Eccomi pronto al primo spostamento al di fuori di Delhi, dopo quattro giorni passati a riprendermi dal fuso orario, o per lo meno ci ho provato perché il caldo, l’inquinamento e la confusione lungo le strade, sono una costante giornaliera. Oggi però parto, la stazione e’ la più grossa e frequentata della metropoli, l’arrivo come al solito e’ sorprendente, la confusione regna sovrana, tassisti impazziti che con il loro: “Yes sir, hello sir, do you need a ricksaw (simile al nostro ape car) or taxi”, mi fanno impazzire. Superato il primo ostacolo, tocca al più difficile, arrivare in biglietteria senza calpestare umani, animali o “valigie”. Studio il percorso migliore dall’esterno e, sperando che nessuno si muova al mio passaggio, me la cavo con quattro o cinque deviazioni, tra le quali un salto ad ostacoli su un anziano letteralmente disteso al suolo. Inizio a cercare un posto per mettermi in coda per il biglietto, ma passato indenne capisco che ci sara’ più di un’ora di coda, così decido di farlo direttamente sul treno. Uno sguardo al tabellone partenze ed eccolo li, binario nr. otto, treno nr. 2715 per Jalandar. Le banchine vicino ai binari brulicano di gente. Osservo dal ponte, che fa da passaggio aereo sui binari, gli innumerevoli colori dei vestiti locali, e dei “bagagli” d’ogni tipo e genere, che si stagliano sui marciapiedi laterali. Come un susseguirsi d’immagini al rallentatore, si notano cesti artigianali pieni di frutta e verdura, che nella confusione, visti dall’alto, sembrano che si muovano da soli, con una meta indistinta in mezzo alla folla. Con la mia solita fortuna, un indiano si alza proprio nel momento in cui arrivo, così trovo anche un posto a sedere.
Passano cinque minuti ed arriva un uomo con grossi problemi alla schiena curvo in maniera incredibile (la gobba era veramente immensa), e con una postura alquanto incerta; aiutato solo da un bastone e da speciali rialzi alle scarpe, sulle quali non capivo come potesse rimanere in equilibrio e camminare, con piacere gli cedo il mio posto. Sennonché arriva un signore sui 45 anni, che inizia a discorrere con il vicino del “disabile” e, poco dopo, con mio stupore, l’uomo fa segno al “gobbo” di alzarsi e far sedere il 45enne. A quel punto ho messo una mano sulla spalla dell’uomo e gli ho detto di rimanere seduto, poi rivolgendomi agli altri due, gli ho spiegato che quello era il mio posto e l’ho ceduto a lui. Rimasto sorpreso il 45enne si sposta e continua a parlare con l’amico, tutto questo succede perché in India sono molto sviluppate le Caste, quindi se tu sei di casta minore, mi devi cedere il posto anche se hai dei seri problemi, a loro non interessa, sei un individuo che nella società non vale niente! Sì però io non sono indiano e non appartengo a caste, quindi nessuno si alzerà!!! Mi giro soddisfatto verso i binari e vedo un continuo via vai, su e giù. Incuriosito mi faccio spazio tra la gente e con mia grande sorpresa, mi accorgo che vanno a fare i loro bisogni sui binari, sì, ma si spostassero, ancora, ancora, invece si fermano tutti li sotto, a 2/3 metri da centinaia di persone, anzi c’è di peggio, addirittura li fanno contro i treni in attesa di partire, stracolmi di gente. Il percorso in mezzo ai binari (18 binari in stazione) era una fogna a cielo aperto con escrementi d’ogni genere e topi grossi quasi come gatti che gironzolavano. A questo punto mi chiedo: Eppure uomini, donne e bambini, si stendono e strisciano per terra, per cui quale mai sara’ il limite tra igiene e sicurezza? Ecco il treno, ma e’ sul binario 9 anziché l’otto, quello riportato sul tabellone partenze, ma anche questa e’ l’India, così scelgo un vagone a caso. E’ pieno, c’e’ gente sdraiata nei corridoi che dorme, venditori di chai (tè indiano al latte con spezie), cibi locali precotti, che non mi inspirano molto, patatine e bibite; il loro vociare e’ continuo, intenso e non cambia mai di una tonalità. Nel secondo vagone trovo posto tra donne Sick ed un indiano, che ho scoperto poi essere un ingegnere informatico con le idee molto chiare sul suo futuro. Trovo un lettino al terzo ed ultimo livello sotto il tetto del treno, non so come sono riuscito a salirci ed ad entrarci, per uno alto come me (1.92cm), era peggio di un loculo, però o quello o il pavimento! Durante il viaggio verso nord di circa 365 km percorsi in 6 ore e 30 min, ho fatto un giro per gli altri vagoni, ero il solo turista, attiravo l’attenzione, come un’oasi attira l’assetato, cosicché alcuni Sick mi chiamano, mi avvicino e mi fanno cenno di sedermi. I Sick sono una casta guerriera (spesso si vedono con la scimitarra con un’impugnatura incastonata di pietre preziose appesa al collo) molto potente in India, infatti, in molti uffici pubblici, nell’esercito e nella polizia hanno diversi ed importanti esponenti; portano capelli lunghi, fasciati da copricapi o turbanti fantasiosamente decorati con colori accesi e, se non sbaglio, possono solo dalla famiglia o dalla moglie farsi vedere i capelli sciolti, e la loro religione che gli impone questo, infatti, hanno un loro personale credo. I figli quando iniziano a non tagliare i capelli, hanno solo come una piccola palla sopra la fronte, solitamente ricoperta da una stoffa nera ed elastica. Curiosi questi Sick, oltre per il loro abbigliamento, anche in viso sono particolari, con delle lunghe barbe finemente curate, e con degli occhi neri e penetranti come le loro domande, sembrava che volessero entrare in me e scoprire il più possibile sullo stile di vita di un italiano. Poco conosciuto al di fuori dell’India, il sikhismo, con appena cinquecento anni di vita, è una religione giovane e tipicamente indiana, con elementi presi in prestito soprattutto dall’induismo, ma anche dall’islam e dal cristianesimo. E’ praticata soprattutto nel Punjab. I suoi seguaci sono venuti alla ribalta della cronaca negli ultimi decenni per il movimento politico che reclama l’indipendenza dall’India con un proprio stato, il Khalistan. La festa di Baisakhi è in pieno svolgimento. Guru Gobind Singh raduna i suoi seguaci presso la città fortificata di Anandpur, nel Nord dell’India. Con una spada sguainata e con un fiero cipiglio comincia la sua arringa: “Il vero sikh, pronto a dare la vita per il guru (maestro, capo), si faccia avanti”. In un primo momento nessuno si muove. Al terzo invito uno si fa avanti e con le mani giunte davanti al petto si offre in sacrificio. Il Guru lo porta in una stanza appartata, si sente un tonfo come di un corpo morto che cade, quindi ricompare in pubblico con la spada grondante sangue per rivolgere all’uditorio la stessa domanda. Tra la paura e lo sgomento di tutti, la stessa scena si ripete altre quattro volte. Alla fine Gobind Singh riappare con i cinque uomini che si offrirono volontari: sono vivi e in buona salute. Si era trattato solo di una prova di coraggio e di fede. Il sangue versato era quello di cinque capre. E’ il 13 aprile 1699. I cinque uomini diventano il primo nucleo della nuova khalsa, la “Fratellanza dei Puri”. Guru Gobind Singh (1666-1708) è l’ultimo dei dieci guru che segnano la storia del sikhismo, una religione di circa 15 milioni di seguaci che vivono, nella stragrande maggioranza, nello stato del Punjab, nell’India nord-occidentale. Il 13 aprile 1699 è considerato come la data della seconda fondazione di questa religione. Alla cerimonia descritta sopra ne seguì subito,quello stesso giorno, un’altra non meno suggestiva e simbolica, che costituisce ancora oggi il rito di iniziazione dei giovani sikh: il battesimo con acqua zuccherata. Gobind Singh prende un recipiente di metallo pieno d’acqua, vi mette dello zucchero, agita l’acqua con una spada a doppio taglio mentre recita dei versetti dello japji, il “credo” del sikhismo. Ne cosparge poi cinque volte i capelli e gli occhi dei cinque uomini coraggiosi e quindi li invita a berne una parte. Da ora in poi questo sarebbe stato il sigillo della nuova fratellanza, segno d’appartenenza a una comunità di fratelli.
Il termine Sikh proviene dal sanscrito sishya, che significa discepolo.In questo caso sta a significare colui che segue la dottrina dei Dieci Guru e dell’Adi Granth, il libro sacro. Il primo dei “maestri” è, naturalmente, Guru Nanak, il fondatore, nato nel 1469 nel villaggio di Talwandi, nei pressi di Lahore (oggi in Pakistan), chiamato poi Nankanain. “Come quella di molti santi indiani e musulmani – scrive Alfonso di Nola, studioso delle religioni – la sua nascita è accompagnata da segni soprannaturali e da musica celeste”. Si racconta che in un freddo mattino di quell’anno, all’indomani della nascita del bambino, si presentò ai genitori l’astrologo per domandare, secondo il costume del luogo, di che timbro fosse la voce del neonato. Da essa egli ne avrebbe stabilito l’oroscopo. Di fronte alla titubanza dei genitori l’astrologo insistette e non appena vide il neonato si prostrò a terra e l’adorò. Quindi ne profetò il futuro: questo bambino crescerà, porterà insegne regali, e sarà venerato ugualmente da indù e musulmani; il suo nome risuonerà in terra e in cielo e sarà ripetuto anche dalle creature inanimate, inoltre sarà provvisto di poteri soprannaturali, egli adorerà un solo Dio.
Figlio di un piccolo agricoltore di casta ksatriya (la seconda in ordine d’importanza nella scala sociale indiana), vive la sua fanciullezza nella libertà della natura, ma manifesta presto un’eccezionale tendenza alla meditazione e all’isolamento, rifiutando la compagnia dei suoi coetanei. Affidato giovanissimo alla scuola brahmanica, stupisce il maestro con la sua sapienza e la profonda religiosità: “Ascoltami,signore – dice rivolgendosi al guru – brucia l’attaccamento per il mondo,riducine in polvere le ceneri, fanne inchiostro; della fede poi, fa’ la migliore qualità di carta; fa’ che la penna del tuo cuore, scriva dell’intelletto. Interroga il Guru e scrivi il giudizio. Scrivine il nome e lodalo, scrivi ciò che non ha fine o limite. Signore, se puoi insegnarmi questa via di conoscenza, allora istruiscimi”.
Pur profondamente influenzato dall’induismo e dall’islamismo, Nanak reagiva contro il fanatismo settario degli uni e degli altri: i primi con un pantheon infinito di dei, dee ed una società divisa ingiustamente in numerose caste e sottocaste; i secondi violenti conquistatori e dissacratori di luoghi sacri, come aveva dimostrato la conquista dei Moghul. “Ho interrogato i quattro Veda (i libri sacri più antichi dell’induismo) – scriveva – ma queste scritture non svelano il confine di Dio. Ho interrogato i quattro libri dei musulmani, ma in essi non è scrittala parola di Dio. Mi sono fermato presso stagni e torrenti, ed ho fatto il bagno nei sessanta luoghi di pellegrinaggio. Ho trascorso la vita nelle foreste e nei deserti dei tre mondi; ho mangiato le cose amare e le cose dolci; ho visto le sette regioni inferiori e il cielo sopra il cielo, ed io, Nanak, proclamo: l’uomo resterà fedele alla sua fede se teme Dio e compie opere buone”. L’idea base da cui parte Guru Nanak è quella dell’unità di tutti gli uomini, realizzata nella comune adorazione del “Dio unico ed eterno. Supremo Signore che ha creato questo mondo visibile,che vede, percepisce e comprende ogni cosa. Egli pervade tutta la creazione dall’interno e dall’esterno”. La decisa affermazione del monoteismo, forse dovuta all’influsso musulmano, è una caratteristica che appare dalla lettura dei testi sacri dei sikh: “Esiste un solo Dio, verità eterna è il suo nome. Creatore di tutte le cose, non ha paura di nessuno e non è nemico di nessuno. La sua immagine è fuori dal tempo. Non generato, esiste per virtù propria ed è stato fatto conoscere agli uomini per mezzo dei guru. Come fin dal principio egli è stato la Verità, allo stesso modo è ora la Verità immanente e sarà la Verità eterna per i secoli dei secoli”. Su questo mûl mantra, o credo fondamentale, che ogni seguace di Nanak ripete ogni giorno appena alzato, si fonda la dottrina dell’unità e della fratellanza di tutti gli uomini, con la conseguente abolizione delle caste.
Guru Nanak muore nel 1539. La sua opera viene continuata da Guru Angad e dai suoi successori, fino al decimo, il più famoso dopo il fondatore, che, come abbiamo visto, è Guru Gobind Singh.Questi fece del sikhismo una comunità compatta e militarmente ben organizzata per poter far fronte alle persecuzioni e angherie d’ogni genere da parte soprattutto degli imperatori moghul. E’ a questi anni che risale l’obbligo, per ogni sikh “ortodosso”, dell’osservanza dei cinque “K”. Il kes, o capelli e barba lunghi, simbolo di santità e di forza spirituale; richiama il biblico Sansone e i santoni indù; è un articolo di fede che è costato molto caro ai seguaci di Guru Nanak, soprattutto all’estero, ma al quale essi non hanno mai rinunciato, a costo di sacrifici e ostracismi. Gli altri “K” sono: il kachcha, o paio di calzoncini stretti e corti, al di sopra del ginocchio; il kara, o braccialetto di ferro; il kangha, o pettine; il kirpan, o piccola spada che sostituisce il più antico coltello di acciaio. Ciascuno di questi oggetti hanno un significato simbolico, anche se oggi non è sempre avvertito dagli stessi sikh. I fedeli del sikhismo sono facilmente riconoscibili in qualunque parte del mondo dal tipico turbante e dalla folta barba, tanto che talvolta sono chiamati i seguaci della “religione della barba e del turbante”, e anche dalla gioia e dall’ allegria che li caratterizza quando sono insieme. Gran parte della loro vita sociale si svolge attorno ai gurudwara (ne ho vista e visitata una splendida con sorgenti d’acqua termale bollente, a Manikaram in Parvati valley), i loro templi, individuabili dalla gialla bandiera triangolare che sventola sopra il tetto. Ma i gurudwara dei sikh servono anche da scuola, luogo di riunione, casa di riposo per i pellegrini, centri di formazione e di lavoro sociale. Qui ogni fedele è invitato a rendersi utile ai suoi fratelli aiutando nelle pulizie dei locali, servendo acqua fresca ai visitatori assetati o cibo agli affamati, lavorando in cucina,e così di seguito. L’aspetto forse più tipico della religione dei sikh sono i langar, “cucine gratuite” annesse ad ogni tempio. I “refettori comuni” sono aperti a tutti, sikh e non-sikh, bramini e non, senza nessuna distinzione. I langar sono anche un modo di vivere in pratica la “fratellanza umana”. A sostegno di questo servizio reso ai fratelli ci sono dei sani principi teologici. “Guadagnarsi il proprio pane con un lavoro onesto; dividerei propri profitti con gli altri e meditare sul nome santo del Signore”:è la sintesi di ciò che il sikh crede e pratica. Il far partecipe gli altri dei propri averi è fonte di gioia e di merito: “Solamente ciò che tu dai liberamente dal frutto del tuo lavoro a chi ne ha bisogno, sarà di vantaggio dopo la morte”. Dare dei propri averi, mettersi al servizio del prossimo, sono espressioni d’amore. Dopo la morte del decimo guru, nel 1708, il testo sacro dell’Adi Granth rimane l’unico “maestro” ed occupa sempre un posto di fondamentale importanza in ogni cerimonia dei sikh, dalla nascita fino alla cremazione dei cadaveri. Lo stesso rito nuziale si svolge girando quattro volte attorno ad esso,mentre gli sposi si tengono per mano. Il contenuto dell’Adi Granth ricorda molto da vicino i libri sapienziali dell’Antico Testamento e soprattutto i Salmi, con le loro espressioni d’amore e di devozione. Lo spirito che guida la storia dei sikh e che costituisce lo scopo della loro vita, è sintetizzato in questa preghiera quotidiana: “Il tuo nome e la tua gloria siano in eterno nei cieli e, secondo la tua volontà, concedi pace e prosperità a tutti e a ciascuno nel mondo”.
La comunità dei sikh è oggi in pieno risveglio. Questo è stato possibile grazie al gran numero di collegi e scuole, soprattutto nel Punjab, che hanno elevato il livello intellettuale dei fedeli. Nei secoli passati l’attività di propaganda era fatta esclusivamente da volontari; oggi si stanno organizzando veri e propri seminari dove è impartita una formazione teologica e filosofica ai futuri missionari. Il più importante è quello di Patiala, dove la formazione che vi è impartita è molto seria e include teoria e pratica nello stesso tempo. Il risveglio del sikhismo si fa sentire anche in campo filosofico, dove i pensatori cercano di esplicitare ciò che implicitamente è contenuto nei testi sacri. Il fervore di studi e di ricerca si è fatto più vivo negli ultimi cinquanta anni, grazie anche alla celebrazione di importanti ricorrenze, quali il terzo centenario della nascita di Guru Gobind Singhnel 1966, e il quinto centenario della nascita di Guru Nanak nel 1969. Un gran risveglio si è notato anche in campo politico negli ultimi decenni, con la nascita e lo sviluppo di un movimento che combatte, spesso anche con azioni violente (ricordiamo l’uccisione del Primo Ministro Indira Gandhi ad opera della sua guardia del corpo,composta da sikh), per costruire nel Punjab lo stato indipendente del Khalistan. La comunità dei sikh soffrì molto subito dopo l’indipendenza dell’India, in occasione della divisione tra India e Pakistan. I sikh apprezzarono molto, in quell’occasione, l’aiuto disinteressato dei cristiani e ciò ha contribuito a dissipare molti pregiudizi. Oggi lo spirito di collaborazione, soprattutto nel campo dell’educazione e del lavoro sociale, è ottimo. (grazie a religioni nel mondo per le informazioni) Fotografati tutti e, dopo una lunga e piacevole chiacchierata, decido di andare ad incastrarmi nel mio loculo, riesco addirittura a “dormire” un paio d’ore, tra le urla di bambini, capistazione e, controllori, che continuavano a salutarmi senza chiedermi il biglietto, alla fine non l’ho fatto. Prima dell’arrivo a Jalandar, mi soffermo a pensare alle centinaia d’immagini che mi sono passate davanti agli occhi, attraverso un finestrino del mio primo Indian train, e’ fantastico! All’uscita dalla stazione, avviene il solito assalto dei taxi driver. Passato indenne senza neanche rivolgere una parola, mi dirigo verso la via più vicina e luminosa alla ricerca di un posto per dormire (guest house). Il libro guida non dice niente di questa cittadina, niente, ristoranti, guest house, o hotel, perciò per dormire dovrò andare a caso. E’ ormai buio, e la vista di tre guest house da rimanere schifati, anche per lo standard indiano, iniziano a preoccuparmi, così chiedo a dei ragazzi di indicarmi un posto pulito ed economico, ma purtroppo nessuno di loro parlava inglese, dopo sette od otto tentativi sento una voce alle mie spalle: “Sir, can I help you?” Penso di aver qualcosa che attira i sick, perché mi giro ed erano due di loro su di una vespa bianca, come quelle che usavano nei quartieri spagnoli a Napoli per gli scippi, si fermano in mezzo ad in incrocio e, non curanti del blocco che stavano creando, si adoperano in ogni modo per indicarmi una buona guest house; dopo il continuo strombazzare decidono di accompagnarmi, e scopro che uno di loro si chiama Tony, che con il fratello Simel, sta tornando dal lavoro e, neanche a farlo apposta fanno rubinetti, per cui gli rifilo il mio biglietto da visita e poi chissà. Tony stupito mi promette che si metterà in contatto tramite mail e mi lascia il suo biglietto da visita, dicendomi di chiamarlo per qualsiasi problema o informazione che possa aver bisogno. Trovo una guest house così così per 200 rupie (4 euro) a notte, mi accontento, intanto devo rimanere un solo giorno. Mi sdraio a letto, stanco ma incredibilmente arricchito d’esperienze e notizie, che su di un taxi o su un aereo sarebbero impossibili, e fantasticando sulle prossime avventure che mi capiteranno, mi lascio catturare dalla notte e cado in un sonno profondo…
Ciao a tutti alla prossima giornata…
Eccomi tornato, salvo anche dal terremoto che ha colpito la zona del Kashmir indiano con epicentro ad Islamabad in Pakistan. Mi trovavo a Srinagar, capitale estiva del Kashmir, nella quale sono morte più di 400 persone. Certo che sono ben fortunato, prima l’esperienza dello tsunami il 26 dicembre 2004 in Sri Lanka (con tre settimane di volontariato in mezzo all’odore di morte e l’apertura di una associazione chiamata “white flag to the nature”, che con i soldi raccolti solo da amici ha comprato una barca con motore, reti da pesca e tutto il necessario per i 15 pescatori. Inoltre ha fornito 3000 sedie e 60 armadietti d’acciaio alle 60 nuove Montessori schools costruite nel distretto di Hambantota nel sud dell’isola). Senza contare le innumerevoli visite nei campi profughi per l’assistenza ai bambini, ma questa è un’altra storia. Ritornando a noi, vi scrivo solo ora, perché ho fatto una settimana di viaggio tra i 3500mt e I 5250mt, con vette attorno che raggiungono i 7650 mt, senza mail e telefono, solo adesso posso aggiornarvi. Buona lettura
02/10/2005 e 03/10/2005
Ricordate Tony, quel Sick in vespa che mi ha aiutato a trovare da dormire, bene, durante la mattinata lo contatto e mi trova, in men che non si dica, un taxi per raggiungere Dharamsala nella regione dell’Himachal Pradesh, considerato da molti una delle più belle ed affascinanti dell’India. Dharamsala, non e’ famosa perché e’ una località ai piedi della gran catena montuosa himalayana, o per le sue cascate, o perché e’ circondata da pinete, che accompagnano lo scorrere del fiume nella lontana pianura che si perde a vista d’occhio, ma principalmente perché e’ sede del governo tibetano in esilio, leader spirituale del quale e’ Tenzin Gyatso, meglio conosciuto come sua Santità il 14esimo Dalay Lama. E’ stato costretto all’esilio, a causa dell’invasione perpetrata dai cinesi negli anni ’50, che hanno ammazzato 1.2 milioni di tibetani ed altrettanti esiliati in campi di concentramento o ai lavori forzati. Così nel ’59 il Dalai Lama lasciò il Tibet e si recò a piedi a Dharamsala dove tuttora risiede, più precisamente a Mc Cloud Ganj un villaggio a circa 10 km più a monte, a 1800mt slm. Dopo 6 ore e mezza di viaggio arrivo e trovo subito una buona sistemazione, giro di esplorazione nel villaggio e via a letto. L’indomani come prima cosa, voglio visitare “Library of Tibetan Works and Archives” alla ricerca di Sonam Choephell e Tash Tshering, amici di un Americano di nome John che ho conosciuto in Laos e, mi ha pregato, qualora fossi andato a Dharmasala, di far loro visita. Library of Tibetan Works and Archives e’ un’imponente biblioteca di studi buddisti, che custodisce la più completa raccolta al mondo di testi tibetani. Alla Library è annessa un’università aperta a tutti in cui si possono seguire corsi sul buddismo. Sono continuamente editati testi tibetani tradotti in inglese ed altre lingue. Molti vecchi e preziosi testi tibetani, sono andati distrutti durante la rivoluzione culturale cinese, ma circa il 40% e’ stato salvato, ed e’ custodito nell’edificio. Dal centro di Dharamsala s’inerpica una strada che porta a Mc Cloud Ganj, chiamata anche la piccola “Lhasa”, dove vive una comunità tibetana completamente separata, nella quale ci sono i maggiori uffici del governo tibetano ed anche la biblioteca mio obiettivo. Appena si entra dalla grande “porta” che fa da ingresso ad un villaggio, si percepisce immediatamente un’atmosfera diversa, ci sono studenti raggruppati in mezzo alla strada, probabilmente stanno aspettando l’esito di un esame. Al centro del paese un piccolo tempio rosa, vicino al quale c’è una scala che porta alla libreria, al suo esterno ci sono diversi monaci in preghiera, che girando in senso orario attorno all’edificio, pregano snocciolando il rosario buddista. Alcuni anziani dopo vari giri, si fermano per fare una sosta e ripartire dopo poco. All’interno mi accoglie una sorridente tibetana, carina nello stile, alla quale chiedo se conosce Sonam e Tashi; del primo non se ne ricorda l’esistenza, forse e’ troppo giovane (John e’ stato a Dharamsala 30 anni fa’!), di Tashi mi dice che posso trovarlo all’Amye Machen Institute (per maggiori informazioni, guardate il loro sito all’indirizzo . Così entro, pago 10 rupie (un quinto d’euro) per la visita al museo ed alla biblioteca al piano inferiore. Ripongo lo zainetto in appositi ripiani alla cassa, ed entro da una porta anonima, bassa a tal punto da dovermi piegare in due per passarci. Il locale si presenta piccolo, con tavoli per la lettura di legno, così come le sedie, che erano abbastanza traballanti. Sulla parete di sinistra, in mezzo a grandi finestre, c’e’ un quadro con la sacra immagine del Dalai Lama, che sembra quasi uscire dal dipinto. Sulla destra c’e’ una piccola scrivania con una ragazza disponibile per qualsiasi informazione riguardanti libri e riviste rivolte al popolo tibetano. Il primo libro che attira la mia attenzione e’ riposto su uno scaffale inclinato, dentro ad una libreria a muro, “l’enciclopedia del Tibet”, sfogliandola ho scoperto che il 29 marzo del 1644 arrivò il primo esploratore a Lhasa, (città sacra dei tibetani ed ex residenza del Dalai Lama), e vi si fermò tre mesi. Dopo di lui, nel 1662 arrivò un gruppo di Gesuiti, i quali costruirono una cappella ed un ospizio e, ci rimasero per tre anni.
