chilometro. Il pronunciato movimento ondulatorio della nave mi fa sentire come in una enorme culla e mi dò alla lettura.
Scendo per rifornirmi di un paio di birre.
Trovo la posizione ideale: sdraiato nell’angolo del divano, gambe sul tavolino, m’incastro alla perfezione e continuo una lettura da poco iniziata sull’attuale presidenza degli Stati Uniti d’America.
Povero George W., tutti a rompergli le scatole, tutti i giorni figure di merda. Fosse stato per lui avrebbe continuato a sedersi sulla sua comoda poltrona di governatore del Texas, oh yeah, un posto tranquillo, lontano da clamori, vicino al suo ranch, dedito ai suoi festini.
E invece è stato prescelto come parafulmine di turno, l’uomo su cui si può puntare il dito. Prendere ordini dagli intermediari dei veri potenti su questioni di cui capisci poco e niente. Dover ripetere tutte le volte la solita cantilena monotematica, che devi liberare questo mondo dai cattivi e renderlo migliore, più democratico e sicuro. E qualcuno, con malcelata ironia, ci ripete che è l’uomo più potente della terra.
Uno sfigato d’oro, direi, dotato di un certo coraggio, per di più.
Mi capitò qualche tempo fa di vedere un’intervista in lingua originale che dovette rilasciare, insieme alla moglie, ad un famoso giornalista dalle evidenti origini ebraiche che la sapeva molto lunga. Ebbene, vedere il presidente della nazione più potente del mondo, trattato come un bimbetto dalle scarse capacità intellettive da un ometto anziano che si permetteva di interromperlo senza tanti complimenti – anche perché ripeteva sempre le stesse tre frasi – e prenderlo, nemmeno tanto velatamente, per il culo, con l’evidente imbarazzo della gentil consorte sedutagli accanto, fu uno spettacolo incredibile.
Più o meno lo stesso atteggiamento dei nostri giornalisti – almeno di quelli che fanno lavorare – nei confronti dei nostri potenti di turno. E vabbè.
Di nuovo quelle luci rosse in lontananza che avevo visto prima…azz…, ma è un’altra nave che fa lo stesso nostro tragitto!
La visione di questo gelido mare avvolto da un’oscurità quasi totale fa una certa impressione.
Si intravedono solamente le increspature delle onde più vicine, e che onde!
Mi sono premunito per una bella dose di cinema “peso”: nel portatile c’ho “Woyzek”, “la Ballata di Stroszek”, “Lola”, “Il Dio della Peste” e “il Ritorno di Cagliostro”. Mi rendo conto che questi titoli diranno ben poco al 99% di voi e ve ne sconsiglio la visione, a meno che non siate amanti del bizzarro.
I primi mai visti, l’ultimo qualche tempo fa al cinema, ma me lo riguardo volentieri.
Si parte con Woyzek, interpretato da un grandissimo ed insolitamente umile Klaus Kinski.
La storia è quella eternamente raccontata da chi si occupa di cinema o letteratura: lui, lei e l’altro.
Ho letto da qualche parte che questo lungometraggio fu girato non appena finito il ben più famoso “Nosferatu”, nelle stesse location, con un Kinski piuttosto provato dall’esperienza.
Chiudendo la parentesi cinematografica, guardo fuori ed… eccola là, le luci rosse della nave che compie lo stesso nostro tragitto sono sempre lì, a distanza di sicurezza, ma più vicine.
Sono le undici, ho finito due birre. A questo punto o mi do alla lettura, o invento qualche cosa che mi consenta di collegare la presa elettrica “a tre” pispoli del mio portatile con quelle “a due” dei paesi nordeuropei e di questa nave, visto che la batteria si è scaricata. Dopo un po’ di rimuginamenti, scatta il colpo di genio: ossia prendere il cavetto di alimentazione “a due” del caricabatteria della macchina fotografica e, con un corpo metallico del diametro di 1-2 mm, arroventato, praticare un’incisione al centro dalla parte della presa femmina del cavetto in modo da farla entrare nella presa maschio dell’ alimentatore del pc. Una stampella di alluminio trovata nell’armadio fa al caso mio.
Contento per il successo dell’operazione, proseguo la serata cinematografica.
Dopo la storia tragica di Herzog propendo per i toni decisamente più allegri, ma ancora più allucinati del film di Ciprì e Maresco.
Le lente oscillazioni della nave aumentano, fuori le condizioni del tempo non sono tra le migliori.
Dopo la gustosa visione del secondo film, tra una birra e una sigaretta, propendo per il letto.
Mi ci vorrà un’oretta per abituarmi al movimento ondulatorio che, da sdraiati, si fa sentire ancora di più, tanto che non riesco a stare nella mia posizione preferita – di fianco – in quanto mi sbilancio o da una parte o dall’altra. Spero di non sognare catastrofi tipo Titanic o roba del genere.
Buonanotte ai naviganti.