I Gesuiti sono un ordine religioso (Compagnia di Gesù) di chierici regolari fondato da Ignazio di Loyola (Iñigo López de Loyola, Azpeitia 1491 – Roma 1556. Religioso spagnolo, santo. Abbandonata la carriera militare nel 1521 in seguito a una grave ferita e trascorso un periodo di meditazione e di preghiera in una grotta presso Manresa, decise di abbracciare una vita di povertà e di apostolato, e di intraprendere, ormai trentenne, gli studi di filosofia e teologia. Frequentò le università d’Alcalá e di Parigi, dove si attorniò di un gruppo di seguaci, nucleo originario della futura Compagnia di Gesù, coi quali iniziò un’esperienza di vita dedita al servizio di Dio e dei poveri, e progettò una missione in Terrasanta. Si recò perciò a Venezia, dove ebbe contatti con i teatini e ricevette gli ordini sacri (1537). Fallito definitivamente il viaggio in Palestina, si stabilì a Roma. E’ proprio a Roma che nel 1540 Paolo III approvò il nuovo ordine religioso. Divenutone preposito generale, attese per il resto della vita all’organizzazione della Compagnia, stilandone le Costituzioni, inviando nelle Indie i primi missionari, avviando l’attività dei collegi e dando definitiva sistemazione ai suoi Esercizi spirituali, la cui pratica costituisce il fondamento della spiritualità gesuitica, e approvato da Paolo III nel 1540.
La storia dei Gesuiti si distingue in due fasi: fino alla soppressione del 1773, decretata da Clemente XIV dopo l’espulsione dei gesuiti dai maggiori stati europei a causa del diffuso anticurialismo; dal 1814 in avanti, quando fu ricostituita da Pio VII. Alla sua guida sta il preposito generale, nominato a vita e coadiuvato dai padri assistenti e provinciali. A seconda dei voti i suoi membri si distinguono in: professi (gli unici a emettere il voto di obbedienza speciale al papa), scolastici, coadiutori spirituali e temporali. Le missioni costituirono fin dall’inizio una delle principali attività dei gesuiti, accanto all’insegnamento, praticato nei collegi secondo il metodo della Ratio studiorum (Insieme di regole che presiedono all’attività pedagogica e scolastica dei gesuiti.), alla lotta contro il protestantesimo, ai ministeri sacerdotali, alla produzione scientifico-culturale. Gli aspetti politici della loro invadente presenza a corte, e delle originali esperienze autonomistiche delle missioni paraguaiane, provocarono i provvedimenti repressivi attuati nel secondo Settecento. Riorganizzata la loro rete di case e collegi, i gesuiti estesero la loro presenza in molti paesi svolgendo un’intensa attività missionaria e educativa. E’ strano ogni volta quante cose ci sono da scoprire, la storia e’ una via ideale per cercare di capire le dinamiche di sviluppo culturale, religioso o politico, che hanno influenzato l’evoluzione di un popolo. Sarà questo un libro che ricercherò una volta tornato in Italia. Cambio scaffale e vedo un libro enorme “Atlas of history of the world”, che in maniera accurate e particolareggiata riporta le conquiste e gli sviluppi dei popoli e le influenze delle religioni nel mondo, da dove sono nate e come si sono allargate, spesso a macchia d’olio in molti paesi. Nella stanza ci sono cinque o sei persone, di nazionalità diversa, ognuno legge e prende appunti; chissa’ quante persone in circa 40 anni sono passate a studiare e ritagliare avvenimenti in centinaia di libri. Con l’invasione cinese, il 60% dei libri e’ andato distrutto, oltre a massacrare un inero paese, vogliono proprio estirpare usi, costumi e soprattutto la loro conoscenza, il loro sapere e di conseguenza le loro radici. Due ore di ripasso storico: dalla costruzione della muraglia cinese, avvenuta in due periodi, la prima nel 300 a.c. e la seconda nel 290 a.c. Anche la Muraglia Cinese del resto ha una lunga storia. I Cinesi la chiamano Wang li cheng (muro dei 10 000 li), in effetti, l’unica opera fatta dall’uomo e visibile ad occhio nudo dalla luna e’ lunga 4 000 km. Durante il periodo degli Stati Combattenti, ogni stato combattente costruì una propria muraglia di difesa contro eventuali attacchi di stati confinanti e tribù nomadi del nord. Occorsero 10 anni di duro lavoro, 180 milioni di m3 di terra e ne risultò una muraglia di terra battuta ricoperta di pietre bianche, alta da 6.50 a 8 metri, che misurava alla base m 6.50 e in cima m 5.50. Sorsero a intervalli regolari torri di avvistamento dalle quali sarebbero stati segnalati gli eventuali attacchi con fuochi di notte e fumo di giorno. La Cina comunista individuerà nella Muraglia Cinese l’opera del popolo cinese sofferente e ne farà un simbolo. I Cinesi di ieri la visitavano in pellegrinaggio, quelli d’oggi ne fanno una meta turistica.
Mi inoltro nella storia con le crociate, passando ad Alessandro il Grande, che ha esteso il Sacro Romano Impero fino, all’India ad est, al Tagikistan a nord, mentre a sud il confine era il deserto del Sahara. Alessandro Magno, ufficialmente Alessandro III, re di Macedonia a partire dal 336 AC, fu uno dei più celebri conquistatori e strateghi del mondo antico. È conosciuto anche come Alessandro il Grande o Alessandro il Conquistatore. In soli dodici anni il celeberrimo condottiero conquistò l’impero persiano, l’Egitto e altri territori spingendosi fino all’attuale Pakistan, Afghanistan e India settentrionale. Le sue vittorie sul campo di battaglia, accompagnate da una diffusione universale della cultura greca e dalla sua integrazione con elementi culturali dei popoli conquistati, diedero l’avvio al periodo ellenistico della storia greca. Il suo straordinario successo, già durante la sua vita, ma ancor più negli anni successivi alla sua morte, ispirò una tradizione letteraria nella quale egli apparve come un eroe mitologico, assimilato ad Achille. Dopo la sua morte, il suo regno fu suddiviso tra i generali che lo avevano accompagnato nella sua spedizione e si costituirono i regni ellenistici, tra cui quello tolemaico in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e quello dei Seleucidi in Siria, Asia Minore, e negli altri territori orientali (da wikipedia). Dopo Alessandro Magno guardo come si è sviluppato dell’Islam ed il Cristianesimo su accurate e colorate mappe. Le guerre greche tra Spartani ed Ateniesi, e le loro conquiste. I Barbari la quale parola deriva da barbaros una parola che gli antichi greci impiegavano per indicare gli stranieri, cioè coloro che non condividevano la cultura o la lingua di chi nel parlare o scrivere utilizzava il termine. Da qui nacque la distinzione tra elleni e barbari. In seguito all’ellenismo il significato viene a modificarsi: ogni uomo partecipe della cultura e della cività ellena è elleno, i rimanenti sono gli incivili i barbari. Lo stesso significato è assunto anche a Roma. Poi ancora sui Fenici, che sono un popolo semita di cui si ha nota fin dal 2000 a.C.. Culla della civiltà Fenicia è la fascia di terra, transito naturale tra Asia e Africa, stretta tra il Mediterraneo e i Monti Libano corrispondente grosso modo con il Libano attuale. Grandi navigatori e commercianti, devono il loro nome ai greci che così li battezzarono a causa dei tessuti rossi porpora tipici della loro produzione tessile. Altri nomi che comunque individuano i Fenici sono Sidoni, dal nome di Sidone una delle loro principali città, e Cananei, derivato dalla regione di Canaan. Vassalli, di volta in volta, degli Egiziani, con i quali più volte nel corso dei secoli strinsero alleanze contro i cosiddetti: “Popoli del Mare”, degli Assiri, ed in seguito di Persiani e Greci, vivono un primo gran momento di rigoglio e indipendenza intorno all’anno 1100 a.C.. Vi riporto un aneddoto su questo popolo: una stele narra che proprio una nave fenicia, strappata dalla flotta da una tempesta mentre era in navigazione lungo la costa africana, sia approdata sulle coste del brasile, scoprendo per prima l’America.Nell’814 a.C. i Fenici fondano quella che sarà la loro più grande colonia nel Mediterraneo, nonché la potente antagonista dei romani: Cartagine. Intorno al 500 a.C. i fenici dei siti d’origine (Tiro, Sidone, Biblo) vengono raggruppati da Dario I in una satrapia comune nella quale godranno del loro secondo importante momento di indipendenza e splendore. Satrapie erano le province dell’antico impero persiano al tempo della dinastia Achemenide (550 – 331 a.C.). L’impero persiano, al tempo della sua massima espansione, sotto Dario I (regnante tra il 520 ed il 486 a.C.) comprendeva venti satrapie (la XX satrapia corrispondeva al bacino dell’Indo). I satrapi erano scelti preferibilmente tra i membri della famiglia reale o della nobiltà persiana e media. Si occupavano del reclutamento militare, erano responsabili della riscossione delle imposte e dell’amministrazione della giustizia. Venivano controllati dai funzionari reali dipendenti direttamente dal re che venivano inviati una volta all’anno nelle province. La gestione militare era sottratta ai satrapi e rimaneva affidata a generali di fiducia del re. Ogni satrapia versava un contributo al Gran Re, com’era definito l’imperatore persiano, in un secondo momento fu consentito ai satrapi ed alle città autonome come i porti fenici, di coniare monete di rame e d’argento sul modello di quelle regie.
Nel 333 a.C. Alessandro Magno vince la battaglia di Isso e anche se Tiro ancora resisterà per qualche tempo ormai è iniziata l’ellenizzazione della nazione fenicia. Sono i Parsi che mi catturano particolarmente l’attenzione. Ancora oggi presenti nella società Indiana, sono i discendenti degli antichi persiani. Il loro regno si estendeva ad ovest, est e sud del Mar Caspio, finché emigrarono dalla Persia all’India, dopo la conquista di Maometto. E’ veramente biblico ed emozionante il destino dei seguaci di Zoroastro, che per non rinnegare il sole, loro divinità, abbandonarono circa 12/13 secoli or sono la loro patria. Arrivarono dopo un lungo peregrinare in India, trattando con I Maharajah per avere ospitalità, questo non accadde e furono perseguitati per un millennio, fino alla conquista degli inglesi, che riconobbero le loro qualità, li incoraggiarono e li protessero, coinvolgendoli nel commercio e nell’industria, formando così una fiorente comunità in Bombay (macchine TATA, come dire Volkswagen in Europa, e’ Parsa la famiglia titolare). Essi adottarono molte usanze inglesi e si spossarono con loro. Oggi nelle mani dei Parsi sono i più grandi capitali di Bombay. Escono dai Parsi i migliori commercianti e laureati, sono ligi ai loro riti ed alla loro fede, la dottrina di Zoroastro, ispirata alla religione degli elementi creatori e conservatori. Tra questi, il sole prima di tutto, ed il fuoco, immagine del sole sulla terra. A Bombay c’e’ ancora oggi la “torre del silenzio”, dove solevano appendere nudi i loro morti alla merce degli avvoltoi, ma perché? Come ho già detto il fuoco per i Parsi e’ la manifestazione divina, anzi la divinità stessa, come per il Cristianesimo l’ostia consacrata. Rifuggono quindi dall’abbandonare il cadavere al rogo come gli induisti, rifiutano l’inumazione, perché l’Avesta, il loro testo sacro, proibisce di lasciare alla decomposizione lenta della terra qualsiasi corpo, che e’ stato l’involucro di un’anima. Gli avvoltoi, uccelli sacri per rito millenario, sono i più adatti ad annientare ed aggredire la misera sostanza morta e, ritornarla nel ciclo vitale. Nessuno strazio, il cadavere e’ consumato in venti minuti, ed e’ spolpato con una delicatezza religiosa, lo scheletro resta intatto nella sua cella, composto come se fosse stato preparato per uno studio anatomico. Una volta che le ossa sono seccate dal sole, sono riposte in un pozzo centrale, formato da tre circoli concentrici, uno per gli uomini, uno per le donne ed uno per i bambini. Il quarto giorno dopo la morte e’ il più importante; proprio in questo giorno si decide se l’anima ha raggiunto l’altro mondo e, si presenta prima alle divinità per essere giudicata. I Parsi si sposano solo tra loro. Oggi sono più o meno 90.000 in India e hanno una notevole influenza sull’economia e nella politica. Quante notizie, storie ed avventure hanno preceduto le mie, sicuramente meno pericolose, ma certamente sempre coinvolgenti; alle volte vedo luoghi ove oramai e’ arrivato il turismo di massa e penso a come sono stati fortunati coloro che hanno visitato l’India 50/100 anni fa’, senza le strutture per il turismo organizzato dei nostri giorni e, mi accorgo di far parte di un mutamento inarrestabile, che in ogni modo mi fa apprezzare la realtà del “qui” e del “dove sono”, pensando che fra 50/100 anni, il turista che come me visiterà questi luoghi e li vedrà con inimmaginabili cambiamenti, penserà magari la stessa cosa che ho pensato io con i miei predecessori. Prima di lasciare la biblioteca penso chissà quale ricchezza e sapere contengono gli antichi testi tibetani, solo essere vicino a dei lavori così importanti mi emoziona. Sono ormai le 14.30 devo ancora pranzare e, la prossima tappa e’ il museo, non il cibo. Salgo al primo piano, entro per una porticina uguale a quella della biblioteca, ed ecco il museo, all’interno lungo i muri centinaia di statuette del Buddha, vecchi oggetti d’uso quotidiano, quali colini e strumenti musicali. Sono però due le cose che attirano di più la mia attenzione: la prima e’ un “Mandala”, opera tipica tibetana, che consiste nel creare incredibili disegni, coloratissimi, curate in ogni dettaglio, con la sabbia colorata. Animali, simboli e costruzioni religiose, e perfette figure geometriche, alberi e Dei si amalgamano ed uniscono tra loro senza nessuna sbavatura od errore. E’ un lavoro che richiede, pazienza, applicazione, ed anche elevate doti mentali, atte a far rimanere concentrati per ore ed ore a sistemare i minuscoli granelli di sabbia. Rimango veramente esterrefatto, in passato mi era capitato di vedere un “Mandala” (Mandala, termine sanscrito indicante un’immagine simbolica fondata sulle figure geometriche del cerchio e del quadrato, intesa a rappresentare le relazioni intercorrenti tra i diversi piani della realtà. E’ una forma religioso-estetica caratteristica del buddhismo, e in particolare del tantrismo, il mandala ha seguito la diffusione di queste correnti religiose dall’India a Giava, in Cina, Tibet, Giappone ecc. I mandala vengono tracciati a terra con polveri colorate, o dipinti, o possono perfino costituire la pianta di edifici come il celebre Borobudur di Giava; ne esistono infinite varietà, dalle semplici figure geometriche a quelli in forma di loto o di ruota, a quelli che sullo schema geometrico innestano elementi di paesaggio e personaggi, anche molto numerosi: per esempio il mandala vajradhatu «cerchio del diamante» contiene, nella forma assunta in Giappone, 1314 divinità. Nell’esperienza religiosa orientale i mandala vengono utilizzati per delimitare uno spazio sacro, o, più sovente, per aiutare il meditante a visualizzare in modo simbolico i diversi piani della realtà e le loro reciproche relazioni, fino a cogliere sinteticamente, dopo il lungo itinerario interiore, la realtà suprema dell’intero universo) nel film “Il piccolo Buddha”, ma come sempre accade la tv non rende neanche l’idea della complessità del lavoro svolto. La seconda opera che più mi stupisce e’ un quadro. In primo piano, ma in maniera velata, come un’anima che vaga nel vuoto, c’e’ il viso Dalai Lama, sullo sfondo il palazzo sacro di Lhasa in Tibet il “Potala Palace”, ed in lontananza le magnifiche montagne con un susseguirsi di cime, tra le quali immagino infinite valli, tra le più belle e segrete al mondo. All’uscita visito il book shop colmo di libri riguardanti: i tibetani, la loro terra, il Dalai Lama, il buddismo e letterature di viaggi in India. Quante opere interessanti, che bello sarebbe averle tutte a disposizione ed avere il tempo sufficiente per studiarle ed apprezzarne il contenuto. Acquisto “A simple path, the Dalai Lama” un’introduzione ai segreti del Buddismo, arricchito da fotografie bellissime del Tibet. “Folk tales of Tibet” di Norbu Chopel, che parla delle favole e credenze tibetane tramandate oralmente nei secoli. “The art of happiness” scritto dal Dalai Lama e da Howard C. Cuttler; “A journey in Ladakh” d’Andrew Harwey, un libro d’avventura e scoperta negli altipiani del Ladakh, chiamato anche “little Tibet” per la sua somiglianza all’omonima terra dei Lama. Questo libro sarà un ottimo compagno di viaggio. Proprio il Ladakh sara’ una delle prossime tappe, sono emozionato e non vedo l’ora! Finalmente cibo, buono ed abbondante su una terrazza a strapiombo sulla valle di Mc Cloud Ganj, un po’ di relax, una navigazione furtiva nel web e l’acquisto di un cappello di coniglio, che si rivelerà un indumento prezioso ed introvabile, portano a termine un’altra piacevole giornata!