Venerdì 21 gennaio

8,00. Se ho sognato non me lo ricordo, e comunque, anche se è stata dura addormentarsi per via del mare mosso, ho fatto una bella dormita.
Per fortuna la nave balla meno rispetto a ieri sera.

Scendo per la colazione, anche questa molto abbondante, come la cena di ieri, e ritrovo il mio sorridente finlandese dell’equipaggio a darmi il buon giorno. Davanti al mio, il piatto dell’altro passeggero, ancora inviolato. Dopo mangiato mi siedo in una delle poltrone della sala e mi sfoglio una specie di novella 2000 finlandese, ma senza topless.
Finlandia… boschi, laghi, fiumi, case di legno…non ci si dovrebbe affatto star male… ragazze belle e gentili…posto tranquillo, gente calma … un po’ freschino …forse alla lunga un po’ noioso…ma sicuramente meglio di tanti altri posti, almeno per i miei gusti.
Solo che il finlandese non dev’essere facilissimo da imparare.
Mi sovviene molto vagamente un film che guardai qualche tempo fa, trovato in un videonoleggio.
Lo presi al volo, anche perché trovare un film finlandese al videonoleggio non è facile.
La storia di un uomo che, perdendo la memoria in seguito ad un incidente, si trova a passare attraverso una serie di disavventure. Quello che mi colpì e che mi piacque, al di là della storia, fu quel tocco “scandinavo”, quel modo di esprimere una vicenda umana molto pacato, sottile e con un tocco di ironia.
Il secondo passeggero non si vede, e io salgo in cabina.
Mi aspetta una giornata intera da passare qua dentro, ma non mi dispiace più di tanto, visto che la mia cabina è bellissima, c’ho lo studiolo e più tardi posso anche fare una doccia.

Dopo il cinema di ieri sera scelgo di darmi alla lettura: il libro dice che rispetto a qualche anno fa siamo messi molto peggio, anche sul fronte della libertà d’espressione.
E’ oramai ora di pranzo e decido di scendere dal mio amico cameriere.
Toh, chi si vede, il 2° passeggero fa capolino dalla sua cabina, lo vedo messo un po’ maluccio ed infatti mi comunica a gesti la sua sofferenza. Scendiamo insieme e ci mettiamo a tavola. Io mi mangio la solita zuppa di cipolle, tutt’e due le cotolette con il contorno, ma il finlandese non ha appetito e, dopo la zuppa, si congeda dicendo che se ne va a dormire.
Mi sa che la sua nottata non è stata tra le più piacevoli.
Passo il pomeriggio realizzando un set al pc, grazie ad un programma per mixare gli mp3.
Dopo un po’ di pratica la mia capacità mixatoria è migliorata notevolmente, battezzo la nuova creatura “Baltic sea”. Poi mi ridò alla lettura.
Ogni tanto, guardando attraverso l’oblò, percepisco la fredda grandiosità di questo mare nordico. Chissà quali spaventose creature abitano questi gelidi fondali? Il maiale marino? Lo schifosissimo mostro dei fondali ghiacciati?

maiale marino vs mostro dei fondali
Arriva l’ora di cena e, dopo aver fatto una doccia, scendo per mangiare in solitudine, dell’altro passeggero nessuna traccia. Faccio due chiacchiere col mio amico marinaio-cameriere. Dice che è da trent’anni che solca i mari e che una volta si è ritrovo’ nel non invidiabile ruolo di naufrago. Interessante, soprattutto considerando il fatto che, come ho potuto vedere sulla carta, nelle ore notturne il nostro cargo navigherà in mezzo ad una gran moltitudine di isolette, poco più che scogli, disseminate nel golfo dove è situato il nostro porto di destinazione.