Mattinata tranquilla passata a rilassarmi, il jet leg si fa’ ancora
sentire con tutti i miei gravi problemi di salute per me risulta estremamente difficile viaggiare ed adattarmi a questi cibi ed a queste zone estreme, accidenti.ma non mollo…
Pomeriggio: Per trovare l’AMYE MACHEN INSTITUTE, dove lavora Thashi Tsering, ricordate, l’amico dell’americano che ho conosciuto in Laos, non e’ stato facile. Il girovagare per le vie che portano alla residenza del Dalai, sono formate da un insieme di disordinate bancarelle, che vendono oggetti d’artigianato tibetano. Si possono trovare magliette, cappellini, calze e sciarpe in lana, oltre a frutti e verdure d’ogni colore e dimensione. Essendo la maggior parte della popolazione vegetariana, trovo veramente alcuni prodotti ortofrutticoli che non conosco, come delle lunghissime carote bianche, misurano circa un metro! Ad un tratto sono urtato da un ragazzo sui 28 anni. Porta un bastone lungo circa tre metri sulla spalla, alle cui estremità sono annodate due corde,
di un metro ciascuna, legate a dei cesti, sembrava una bilancia. In uno portava due strumenti musicali, dei piatti in ottone ed un tipico tamburo tibetano, che si poteva suonare da entrambi i lati; mentre nell’altro in mezzo a stracci colorati sì fa spazio un bambino che non avrà più di un anno che, con le gambe e le braccia distese verso l’alto, sembra voglia raggiungere qualcosa di veramente divertente, ha un sorriso così coinvolgente che, mentre lo fotografo mi faccio anche io due risate. A fianco c’e’ la mamma con altri due figli.
Li seguo incuriosito, poi davanti ad un tempietto si fermano. Montano due strutture in bambù alte due metri, poste a circa otto metri una dall’altra collegate all’estremità’ da una corda in tensione. Che cosa mai vorranno fare? Marito e moglie non vorranno appendere i bambini alla corda solo per il divertimento popolare! Al suono del tamburo suonato dal padre e dei piatti usati dalla madre, i due bambini ballano, fanno spettacolari acrobazie saltando e ruotando da una parte all’altra della strada. Nello stesso tempo il piccolino, tolto dalla cesta, si gode i numeri fatti dai fratellini, mentre da forti poppate al
seno della mamma, che balla al ritmo del suono dei piatti. Tutto intorno la curiosità aumenta, così come gli spettatori. E’ a quel punto che ricordo di averli già visti sul treno da Delhi a Jhalandar, erano stesi a terra nei corridoi degli scompartimenti, strisciavano uno sull’altro per passare all’interno di un cerchio di circa 40 cm di diametro.
Con un grido del papà la bambina smette di contorcersi, sale sulla
struttura in bambù, mentre il fratello di 4/5 anni, va a far da zavorra sulla corda fissata al terreno. E’ straordinaria la semplicità con cui la bambina, aiutata solo da un lungo bastone per tenersi in equilibrio, passa da un capo all’altro della corda. La percorre in avanti, indietro, con o senza infradito ai piedi e per finire, prende il cerchione di una ruota di bicicletta, mette i piedini all’interno, e non ci credo, lo fa’ ruotare perfettamente sulla corda, si ferma nel mezzo, ondeggiando crea un movimento quasi innaturale, che pone l’accento ancor di più sulla sua bravura; ah dimenticavo, per rendere l’esercizio ancor più complicato, in testa aveva due vasi sovrapposti in equilibrio, sembravano quasi incollata tra loro. Nel corso dello spettacolo, la mamma e’ passata a prendere offerte tra il pubblico, osservo che ha racimolato circa 300 rupie; faccio due calcoli, penso che: mangiano thali (riso in bianco e verdure, che costano 20 rupie, per 2 pasti giorno, perciò
con circa 100 rupie giorno mangia tutta la famiglia. Fanno 10 spettacoli al giorno nei posti strategici della cittadina e dell’India. Hanno una potenzialità di 3000 e più rupie al giorno!! Capisco come i figli sono per i loro genitori una miniera d’oro in India. Invece decine di persone malate, con infezioni alle gambe, storpi, rimangono tutto il giorno seduti ai bordi delle strade a chiedere la carità e, la gente sembra quasi schifata alla loro vista, tanto da cambiare lato della strada. Solo qualche spaurito straniero si avvicina e gli lascia qualche rupia. Racimolerà 100 rupie al giorno, che gli bastano per il cibo, ma medicine, dottori e vestiti? Chi ha più bisogno d’aiuto? I malati ed i feriti, o una famiglia che toglie la gioventù ai propri figli? Mi chiedo perché il padre non si rimbocca le maniche e va lui a lavorare anziché fare sgobbare i propri bambini? Può essere considerato sfruttamento minorile? Lascio a voi l’ardua risposta e riflessione!
Continuo la mia ricerca e lo sguardo dopo poche centinaia di metri cade su una scritta familiare: ” Basket court”. Salgo velocemente i gradini che portano al campo e, trovo dei tibetani che giocano sotto lo sguardo di giovani monaci. Passo due splendide ore, divertendomi e facendoli divertire con semplici passaggi e cambi di mano. Il tempo passa e devo ancora trovare il fantomatico Tsering. Dopo tante indicazioni sbagliate, trovo finalmente l’associazione. La porta d’entrata si apre su un corridoio buio, lungo più o meno otto metri con una fioca luce sul fondo; proseguo abbastanza guardingo, arrivo di fronte ad una signora, la saluto inchinandomi con le mani giunte, le chiedo informazioni
su Mr. Tashi Tsering. Mi fa accomodare e mi dice di attendere mentre sparisce in mezzo a delle tende. Torna dopo un minuto accompagnata da un uomo sulla 50ina, con i capelli intrecciati fin sotto le spalle. Con lo sguardo fiero, e con una camminata decisa si dirige verso di me, mi alzo e mi presento, stranamente in maniera abbastanza sommessa, quasi avessi di fronte una persona importantissima. Spiego il perché della mia visita, gli
racconto la mia esperienza a Dharmasala ed il viaggio fatto insieme a John per il Laos. Il viso da tirato e quasi disturbato dalla mia presenza, si fa’ più tranquillo e rilassato, tanto da raccontarmi storie su John che ancora non sapevo: tipo che si e’ sposato a 30 anni a Dharmasala con un’indiana che quattro o cinque anni fa’, mi dice lui, essere morta. Ora capisco perché un uomo di più di 50anni (John) viaggi da solo per il mondo, magari per
cercare di lenire il proprio dolore dalla scomparsa della moglie, con le distrazioni che un viaggio da vagabondo ti può offrire. Può darsi che stia cercando nuove amicizie, nuovi incontri, nuovi sapori, nuovi paesaggi e perché no una nuova compagna per tutta la vita. Mi congedo accettando del materiale informativo sulla sua associazione e mi lascia un biglietto da visita personalizzato per John. Mentre mi dirigo verso Tsuglagkhang complex, residenza del Dalai Lama, rimango un po’ pensieroso dall’incontro con Tsering; mi sorgono alcune domande, che solo di sera in camera, leggendo gli opuscoli che mi ha lasciato, i dubbi diventano certezze, era davvero un personaggio! Per voi
curiosi andate a vedere il sito: www.amnyemachen.org
L’Amye Machen Institute e’ il centro tibetano per gli studi avanzati superiori e, Tashi Tsering e’ il direttore. Tashi e’ uno degli studiosi tibetani di maggior rilievo ed, inoltre e’ il membro più vecchio e più alto in grado della “Library Tibetan Works and Archives”, proprio la biblioteca che ho visitato il giorno prima. Sfogliando una delle loro newsletter, leggo che gli hanno conferito il 06/12/1994 l’importante premio per la pace, datogli dal Governo danese, con la donazione di 300.000 corone danesi, a favore del continuo sforzo per i diritti umani.
In altre parole e’ un centro indipendente per la ricerca e la pubblicità in favore del popolo tibetano. Il nome Amnye Machen deriva dalla maggior catena montuosa nel nord/est del Tibet. Amnye significa grande, mentre Machen padre. E’ anche una delle montagne datate come le più vecchie, oltre ad essere una figura ancestrale. Eccola e’ lei, la residenza di sua Santità, il 14esimo Dalai Lama, si trova sulla cima della montagna di Mc Cloud Ganj, perché al contrario di quello che si dice, non e’ Dharmasala la sede del Dalai Lama. In questa cittadina si trovano centinaia di monaci amichevoli e qualsiasi tipo di souvenir tibetano; costruita a metà del 1850 dalla guarnigione inglese, il curioso nome deriva da David Mc Cloud, che era il Tenente Governatore del Punjab (regione
indiana) e, con l’aggiunta della parola Hindi, Ganj, che significa mercato. Più m’avvicino al palazzo e più i monaci aumentano. Sono fortunato e’ l’ora della Pooja (preghiera), si stanno tutti recando all’edificio sgranando tra le mani un rosario, formato per lo più da palline amaranto simili al colore dei loro abiti. Li seguo in silenzio e finalmente eccomi nel famoso Tsuglagkhan complex, sede anche di un museo, e’ considerato l’equivalente dell’ancor più famoso Jokhang temple di Lhasa in Tibet.
Sulla sinistra del palazzo, rivolto verso il Tibet, c’e’ una statua della divinità della compassione (Avaloketeshvara), della quale il Dalai Lama e’ considerato l’incarnazione. La costruzione è formata da due livelli con due stanze centrali, intorno ad un corridoio dove i monaci e gente comune pregano girando in senso orario. Passando da un corridoio centrale vi sono le “prayer wheels” o ruote di preghiera. Sono dei cilindri color oro di circa 80 cm di larghezza ed un raggio di 25 cm, sulle quali e’ scolpito in rilievo il Mantra della compassione: “OM MA NI PAD ME HUM”. La parola mantra deriva dalla combinazione delle due parole sanscrite manas (mente) e trayati (liberare). Il mantra si può quindi considerare come un suono in grado di liberare la mente dai pensieri. Sostanzialmente consiste in una formula (una o più sillabe, o lettere o frasi), generalmente in Sanscrito, che vengono ripetute per un certo numero di volte al fine di ottenere un determinato effetto, principalmente a livello mentale, ma anche, seppur in maniera ridotta, a livello fisico ed energetico. Esistono moltissimi mantra per gli scopi più diversi, la maggior parte sono in sanscrito, ma ne esistono anche in altre lingue. Il mantra più conosciuto è il mantra Om (AUM).
Il loro uso varia a seconda delle scuole spirituali o delle filosofie. Vengono principalmente utilizzati come amplificatori spirituali, parole e vibrazioni che inducono nei devoti una graduale concentrazione. I mantra vengono utilizzati anche per accumulare ricchezza, evitare pericoli, o eliminare nemici. I Mantra hanno origine in India all’interno dell’Induismo Vedico e nel Jainismo, popolari in diverse e moderne pratiche spirituali che si rifanno seppur in modo impreciso alle antiche pratiche delle religioni Orientali. I Mantra sono considerati come suoni vibrazionali, a causa della grande enfasi che si pone alla loro corretta pronuncia (grazie allo sviluppo della scienza fonetica, in India, migliaia di anni fa ). Il loro scopo è liberare la mente dalla realtà illusoria e dalle inclinazioni materiali. Il processo di ripetizione di un Mantra è definito cantilena. Spesso sono incisi su delle pietre o rocce, come forma di devozione. Così quando recitiamo l’ OM MA NI PAD ME HUM le sei emozioni negative che sono la causa dei sei regni del Samsara, sono purificate. Le sei sillabe impediscono la rinascita in ognuno dei sei regni e attenuano la sofferenza inerente ad ogni regno. Allo stesso tempo recitando l’ OM MANI PADME HUM si purificano completamente i complessi dell’ego e si perfezionano i sei generi di azioni trascendentali del cuore e della mente illuminata: generosità, armonia, comportamento, resistenza, entusiasmo, concentrazione/comprensione. OM MANI PADME HUM è detto anche “enorme protezione dagli influssi negativi e dalle varie forme di malattia”. In tibetano è pronunciato OM MA NI PAD ME HUNG. Il mantra non ha un significato letterale come frase compiuta, bensì hanno significato le sei sillabe che lo compongono.
Om è composta da tre lettere: A, U e M. Queste simbolizzano il corpo, la parola e la mente impuri del praticante all’inizio del suo sentiero verso la liberazione. Alla fine del sentiero, simbolizzano il corpo, la parola e la mente puri di un Buddha. Quindi, al tempo stesso, Om indica la possibilità che vi sia una trasformazione dall’impurità alla purezza: il sentiero della liberazione. Mani, due sillabe, significa “gioiello”, simbolizza l’intenzione altruista di raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Padme, due sillabe, significa “loto”, simbolizza la saggezza, la conoscenza. La comprensione dell’impermanenza, della vacuità, dell’interdipendenza, la conoscenza che recide ogni illusione e offuscamento. Hum chiude il mantra nella perfezione e simbolizza l’indivisibilità di metodo e conoscenza, di compassione e saggezza. Il mantra scritto più volte su strisce di carta è introdotto nelle cavità di “ruote”, o mulini di preghiera (Manichorkor), che saranno girati a mano o dall’acqua. Le ruote di preghiera sono usate dai tibetani per purificare se stessi, ed il mondo, dal karma negativo accumulato, in base alla convinzione che il mettere in movimento il mantra scritto produce gli stessi benefici effetti del pronunciarlo.
Dalle ruote di preghiera apposite maniglie in legno sporgono dal basso per i fedeli, che le usano per farle ruotare in senso orario continuando la loro preghiera. Di fronte ad un dipinto della città di Lhasa ed in molte altre zone del palazzo, i monaci pregano con atti di devozione. Partono in piedi con le mani giunte sopra la testa, s’inginocchiano estendendosi su delle strutture in legno direzionate verso l’immagine sacra. Possono andare avanti anche senza mai fermarsi per ore. Nel museo al centro c’e’ anche un piccolo auditorium, con la statua del Buddha al di sopra di tutti, sotto la quale c’e’ il “trono” su cui il Dalai Lama siede nella classica posizione a “fior di loto”. Intorno tavolini di legno alti 20 cm, posti di fronte a cuscini rossi, ove si siedono i monaci più importanti.
E’ veramente difficile lasciare la magia del posto, ma e’ ormai il tramonto, devo tornare in camera, altrimenti quando trovo il tempo per scrivervi?
ANTICIPAZIONE 06/10/2005
Domani sveglia ore 06.15 perché ho il bus alle 08.00; alle 12.00 spero di arrivare a Pathankot, città al confine tra la ragione del Jammu-Kashmir e Punjab. Non e’ finita alle 12.20 parte il treno per Jammu, la capitale invernale del Kashmir vicino al confine con il Pakistan.
4TH Mc Cloud Ganj-Jammu 06/10/2005
E’ l’alba, il sole e’ appena dietro le montagne, fa’ ancora freddo ma dopo poco ecco il sole, la stella che ci da luce calore e vita. Un’abbondante colazione su una terrazza, con le montagne che facevano da cornice alla vallata sottostante, mi allieta la giornata.
Ok, la giornata e’ cominciata nel migliore dei modi. Alla stazione dei bus, ci sono Pullman che vanno e che vengono ed altri, che aiutati dal fischietto del “tiket walla’, colui che vende i biglietti sul bus, fanno manovre al limite per mettersi nella posizione di partenza. Dopo di ciò, il “tiket walla” si mette fronte al bus e ne urla la destinazione. Trovato il mio, per prima cosa salgo sul tetto per sistemare e bloccare il bagaglio, portarlo all’interno sarebbe infattibile, l’autobus si riempirà sicuramente e useranno il mio zaino come comodo seggiolino. Trovo posto a sedere dietro all’autista a fianco di una donna indiana ben vestita, che stava animosamente parlando dal finestrino con il marito in perfetto inglese. I sedili sono sfondati, sembra di stare seduti su travi di ferro, fortuna vuole che posso almeno stendere le gambe, visto che la mia statura di 1.92 mt non mi aiuta spesso a trovare posti comodi. La guida, come per tutti gli autisti indiani, e’ nervosa ed azzardata ma sembra che sappiano ciò che fanno. Ad un tratto la vicina mi domanda da dove vengo, Italia le rispondo; “ah! Italian are very friendly peoples, I love Italians not like Germans”. Così inizia un’interessante conversazione: e’ una signora di circa 40 anni, di nome Dechen, e’ sposata con un artista, più precisamente un pittore, che espone le sue opere in una mostra a Dharmasala. Mi fa’ vedere orgogliosa le foto del marito su un quotidiano, a fianco a due suoi dipinti, devo dire proprio belli. Ha dieci cani e non ha figli, ha viaggiato tantissimo; dopo la laurea ha lavorato tre anni a Londra. Con i soldi guadagnati ha visitato: Sud Africa, Francia, Italia, Maldive, Giappone, Hollywood, Las Vegas e molti altri paesi e città. Rimango stupito dalla capacità e dalla voglia di interagire di questa donna, ed è per questo m’immergo ancor di più nella conversazione, distogliendo il pensiero dal male al fondo schiena, dalle curve, dai sorpassi pericolosi e dai continui saliscendi della gente, che con spintoni, approfittava dell’unico angolo disponibile proprio vicino a me. Dechen cura i lebbrosi e le malattie della pelle. E’ specializzata nella medicina ayurvedica e, mi consiglia delle pastiglie (ketoconazolo) per delle macchie che ho sulle spalle (sparite in un batter d’occhio con il suo aiuto). Inoltre mi prescrive altri due medicinali contro il vomito in caso d’evenienza, anche perché dopo il racconto della mia anamnesi, (morbo di Hodgkin, chemioterapia, operazione di fundoplicatio, esofago di Barret..) mi dice che sono un soggetto a rischio, in India specialmente e mi consiglia vivamente di comprarle. I due farmaci sono: il “Perinorm” e “Reglan” fiale. Spero di non doverle mai usare. Quanti incontri, quante sorprese ed emozioni ti nasconde un viaggio, e’ bello lasciarsi scoprire e scoprire a mia volta, c’e’ tanta curiosità reciproca, a volte ci sovrapponiamo con le domande. Passati 60km e tre ore di piacevole chiacchierata scende alla sua fermata, non prima di chiedermi l’indirizzo, appena avrà i soldi, dice nel 2007, verrà in Italia a trovare una certa Manuela di Venezia e Paolo di Roma anch’essi medici. Ho la sensazione che la rivedrò. Arrivo a Pathankot come previsto intorno a mezzogiorno, corro in stazione. La strada più veloce per arrivarci l’avevo già chiesta all’autista. Al mio arrivo il treno non e’ ancora sui binari. Ho giusto il tempo di mangiare un’omelette carica di burro ed eccolo arrivare. Mi approprio del lettino sotto il tetto, come già avevo fatto sul treno da Delhi a Jhalandar, capisco subito che c’e’ un’atmosfera diversa, cartelli apposti sulle pareti che comunicano di non accettare cibo o bevande da sconosciuti; non c’e’ più il ceto medio come sulla tratta precedente, c’e’ una puzza d’urina in tutti gli scompartimenti ed in bagno non ci si può proprio andare l’aria e’ irrespirabile, solo con mezza bomboletta di deodorante riesco ad entrarci e, mi domando come facciano loro! Poi capisco, si mettono in piedi sulla porta di salita e discesa viaggiatori e, fanno i loro bisogni fuori dal treno, alcuni sono proprio delle bestie! Sono in una regione dove la maggior parte degli abitanti e’ Musulmana, si nota anche dal fatto che Jammu city ha molte belle moschee. Eccomi nella regione del Jammu & Kashmir.
Dopo due ore e trenta di viaggio, caldo ma tranquillo, mi sveglia solo lo spegnimento dei ventilatori apposti sul soffitto. Non appena scendo dal treno noto subito molti più poliziotti, scuri in volto ed armi in spalla, che controllano il movimento dei passeggeri. Mi dirigo verso l’uscita ed anziché essere aggredito come al solito dai touts (coloro che portano i turisti nelle guest house per poi prendere una commissione) nessuno viene ad importunarmi all’esterno del piazzale antistante la stazione, finché arriva un indiano correndo: hey sir, hey sir, my name is Abduhllà, vuoi andare a Srinagar domani? Ti organizzo tutto io, 250 rupie (solo 5 euro circa per un viaggio di 10 ore) by jeep. A questo punto interessato mi fermo e chiedo maggiori dettagli, e’ super organizzato, sa già in che guest house farmi dormire questa notte a Jammu, e dove andare a mangiare. Inoltre dice di avere un fratello di nome Kooka, che possiede delle house boats sui laghi Dal e Nagil a Srinagar nel Kashmir, proprio dove voglio andare io. Prendiamo un “autobus” o meglio un mezzo di trasporto, e’ un furgoncino verde come i vecchi volkswagen, ma più allungato ancora. All’interno non si respira, ci sono circa 25 persone una schiacciata sull’altra, ci credo che il biglietto costa solo 4 rupie, vi ricordo che con un euro vi danno 54 rupie. Si ravvisa la vicinanza al confine con il Pakistan, tante caserme ed anche tanti negozianti che vendono armi e munizioni, uno di loro attira la mia attenzione: “Kalashnikov shop and bullets!” Non ci sono turisti, zero, lo sguardo di tutti e’ su di me, oltretutto non passo inosservato essendo alto più di trenta centimetri sopra la media indiana. La guest house e’ decente (200 rupie), prenoto il viaggio in jeep per l’indomani ed una notte in una house boat deluxe sul lago Dal per 400 rupie. Chissà cosa mi aspetterà, prenotare al buio non e’ una mia abitudine. Ci diamo appuntamento il giorno seguente alle 08.00. Ho potuto notare come gli islamici sono maggiormente capaci a trattare e ad invogliare il turista, ci sanno davvero fare, mi da subito i prezzi giusti senza bisogno di contrattare ed e’ preparato ad ogni mia domanda. E’ incredibile come la religione, possa influenzare le capacità delle persone.