D’accordo, oggi giorno ci sono i sonar, gli ecoscandagli ecc., ma uno, per esorcizzare la disgrazia, un pensiero ce lo fa.
L’arrivo a Turku è previsto per le 4 del mattino, mi dicono che qualcuno passerà a svegliarmi.
Sono veramente curioso di vedermi un pezzetto di Scandinavia.
Ha inizio la mia seconda serata dedicata al grande cinema e questo è il posto ed il momento ideale per guardarsi certi film.
Mi addormento piuttosto tardi, verso l’una.

Sabato 22 gennaio
 
 
La mia sveglia biologica scatta alle 4,15, e dall’oblò intravedo un fitto bosco innevato, la nave è ferma, sulla riva c’è una casetta di legno.

Mi preparo a scendere, ma dovrò aspettare ancora una mezz’oretta. Nel frattempo mi faccio una colazione scandinava.
Dopo aver salutato l’equipaggio e il mio amico cameriere – naufrago, ripercorro il lungo corridoio e ridiscendo i tre ordini di ripide e ferrose scale per raggiungere la co-protagonista del racconto.
Lasciata la nave, dopo qualche centinaio di metri attraverso il porto, arrivo al posto di dogana, ed il giovane addetto ha un fare molto più cortese dei suoi colleghi austriaci e russi.
Le strade sono innevate quel tanto che basta per divertirsi. Ogni tanto si vedono modernissimi spazzaneve all’opera. Seguo le indicazioni per Helsinki attraversando un tratto della periferia di questa città. Periferia affatto sgradevole, costeggio delle case di legno con verande e giardini inserite nel contesto urbano con molta eleganza, sembrano veramente accoglienti.
Sono per la prima volta in Scandinavia, e cercherò di tornarci, magari quest’estate.
Alla radio ascolto questa strana lingua. Il finlandese suona in modo bizzarro, poco musicale, le erre sono molto pronunciate e molte parole finiscono con suffissi piuttosto comici per il nostro orecchio.
 
 

 

 
Sto lasciando Turku in direzione Helsinki, circa 150 km di strada. La guida è piacevole, l’autostrada perfetta e deserta, cade una leggera neve. Peccato che, essendo ancora buio, si vede ben poco del paesaggio.
Comincio ad aver fame e medito sul fermarmi in qualcuno dei grandi autogrill che ogni tanto intravedo.
Si sta facendo giorno. La strada, diventata statale, attraversa paesetti di campagna e boschi. Dalle finestre di alcune casette isolate si vedono le luci accese.
I finlandesi hanno una guida piuttosto sportiva, vengo sorpassato un paio di volte da dei piloti locali, hanno una predisposizione naturale per il rally. Mi fermo per rifornirmi di benzina ed entro nel negozietto dell’area di sosta, dove non c’è niente di particolarmente “finlandese” che mi colpisce.

Ricomincia l’autostrada (che anche in Finlandia è gratuita) e sono ormai in prossimità di Helsinki, che come al solito non potrò visitare.
Mi fermo per mangiare in un grill alla periferia della capitale finlandese, dopo aver gironzolato invano in cerca di un cartello che indicasse S.Pietroburgo. Chiedo informazioni alla giovane cameriera, ma sarà piuttosto difficile trovare la strada, vista la totale assenza di indicazioni per la città degli zar ed al fatto che di quello che mi ha detto la cameriera non mi ricordo niente. Almeno avessero scritto “Russia”.
Retaggio dei burrascosi trascorsi tra le due nazioni.
La periferia di Helsinki è del tutto simile ad una…periferia. Casermoni bianchi, una grandissima quantità di rotonde, niente che valga la pena di essere visto, a differenza del centro, che comunque per questa volta non vedrò. Alla fine, dopo aver percorso un raccordo stradale, sembra che abbia imboccato la direzione giusta.
 