5TH Jammu-Srinagar 07/10/2005
L’indomani la jeep si fa’ aspettare, ne approfitto per salutare Abduhlla e farmi dare tutti i dettagli per la prenotazione. Mi da un foglio con scritto il prezzo ed i servizi pattuiti, li mette in una busta con scritto MATTEO 77, questo sarà il codice che mi farà riconoscere Kooka. Ancora non sapevo a cosa sarei andato incontro come spesso accade nel mio vagabondare. La jeep e’ una Tata che può portare fino a nove persone. Chiarisco subito con l’autista che il mio posto e’ al suo fianco, “yes sir, mi risponde, everything is possible in India” Parto alle 08.30 con l’autista e quattro altre persone locali. Uno di loro, con la moglie al seguito, aveva la maggior parte del corpo piena di cicatrici, penso derivassero da una grave ustione. Usciamo da Jammu city in mezz’ora, la strada inizia a salire serpeggiando sugli irti pendii, lo farà per altri 85 km, e’ un continuo susseguirsi di curve. Ho fatto due calcoli: 20 curve a km, su 270km di montagna, significa circa 5400 curve, senza contare gli infiniti sorpassi e, credetemi non sto esagerando. Adesso inizio a capire perché non viene quasi nessun turista in queste regioni, gli spostamenti sono proprio duri e faticosi, inoltre la massiccia presenza militare non ti tranquillizza! Il conflitto del Kashmir trae origine dalla spartizione dell’Impero britannico delle Indie, nell’agosto 1947, tra India e Pakistan. In linea di massima, gli stati a maggioranza musulmana sono annessi, a est e a ovest, alle due entità che costituiscono il Pakistan. Situato tra India e Pakistan, il Kashmir possiede una maggioranza musulmana che sembra favorevole all’annessione a Islamabad. Ma si tratta di un caso a parte: governato da un maharajah indù, subisce forti pressioni a favore dell’annessione all’India. Si dà il caso poi che, nello stesso momento, debba far fronte alla minaccia di una ribellione musulmana proveniente dal Pakistan. Il Kashmir sceglie quindi l’India e chiede l’aiuto del suo esercito. Nel conflitto che ne consegue, il Kashmir si ritroverà diviso in due parti, lungo una linea di cessate il fuoco. Il Pakistan occupa un terzo nord-ovest del territorio, battezzato Azad Kashmir (Kashmir libero). Il resto, il Jammu-e-Kashmir, è annesso all’Unione indiana con uno statuto speciale. Ci saranno ancora due guerre (nel 1965 e nel 1971) che, come la prima, sfoceranno in alcune risoluzioni del consiglio di sicurezza dell’Onu che resteranno per lo più lettera morta. Ciascuno dei due avversari rivendica la sovranità sulla totalità del territorio interessato. Il Pakistan afferma che la maggioranza musulmana del Kashmir gli era favorevole, ma che l’India ha occupato il territorio con il trucco e con la forza. Per il Pakistan, il Jammu-e-Kashmir resta un territorio «conteso». Peraltro Islamabad chiede l’applicazione delle risoluzioni dell’Onu, soprattutto quella riguardante il referendum. Per l’India, la situazione non si presta, giuridicamente e costituzionalmente, ad alcuna discussione. «La nostra posizione – dichiara un alto funzionario – è assolutamente chiara: la totalità dello stato del Jammu-e-Kashmir fa parte dell’Unione fin dal 1947, anno dell’annessione all’India. Su questo punto non ci possono essere compromessi». Stessa inflessibilità riguardo alle Nazioni unite. Dopo l’accordo di Simla, del 1972, secondo cui i problemi indo-pakistani saranno da allora trattati a livello bilaterale, l’Onu è fuori gioco. Questa clausola, strappata da Indira Gandhi a Ali Buttho, è stata percepita da numerosi musulmani come un tradimento. Nel 1998, l’India e il Pakistan sono diventati potenze nucleari. Un anno dopo, altri scontri tra i due eserciti lungo la linea di demarcazione hanno rischiato di provocare una quarta guerra. Gli ultimi negoziati bilaterali, nel luglio 2001, sono falliti, come molti altri a partire dal 1947. «La situazione dei diritti umani nel Jammu-e-Kashmir è stata piuttosto fosca negli ultimi due anni», scrive Amnesty International in un rapporto pubblicato nel maggio 2000. L’organizzazione parla di «un aumento, ad opera delle forze di sicurezza, delle esecuzioni sommarie di persone sospettate di legami con i gruppi armati». E prosegue: «Sembra che un numero crescente di persone siano state deliberatamente uccise dalle forze di sicurezza invece di essere arrestate, mentre gli arresti e le detenzioni arbitrarie di persone che esprimono pacificamente la propria opposizione sembrano ancora più frequenti. La tortura dei detenuti, che va talvolta fino alla morte, resta un fenomeno endemico. La gente continua a “scomparire” dopo l’arresto. Il rifiuto da parte dello stato di ottemperare alle decisioni della giustizia rende impossibile ogni riparazione legale». Amnesty International riconosce che le forze di sicurezza nel Jammu-e-Kashmir lavorano in un contesto molto difficile e che lo stato ha il diritto e il dovere di proteggere i cittadini dalla violenza. Lo stato di Jammu-e-Kashmir, annesso all’India, è costituito da tre entità: il Kashmir (spesso chiamato la Valle), occupa una posizione centrale; il Jammu si trova a sud e il Ladak a est. La popolazione ammonta a circa otto milioni di persone, di cui il 61% musulmani, essenzialmente nel Kashmir, il 30% induisti nel Jammu e il 6% buddisti nel Ladak. Capitale estiva dello stato di Jammu-e-Kashmir, nel nord dell’India, Srinagar è una città in stato d’assedio, dove l’esercito e le forze di sicurezza indiane sono onnipresenti. Fin dall’arrivo all’aeroporto, le numerose misure di sicurezza danno in qualche modo il tono della situazione. In città e nei dintorni è impossibile fare più di cento metri senza incappare in militari e poliziotti. Riparati nei bunker o nelle garitte, vestiti di giubbotti antiproiettile, protetti da scudi, da fili spinati o dai loro blindati, i soldati sono ovunque. Neanche Saigon o Beirut nei momenti peggiori hanno conosciuto controlli così rigidi. Questo spiegamento di forze si prolunga nei numerosi paesini della Valle (parte centrale del Kashmir) e nei pressi della Linea di controllo (Loc), l’ex linea di tregua che attraversa il paese da est a ovest in una regione di montagna in cui l’esercito indiano e quello pakistano si scontrano periodicamente. Ovunque si convive con «gruppi armati» e con una presenza militare e poliziesca massiccia, resa talvolta brutale dalla psicosi degli attentati, per la più grande disperazione di una popolazione presa tra i fuochi incrociati della guerra e della miseria. Sulle rive del lago Dal, tra Srinagar e i contrafforti dell’Himalaya, i proprietari delle house-boats, i battelli-albergo in legno intarsiato, rimpiangono la manna turistica ormai svanita. Nel Kashmir il turismo ha subito un crollo drammatico: negli anni ’90 i visitatori sono passati da 800mila a poche migliaia di persone l’anno. In mancanza di clienti, molti lasciano marcire i propri battelli. Anche qui, in un paesaggio spettacolare e gelido, i militari hanno rimpiazzato i visitatori stranieri. Un meccanismo di diffidenza e incomprensione L’India ha da sempre rigettato sul Pakistan tutta la responsabilità di questa situazione. È vero che i dirigenti di Islamabad non hanno mai accettato l’annessione del Jammu-e-Kashmir all’Unione indiana, appoggiando costantemente le forze secessioniste del Kashmir e considerando la riconquista una causa sacra. Ne testimoniano, ancora nel maggio 1999, la pianificazione e l’organizzazione, da parte dell’esercito pakistano, dell’invasione della regione di Kargil, sul versante indiano della linea di cessate il fuoco. Ma è vero anche che la Repubblica federale ha le proprie colpe in questa vicenda, soprattutto per quanto riguarda il trattamento del Kashmir e dei kashmiri, della loro identità, dei loro diritti e delle loro legittime aspirazioni. Sullo sfondo dello scontro militare e diplomatico, è scattato un meccanismo di diffidenza e d’incomprensione. Sin dall’inizio, New Delhi ha sospettato in blocco la maggioranza musulmana di simpatie secessioniste filo-pakistane. «Da sempre esiste tra i dirigenti indiani un malessere e una mancanza di fiducia verso la popolazione musulmana del Kashmir, che sfocia nel rigetto di qualsiasi critica e iniziativa politica», spiega Mehbora Mufti, deputata e presidentessa di un partito kashmiri filo-indiano. È stata così accantonata la consultazione popolare prevista dall’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) nel 1948. Nonostante i suoi tentativi, la popolazione locale non viene mai consultata e meno ancora coinvolta nella vita politica. Anche se, nelle conversazioni tutti concordavano nel dire che il conflitto non poteva risolversi esclusivamente con la forza e che era necessario riprendere l’iniziativa politica, non c’è stata alcuna azione volta al suo rilancio ». Per vari decenni la sorte dei musulmani kashmiri, combattuti tra l’India e il Pakistan, è passata in secondo piano. Adepti di un islam sufi, noto per la sua moderazione, hanno finito per rassegnarsi. In questa situazione, alle elezioni del 1987 la speranza di una evoluzione democratica «all’indiana» era molto forte. Di fronte alla formazione ufficiale della Conferenza nazionale, sembrava che avesse il vento in poppa una coalizione di partiti (indipendentisti, filo-indiani, filo-pakistani e fautori di una autonomia accresciuta) riuniti sotto la bandiera del Fronte musulmano unificato. Ma a quel punto il potere ha forse temuto di essere sconfessato, un’eventualità drammatica per l’India. Ha quindi fatto ricorso a due provvedimenti brutali: ha truccato i voti in modo da dare la vittoria alla Conferenza nazionale e fatto arrestare diversi dirigenti del Fronte musulmano. New Delhi utilizzerà i risultati elettorali per convincere il mondo dell’attaccamento dei kashmiri all’India e allo stesso tempo per far tramontare l’idea di una consultazione sotto l’egida dell’Onu. Con questo voto Delhi si è alienata per parecchio tempo milioni di musulmani del Kashmir che si sentono ingannati, disprezzati e più che mai privati d’ogni prospettiva politica. Il risentimento anti-indiano s’inasprisce. All’interno della comunità i giovani sono infuriati e la rivolta cova. La violenza chiama violenza così come l’odio chiama odio; è successo quello che doveva succedere». Nel 1989, Islamabad appoggia tutti quei kashmiri che predicano la lotta armata offrendo loro una base di retroguardia. «Siamo stati costretti a batterci, non per ragioni religiose o per amore della violenza, ma affinché sia sentita la voce del popolo e le nostre aspirazioni siano prese in considerazione. Nell’euforia, alcuni hanno creduto che sarebbe stato possibile riprodurre in Kashmir contro l’India ciò che i mujaheddin afghani avevano fatto nel proprio paese». Ad esempio riciclando una parte dei combattenti islamici smobilitati e degli aiuti che ricevevano dal Pakistan, per poi utilizzarli in Kashmir. Il 1989, vero e proprio anno di svolta, segna l’inizio di una guerriglia in cui i cosiddetti «militanti», essenzialmente giovani musulmani della Valle, attraversano le montagne e la Linea di controllo per raggiungere i campi di addestramento nel Kashmir pakistano, in Pakistan e, più raramente, in Afghanistan, dove ricevono una formazione militare sommaria, integrata da corsi di istruzione religiosa. Il Pakistan si occupa della logistica e paga le spese. Dopo uno o due mesi, i nuovi combattenti ritornano nella Valle. In commandos composti da cinque-dieci uomini, molto mobili, colpiscono i bersagli e spariscono. Per circa cinque anni sono stati soprattutto i «militanti» kashmiri a condurre la lotta. Prova, si dice qui, che essi godono di un largo consenso tra una popolazione in cui praticamente ogni famiglia ha perso un padre, un figlio, un fratello o un amico. Il tributo pagato a questa guerra ignorata dal resto del mondo ammonta a decine di migliaia di vite e ha provocato indicibili sofferenze. Il gruppo armato più importante nella Valle rimane l’Hizbul Mujahideen, forte di un migliaio di combattenti, per l’85% kashmiri. Gli altri mille sarebbero essenzialmente suddivisi in quattro gruppi pakistani: il Lashkar-i-Taiaba, responsabile di una serie di operazioni suicide lanciate nell’ultimo anno; il Jaish-e-Mohammed, ritenuto vicino all’organizzazione Al Qaeda di Osama Bin Laden; infine l’Harakat-ul Ansar e Al Badar. Di fronte a questo dispositivo, l’esercito e le forze di sicurezza indiane conterebbero oltre 200mila uomini sul terreno. Nel corso degli anni, la guerra è diventata più cruenta e ha provocato da 25mila a 40mila morti nella Valle. Una routine macabra porta ogni giorno la sua quantità di vittime sulle prime pagine dei giornali locali. Combattenti, ma anche civili presi a bersaglio, o stretti tra due fuochi. A Srinagar i cimiteri sono pieni di giovani «martiri». Le leggi eccezionali, come il Public Safety Act (Psa), adottate per combattere la sovversione, non facilitano certo le cose. Partiti e organizzazioni non violenti lamentano di farne le spese alla minima velleità d’opposizione. Gli arresti sono frequenti, così come le sparizioni. I prigionieri di guerra sono pochi. Nel 2001, per il dodicesimo anno di seguito, il conflitto del Kashmir, lungi dal placarsi, ha conosciuto un’ulteriore fiammata di violenze, una nuova ecatombe. Nel novembre 2001, le statistiche ufficiali rilevano 4.000 incidenti, a fronte dei 2.500 dell’anno precedente, oltre 3.000 morti (1.600 «militanti», 1.000 civili e 500 soldati indiani) e oltre 4.000 feriti, in maggioranza civili. Vengono regolarmente lanciati appelli affinché si ponga fine a questo bagno di sangue, si emargini la lotta armata e si favorisca l’avvio di un processo democratico. Ma a Srinagar c’è chi non ci crede o non vuole crederci perché, come premessa, non è stata ristabilita un minimo di fiducia e niente è fatto per allentare la tensione.
Ci sono militari armati ogni km e da quando entrerò in Kashmir sara’ ancor peggio, ce ne saranno due ogni cento metri per centinaia di km, e’ un esercito che controlla tutti gli automezzi, a caso li fermano e li perquisiscono in cerca di bombe! Sono tutti armati e vestiti in perfetto stile da combattimento, mi sembra di essere un giornalista con qualche pass particolare per visitare le regioni di guerra nel conflitto indo-pakistano. Non posso credere come i pakistani possano mai pensare di mettere piede in queste zone, non avrebbero nessuna via d’uscita, anch’io semplice ed innocuo viaggiatore occidentale sono guardato con sospetto, chissà quanti segreti e problemi si celano. Non accadrà che qualcuno di loro vedendomi grande e grosso, accomuni il mio fisico a quello di un militare? Se mi scambiassero per una spia? Non c’e’ problema appena vedranno la foto sul mio passaporto, capiranno subito che sono un viaggiatore, ne sono certo, in tutti i confini che ho passato, tutti hanno sorriso alla sua vista. Dopo 45 minuti di viaggio, la moglie dell’uomo ustionato inizia a vomitare fuori dal finestrino, l’autista neanche si ferma, anzi grida qualcosa al marito, che subito dopo aiuta la sua compagna a stendersi tra i sedili. Sono passate ormai 2 ore, la strada sale sempre di più, attraverso verdi vallate con ruscelli, cascate e vecchi ponti ad arco che si specchiano nelle acque sottostanti, sembrano quasi delle enormi porte a volta. E’ un susseguirsi di saliscendi, con fiumi color ghiaccio, che nei loro immensi letti, riversano a valle migliaia di metri cubi d’acqua e detriti. L’uomo alla guida avrà 50 anni, e’ molto attento, fino all’esasperazione, cosa che lo fa essere un po’ troppo indeciso nei sorpassi. Riusciva a mettere la quinta marcia in salita ai 40 km/h, in sorpasso ed in curva nello stesso tempo. Il fatto che però dopo un po’ ha iniziato a preoccuparmi e’ che usciva sempre in sorpasso, curva o non curva niente cambiava, e se dall’altro senso arrivava un camion o un bus, non faceva niente, ne frenava, ne accelerava, lasciava l’acceleratore ed aspettava che fossero gli altri a fermarsi, che numeri! Prima o poi troverà il suo, spero non oggi. La strada fin dall’inizio e’ trafficatissima di mezzi e di convogli militari. Ai lati si vedono grosse caserme, saranno una costante che mi accompagnerà per tutto il viaggio, ne ho viste anche diverse arroccate sui crinali delle montagne, non si capiva come potessero rimanere in equilibrio. In questo periodo di secca, i massi nei letti dei fiumi, sono usati per lo più per la costruzione di muri lungo i percorsi militari. Questa strada e’ un’opera immensa, costruita per raggiungere più velocemente le zone del conflitto. S’inerpica ovunque, pensate e’ come fare Milano-Bologna (300km) su e giù per monti e valli, con rumori assordanti causati dai motori dei camion al loro massimo sforzo, che con i loro scarichi emettono immense nubi nere da farmi trattenere il respiro, ed è solo l’inizio, alla fine farò circa 1500/2000km in strade sperdute e massacrate dagli agenti atmosferici. Ne avremo sorpassati come minimo 300! Finalmente pausa pranzo in un piccolo parcheggio lungo la strada con 4 o 5 baracche che servono thali. Normalmente l’idea di Thali prevede, col piatto principale, almeno due piccole porzioni a base di lenticchie e di verdura, una brodosa e una asciutta, pane o riso in quantità, del Curd, dello yogurt ( attenzione, spesso è allungato con acqua) e un dolce. E’ in pratica l’equivalente del nostro Menu Fisso, ma viene servito in una sola portata, un grande piatto metallico a scompartimenti al nord, una grande foglia lavata di banano al sud, ma sempre più raramente, e tante piccole ciotole. L’India non è completamente vegetariana, poichè solo la casta dei brahmani e gli appartenenti alla religione Jain, con amplie eccezioni, seguono questo precetto. Ma la abbondante presenza musulmana che aborrisce il maiale e la venerazione hindù verso i bovini, restringono gli animali edibili a pollo, agnello e similari, e dove possibile pesce. I ristoranti strettamente vegetariani, la maggioranza al sud, indicano la loro caratteristica nell’ insegna, ed è considerato offensivo richiedere alcoolici, carne o uova in questi locali. Come noto si mangia con le mani, la mano destra (poichè in India la sinistra si riserva per le operazioni intime igieniche), utilizzando pollice indice e medio, formando palline di riso e condimento o pezzetti di pane che intingerete nelle varie salse. Non commettete l’errore di offrire ad un eventuale commensale indiano cibo dal vostro piatto o dalla vostra forchetta/mano. Il concetto di Jutha, ossia che ha avuto contatto con la vostra saliva, rende contaminata, dunque irricevibile l’offerta, a meno che si tratti di una persona intimamente a voi vicina. Le spezie sono la base delle ricette indiane, che difficilmente ne prevedono meno di 6, ed ogni regione ha ingredienti ricorrenti. Al sud il cocco, il riso e le spezie piccanti in pasta, al nord le spezie in polvere, lo yogurt, le lenticchie…ciò che rende il Thali, sia il North indian Thali o il South indian Thali, particolarmente indicato per i viaggiatori di lungo corso, è che viene servito a volontà, senza limiti di quantità.
Tutte le fiancate delle jeep parcheggiate vicino ai luoghi di ristoro, sono sporche di vomito sotto i finestrini, questo tragitto e’ per molti una vera e propria tortura, non per me che ho il pensiero che vaga tranquillamente in questi infiniti paesaggi. Cibo un po’ piccante, però era l’unica soluzione. Mi piace mangiare speziato, ma al mio stomaco un po’ meno, devo stare molto attento. E’ difficile poter descrivere le bellezze delle forme, che la natura con i forti venti, le piogge monsoniche, e gli alberi hanno disegnato lungo i dirupi circostanti. Ci ha messo milioni d’anni, ed eccola ancora lì, intatta, per noi immobile nel suo lento mutare. In questo momento sono in mezzo a questo cambiamento, all’inimmaginabile potere e magnificenza della natura. In lontananza, sulla montagna opposta a me, vedo una lunga coda di mezzi militari; chiedo all’autista dove porta quella strada, e come sospettavo, mi risponde che e’ la stessa che faremo noi. Con un ponte ci si arriverebbe in 3 minuti, invece noi ci metteremo almeno un’ora. Chiedo all’autista quanto manca per arrivare in Kashmir? L’uomo farfuglia qualcosa in un impacciato inglese, l’unica cosa che capisco e’ “2 hours”, sono ormai 4 ore che sono in viaggio, sono curioso, ansioso di raggiungere una regione magica, per lo più conosciuta per il pregio delle lane delle loro particolari capre e pecore. Vediamo di capirci meglio: la valle del Kashmir e’ una regione verde e fertile incastonata tra alte montagne innevate, che arrivano fino ai 5000/6000mt della catena del Panjal. Questa e’ sicuramente una delle zone più belle dell’India, ma dal 1989 e’ stata oggetto di violenze per averne il controllo. Il libro guida che uso per avere maggiori informazioni sul paese che visito, non consiglia di recarsi in questa regione, perché il potenziale rischio e’ ancora troppo alto, spero solo di non capitare nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Al contrario le notizie che ho raccolto sono quasi tutte confortanti, dicono che ormai il Governo indiano e pakistano stanno studiando una soluzione a tavolino, ma tutto potrebbe cambiare da un giorno all’altro. Non chiudo occhio un secondo, non mi lascio sfoggiare neanche un particolare, cerco di viverlo e godermelo al massimo, così da portarlo dentro di me per tutta la vita, che esperienza che sto vivendo! Le scimmie con le loro acrobazie allietano il viaggio, ed anche per i militari sono un piacevole diversivo nelle lunghe e monotone giornate. Pensate voi che noia farvi 10 ore in piedi ai lati dell’unica strada, che collega la capitale estiva della regione del Jammu & Kashmir a Srinagar, quella invernale. Migliaia d’automezzi al giorno che con i loro gas di scarico formano delle immense nubi nere, che inducono anche me a mettere la maglietta sul viso. Molti di loro mettono dei fazzoletti per filtrare, per quel che e’ possibile, l’aria. Chissà a che cosa pensano? Chissà dove e come vivono? Avranno una famiglia? Quante cose mi piacerebbe domandargli. In verità, quando ci fermiamo a caricare Kooka ormai vicino a Srinagar, dopo nove ore e trenta di strade di montagna (!!!), sono molto felice. Da quando sono entrato in Kashmir, tutto e’ cambiato. Posto di blocco sul confine, mi hanno fatto scendere dalla jeep, accompagnato per 200 mt in salita, al mio fianco tutte le macchine in coda, anch’esse nell’attesa di essere controllate. Arrivo ad una piccola casetta di legno di circa 6 metri quadrati, all’interno due militari, uno dei quali con una targhetta sulla giacca con scritto: “capo della polizia turistica”. E’ proprio lui che si avvicina, mi saluta gentilezza e mi chiede come sta andando il viaggio. Appena gli rispondo m’interrompe e mi chiede il passaporto. Lo passa al collega che trascrive tutti i dati. Una volta che ha in mano i documenti, il capo cambia completamente e con tono deciso mi chiede: Dove sta andando? Srinagar gli rispondo.