 

A volte costeggio delle lagune ed il ghiaccio ha uno strano colore avana – beige. Costanti, sul bordo strada, cartelli di pericolo attraversamento alci.
Entro in un parcheggio e, essendo il piazzale innevato, deserto e bello grosso, la tentazione e’ troppo grande: ad una velocita` esagerata tiro il freno a mano ma non riesco a fermarmi prima dell’impatto con un’ alta parete di neve.
Vai! Alla fine la cazzata la dovevi proprio fare! Scendo con il preoccupante pensiero di aver guastato qualcosa di serio, ma, con grande sollievo, sembra che sia tutto ok.
Ed in effetti, dopo essere ripartito, la macchina va ancora bella dritta.
 
Mi chiama Sacha, uno dei miei cugini russi, per confermare l’appuntamento a Vyborg, in Russia, poco oltre il confine, verso le tre del pomeriggio.
A meno di non avere problemi alla dogana, dovrei arrivare in tempo.
 

Sacha

L’autostrada finisce, sono quasi in Russia. Chissà se le condizioni delle strade sono come qualche anno fa, ossia un disastro, oppure le cose sono nel frattempo migliorate? Sono inoltre curioso di vedermi Pietroburgo, di cui ho un lontanissimo e sbiadito ricordo.
Inizio ad incrociare auto con targhe russe, e già si capisce che la cosiddetta classe media in questo paese non è ancora preponderante: sono o vecchie zhigulì – la 124 russa tutt’ora costruita a Togliattigrad su licenza FIAT – e simili, sgangherate e stracariche, o gipponi e macchine di gran lusso nuove di pacca.
Ad un certo punto inizia una fila di TIR che si protrarrà per qualche chilometro, una roba impressionante. Non mi rendo conto di quanto tempo debbano aspettare questi camionisti per passare la frontiera.
La dogana finlandese non implica troppe scocciature e passo dopo un breve controllo del passaporto. Poi percorro qualche chilometro prima di arrivare alla dogana russa, attraversando una striscia di terra neutrale.
Fortunatamente la fila delle auto è irrisoria. Tra queste c’è una vecchia Volga, un modello degli anni ’60, in perfetto stato, con vernice metallizzata e i sedili leopardati. A bordo un ometto baffuto con cappello e una signora corpulenta dall’abbigliamento psichedelico. Una delle foto che mi sono rammaricato di non aver fatto.
 

Volga anni ’60

Mi accorgo che la fila delle auto non è una, ma due: una per i russi e l’altra per gli stranieri. Io che ho entrambi i passaporti quale devo fare? Chiedo ad un militare che gestisce le code. Una volta spiegatagli la mia situazione il dubbio assale anche lui. Si rivolge ad un superiore, e dopo una consultazione con altri colleghi mi dicono di accodarmi con gli stranieri, avendo la mia macchina targhe italiane, presumo.
Tra controlli vari, la stipula dell’assicurazione (in Russia la nostra non è valida), ed altre piacevoli formalità, perdo circa un’ora di tempo.

 

dogana russa

Riparto, sono circa le due. Dovrei arrivare a Vyborg fra un’oretta, in perfetto orario.
Dopo aver percorso le strade ben asfaltate della Finlandia, mi ritrovo su quelle più familiari ma ben più dissestate della mia madrepatria. E comunque, questo primo tratto non è poi così male, non ci sono quelle voragini improvvise che si trovano altrove, e soprattutto non ci sono ancora tutti quei gran camion guidati da gente ubriaca che scorrazzano per tutta la Russia (evidentemente sono ancora tutti alle prese con la dogana).
Ad un certo punto, in mezzo alla strada deserta, una volpe mi guarda sopravvenire.
Rallento, cerco la macchina fotografica sul sedile. La volpe è lì a pochi metri, davanti a me, mi guarda e non si muove. E’ bellissima, insolitamente grande rispetto a quelle nostrali. Trovo la macchina fotografica, l’accendo, passano un paio di secondi ma la stronzina, con un balzo, è già quasi dentro al bosco e quello che rimane impresso nella macchina fotografica non è niente più che una macchiolina arancione.
 