Perché stai andando in quella zona?
Turismo, sono solo uno studente.
Quanto tempo rimarrai in Kashmir?
Due o tre settimane.
Gli rispondo secondo i miei progetti, tranquillo di non aver niente da nascondere, infatti, va tutto bene, mi riconsegna il passaporto e mi augura buon viaggio. Il Kashmir, regione dalla quale arrivano le lane più pregiate al mondo, usate poi per fare caldi e costosi capi d’abbigliamento, e’ sotto regime militare! Ce ne sono ovunque lanci lo sguardo, e’ incredibile non mi sarei mai aspettato una simile situazione. Il Kashmir è chiamato dai Mughals locali “Paradise on earth” il Paradiso sulla terra e ne hanno ben ragione. E’ come un diamante con le sue innumerevoli facce, incastonato come un gioiello nel territorio indiano. Le due maggiori catene montuose dell’Himalaya, a nord il grande Himalaya ed a sud il Pir Panjal, fanno da cornice. La regione e’ inoltre famosa per le sue splendide stagioni, ognuna con il suo carattere e charme. In primavera (da Marzo a Maggio) si posso vedere tappeti che coprono il terreno formato da milioni di fiori. In estate (da Giugno ad Agosto) l’intera valle cambia faccia con una moltitudine di sfumature di verde. In autunno (da Settembre a Novembre) i verdi paesaggi cambiano e diventano color oro con sfumature rosse. Infine in inverno (da Dicembre a Febbraio) il paesaggio si mette a nudo, tutto intorno si ricopre di bianco con la prima neve, si aprono così altre diverse magiche visioni.
In passato i Mughals coprivano lunghe distanze per passare le estati in queste fresche valli. Furono proprio loro che favorirono lo sviluppo d’arti e mestieri, principalmente lo sviluppo di splendidi tappeti.
Ritornando a noi, ecco come un originale compromesso alla fine del ‘800 ha permesso agli inglesi la costruzione delle famose house boat. E’ una storia interessante da raccontarvi. Per gli inglesi il Kashmir era la meta ideale per un soggiorno estivo, lontani dalle calde ed umide pianure. Il problema era però che il Maharaja aveva vietato loro di possedere degli appezzamenti di terreno, ed ecco allora la brillante soluzione: gli inglesi avrebbero continuato a soggiornare tra quelle montagne e verdi valli, ma in case senza fondamenta e senza terreno. Insomma solo su “abitazioni galleggianti”. Oggi ci sono circa mille house boat sul lago Dal e Nagil di Srinagar. Si tratta d’eleganti barconi dalla chiglia piatta, lunghi fino a 20 metri e larghi fino a 6/8 metri, inadatti alla navigazione ma perfetti per lunghi soggiorni con tutti i confort ai quali gli inglesi erano abituati. Esiste solo una scaletta che dall’acqua porta alla veranda, abbellita da colorati cuscini e colonnine di legno finemente intarsiate. Dopo una porta scorrevole (circondata da grosse cornici di legno anch’esse lavorate a mano, con fiori, animali e figure geometriche che sembrano quasi prender vita), si entra in saloni arredati con mobili inglesi d’inizio novecento, grossi divani, lampadari di cristallo e, tappeti preziosi sovrapposti l’uno all’altro, quasi ad ostentare maggior ricchezza. La sala da pranzo può ospitare facilmente dieci persone e dargli cibi deliziosi preparati in cucine dotate di tutto. Le camere da letto sono tutte con il bagno privato, ed anche in loro e’ tutto curato. Grosse finestre scorrevoli, i cui vetri sono colorati con tinte chiare, incastonati all’interno di fasce di legno a forma di stella, completano la camera con letto king size e verandina privata. Il particolare che però attira di più la mia attenzione e’ il soffitto; e’ formato da piccoli quadrati di legno incisi su tutti i lati, e’ veramente unico, non ho mai visto una cosa simile. Sono vere e proprie case galleggianti, cullate dalle dolci acque del lago, svegliate all’alba dal canto degli uccelli che con dolcezza si posano sui fiori di loto circostanti. Che vita, che pace e pensare che a dieci minuti di shikara le strade brulicano di militari.
Le migliaia di house boats sono un triste spettacolo di decadenza, disabitate nella quasi totalità e immerse, come ho già detto, in prati di fior di loto. I proprietari di quelle non ancora abbandonate siedono mestamente sulle verande e attorno alle pochissime che ospitano qualche turista si attardano le poche shikara di venditori rimaste. Durante il tragitto dal Dal Lake al Nageen Lake, nei canali che connettono i due laghi attraversando i quartieri indu’ ora largamente disabitati, ritrovo atmosfere di Venezia con rive di mattoni fatiscenti e case a picco sull’acqua. Le shikara sono imbarcazioni semplicissime: il fondo e’ piatto e si manovra con una pagaia di forma analoga ad una vanga, la cui pala e’ tradizionalmente sagomata a cuore. Seduti a poppa la voga ha un meccanismo simile alla veneta: s’imprime spinta alla barca nel solito modo della pagaia, ma al termine della palata si ruota l’asse del remo e si imprime una spinta laterale facendo leva sulla falca, per tenere la barca in direzione. Il metodo e’ molto efficace: le barche ad un remo procedono con un andamento piu’ rettilineo di quelle venete e raggiungono anche a pieno carico velocità inaspettate dall’apparente rudimentalità dell’insieme. I loro profili nel lago al tramonto sono di un’eleganza paragonabile ai luoghi attorno. Peccato che negli ultimi anni le house boat si sono svuotate per la tensione che c’e’ tra il Governo indiano e pakistano. Srinagar con il suo gusto medioevale e’ una bella città. Le vie, che sembrano labirinti ed i movimentati bazar, sono originali nel loro sviluppo. Il bellissimo forte Mughal domina la città, ma e’ impossibile da visitare, tanto per cambiare e’ sede militare. Srinagar e’ stata per molto tempo il maggior centro commerciale del Kashmir. Il fiume Jelum ed i ponti di legno costruiti per attraversarlo, danno alla città ancora maggior fascino. L’house boat di Kooka costa 10 euro con colazione e cena inclusa. La raggiungo con la tipica barca a remi khasmira, la solita “shikara”, proprio nel momento del tramonto. Il sole si specchia sul lago creando scie luminose, disturbate solo dalle leggere onde create dalle barche e dalle loro ombre.
Finalmente dopo 10 ore sono sdraiato su dei comodi cuscini, mi godo il momento ed il dolce dondolio della schikara. Intorno, una città galleggiante si sta preparando per la notte. Si può trovare tutto il necessario lungo i canali. Incredibile dopo poco non c’e’ nessun rumore, se non la pagaia che accarezza la superficie delle pulite acque. Chiaramente l’house boat si chiama “Kooka’s deluxe H. B.”, e’ l’ultima di una fila d’imbarcazioni allineate lungo la riva, divise solo da grosse foglie di fior di loto, che gli abitanti raccolgono nelle stagioni fredde, per darli da mangiare al bestiame.
Sistemo gli zaini in camera e vado in veranda dove mi aspetta un tè caldo. Mentre lo sorseggio mi godo il silenzio attorno, ripensando alla lunga e faticosa giornata, in ogni suo particolare per renderlo sempre più mio, unico e portarlo dentro per tutta la vita. La storia di popolamento del Jammu e della condizione del Kashmir è un’annotazione degli impulsi costanti dell’immigrazione dal nord-ovest, ad ovest, dal sud e dall’oriente. Le corse dello straniero, i gruppi etnici e le varie religioni hanno influenzato gli abitanti e la loro cultura di vita. Ogni gruppo sociale è il custode delle tradizioni culturali distintive e del nucleo di vari generi d’interazioni sociali. Un gruppo etnico fornisce non soltanto l’identità del gruppo, ma anche l’amicizia, i modelli d’unione, il successo negli affari e la base politica. Il mosaico del gruppo etnico in Jammu e nel Kashmir è complesso e la struttura non può essere spiegata senza capire i movimenti preistorici della gente. Nel corso del popolamento della regione, i Dardi nel nord-ovest, i Ladakhi nell’est, i Gujjarati e Rajput nel sud e i Paharis nel sud-est, hanno influenzato molto attentamente l’origine etnica attuale della gente. La composizione razziale della condizione inoltre è stata influenzata dagli immigranti dai territori di Turkmenia, Tadzkistan, Uzbekistan, Kazakistan, la Georgia, Azerbaijan (U.s.s.r.) Turchia, l’Iraq, l’Iran e l’Afghanistan. I vari gruppi etnici del Jammu e del Kashmir comunque anno le loro zone di alta concentrazione. Per esempio, i Kashmiri sono pricipalmente concentrati nella parte inferiore della valle. I Dardi occupano la valle di Gurez. I Gujjarati e Bakarwal sono viventi ed oscillanti nelle zone di Kandi. I Dogra occupano gli outskirts della pianura del Punjab, mentre Chibhali e Panari vivono in tensione fra i fiumi di Jhelum e di Chenab. Inoltre, ci sono piccoli gruppi etnici numerosi come Rhota, Gaddi e Sikh che hanno concentrazione significativa in luoghi isolati. I Kashmiri sono molto diffusi nella valle dei tehsil del Kashmir, di Kishtwar, di Bhadarwah, di Doda e di Ramban nella divisione di Jammu. L’influenza di Sanscrito sulla lingua di Kashmiri è molto forte. Inoltre, il Kashmir ha ricevuto gli impulsi razziali dai Indo-Greci che hanno influenzato considerevolmente la struttura della gente.
Srinagar Kashmir 08/10/2005
Ore 09.40, che razza di sveglia dopo un lungo viaggio! Non ci volevo credere, l’anno scorso ero in Sri Lanka quando c’e’ stato lo tsunami ed adesso mi trovo qui in Kashmir. I miei amici non vorranno più che li vada a trovare. Non è possibile eppure e’ lui ormai lo riconosco, e’ un earthquake, un terremoto! La barca inizia a dondolare nervosamente, anche il letto non e’ da meno. Balzo in piedi in un attimo. Saranno già passati dieci secondi e sta aumentando. Faticosamente mi affaccio alla finestra con le braccia aperte come un equilibrista, da alcuni alberi che oscillano sulla riva, fuggono spaventati stormi d’uccelli. I pali ai quali e’ ormeggiata la barca tremano notevolmente, come se ci fosse qualcuno sotto la superficie a scuoterli con violenza. Dal fondo del lago salgono centinaia, migliaia di bollicine d’aria, sembra che l’acqua stia bollendo, stia friggendo, così la scena e’ resa ancora più spaventosa! Alzo lo sguardo richiamato da intense urla. In alcune piccole imbarcazioni locali, ci sono due bambini, probabilmente fratelli, che urlano come pazzi, si stringono al corpo della madre, la quale si guarda attorno non sapendo che cosa fare. Il suo sguardo è perso nel vuoto, sta solo aspettando che finisca, è impotente davanti alla forza della natura. Pian piano la canoa ondeggia sempre di più, e’ ormai vicina a capovolgersi! Sulla canoa vicino ci sono due bambine che urlano insistentemente, piangono disperate, la mamma al loro fianco si guarda attorno senza sapere cosa fare, ha lo sguardo perso nel vuoto! E’ tutto così vero che sembra finto, organizzato per il piacere e la sorpresa del turista, però purtroppo non siamo in un posto turistico, non ci sono centinaia di persone in gruppi organizzati, le lacrime e le urla dei bambini sono vere e strazianti. Inoltre siamo tutti inermi contro catastrofi di questo tipo, bisogno solo sperare che passi al più presto. La scossa dura circa 20/25 sec., dopodiché metto un paio di pantaloni, prendo soldi, documenti e vado sul ponte principale. Trovo Kooka che sta cercando di tranquillizzare la famiglia ed i parenti. Gli chiedo come sta e se ha subito danni in casa, mi risponde che a parte il televisore caduto, qualche piatto e bicchiere rotto in cucina, niente di più. Sinceramente non mi sono spaventato più di tanto, ho cercato di cogliere tutto quello che mi accadeva intorno, ho pensato che essere su una barca ancorata in riva ad un “piccolo” lago è uno dei posti più sicuri durante un terremoto. Non c’e’ pericolo di tsunami, e l’house boat non ha fondamenta, di conseguenza non può crollare, per questo sono riuscito a mantenere la calma. Il primo pensiero va alla mia famiglia, ai miei cari, chiedo immediatamente di portarmi al più vicino internet point, sperando che funzioni, cosicché possa mettermi in contatto, dirgli che sto bene. Si spaventerebbero troppo saperlo dalla televisione o dai quotidiani. Come spesso accade, la prima scossa e’ stata seguita da molte altre d’assestamento, la più forte delle quali alle due di pomeriggio. Dopo trenta minuti di confusione, riesco a prender una barca. Gli elicotteri sono già in volo sopra la città, le notizie finali parleranno di più di 800 morti solo a Srinagar, in totale moriranno a causa di questo tremendo terremoto più di 80.000 persone, la maggior parte dei quali bambini packistani. Distruggerà una generazione, la maggior parte dei morti saranno tutti bambini, uccisi all’interno di scuole crollate, lascerà un paese allo sbando per mesi e nelle tristezza per tutta la vita, sono catastrofi che non si possono dimenticare facilmente. Quando arrivo sulla strada che costeggia il lago c’e’ un gran via vai di militari. Passo attraverso decine di loro che corrono all’interno delle caserme e poi escono armati fino ai denti su dei grossi camion. Credo che anche in queste situazioni i militari pensino subito come difendere i punti strategici ed a portare avanti la politica intrapresa dal loro paese, piuttosto che pensare a correre in aiuto dei feriti. Raggiungo l’internet point, hanno anche un telefono, dopo circa dieci tentativi finalmente riescono a mettermi in contatto con l’Italia, parlo con mia madre e la tranquillizzo spiegandole in maniera “soft” l’accaduto, così da tranquillizzarla. In Italia destino c’e’ “stranamente” uno sciopero, oggi e’ giorno di festa per i giornalisti, così ancora nessuna notizia e’ filtrata. Ok, adesso che i miei cari sono avvisati, provo a scrivere qualche mail agli amici, ma poco dopo ecco un’altra scossa, fa tremare tutto, questa volta però sono al secondo piano di un edificio vecchio e fatiscente, così esco velocemente in strada e faccio ritorno in house boat, almeno là sono al sicuro. Torno sdraiato su una “shikara”, noto come la vita sul lago è quieta, calma, come se nulla fosse accaduto, eppure a poche decine di metri sulle strade sono tutti in movimento, nessuno è in casa, tutti per le strade per la paura di una nuova scossa. Invece qui tutto nella normalità, questo mi aiuta ancor di più a mantenere la mia serenità pur non sapendo, l’entità dei danni, se le vie di comunicazione sono aperte o, se c’e’ pericolo d’epidemie. L’anno scorso in Sri Lanka e’ stata meno forte e più breve la scossa, ma poi i morti sono stati più di centomila, non so che cosa mi debba aspettare nei prossimi giorni, vedremo.!!! Le poche righe che sono riuscito a leggere in internet, dicevano: terremoto nel Kashmir indiano e pakistano con magnitudo 7.8 richter, epicentro a Jalalabad in Pakistan a nord d’Islamabad. L’epicentro e’ stato riscontrato a 125km da Srinagar, proprio dove mi trovo! Molti di voi penseranno che sia meglio starmi lontano, oppure vicino, perché la pellaccia la porto sempre a casa, dipende dai punti di vista, in ogni modo a me anche questa volta non è successo niente. Alla sera rifletto sull’accaduto in compagnia del dondolio della barca, causato da piccole scosse d’assestamento, Katrina a New Orleans, terremoto in Indonesia, uragano Jasmine in Messico, le varie Wanda e Rita, che sembrano per lo più il nome di due pacifiche casalinghe, invece portano distruzione e morte. Molti altri ancora, inutile elencarli ma sempre mortali. Che cosa sta succedendo? E’ tutto solo un caso o, e’ la naturale evoluzione terrestre? Sappiamo che grossi eventi atmosferici sono ciclici e si ripeteranno, siamo proprio capitati in quel periodo? L’uomo, e’ in qualche modo causa del problema? Agli scienziati l’ardua risposta, anche se la terra e’ imprevedibile, non c’e’ niente di certo e, niente e’ impossibile nel suo inarrestabile mutare. A Mirissa in Sri Lanka dopo lo tsunami e descrizione serata a casa di Kooka a mangiare con musulmani e israeliani, due culture e credi così lontani, in una stanza con alle pareti grossi quadri della mecca.
SRINAGAR (1800mt)-SONAMARG (2740mt) 12/OTTOBRE/2005
Oggi finalmente partirò per raggiungere il sognato e pericoloso Ladakh, sulle orme di Marco Polo. Ripercorrerò la vecchia e mitica “silk way” o via della seta usata già dal terzo secolo avanti Cristo. Il termine via della seta, venne per la prima volta nominato nel 1877 dall’esploratore tedesco il barone Ferdinand von Richtofen, che l’ha definita come una strada trasversale che favoriva la nascita di incredibili idee di commercio, ed inoltre favoriva lo sviluppo della religione e dell’arte. Il sistema carovaniero che collegava il Mediterraneo orientale alla Cina noto come la via della Seta, comprendeva un’area vastissima dal medio oriente attraverso gli altipiani iranici ed afghani, le catene dell’Hindo Kush e il Karakorum fino al Turkestan cinese dove una via si diramava attraverso il Pakistan per la Valle dell’Indo e alle rotte dell’ India. La via principale proseguiva nel territorio dell’impero cinese, l’altro polo economico e culturale del gran traffico carovaniero rispetto all’occidente. Tuttavia il contatto diretto fra i due mondi fu sempre ostacolato dalla presenza delle potenze persiane, fino all’avvento dell’Islam, che con il suo avanzato sistema commerciale favorì l’ingresso dei mercanti e viaggiatori occidentali.
Ripercorre le rotte della Via della Seta, è come sfogliare una vasta documentazione che testimonia millenni di commerci e culture. Cammelli carichi di seta, attraversavano migliaia di chilometri, per commerciare il prezioso materiale di cui la Cina ha mantenuto a lungo il “segreto” della sua lavorazione garantendosi cosí il monopolio del prezioso “articolo” che trovava acquirenti in tutto l’occidente. La lunghezza è di quasi 12,000 chilometri ed in passato i carovanieri avevano bisogno di persino 1 anno per percorrere l’intero tragitto. La via della seta è un esempio di come l’umanità si è sviluppata nel corso del relativo periodo storico, e come si è passati da cultura a cultura attraverso le diverse fasi. La seta era il prodotto principale durante quelle corse pericolose lungo le steppe, i deserti ed i percorsi montagnosi. Tuttavia, i viaggiatori sui cammelli non hanno trasportato soltanto seta. Per secoli dall’est all’ovest e dall’ovest all’est hanno trasportato una gran quantità di materie prime e di merci fatte di: bronzo, porcellana, lana, cobalto. Oltre al fiorente commercio, le strade della seta servirono da apripista per le idee di diffusione di tecnologie, arte e religioni, promuovendo un arricchimento reciproco delle culture e della formazione di un’eredità storica comune a tutta l’umanità
La “Via della Seta” ha un grosso potere evocativo in grado di suscitare forti emozioni e di far viaggiare l’immaginazione su commerci d’ogni tipo tra oriente ed occidente, attraverso scenari naturali unici nel loro genere, creando un insieme d’avventure fantastiche e d’avvenimenti che hanno segnato il destino e la storia di popoli e culture.
Attraverso le vie dell’Himalaya specialmente nelle alte valli del sistema Karakorum-Himalaya, avvenivano i passaggi del traffico carovaniero tra l’Asia Centrale, la Cina e l’India, permettendo lo sviluppo di piccoli e potenti regni lungo l’intero arco montuoso, dal Pakistan all’Himalaya orientale nelle regioni dello Swat, Hunza,Kashmir, Ladakh, Nepal, Tibet, Sikkim e Bhutan.
Questi percorsi permisero anche la penetrazione del buddismo in tutta la vasta area, condizionando l’esistenza delle popolazioni dal Ladakh al Buthan. Mentre la penetrazione dell’islamismo nel Pakistan e nel Kashmir dall’Asia centrale e, dell’induismo dall’India, costituì vere vie di penetrazione religiosa.
Il Ladakh e’ la terra degli alti passi e separa le vette dell’Himalaya dall’altopiano tibetano. Aperto al turismo solo dal 1974, soffre ancora oggi degli improvvisi ed inaspettati attacchi dell’esercito pakistano. La cosa peggiore è che usano lo splendido territorio come campo di battaglia. E’ un’area sensibile, i suoi confini con Pakistan e Cina la mettono in continuo pericolo. Chiamato anche “little Tibet” per la sua somiglianza agli altopiani tibetani e’ un insieme di culture e religioni completamente diverse tra loro: Musulmani da Srinagar a Kargil e, Buddisti da Kargil a Leh, passando da grosse moschee ad imponenti bianchi monasteri. I primi insediamenti nella zona furono costruiti da monaci Buddisti durante il loro pellegrinaggio dall’India al sacro monte Kailash in Tibet, considerato la casa di Shiva (Shiva e’ un Dio Induista che fa’ parte della Trimurti. Le tre forme del dio supremo Brahaman, l’eterno, sono: Brahma e’ il Dio creatore, Vishnu e’ il Dio che preserva e Shiva colui che distrugge). I primi splendidi forti, castelli e palazzi costruiti nella vicinanza della valle del fiume Indù, risalgono al IX secolo D.C. Il Ladakh confina a sud e sud/ovest con la grande catena dell’Himalaya con le possenti cime del Nun (7142mt) e, del Kun (7134mt) che lo divide dal Kashmir; a nord con la regione del Baltistan e le alte vette del Karakoram, tra le quali spicca il K2 di 8611 mt, il secondo più alto al mondo dopo l’Everest che arriva ad 8848 mt; mentre ad est confina con India e Tibet.
Il piu’ importante aspetto fisico della zona sono le catene di montagne parallele dello Zanskar, del Ladakh e del Karakoram. Come ho già detto essendo “vicini” all’Unione Sovietica, all’Afghanistan, al Pakistan, alla Cina ed al Tibet, la regione e’ stata d’importanza strategica per secoli. Per darvi un’idea ancora piu’ chiara, pensate che il Ladakh ricopre una superficie di circa 100.000 kmq, più del doppio della Svizzera. Le valli spesso ricoperte di sabbia sono i luoghi dove risiedono gli abitanti indigeni, vivono tra i 3000mt ed i 4580mt, sono nomadi o vivono in piccoli paeselli, spesso vicino a monasteri situati nei posti piu’strategici, in cima a “colline” o a strapiombo su facciate rocciose, proprio come le nostre chiese. La siccità e di conseguenza quel suo aspetto desertico, e’ causato dai pochi centimetri di pioggie annuali, bloccate dalla gran catena Himalayana, infatti, la maggior parte del paesaggio si presenterà con poca vegetazione, ripidi canyon ed alte cime innevate. Il paesaggio del Ladakh e’ stato anche soprannominato “moon Land” o terra lunare, per le strane forme che hanno assunto nei secoli i pendii. Da Srinagar a Leh (la raggiungerò in circa 7 giorni) sono circa 450/500 km di strada per lo piu’ sterrata quando va bene, quando va male asfaltata a puzzle con grossi pezzi mancanti e profondi buchi. Costruita negli anni sessanta per raggiungere più facilmente e velocemente le zone di guerra, è stata scavata nelle montagne, ed e’ percorribile solo da metà maggio fino ad inizio ottobre. E’ così stretta e sottile da avere un unico senso di marcia in alcune ore del giorno, a volte per giorni interi, per consentire lo spostamento di lunghi convogli militari. E’ un filo polveroso che collega Srinagar, capitale estiva del Kashmir a Leh capitale del Ladakh; inoltre collega due incredibili, differenti culture e religioni, quell’Islamica con quella Buddista, passando dai fini e furbi commercianti kashmiri a quelli tranquilli e meditativi Ladakhi. La maggior parte delle persone la percorre in due giorni, se non capitano imprevisti che possono anche raddoppiare la durata del viaggio. Tra gli imprevisti si possono elencare, terreni che cedono che cancellano il percorso, piogge o nevicate improvvise che cambiano il paesaggio, camion incastrati tra loro, posti di blocco ecc…
Come sempre non so bene quando partirò e neanche quando arriverò, la strada sara’ piena di sorprese, dovrò avere tanta pazienza e scegliere un buon autista con una macchina meccanicamente in ordine, senza le solite gomme super lisce, che sembra che debbano scoppiare da un momento all’altro. Vecchi camion, autobus sgangherati e carichi all’inverosimile, dall’andatura lenta ed incerta mi accompagneranno per tutto il viaggio. Ok, si parte. Sono le 11.20, ho affittato una jeep con il “driver” l’autista, perché non c’era la possibilità di prendere un bus, ormai con le nevicate alle porte non partono piu’, sono in piena bassa stagione. Prezzo concordato onesto 7000 rupie circa 130 euro per sei notti e sette giorni di viaggio, voglio proprio godermelo il Ladakh con diverse tappe lungo il percorso da poter così apprezzare appieno le sue meraviglie.
La strada costeggia il Dal lake con le solite “shikara” pigramente a zonzo tra le sue acque, poi d’improvviso inizia a salire lungo un fiume con un letto immenso circondato da montagne e lunghe pietraie che arrivano fino a valle; la presenza militare, piu’ mi addentro verso il confine della zona contesa, piu’ diventa numerosa. I visi, gli indumenti dei locali sono cambiati radicalmente, la gente e’ piu’ coperta, vestita di scuro per attirare maggiormente i raggi del sole. Le loro barbe lunghe ed incolte, il volto scuro e gli occhi neri penetranti mi fanno tornare alla mente i valorosi guerrieri kashmiri.
Accenno un saluto ed alcuni felici contraccambiano, fieri di venirmi a stringere la mano, altri camminano senza neanche girare lo sguardo, quasi disturbati dalla mia presenza. Pensate che sono luoghi che fino a dodici o tredici anni fa erano off-limits per chiunque e tutto oggi la presenza di viaggiatori e’ molto limitata. Tra la guerra, le barriere climatiche e naturali sono questi luoghi poco visitati, in alcune zone ancora non hanno visto uno straniero.
All’improvviso il driver inchioda senza nessun motivo apparente, mette la testa fuori dal finestrino, si gira verso di me e dice: “sorry sir, sorry sir”, ma che cosa è successo? Scendo controllo le ruote ed, infatti, una di queste è completamente a terra, così sostituiamo la ruota, osservati da molto vicino da due militari e diversi passanti incuriositi.
Dopo solo dieci minuti siamo ancora in viaggio, la prossima tappa sara’ far riparare la gomma, perché se dovessimo bucare ancora saremmo a piedi o con un cerchione quadrato. Infatti, dopo poco ci fermiamo in una casetta lungo la strada. Troviamo un uomo di circa 35 anni, con un occhio bianco e l’altro azzurro, che in 45 minuti, con attrezzi medioevali ci ripara il danno.
Nel frattempo arriva un militare arma in spalla, si avvicina e mi chiede da dove arrivo, “Italy” gli dico e sorride. Ad un tratto senza proferire parola mi mette il fucile tra le mani, rimango basito, cosa sta succedendo, magari mi vogliono incastrare in qualche subdola maniera? Poi all’improvviso mi dice: “photo?”, aahhh un sospiro di sollievo sara’ solo la macchina fotografica a “sparare” fotografie.
Imbraccio un AK47, stupito ed un po’ impaurito lo maneggio con cura, mi avvicino a lui ed e’ così che ho una foto da guerrigliero con arma in mano. Ne approfitto della sua bravura, e dopo avergli lasciato l’indirizzo di casa, incuriosito gli chiedo: “come ti chiami?” Batu mi risponde; due anelli di ottone e zinco (i piu’ poveri che si possono trovare in India) avvolgono le sue dita nere affusolate, ha 26 anni e da 6 e’ sotto le armi, gli mancano ancora 14 anni di servizio in queste pericolose zone. Mentre si pulisce il naso nella giacca mi spiega che guadagna 9000 (175 euro) rupie mensile, piu’ 2000 di extra. Gli chiedo: ” che cosa intendi per extra?”, mi spiega che in base al luogo ed alla pericolosità l’extra aumenta o diminuisce, ad esempio ai piedi dell’India nella regione del Tamil Nadu, dove egli ha servito il paese per tre anni, gli davano 600 d’extra (probabilmente però durante gli anni ’80 quando imperversava la rivoluzione Tamil, l’extra doveva essere molto piu’ alto, perché le “tigri” erano molto piu’ pericolose delle omonime a quattro zampe). A questo punto gli chiedo a quanto ammonta l’extra lungo la strada che dovrò percorrere, rimango un po’ spaventato dalla risposta, a Kargil 6500 extra al mese perché sei sulla linea di confine ed i pakistani ti sparano senza nessun problema! Tiriamo le somme per capirci meglio sul massimo che un soldato può guadagnare: 9000 per 12 mesi, piu’ 6500 di extra per 12 mesi, raggiunge un totale di 186.000 rupie, circa 3500 euro annue per rischiare giornalmente la propria vita per 20 anni!!! Ma ne vale la pena?
Sono già passati 45 minuti ed il ragazzo non ha ancora finito di aggiustare la gomma, mi guardo attorno e vedo un gruppo di bambini che giocano a cricket, sicuramente lo sport più conosciuto e praticato in India. Stanno giocando in mezzo ad un campo vicino all’unica strada che attraversa il paese, non curanti di eventuali pericoli nasconde sulle montagne attorno. Tra di loro c’e’ né uno velocissimo, con una falcata da saltatore, è un atleta, mi diverto a guardarli e già che ci sono faccio un paio di lanci anch’io. Che figura, mi hanno massacrato. Ad un tratto un urlo attira la mia attenzione, “sir, sir everything is ready we can go, come on let’s go”. Il percorso diventa ancora piu’ brutto e stretto, i picchi innevati iniziano a scorgersi tra le scollature delle “colline”; le nuvole sembra che gli danzino attorno, a momenti velandogli la cima, ed altri facendo da sfondo ideale per lasciare spaziare lo sguardo e soprattutto la mente. Grazie anche alla guida sicura e piacevole riesco ad ammirare ogni dettaglio della magnificenza della natura, mi sento orgoglioso di farne parte e di poter partecipare allo spettacolo che, ombre, alberi con immense foglie intensamente colorate di giallo e rosso, pinete e cascate offrono alla vista. Mi piace immaginare le montagne circostanti, come se fossero la tela di un pittore, dove madre natura con le piogge ed i venti ha modellato sempre piu’ le loro vette, per poi, con un’unica genialità mettere pinete ammantate di verde scuro che ricoprono a macchia di leopardo la superficie e con le loro radici che li tengono in equilibrio su spaventosi dirupi. Sono le grosse e forti radici a sostenere immensi massi, che senza di loro franerebbero rovinosamente a valle. Cascate ti accecano al riflesso del sole, le quali non curanti dell’altezza si lasciano cadere nel vuoto, quasi a polverizzarsi. Alla fine della loro caduta, ritornano ancora un tutt’uno, danno vita a pesci e, piante, che ai suoi piedi sono lussureggianti e dai mille colori. Lunghe pietraie che dall’alto si aprono ad imbuto, e nel mezzo decine d’alberi sradicati dalla forza delle frane che possono cambiare continuamente lo scorrere del fiume. Verdi prati che a terrazze si arrampicano sui pendii, candida neve che sfuma con il suo candore gli angoli piu’nascosti, quelli esposti a nord, dove non batte mai il sole, mentre in altitudine e’ presente ovunque, e solo alcune rocce color rosso fuoco riescono a spuntare come scogli in mezzo alla bianca schiuma dell’oceano.
Welcome to Sonamarg 2740mt: luogo dove risiede la pace e si ricarica lo spirito. Dopo una curva si apre una vallata incastonata tra vette innevate, con alcune case in sasso e fango che si mimetizzano e s’integrano perfettamente con i colori e la forma del paesaggio circostante, incorniciato dal ribollio delle rapide di un fiume ed uno splendido ghiacciaio.
Trovo subito una stanza per pochi euro in un albergo decente, senza acqua calda (te la forniscono solo in secchi di Non so piu’cosa pensare e dove rivolgere lo sguardo, cerco di fare il piu’ possibile istantanee nella mente ed, a bocca aperta m’incanto. Quanti pittori hanno provato con i loro quadri a riprodurre la natura, quanti poeti hanno provato a trasmettere emozioni e sentimenti con i loro sonetti e le loro rime e, quanti scrittori hanno cercato nei loro libri di riportare i fatti ed i luoghi che li circondano, ma mai nessuno riuscirà a riprodurre la vera emozione che si prova nella realtà. Il qui, l’adesso, il “carpe diem”, l’ambiente che ti circonda, il profumo dei fiori, l’aria frizzante, l’incunearsi dei dorati raggi solari tra le nuvole, che tracciano delle linee rette perfette che raggiungono il terreno illuminandolo, creando dei cerchi di luce, sembra ci si possa saltare all’interno ed uscire da un’altra parte e scoprire nuovi mondi.
I cavalli allo stato brado che corrono tra i pascoli, dove pigri kashmiri se ne stanno con il loro immancabile cappello e bastone seduti all’ombra di qualche roccia sorseggiando un “chai”. Controllano il gregge, anche se questo lavoro è già svolto piu’ egregiamente da cani con il lungo pelo, che se non fosse per il loro abbaiare ed il loro frenetico andirivieni si confonderebbero con le soffici lane delle pecore. Sono ormai le 16.30, mentre ammiro il paesaggio arriva un ragazzo con occhi color ghiaccio, m’invita in un piccolo ristorante lungo la strada. Visto l’ora e l’appetito mi lancio sull’offerta, il pranzo è a base di riso in brodo di lenticchie, cavolfiori, pollo bollito e per mia fortuna l’immancabile chiapati, simile alla nostra focaccia, spesso buono ed ottimo sostituto nel caso in cui il cibo fosse pessimo, almeno mangio qualcosa. E’ tutto buono. Finalmente con la pancia piena mi faccio accompagnare a vedere il ghiacciaio Thajewas. Uno scenario dominato da una striscia bianca enorme, che da migliaia d’anni e’ in continuo mutamento e fornisce quotidianamente fresche acque alla valle. Le ultime luci del giorno lo rendono ancor piu’ affascinante, i colori cambiano radicalmente ogni minuto, sfumano fino a diventar rosa chiaro come il tramonto, sembra quasi che il ghiacciaio ed il cielo si fondano in un unico e caldo abbraccio, quasi a prepararsi insieme alla fredda notte. L’uniforme rumore ed uno spumeggiare continuo delle rapide rende ancora piu’ surreale il paesaggio, mi aiuta a concentrarmi sulle forme delle rocce, alcune assomigliano a volti di personaggi famosi, ad animali che assalgono altri, edifici storici e chi piu’ ne ha piu’ ne metta, sta solo alla fantasia di ognuno di noi. Il volare leggero di due falchi mi riporta alla realtà e colmo di gioia e serenità ritorno in camera. L’hotel è accettabile, avrò solo qualche problema per le rigide temperature notturne, visto che le camere sono piene di spifferi.
Il silenzio della notte dalla terrazza con il sorriso della luna in cielo, chiudono una giornata ancor piu’ incantevole d’ogni piu’ rosea aspettativa ed il bello deve ancora svelarsi. Trovo una notevole differenza tra il silenzio notturno e quello diurno. Penso siano entrambi importanti e necessari per rigenerare il fisico, la mente e l o spirito, ma, mentre nel silenzio delle giornate la mente e’ distratta per lo piu’ dallo sguardo, sono gli elementi esterni che influiscono maggiormente sui nostri pensieri; nella notte il silenzio e’ diverso, hai meno distrazioni attorno, e’ solo la mente che vaga nei tuoi pensieri. E’ la qualità del silenzio che non e’ descrivibile, quel silenzio che non e’ casuale ma dura da millenni, rotto solo dal cadere della neve, delle rocce e dallo scorrere dei fiumi. In questi posti è molto più facile lasciarsi andare ancor di piu’ a fantasticare su quello che ti succederà il giorno dopo, e così il sogno continua…
12/ottobre/2005
Programma per oggi, se tutto va bene, punto d’arrivo previsto e’ Kargil, considerata la seconda città piu’importante del Ladakh. Ultimo baluardo musulmano a 2810mt d’altezza. La città e’ situata tra le vallate alpine del Kashmir e la fertile valle del fiume Indù.
Il percorso di questo fiume e’ singolare, passa attraverso le alte vette Himalayane dirigendosi a nord, poi cambia direzione verso ovest, entra in territorio pakistano e ne diventa il fiume piu’grande del paese. La prima volta che il Ladakh sembra essere menzionato e’ stato da Erodoto, grande storico greco vissuto circa nel 440 a.C. e padre della storiografia, che, da vero cronista del suo tempo, volle testimoniare fiabe, tradizioni, usanze, curiosità, meraviglie e leggende delle terre da lui conosciute in lunghi anni di viaggi. Dalla Grecia classica alla magica Ionia, dall’immenso impero persiano alle selvagge steppe della Scizia, dall’Oriente prezioso ai misteri dell’India fino a raggiungere l’Egitto. Il famoso viaggiatore greco, descrive nelle sue favole una terra popolata da splendide formiche. Si dice che mentre scavano le loro case sotto terra, esse buttano in superficie polvere d’oro. Queste formiche erano grosse quasi come cani ed anche piu’ feroci, molto veloci e con un incredibile fiuto. Per gli abitanti di quei luoghi era un duro lavoro recuperare tutto quell’oro. Essi dovevano farlo di giorno, quando le formiche dormivano e caricarlo su veloci cavalli. Si pensa che sia leggenda unita a realtà, l’oro dovrebbe esistere veramente, ma una certa forma di superstizione e, le autorità locali, ne scoraggiano la ricerca.
Il Ladakh e’ la piu’ alta, piu’ remota e la piu’ scarsamente popolata regione dell’India. Ha un clima estremo anche in estate, quando calde e piacevoli giornate sono seguite da fredde notti. E’ tagliato fuori dal mondo da Novembre a Maggio, a causa delle forti nevicate che impediscono il passaggio sugli alti passi. E’ veramente un posto speciale ed unico.
Prima di chiamarlo Ladakh e’ stato conosciuto come:
Mang Yul o il paese di molte persone;
Kha-Chum-Pa o la terra della neve;
Ma-La-Pho o terra rossa.
Il presente nome Ladakh deriva da La-Tags o la terra degli alti passi. Pensate che le montagne del Ladakh sono state il luogo ideale di meditazione Buddista da tre secoli prima di Cristo. Kargil e’ politicamente parte dell’India, etnicamente parte del Baltistan (regione contesa tra India e Pakistan) e parte integrale del Ladakh. Nel 1997 in un agguato, diciotto militari indiani sono stati uccisi, adesso i militanti pakistani sono nascosti sulle montagne attorno e sparano come cecchini quotidianamente (ricordate per lavorare in questi luoghi, 6500 d’extra al mese!). Appena mi sveglio il primo pensiero e’ quello di guardare fuori dalla finestra per ammirare il ghiacciaio illuminato dai raggi del sole mattutino, e’ un altro spettacolo. Apro le tende e per circa venti secondi non riesco ad abituarmi al forte riverbero. C’e’ un cielo terso, azzurrissimo, che evidenzia ancor di piu’ i limiti dei possenti massicci, ai piedi dei quali infreddoliti cavalli si scaldano con i primi raggi di sole che entrano sull’altopiano. Il driver arriva alle 09.30 puntuale, pago la notte, carico gli zaini sulla jeep e così un altro viaggio ha inizio. Almeno credevo. Attraversiamo il villaggio di Sonamarg, che mi ha offerto una delle piu’ belle notti stellate da quando sono partito. La mancanza della luna e di fonti di luce artificiali, dava la possibilità a migliaia di stelle di esibirsi in tutto il loro luccichio, con la via lattea regina in mezzo a loro. Dopo appena 2 km c’e’ già da pagare una tassa per il transito, ci fermiamo ed un militare indica al driver di accostare in un vicino parcheggio e di aspettare l’apertura della strada. L’apertura della strada? E perché? Che cosa e’ successo? Il driver mi spiega che e’ in arrivo un convoglio militare e, visto la pericolosità della strada, rimarrà senso unico di marcia. Non si sa per quanto tempo, non ho altre soluzioni che adattarmi. Poco male in questo magico scenario, mi allontano, vado a sedermi in riva al fiume ed anch’io come i cavalli di prima mi godo il caldo sole e penso che oggi finalmente sarò nel sognato Ladakh. All’improvviso si avvicina un indiano incuriosito, punta dritto verso di me, chissà che cosa vorrà. Come sempre è uno dei tanti curiosi, che approfittano di uno straniero per allenarsi a spiaccicare qualche parola in inglese. Così dopo le solite domande di rito, mi dice di essere l’autista di un camion, sono in tre che si alternano alla guida e si aiutano nei momenti di difficoltà lungo le difficili strade. Che vita…. Il mezzo è proprio casa loro, viaggia con un amico di continuo da un posto all’altro del continente indiano. M’invita orgoglioso a vedere “casa” sua, così mi dirigo verso il parcheggio curioso di vedere come se la cavano. Il grosso camion è attrezzato con tutto il necessario per fare un pasto frugale, si vede dai fornelli che emettono grosse fiamme azzurre sotto a pentole di colme di vegetali. Sempre nell’abitacolo ci sono due piccoli materassini incrociati, sui quali, tra una curva e l’altra, i tre indiani cercano di riposarsi un pò. Dopo “solo” due ore e mezza arriva il convoglio, corro alla jeep, dietro alla quale si e’ formata una lunga coda di camion stracarichi di merci ed altri automezzi con 8/10 persone a bordo piu’ i bagagli. Partiamo per primi, avremo la possibilità di ammirare il panorama, che dalle informazioni che ho letto sui libri, sara’ ancor piu’ bello e spettacolare di ieri. Mi chiedo come possa essere possibile.