 
 
Secondo il mio cuginetto si potrebbe tirare dritti fino a Mosca così, oggi stesso, senza battere ciglio, sciropparci quindi 1000 km di strada – e che strada – di cui buona parte di notte, come se niente fosse. E non vederci Pietroburgo. Alchè gli dò del pazzo furioso e si chiude l’argomento.
A tratti relativamente decenti si alternano altri veramente disastrati, la mia macchinina soffre, essendo abituata a Milano e dintorni. E poi s’inizia coi camionisti che vanno a delle velocità folli.
Arriviamo in città che è già buio, attraverso lunghissimi viali periferici proseguiamo per il centro.
Ed inizia lo spettacolo: S.Pietroburgo è il perfetto esempio dello spirito di quei russi che, avendoci qualche soldino da spendere, danno libero sfogo alle proprie manie di grandezza. Solo che a quei tempi, a differenza di oggi, avevano un po’ più di buongusto, anche se a volte esageravano.
Il nostro carissimo Pietro I, un tipo veramente particolare e per certi versi bizzarro, fece costruire questa città ad uso e consumo suo e della nobiltà russa, là dove prima vi era il nulla, anzi, delle paludi ghiacciate.
E devo dire che l’operazione, a lui prima e a Caterina II dopo, è riuscita piuttosto bene.

T’amo creatura di Pietro
amo il tuo grande e armonioso aspetto
il regale corso della Neva
delle sue rive il granito
delle tue cinte il rabesco di ghisa
delle tue notti malinconiche il diafano crepuscolo e lo splendore illune

Pushkin, con queste poche righe, aiuta a calarci nell’atmosfera. Già, perché oltre alla grandiosa monumentalità neoclassica, opera perlopiù di italiche maestranze, quello che mi ha colpito di questo posto è per l’appunto l’atmosfera.
Pur essendo sabato sera non c’è quel gran casino che si trova in qualsiasi altra grande città, Mosca per esempio, dove il caos imperversa sovrano. Non è che non ci sia nessuno in giro, anzi, ma la sensazione è che nessuno abbia quella smania di andare chissà dove, il traffico è tranquillo, il tempo è come sospeso.
E lo straordinario ed unico impianto urbano di Pietroburgo fatto di grandi ponti e lunghi canali, dell’imponente Neva, di marmorei palazzi, cupole dorate e isole fortificate, di antichi galeoni e storiche corazzate alla proda, mi ha fatto sentire calato in un posto magico, fuori dal tempo, dove regna una sorta di tranquillità incurante di tutto il resto del mondo.

 
 

 

 
Dopo un breve giro di perlustrazione andiamo in albergo, il Pribaltiskaja, dove Sacha era già stato con la moglie. E’ vicino al centro, lo stile è sovietico, ma di lusso. E devo dire che questi ambienti, o almeno alcuni di essi, non mi dispiacciono affatto, nonostante la completa – o quasi – assenza di buongusto.

Hotel Pribaltiskaja

 

Vi ritrovo sensazioni, odori ed immagini annidate nello strato più ancestrale del mio cervello.
Dopo una doccia usciamo a mangiare e il primo posto che troviamo vicino all’albergo è un ristorante cinese, dove abbiamo mangiato piuttosto bene ed iniziato qualche approccio con le giovinette locali. A dire la verità la mia attenzione cade su una mamma stile sexy-segretaria con occhiali, che però non mi caga di striscio.
Dopo il ristorante quella fava di mio cugino vorrebbe andare subito in albergo, ma non se ne parla nemmeno e iniziamo un tour per il centro. Tutto quello che vedo è bellissimo, e la neve che scende contribuisce a dare un tocco fiabesco. La mancanza di traffico è in certi punti quasi totale.
Nonostante il fatto che non ho praticamente dormito, mi vorrei girare qualche localetto, ma Sacha oppone una certa resistenza che non capisco. Condizionamento mentale da partner autoritario? Mah…eppure qualche anno fa era una trivella…
Non insisto più di tanto, visto che il poveraccio si è fatto 1000 km di treno per venire a farsi questo tratto di viaggio con me, e che anch’io sono un po’ a pezzi, ma vado verso l’hotel con lo stato d’animo di chi perde un’ottima occasione.
Quasi quasi lo accompagno in albergo e poi riesco…
Ma una volta in camera non resisto alla tentazione di sdraiarmi un attimo, quell’ attimo che so già mi sarà fatale.
Comunque tornerò tra qualche mese, visto che per rinnovare il permesso di transito di un veicolo con targa straniera bisogna uscire e rientrare dal confine. Si, penso proprio che le mie vacanze estive le passerò qui ed in Finlandia, tra i piaceri della vita di questa aristocratica città dalle bianche notti e quelli dei boschi e dei laghi scandinavi.