Bastano cinque minuti per capire che sto iniziando un viaggio che si rivelerà il piu’ bello, emozionante e difficile della mia vita, in luoghi fino ad ora lontani anche da ogni mia piu’ fervida immaginazione. Ho visitato diversi luoghi scenografici nella mia vita con montagne mozzafiato, come il mount Batur in Indonesia, un vulcano ancora attivo sull’isola di Bali, sulla cui cima, dopo aver fatto colazione a base di uova e banane cotte in un incavo del terreno dal quale usciva un incredibile calore, ho visto sorgere il sole. Da un lato avevo l’infinito oceano, mentre dall’altro l’azzurro lago Batur con belle montagne che l’abbracciano. Oppure quando mi sono trovato nelle tortuose strade che da Luang Prabang, antica capitale reale del Laos, oggi patrimonio mondiale e sotto tutela dell’UNESCO, raggiungono Vang Vieng e Vientiane, attuale capitale laotiana, attraverso infinite gole e verdeggianti valli. Oppure ancora l’arrampicata al vulcano di Lombok, sempre in Indonesia. Il sentiero di Ho Chi Minh in Laos e Vietnam, senza dimenticare le nostre splendide alpi e molte altre avventure, ma mai e poi mai mi e’ capitato di fare 1500 km attraverso montagne con altezze che variano tra i 3000 ed i 5600 mt, su strade sterrate che si arrampicano sui pendii, con enormi buchi vicino ad altissimi strapiombi. Però queste strisce sterrate raggiungono altopiani unici al mondo, che improvvisamente, quando meno te l’aspetti, si aprono dietro una curva. Non so dove guardare, sorrido da solo e non smetto di ripetermi: ma ti rendi conto di dove sono? In mezzo alla catena montuosa con le vette piu’alte al mondo, ma anche le piu’ giovani, formatesi 80 milioni di anni fa’, con lo scontro tra la placca chiamata Godwana (parte dell’attuale India) staccatasi dall’Africa con la deriva dei continenti (era il 1912 quando il meteorologo tedesco, Alfred Lothar Wegener (1880 – 1930), intervenendo in due congressi scientifici a Francoforte e a Magdeburgo inquadrò per la prima volta una serie di dati, in parte già noti e discussi, in una nuova teoria che prese il nome di: “deriva dei continenti”), e la placca Asiatica chiamata Laurasia. Che botta ci deve essere stata, ma n’e’ valsa la pena, il risultato e’ eccezionale, i venti, le piogge, la neve ed i ghiacciai hanno fatto il resto. Montagne completamente rosse, ocra, rosa, marroni e verdi, tutti colori creati dalle innumerevoli sfumature delle rocce, sembra un paesaggio lunare, marziano, così diverso che faccio fatica a trovare sinonimi e parole per descriverlo. Poi, pensate che da queste valli, come ho già detto, passava la mitica “via della seta”. Popoli da tutto il mondo hanno attraversato queste montagne, lasciando parte delle loro ricchezze e non solo. Quante ne hanno viste e quante ne vedranno, ma adesso ci sono io, sono lì tutte per me, mille anni dopo, mi sembra che il vento, correndo attraverso le rocce mi voglia parlare, quasi sussurrare la storia di Marco Polo e, di tutti quegli intrepidi viaggiatori che come lui hanno deciso di avventurarsi in luoghi dove non esiste lo sviluppo, la tecnologia, il consumismo e tutti quei must che al giorno d’oggi sono essenziali per molti occidentali. Mi ritrovo in mezzo a greggi di capre, pecore e grossi yak che sbarrano la strada ed un pastore a volto coperto che cerca di controllarle. Vedo dopo alcuni chilometri dei bambini dai quattro ai dieci anni che chiacchierano seduti in cerchio in riva ad un fiume, mi guardo attorno e, non ci sono case, rifugi, niente, ma da dove arrivano? Che cosa fanno tutto il giorno? I pari età italiani, non riuscirebbero a stare in riva al fiume a chiacchierare spensieratamente per ore ed ore, essi avrebbero come minimo bisogno della presenza dei genitori, avrebbero penso bisogno della play station per divertirsi, o dell’ultimo modello di telefonino da sfoggiare di fronte agli amici. Almeno la maggior parte di loro. Non voglio generalizzare ma penso che la civiltà occidentale e parallelamente lo sviluppo, portino ad un vero allontanamento dai valori della vita, ha partire dai bambini, per poi arrivare fino agli adulti, che senza il bar, pub, televisione, sono persi, non sanno dove andare e cosa fare! Ci scommetterei che tanti, non solo non verrebbero mai in mezzo a queste montagne, ma la proposta di rimanerci senza le quotidiane comodità per un mese consecutivo, li farebbe impazzire. Senza acqua calda, senza televisione. Alla sera dopo le 20.00 non c’e’ piu’ in giro un’anima, spesso si rimane senza corrente elettrica, cosicché la torcia e le candele sono le uniche ad aiutarti. Camere spesso sporche e fredde, con formiche sul letto e sotto il cuscino, solo cibo locale, che, anche insistendo, non e’ possibile averlo non piccante (per il mio stomaco e’ ancora piu’ difficile). I freddi sguardi dei locali, ai quali, per altro basta un cenno con la mano o la testa per farli sorridere. Cavoli noi abbiamo tutto, casa, macchina, telefono, e tutte le possibili comodità, ma siamo sempre nervosi, arrabbiati, suscettibili, mentre qua non hanno nulla e sorridono sempre, mi sembra che i conti non tornino, e’ proprio vero che e’ ricco chi e’ povero, perché al contrario del ricco ha il tempo a disposizione, la libertà e non ha nulla da perdere. Sto tenendomi aggiornato leggendo, quando posso, le ultime notizie in internet e quello che succede. Ricordo ad esempio attori belli, ricchi e famosi, ma drogati fino al collo, mentre altri che si divertono con transessuali e cocaina. Più o meno famose modelle, sportivi e chissà quanti altri che come loro possono avere tutto! Ma forse e’ proprio questo il vero problema, la possibilità di comprarti qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, ti toglie gli stimoli, ti sembra tutto facile, spariscono gli obiettivi, non c’e’ piu’ gusto. Le persone con stipendi “normali”, dopo un anno di duro lavoro, fanno fatica a risparmiare quattro o cinque mila euro per poter fare un paio di settimane di vacanza tranquilli con la famiglia. Di conseguenza per molti la soluzione e’ trasgredire, fare quello che la legge ti nega. Solo con i soldi lo puoi fare perché la legge per i poveri è applicata, mentre per i ricchi è interpretata; e’ inutile che si scrive nelle aule dei tribunali “La Legge e’ uguale per tutti”, da quando mondo e’ mondo non mai stato così. Ripeto, probabilmente sto generalizzando un po’ troppo, ma i casi sono in aumento, ormai molti corrono con i paraocchi dietro all’ideale del consumismo e del possedere, si accontentano delle poche emozioni che ti può dare un giorno di shopping, per poi riporre tali abiti nell’armadio, ancora con la targhetta del prezzo attaccata e, magari lasciarcelo per mesi o per sempre, perché ormai passato di moda. Anche l’uso d’antidepressivi e di medicinali e’ in aumento! Come ho già detto si perde la curiosità che si ha da bambini di toccare, guardare ed assaggiare ogni cosa, sembra che sappiamo già tutto, andiamo in giro con i paraocchi, intanto la vita ci scorre al nostro fianco sconosciuta, in un fulmine. Se ognuno di noi si guardasse in casa, si accorgerebbe di quante cose ha accumulato negli anni che non servono piu’ a niente.
L’emozione vera non e’ sfrecciare con una Ferrari al porto per prendere lo yacht, si trova nella semplicità della vita e della meravigliosa e complessa natura che ci circonda. Un viaggio di dieci/dodici ore su un bus locale, con monaci, galline, sacchi d’aglio, sedili sfondati, indiani incuriositi che ti si appiccicano, e paesaggi incantevoli, ti possono regalare con pochi euro, sicuramente piu’ emozioni ed esperienze che ti possono capitare in centinaia di serate in pub e discoteche a cento euro per volta. Qui con spirito d’adattamento vivi con 250/300 euro al mese (trenta notti, sessanta pasti, e trenta colazioni+ extra). Anche a me e’ successo di frequentare discoteche, locali e di ubriacarmi, ma alla fine e’ sempre la stessa cosa, e’ la ricerca di uno stato tale da toglierti ogni paura ed ogni inibizione, ti fa sentire bene, un super uomo, a tal punto da vantarsene. Quanti di noi il giorno dopo una sbronza raccontano orgogliosi la lista dei vini, cocktail, vodka, negroni ecc…bevuti la sera prima, poi il giorno dopo forti emicranie e così si prende L’AULIN per ripartire. Il professore che mi ha in cura a Roma al policlinico gemelli, un giorno mi disse: “Ho visto una generazione rovinarsi con gli antinfiammatori…” Le paure e le inibizioni, le supero affrontandole, combattendoci giornalmente da anni. Viaggiare con lo zaino in spalla, mi ha aiutato tantissimo ad affrontare l’ignoto, senza sapere esattamente l’ora di partenza e d’arrivo o, se ci sono posti per dormire oppure ancora se si troverà qualcosa da mangiare. All’occorrenza devi lavarti e cucirti i vestiti, parlare inglese con persone non di madre lingua, che non capiscono cosa dici, magari non spiaccicano neanche una parola. A questo punto sono un campione ed interviene la mia gestualità, la sana e comprensibile gestualità tipica di noi italiani che ci fa capire in tutto il mondo. Capitare di entrare in oscuri corridoi, ed arrivare poi in stanze con loschi individui, che cambiano denaro in nero, così da ottenere un cambio maggiore ma con la possibilità di essere fregato, come appunto mi e’ già capitato a Bali, ma questa e’ un’altra storia. Uscire dall’aeroporto di un nuovo paese e, non sapere nemmeno da che parte sei girato ed in che direzione dover andare, con tassisti che ti saltano letteralmente addosso…ecc.ecc. Li sei solo, puoi contare solo su te stesso, far vedere che hai soldi, non può far altro che peggiorare la situazione, aumentare i problemi. Viaggiare in hotel di lusso, prendere sempre aerei per gli spostamenti interni, andare nei villaggi turistici, non ti faranno mai provare le vere culture ed usanze dei popoli, dove la strada e’ la vera vita, il luogo d’incontro, di lavoro e di festa. Quando hai la possibilità di vedere l’altra faccia della medaglia, scopri che forse esistono altri modi per usare il proprio prezioso tempo. Ti accorgi che non esiste solo la società in cui sei nato, che esistono culture e forme diverse di divertimento, gusti e profumi del tutto nuovi, religioni mistiche con le quali confrontarti. Il viaggiare mi ha cambiato il modo di affrontare la vita e questi luoghi probabilmente sono e saranno un valore aggiunto, che mi custodirà gelosamente nello scrigno delle mie esperienze. Vi riporto questi due bellissimi pensieri che mi hanno fatto riflettere:
1) L’impresa piu’difficile da compiere e’ vedere quello che ti sta davanti agli occhi (John Wolfang Von Goetae poeta e romanziere tedesco);
2) Saper affrontare il momento propizio dell’opportunità’ ed afferrare la fortuna che abbiamo a portata di mano e’ la grande arte della vita (Samuel Johnson scrittore inglese); Hanno proprio ragione, ma in questo viaggio e specialmente in questi luoghi cercherò di rallentare, di lasciarmi alle spalle l’incalzante ritmo di vita italiano e, di godermi affondo ogni minimo particolare, proverò a guardare il mondo con un altro “paio d’occhi”, con un’anima “diversa”. Camion lenti che non si possono neanche sorpassare ti bloccano continuamente, quando percorriamo 20km all’ora è già un successo. La strada non è per i deboli di cuore. Ci sono ripidi burroni che accendono continuamente la paura. Mentre ci arrampichiamo lentamente alla parte superiore del passo Zoji La, ho cominciato ad a pensare che questo sarà il mio primo grande valico. Zoji La è il bordo geografico fra il Kashmir propriamente detto ed il Ladakh. Le risaie verdi della valle kashmira, così come le foreste di pini sono sostituite da ampi campi d’erba alpina semiarida. Anche qui siamo costretti a fermarci ancora ad un punto di controllo militare, solite perquisizioni, solite domande di rito.
Come sempre le curve sono infinite, se per qualche motivo soffrissi il mal di macchina sarebbe un inferno, non mi è mai successo, comunque mi concentro sul paesaggio che mi circonda così da distrarmi un pò. Stavo attraversando il prato di Meena Marg,
un ampio pascolo semiarido. All’improvviso ho cominciato a vedere l’erba cambiare da un verde intenso ad un giallo-marrone, mentre il clima è diventato più arido, più asciutto, e l’erba è sostituita dall’ampio deserto del Ladakh. Tranne qualche oasi occasionale ed alcuni campi irrigati nella parte inferiore delle valli del fiume, non vedrò alcun paesaggio verde per altre 3/4 settimane. Dopo circa tre ore eccomi allo Zoji La pass 3529mt, sembra che ne siano passate almeno sei, non so se sara’ causato dalla strada brutta e pericolosa, o per le decine di valli che ho già attraversato, ma non importo lo scenario e’ impressionante. Decine di vette che si aprono all’orizzonte sotto un cielo perfetto. Ripartiamo non senza l’immancabile foto ed un altro check point ci blocca per i controlli di routine. Ok controlli di routine ma alla fine saranno dieci, mi hanno fatto perdere almeno un’ora. Ecco all’orizzonte il prossimo villaggio, ai piedi di una stretta valle, e’ Drass, la località piu’ fredda d’India e la seconda al mondo, pensate che le temperature sono così rigide da andare meno 40/50 gradi celsius!
La città di Drass è situata in uno spazio all’aperto relativamente piano e ha vasti boschetti del salice lungo il fiume. In estate questa città presenta un piacevole paesaggio che in inverno è coperto sotto una spessa coltre di neve. Drass avverte le temperature più basse della valle anche se non ad una altezza esagerata di 3,300 m. Le piccole capanne sono coperte spesso da neve e la comunicazione con il mondo esterno è tagliata per sei sette mesi all’anno.
La valle di Drass è una valle incantata costituita dal fiume di Drass che con le sue correnti e difficili rapide, sarebbe il posto ideale per gli amanti della canoa e del rafting. La valle di Drass comincia dalla base del valico di Zoji La, la porta del Ladakh. Da secoli gli abitanti sono conosciuti perché attraversano quest’arduo passaggio persino durante il periodo più rischioso verso la fine dell’autunno, quando sono frequenti le tempeste di neve, così spesso accade che per trasportare la merce attraverso questi luoghi molti viaggiatori rimangono bloccati e non riescono a passare al di là del passo.
L’estate nella valle di Drass è una stagione molto corta. Comincia in Maggio, quando le nevi iniziano a sciogliersi. L’orzo ed altri cereali di massima sono considerati i principali raccolti. La produzione agricola è impedita da un terreno povero ed improduttivo, così che il periodo della crescita risulta essere molto breve. Inoltre, c’è una mancanza d’acqua perché l’irrigazione non arriva in molte parti della valle. Di conseguenza, i rendimenti agricoli non sono abbastanza per venire incontro alle esigenze della gente che vive in questa zona, infatti molti cereali sono importati dalla valle del Kashmir. Il combustibile è un altro prodotto limitato e deve essere portato dentro attraverso il passo Zoji La. Drass è una base di partenza conveniente per un’escursione che richiede tre giorni di cammino dalla valle del fiume Suru attraverso le valli secondarie che la circondano. Questo viaggio attraversa alcuna dei tipici villaggi ladakhi della regione montagnosa ed alcuni incantevoli prati macchiati da fiori dai mille colori. Lungo il percorso ogni giorno capita che ci si debba fermare per i piu’ strani motivi, ad esempio: camion e bus incastrati tra loro. Frane quotidiane tolte da vecchie ruspe, venti persone che asfaltano la strada e t’impediscono il passaggio, magari anche per un’ora, ma e’ sempre un piacere, non c’e’ nessuno che m’aspetta, inoltre il paesaggio non mi da motivo di annoiarti, tutto quello che mi circonda e’ nuovo per me, non avrei mai pensato in vita mia di vedere la Natura a questo stato, così magnificente da creare giochi d’ombre e mostrare valli si aprono a perdita d’occhio mentre, come bianchi ed aderenti vestiti in seta, la neve ne ricopre i pendii. Potrei dilungarmi in pagine e pagine nella descrizione di queste sculture naturali, di queste opere d’arte senza valore, firmate Madre Natura e, magari in un prossimo futuro lo farò, chi vivrà vedrà. Adesso capisco ancor di piu’ perché queste terre sono da anni così contese e la situazione non sembra migliorare, perciò penso che lo rimarranno ancora per molto. La strada, se possibile, si addentra sempre più nelle valli circostanti, allontanandosi dalla civiltà e dalla modernità. Spesso mi capita di vedere lungo il ciglio della strada, donne sole, con sporchi stracci arrotolati sul corpo e sul viso, che portano pesanti gerle contenti legna, che in queste zone è considerata preziosissima e difficile da trovare.
Arrivo a Kargil, cittadina dormitorio, all’apparenza squallida, misera, e con un inquietante cartello in entrate con scritto: “Kargil battle school”, ma come, anziché fare le scuole per i bambini, qua fanno le scuole per imparare a combattere?
In città, ormai da qualche tempo, ci sono solo poche scelte per dormire e per fortuna dopo tre o quattro tentativi, finalmente riesco a trovare una camera “accettabile”, in ogni modo ci devo restare solo una notte. Si chiama Continental guest house, e’ un edificio su due piani con scale buie, strette e sporche, le camere sembrano un po’ piu’ pulite, anche se gli immancabili capelli svolazzano nelle lenzuola. Pagherò 4 euro. Aspetto che faccia buio per uscire, così da passare un po’ inosservato, poiché da queste parti spesso non si vedono turisti. Primo pensiero e’ quello di cercare qualcosa da mangiare, anche se durante il giorno non ho visto ristoranti per le vie della “città”. Noto all’angolo della via che porta alla mia guest house, con la via principale, del movimento, un continuo andirivieni. Mi avvicino pian piano nel buio, il locale è una stanza nel seminterrato di una casa, dalla quale esce un sacco di fumo, causato dalle sigarette dei “clienti” e dai fornelli del “cuoco”. I muri sono neri carbone, la causa di questa oscurità, è il continuo e diretto fumo che c’e’ nella stanza tutti i giorni. Inoltre, al posto delle piastrelle o di un normale pavimento, c’e’ il terreno, c’è il suolo polveroso. Ci sono diversi locali che mangiano con le mani in grossi piatti pieni di cibo. Spesso in questi casi uso questo motto: “Tanta gente porta ad un consumo continuo di cibo, di conseguenza il cibo dovrebbe essere fresco e buono”, così mi decido ed entro. Subito richiamo l’attenzione di tutti i “commensali”. A destra ci sono tre tavoloni in legno con otto/dieci uomini, alcuni abbracciati l’uno all’altro (e’ un’usanza usata spesso in India tra buoni amici). A sinistra c’e’ uno spazio di circa tre metri quadri, delimitato da due bassi muretti in mattoni, occupati dai fornelli dal cuoco e dalle poche posate che gli servono per cucinare, subito dopo c’e’ un tavolo con tre tibetani, chiedo se posso sedermi con loro, il silenzio e’ totale, nessuno ancora a smesso di squadrarmi dalla testa ai piedi, che storia, sinceramente mi danno fastidio tutti quegli occhi su di me, ma che ci posso fare? Appena prendo posto a sedere, iniziano a parlare tra loro, a mangiare ed a bere caldi “chai” che li aiuteranno durante la fredda notte, anche se ogni tanto alcuni di loro mi guardano quasi a controllarmi, ricordandomi che sono in una roccaforte musulmana. Ordino quello che c’e’ ovvero: Dal (lenticchie al curry o con altre salse piccanti); Alugobi (patate e cavolfiori anch’essi preparati in diverse salse, sempre piccanti!); Chapati (farina, sale ed acqua), simili alle nostre focacce, ma solo nella forma non nel gusto; L’immancabile riso in bianco; Questo e’ quello che offre il “ristorante”, come sempre mi adatto. Lo mangio chiacchierando del viaggio con tre tibetani. Due ore di piacevole conversazione, terminano una dura giornata. Li saluto e vado in camera a scrivere. P.S. vi lascio con queste ultime righe di riflessione trovate sul libro “vagabonding”: “Ricordate che: non smettiamo di giocare perché invecchiamo, ma al contrario invecchiamo perché smettiamo di giocare…”
Kargil/Mulbek/Lamayuru 14/ottobre/2005
Questa mattina per fortuna non ci sono convogli in arrivo, la strada non e’ a senso unico. Parto prestissimo così da godermi tutte le ore di luce lungo questo singolare e brullo territorio. La prima persona che vedo lungo la strada è un indiano che lava dei corpi di polli gia spennati, in un rigagnolo ai lati della strada, senza nessun accorgimento sanitario. Dopo li appoggia sul terreno vicino, cosicché la polvere dei mezzi in transito e l’acqua non del tutto limpida li rendono, a mio parere, un po’ “insani”. Però anche questo è il bello dell’India.