Domenica 23 gennaio

Sveglia ore 8, scendiamo nella sala colazioni, che è enorme, come del resto la varietà e l’abbondanza delle pietanze. Ci serviamo più volte, a dismisura, sotto gli sguardi divertiti delle hostess in divisa. Abbiamo vicino dei businessman cinesi le cui facce e i cui modi suscitano subito la mia antipatia.
Presi i bagagli e pagato il conto, si parte per Mosca.
Ed inizia il primo vero test della Subaru in condizioni limite. Inizia a nevicare di brutto, e sorpassiamo con facilità le poche auto e tir che troviamo per la strada. E’ fantastico, nonostante qualche sbandamento che ogni tanto mi preoccupa, e decido di mantenere una velocità non troppo sostenuta, in quanto non mi fido troppo della neve fresca, e le mie gomme sono sì invernali, ma senza chiodi. Ma non ho rivali lo stesso.

dopo una trentina di km smette di nevicare e aumenta il traffico. Mi sembrava troppo bello per durare a lungo, ed infatti il numero di camion che troviamo comincia ad essere elevato. Alcuni tratti di strada sono a quattro corsie (pochi), altri a due, altri ancora a tre, dove la corsia centrale è ad uso sorpasso in modo alternato. La pericolosità, rispetto alle strade finlandesi è centuplicata.

All’arrivo perderò il conto dei tir usciti di strada, e di alcuni penso che gli autisti non l’hanno raccontata. Altra insidia notevole sono le buche, che a volte raggiungono dimensioni notevoli, oltre agli spericolati autisti delle auto, soprattutto quelle di fabbricazione russa, che viaggiano veloci ed impavidi.

E poi ci sono le maledette pattuglie della polizia con i maledetti radar che, nei centri abitati (e da queste parti bastano 4 case per assurgere allo status di “centro abitato”), dove c’è il limite di 50 km/h, ti fermano e ti spillano quei 10 euro che incentivano l’economia locale, quella della polizia. L’unica nota positiva si è rivelato un tizio con un Pajero che viaggiava a velocità folli del quale “sfruttiamo la scia” per un 150 km, in quanto ad ogni suo sorpasso già sapevamo, con grandissima soddisfazione, che dopo poco l’avremmo trovato fermo al successivo posto di blocco, a beccarsi la multa al posto nostro.
Ci fermiamo a mangiare in uno dei “cafè” a bordo strada. Un posto da paura, nel senso letterale. E’ un casotto con una sala pranzo, un bar e una cucina. Le facce dei clienti seduti ai tavoli di plastica dalle fogge multiformi sono veramente brutte, quella della cameriera pure. Le pareti senza intonaco sono coperte da dei teli di stoffa dai colori più incredibili. Avrei voglia di andare altrove ma c’ho troppa fame e poco tempo, vorrei arrivare prima che faccia buio. Mangiamo coll’imbuto un “shashlik”, ossia uno spiedino – anzi spiedone – russo, affacciandoci ogni tanto alla finestra per vedere se qualcuno volesse proseguire con la Subaru al posto nostro, e poco dopo si riparte.
Ci fermiamo ad una coda piuttosto lunga, scopriamo poco dopo che è causata da un’Audi che si è stampata su di un vecchio autobus.
 
Mi incuriosisce il fatto che la metà delle trattrici dei tir di fabbricazione estera è statunitense, evidentemente si comprano a dei buoni prezzi. Il modello più in voga è l’”International”, col muso piatto e cabina letto dietro al posto guida, disponibile rigorosamente in due colori: avana o arancio. E poi, più rari, quelli tipicamente USA con il muso lungo, veramente belli. E poi qualcuno di fabbricazione europea, oltre alla maggiorparte, che sono “Kamaz” russi, i quali emettono un fumo nero e nauseabond, autentici tributi all’ecologia. Mi stanno veramente sulle palle, visto che ogni qualvolta che ti si affiancano in mezzo al traffico cittadino, entro mezzo secondo l’abitacolo della macchina si trasforma in una camera a gas. Altro che euro 4 e targhe alterne.
 

kamaz

 
Ogni tanto lungo la strada ci sono coppie di ragazze che si vendono ed altri tir ribaltati.
Il sole sta tramontando ed ancora mancano 300 km, il mio sedere si sta trasformando in un qualcosa di quadrato e di dolorante.
Questi ultimi chilometri sono davvero pesanti, soprattutto in prossimità di Mosca, dove ricomincia a nevicare e il traffico si fa molto sostenuto. La Leningradskoe shosse fuori Mosca è pericolosissima, priva di illuminazione e di un minimo di segnaletica decente. Ci sono dei tratti lungo i quali non si vede praticamente nulla.
Ai posti di polizia a bordo strada, cumuli di autovetture paurosamente accartocciate vengono esposte sul piazzale, a mo’ di monito, che però non dissuade i russi dal loro stile di guida molto, ma molto disinvolto.
Ragazzi, ci siamo. In lontananza si vedono i bagliori della metropoli.
E cominciano “i tappi”, come li chiamano da queste parti, gli ingorghi di traffico.
La Leningradskoe è un’arteria principale, dalla quale, dal centro, si va anche a Sheremetevo 2, l’aeroporto internazionale, oltre che a S.Pietroburgo e le varie dacie fuori città dove molti passano il weekend, la domenica sera è quindi uno dei momenti più critici. Se a questo aggiungiamo che quelli dell’Ikea, che anche qui a Mosca purtroppo furoreggia, hanno costruito il loro mastodontico capannone proprio lungo questa strada, e che quando nevica gli incidenti e quindi i rallentamenti si decuplicano, vediamo come il quadro del traffico diventa catastrofico. A volte ci ho messo più tempo dall’aeroporto a casa che da quest’ultimo a Roma.
Dopo un’oretta in mezzo al caos lascio Sacha ad una fermata della metropolitana, che in questi casi è sicuramente il mezzo più veloce.
Un altro sofferto, ma allo stesso tempo felice quarto d’ora.
E’ andata, sono arrivato.
 
 
Questo viaggio non ha avuto connotazioni eccezionali, non si sono verificati fatti straordinari, non ho incontrato nessuno di particolare, ma sarei pronto a ripartire domattina.
Questo breve racconto, se non altro, mi è servito a rivivere delle emozioni e a ripercorrere posti meravigliosi, con il rammarico di non averli potuti vivere in modo più approfondito, ma per questo ci vorrebbero due o tre vite.
Oppure fare il giornalista.

Note

[1] PIONIERE IN INGLOSTADT, il cui titolo mi trasse in inganno, ritenendolo un film in lingua italiana, ed invece manco per il…..

 

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2 Commenti
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Gianni
Gianni
3 anni fa

Concordo in pieno con Davide!
Delizioso raccontino scritto con umorismo e buon gusto, senza strafare o volgarità.
L’idea di arrivare a S. pietroburgo… via mare attraversando la sicura Germania è un’ottima idea che metterò in pratica quando andrò in quella città per sostenere gli esami di rlingua russa!
Grazie sincero all’autore per i 20 minuti da sogno che mi ha regalato!

Davide
Davide
3 anni fa

Ogni tanto mi rileggo con gran piacere questo racconto di viaggio, uno dei più gustosi che abbia mai letto. Il link a questa pagina è nei miei “preferiti” del browser.