Mi sento un po’ sollevato a lasciar Kargil, le ultime notizie datemi dal driver non erano confortanti: nella primavera del 1999 alcune truppe irregolari pakistane, occuparono un crinale sul lato indiano lungo la linea di controllo vicino Kargil. Dopo diversi giorni di battaglia ed un migliaio di soldati morti in entrambi gli eserciti, le acque si calmarono, anche se fino ad oggi ci sono ancora frequenti scontri tra le due fazioni rivali. Vi ricordo che India e Pakistan sono delle potenze nucleari, ciò significa che potrebbe succedere una tremenda guerra in ogni momento. Nei mesi di maggio e giugno 2002, si verificarono nelle zone “calde” piu’ di 5000 scontri armati, rendendo ancor piu’ difficile e pericoloso raggiungere queste remote zone. Lasciata la cittadina, la strada inizia a salire, circondata da uno splendido scenario, coinvolgente, tanto da poter vedere la confluenza dei fiumi Drass e Suru, ed alle loro spalle, all’improvviso dietro ad alcune vicine cime, vedo per la prima volta in vita mia un settemila, piu’ precisamente il Kun di 7134mt che, con il vicino fratello Nun (7135), sono le montagne piu’alte di tutta la catena dello Zanskar. Fino al 1842 lo Zanskar e’ stato un minuscolo regno composto da un fiume, e tre valli di cultura ed etnia tibetana, poi e’stato annesso all’India, che ha cercato di imporre lingua, l’hurdu, e cultura. Solo dal 1995 il Ladakh (e quindi anche lo Zanskar) ha ottenuto lo status di regione a statuto speciale, e nelle scuole pubbliche, si e’ preso ad insegnare la lingua e la cultura tibetana. In Zanskar ed in Ladakh non vi sono alberi, se non quelli piantati e seguiti con mille cure dai contadini. Spesso sono nei letti dei fiumi, pensate che vengono costruiti muri in sasso attorno agli alberi rimasti per difenderli dalle acque e dalle frane, addirittura arrivano a cambiare il corso d’impetuosi torrenti per preservarli. Gli ottomila (circa) abitanti del Ladakh vivono di orzo, vegetali e burro di yak. Da novembre a Aprile/Maggio restano chiusi in casa con i loro animali, solo gli escrementi delle mucche e degli yak, fatti seccare al sole, sono utilizzati per alimentare il fuoco “sacro”. La legna e’ troppo preziosa perché sia utilizzata per il riscaldamento, serve specialmente per i funerali. Infatti il rito buddista, prevede la cremazione e la dispersione delle ceneri. Per fortuna, i piccoli pannelli solari, usatissimi, ed un minimo commercio di generi alimentari allevia, da qualche tempo, la fatica di vivere in questi luoghi. Gli Zanskarpa, così si chiamano gli abitanti della regione, si aggrappano al loro idioma tibetano ed alla loro religione per non perdere le proprie radici. I turisti occidentali che si vedono da queste parti sono pochi, di solito trekker, che seguono i sentieri di collegamenti tra i diversi paesi e monasteri. E’ importante ridurre l’impatto ambientale il piu’ possibile, in un deserto d’alta quota come questo, dove un fazzolettino o un pezzo di carta igienica possono restare intatti per anni! Infatti si consiglia di non lasciare mai niente in giro, inoltre la carta ed il cartone, se non si può riportare con se, è meglio bruciarli. Pensate alla plastica o all’alluminio! Con la strada carrozzabile che collegherà Padum nello Zanskar a Leh in Ladakh, (dovrebbe essere completata nel 2006/2007) probabilmente cambieranno ancora molte cose nella vita degli Zanskarpa, speriamo che il bilancio di questi cambiamenti, una volta tanto, risulti positivo. L’ultimo re dello Zanskar, Tashi Nagyel Gyalpo, disse al fotografo occidentale che lo immortalava: non essere triste. Nello Zanskar abbiamo sempre seguito la dottrina del Buddha. Il suo fondamento è la fugacità di tutte le cose. E’ nell’ordine del mondo che anche lo Zanskar si trasformi! Questa e’ il loro pensiero.
La regione dello Zanskar, che corrisponde al bacino dell’omonimo fiume, si estende a sud-est di Leh ed è un’area desertica e isolata con paesaggi favolosi d’immensità e durezza, dove si perpetuano le antiche tradizioni tibetane. La popolazione vive un’economia autarchica per l’altitudine e per l’isolamento causato sia dalla mancanza di collegamenti, sia dalla neve che per buona parte dell’anno blocca le strade d’accesso. Fedele alle sue origini ed insensibile allo scorrere del tempo, lo Zanskar continua a vivere i suoi arcaici ritmi biologici. Per respirare la religione delle altezze non è necessario avere predisposizioni mistiche. Nei villaggi, lungo i sentieri e sulle cime dello Zanskar e del Ladakh, la religione è una presenza costante, il richiamo al divino è ovunque. Lo ricordano le bandierine delle preghiere affidate al vento su tutte le alture, gli stendardi e le insegneate dei monasteri, i chorten e i sassi votivi incisi ad ogni svolta del sentiero, gli innumerevoli monaci, la sacralità stessa delle montagne e le bellissime ruote di preghiera.
Il cammino nella luce limpida dei 4.000/5000 metri diventa anche un pellegrinaggio nel santuario della fede più antica del mondo: quella buddista. Era la prima volta che visitavo questi luoghi e si è rivelata un’esperienza sbalorditiva. Il colore delle montagne è affascinante: rosso rame con sfumature tendenti al verde, al giallo. Stupendi i cespugli di fiori che crescono sui forti pendii, e sui passi più alti. Fantastico il firmamento stellato che si osserva nelle notti. Personalmente non ricordo di avere mai visto un cielo, così ricco di stelle, come quello che si può osservare nello Zanskar. In tutto questo ci trovo anche una parte avventurosa. La parola avventura deriva dal latino “ad venturam “, ossia affidato al caso. Quindi avventura è tutto ciò che non è programmato nei minimi dettagli e che presenta anche solo un piccolo imprevisto, proprio quello che giornalmente mi accade. Che avventura!!!
L’isolata regione del Ladakh con le sue remote valli, è la sede ideale per i famosi “Gompa” buddisti, palazzi sacri bellissimi, non paragonabili a nessuno nel sub-continente indiano, abbelliti da colorati motivi tibetani dedicati alla propagazione della credenza Mahayana. Dominano il paesaggio, sono centri di culto, di meditazione, di studio e di apprendimento dei lavori. Sventolanti vestiti colorati di piccoli monaci, bandiere votive di preghiera tibetane che svolazzano al vento portando le preghiere lontano, lontano, sono un must in questi luoghi. Affreschi di piu’ di 1000 anni fa, ruote di preghiera con incisi testi sacri, questo ed altro ancora sono I Gompa.
Oggi e’ la giornata dei miei record personali, anche se li batterò nei giorni successivi piu’ di una volta. Farò il passo Namika La o “pilastro del cielo” a 3760mt, così chiamato per via del frastagliato picco roccioso che s’innalza a sud. Proseguirò per il passo Foto la a 4147mt, altezza da me mai raggiunta. Dormirò a Lamayuru a 3550mt, mai passata una notte a quest’altezza, per di piu’ senza alcuna forma di riscaldamento!
Ad ogni curva cambia tutto, i colori, le ombre, le forme. S’intravedono in lontananza nuove cime, e’ segno che siamo già sopra i 3500mt, anke la jeep stenta a proseguire, tanto che il driver al passo Foto la, mentre scattavo alcune foto, ha pensato bene di spegnerla, infatti poi non e’ piu’ ripartita per mancanza d’ossigeno sufficiente a rimetterla in moto. Morale della favola ho dovuto spingerla, fortunatamente eravamo vicini al valico, infatti dopo una decina di metri la strada riprendeva a scendere, e per fortuna è ripartita. Da un lato mi e’ andata bene, perché salgo in macchina un po’ accaldato, visto che queste jeep (Tata Sumo) sono costruite senza riscaldamento, facendole diventare a queste altitudini dei frigo viaggianti, tra le altre cose come tante altre macchine in India. Mi piace pensare le montagne come un corpo umano, segnate dal tempo; vallate sabbiose, desertiche che s’insinuano nei pendii come cicatrici, anzi piu’ precisamente come rughe, di vecchiaia, d’espressione di Madre Terra, rendendole ancor piu’ affascinanti. Lo stesso penso per l’uomo e la donna. Le rughe in viso sono spesso lo specchio del carattere di una persona, pensiamo ad uno sorridente, sereno, avrà delle rughe che gli daranno un’espressione piu’ solare, piu’ simpatica. Al contrario coloro che sono sempre arrabbiati ed introversi, avranno un’espressione piu’ seria, accigliata, sono sicuramente piu’ “musoni”. Così anche dalle rughe delle mani si possono capire molte cose della vita di una persona. Ad esempio si capisce se una persona e’ precisa dalla cura che gli dà. Oppure se è nervosa lo si vede dalle forti sgranocchiate che da alle unghie. Oppure ancora se ha fatto lavori manuali, lo si vede dalle mani sciupate, insomma sono la nostra vera carta d’identità’ (basti pensare alle impronte digitali) senza la necessità di rinnovarla. Ci sono montagne di sabbia, sulla cima delle quali si ergono come cattedrali nel deserto, altre rocce piu’ dure, che gli agenti atmosferici modellano piu’ lentamente, creando delle scenografiche guglie, che sembrano taglienti, che sembrano che siano cadute da centinaia di metri e, poi conficcatesi nella sabbia, formando innumerevoli diramazioni lungo i fianchi delle montagne. Assomigliano a vene, dalle quali in luglio ed agosto, anziché sangue, scorrono puliti torrenti. Ormai e’ quasi l’ora delle prime nevicate, fa molto freddo e’ tutto arido, non per niente e’ uno dei posti in cui piove meno al mondo. Ecco nuove rughe d’espressione di madre natura, sono i sentieri e le mulattiere percorse giornalmente dai locali con gli animali. Tagliano obliquamente alti dirupi, paiono sospese nel vuoto, sembra impossibile che possa passarvi qualcuno, sembra che non ci sia superficie d’appoggio a sufficienza, invece pastori intrepidi via via salgono sempre piu’ su. Mi ricordano la bambina che ho visto esibirsi a Dharamsala, ricordate, quella ragazzina che faceva acrobazie su una corda tesa e mi lasciò stupito per la sua bravura? Ecco proprio come lei. Queste sono persone solitarie, e per simpatia nei loro confronti li soprannominerò: gli “equilibristi”, tra il mondo “civilizzato” (la strada) ed i loro villaggi in mezzo alle montagne, esclusi da tutto e tutti per 8 mesi l’anno, senza luce, gas, riscaldamento e con poco cibo a disposizione. Una domanda sorge spontanea: ancora per quanto tempo con l’arrivo del turismo organizzato ( per fortuna ancora abbastanza bloccato dal conflitto in corso), di conseguenza dei soldi, e della nascita di nuovi bisogni di vita, questi popoli riusciranno a mantenere una posizione tra passato, presente e futuro? Per quanto ancora rimarranno immuni al progresso ed al consumismo? Che coraggio i miei equilibristi, loro sotto non hanno nessuna rete di protezione che li aspetta, al minimo errore. Non mi stancherò mai di scriverlo, ma le cose piu’straordinarie sono le innumerevoli sfumature che si aprono sui pendii, vanno dal giallo, al rosa, al rosso, al marrone, vorrei camminarci sopra, vedere da vicino come fanno ad essere così intensi, forti e nello stesso tempo soffici allo sguardo, sono per me brillanti riflessi di novità. E’ una tavolozza in continua evoluzione che solo l’uomo potrà rovinare.
Dopo qualche ora di viaggio, raggiungo Mulbek, villaggio incastonato in un maestoso paesaggio naturale lungo le rive del fiume Wakha. Famoso per una statua di Buddha alta otto metri, incisa nella pietra e datata 700 d.c. E’ la prima città buddista dopo Kargil ultimo baluardo musulmano. Ha due bei Gompa con una splendida vista sulla valle, ed una grande ruota di preghiera che domina il centro del villaggio. Donne con affascinanti vestiti locali, bambini e bambine in uniformi color ocra con cartella in spalla, pastori e, chiunque di passaggio gira questo immenso cilindro camminandoci attorno in senso orario. Ogni giro completato è sottolineato dal dolce suono di una campanella. Tra la ruota e la statua del Buddha sono raggruppate e distese ordinatamente, centinaia di bandierine colorate di preghiera, che il vento fa schioccare, quasi a voler lanciare piu’ lontano le parole incise, trasportarle lungo le valli sottostanti e poi salire in cielo. Che misticismo e che unione con la natura.
Le ho comprate anch’io alcune bandierine, le attaccherò in giardino, mentre altre vorrei appenderle al vecchio Gompa di Lamayuru. La ci rimarranno per sempre, non e’ permesso toglierle una volta messe, è un sacrilegio.
Il villaggio di Lamayuru si presenta subito con la sua figura predominante, il sacro Gompa, sotto al quale, perfettamente mimetizzate con il terreno attorno, si sviluppano alcune tipiche abitazioni di legno e fango. Sul tetto delle case sono già pronte ed ordinate decine di cataste di legna per accendere fuochi e, balle di fieno da dare agli animali, così da aiutarli per affrontare il duro inverno che verrà. Nulla e’ lasciato al caso e tutto deve essere finemente programmato.
Chiedo all’autista di farmi vedere alcune Guest House, l’unica cosa, se e’ possibile, vorrei una camera pulita. Yes sir, yes sir. Le prime due visitate sono brutte e sporchine, così mi guardo un po’ in giro, anche questa volta mi dovrò arrangiare da solo. Mentre osservo il Gompa nella sua maestosità, noto un palazzo dietro ad esso, costruito nello stesso stile. Chiedo al driver di che cosa si tratta, mi risponde che e’ un monastero, si può andare a vedere se e’ aperto e se ha stanze. Ok let’s go! Le camere sono semplici e senza bagno, ma non mi fermano, sono emozionato all’idea di dormire in un monastero, ad essere l’unico turista a godermi questi posti. Le camere sono il simbolo dell’essenzialità’, anzi meno, neanche un appendino, un armadietto, solo tre ripiani nel muro con appoggiate due candele (cattivo presagio, infatti ogni sera la corrente arrivava solo tra le 19.00 e le 21.00). Un totale di circa 10 metri quadri, con due lettini senza materasso, c’erano solo due materassini da stretching, ma era come non averli. Così mi organizzo, poiché sono l’unico cliente, vado nelle altre camere e, prendo tutti i materassini, le metterò uno sull’altro così da creare un morbido spessore che potrà sembrare un giaciglio. In ogni caso la vista sulle montagne dello Zanskar e sulla valle e’ unica, non ha prezzo. Il villaggio di Lamayuru con circa 200 abitanti e’ famoso, come avete già ben capito, per il suo Gompa, il piu’ famoso ed il piu’ vecchio delle centinaia di Gompa presenti in Ladakh. E’ chiamato anche “Torpa Ling” o “Palazzo delle Libertà”, dove chiunque e’ ben accetto e può chiedere ristoro. Si pensa sia stato costruito prima del decimo secolo d.c. E’ situato in un’impressionante posizione a strapiombo sulla valle, su una collina con i lati completamente erosi, sembra proprio che il terreno sotto il palazzo esista proprio grazie a lui, alla protezione che gli garantisce dagli agenti atmosferici. Queste enormi, possenti montagne sono così dure, quanto indifese dall’attacco della neve e dei forti venti. Qui s’incontrano le correnti provenienti da tre valli, una da ovest scende dal passo Foto la, dal quale sono arrivato, una da sud, dove primeggia la catena dello Zanskar e l’ultima, la piu’ fredda da nord, dove s’impone la catena del Ladakh. La Valle sotto il Gompa, si dice fosse coperta dalle acque di un grosso lago, creato da una diga glaciale. Quando le acque sono fuoriuscite hanno creato degli immensi gorghi che hanno lavorato, scolpito gli argini. Le sue vecchie rive sono scolpite artisticamente dalla forza della natura, al punto tale che in seguito verrò a sapere da un monaco, che dagli abitanti del luogo la zona viene chiamata “moon land” o terra lunare.
Do appuntamento al driver per l’indomani alle 14.00, voglio andare a vedere da dove partono diversi sentieri che attraversano lo Zanskar. Pensate c’e’ anche un’escursione che dura tre settimane, si cammina almeno otto ore al giorno in luoghi dove l’altezza varia dai 4500 ai 5500mt. Salgo sul tetto del monastero per godermi il circondario e le scene di vita quotidiana. Mi ha sempre attirato osservare il normale svolgersi della vita senza farmi notare. Da un lato ci sono dei bambini monaci sotto gli ordini di un monaco anziano, sono intenti a lavorare, si avete capito, sono le 17.00, le fredde ombre hanno già avvolto la parte posteriore del monastero e, loro stanno lavorando. Il vento soffia forte, ma imperterriti, correndo, quasi fosse un gioco, stanno continuando a costruire un muro di sassi e, fango per fissarli. Ognuno di loro si muove in sincronia con gli altri, nessuno e’ mai fermo, si muovono all’unisono, quasi fosse un ballo ritmico. L’indomani scoprirò che stanno costruendo la loro nuova futura aula. I monaci cercano di insegnare ai bambini la fugacità delle cose, il continuo ed inesorabile cambiamento. Tra qualche anno, il muro cadrà, il fango si consumerà e non terrà piu’ legate le pietre, succederà quello che e’ accaduto a molte case del villaggio ormai distrutte. Mi sembra di ritornare nel Rinascimento dove, ricchi e nobili persone, come Lorenzo il Magnifico, avevano nelle loro scuole d’arti e mestieri, i maggiori talenti dell’epoca. Chissà se tra questi giovani, piccoli monaci c’e’ un altro Michelangelo, o Leonardo…Chissà se gli insegneranno ad esempio l’arte dell’irrigazione, che tra l’altro assume un ruolo di predominanza in questi luoghi. E’ un procedimento complesso incanalare la poca acqua che proviene dallo scioglimento della neve e dei ghiacciai. Ricorrendo a metodi primitivi, la popolazione e’ riuscita a coltivare il fine terreno sabbioso, ricoperto di ghiaccio per otto mesi l’anno ed arido nei restanti quattro. Intorno al quarto, quinto secolo dopo Cristo, furono i Dardi, una tribù d’origine Indo-ariana, ad introdurre il primo sistema d’irrigazione e l’agricoltura “sedentaria”. L’acqua è portata attraverso un elaborato sistema di canali, il terreno è seminato per un unico raccolto d’orzo, prodotto principale della regione, la cui mietitura avviene tra giugno e le prime nevicate d’ottobre. Mentre a quote piu’ basse coltivano in verdi terrazze, una varietà di frumento a crescita rapida, albicocche, noci ed ortaggi da giardino. Ad alta quota non cresce niente, per questo i locali sono dediti all’allevamento di yak, capre, pecore e dzo (un incrocio tra le mucche e gli yak), da cui si ottengono burro, latte, yogurt da vendere o da barattare in cambio di cereali o combustibile. Ritornando ai piccoli monaci “lavoratori” e’ interessante rilevare che fanno parte di una delle ultime comunità del buddismo Mahayano, religione principale in Ladakh ed in Zanskar da oltre mille anni, la stessa che i cinesi hanno ormai per lo piu’ represso in Tibet, suo luogo d’origine. Vivono e pregano nelle buie sale dei Gompa, che oltre a custodire l’antica saggezza, sono anche delle biblioteche con raccolte d’antichi manoscritti tibetani. Inoltre si trovano strani strumenti musicali e vecchi affreschi raffiguranti divinità tantriche. Non è facile tradurre in parole le esperienze fatte e soprattutto le innumerevoli emozioni che sto provando durante un viaggio come questo. Certamente ho avuto la sensazione di essere stato tra gli ultimi testimoni di una cultura e di un mondo che è destinato a scomparire. Non si sa ancora quanto possa durare, ma non penso ancora per molto. In Tibet, dopo l’invasione cinese, la cultura tibetana è quasi scomparsa. Solamente le remote regioni del Mustang, e del Dolpo in Nepal, dello Zanskar e del Ladakh in India hanno potuto conservare le loro antiche tradizioni. Penso che i turisti contribuiscano, sia pure involontariamente, a cambiare, nel bene e nel male, il modo di vivere di queste popolazioni. Questa mia considerazione non deve essere interpretata come un invito a non visitare questi luoghi, anzi solamente conoscendoli si possono capire, amare ed apprezzare. Vuole essere piuttosto un invito a visitarli in “punta di piedi”. A non ostentare un fin troppo facile “benessere” nei confronti di persone che hanno sempre vissuto, ed ancora vivono, con le scarsissime risorse che la natura offre loro. Anche le difficili condizioni climatiche contribuiscono al quasi isolamento degli abitanti. I bambini, ad esempio, frequentano le scuole solamente nei mesi estivi, perché durante la lunga stagione invernale tutta la popolazione è costretta a vivere chiusa in casa. Molto rari sono anche i contatti tra gli abitanti dei vari villaggi a causa della difficoltà dei percorsi e delle distanze. I fiumi ed i torrenti, che noi abbiamo attraversato, nei mesi invernali sono completamente ghiacciati e sono utilizzati come “strade” dagli abitanti, per abbreviare il tragitto da un villaggio all’altro. E’ proprio tutto un altro mondo.
Lamayuru 15/10/2005
Alle sette sono già sveglio. Tiro le tende, davanti a me ci sono le cime innevate dello Zanskar, mi si riempie il cuore e l’anima in questo deserto ad alta quota. L’aria e’ frizzante e, la magia del posto mi fa cambiare progetti, come spesso accade in viaggio. Scelgo di rimanere tre giorni in piu’ del previsto, voglio proprio esplorare il villaggio, il Gompa, ed i difficili sentieri da trekking, che come colpi di sciabola sulla seta, incidono le lunghe pietraie delle montagne. Colazione veloce, sono curioso di visitare il sacro Gompa. Per le strette vie intorno al palazzo, sfrecciano i bambini monaci con grossi quaderni tra le mani e, anche se non c’e’ vento, ci pensano loro con salti acrobatici a far svolazzare i candidi abiti. Si lanciano giù da pietraie, con delle semplici ciabatte infradito ai piedi, senza esitare un secondo, si vede che sono nati su questi pendii, dove vi assicuro trovo anch’io difficoltà, anche perché ho paura di cadere e fare una figuraccia. Raggiungo il Gompa, mi avvicino all’entrata, ma e’ ancora troppo presto e’ ancora chiuso. Così mi siedo sulle scalinate che portano alla grossa porta di legno a godermi il caldo sole mattutino, dopo una notte passata senza riscaldamento, con meno quindici gradi fuori ed, in camera ci saranno stati meno uno o due gradi, con spifferi ghiacciati malefici che passavano dai vecchi stipiti delle finestre. Davanti a me ho il famoso paesaggio lunare in tutto il suo splendore, sembrano tanti “Trulli” di Alberobello, ammassati uno vicino all’altro sui fianchi delle montagne, sono di colore chiaro, velato, quasi giallo, e solo profonde spaccature li dividono.
Si vede proprio una retta linea di confine tra le due diverse conformazioni del terreno: la parte piu’bassa e’ formata da questi complicati giochi di dune, mentre quella superiore e’ piu’ rocciosa, piu’ scura, mi sembra quasi che quello sia il limite del vecchio lago, può darsi, chissa’…Questo paesaggio incredibile a come sfondo la catena dello Zanskar, che si estende per un totale di 250km, potrei rimanere seduto ore intere a contemplare il paesaggio senza mai stancarmi, poi cambiare lato del palazzo ed ammirarne un altro diverso, ma non per questo meno suggestivo. E’ uno di quei luoghi che poche volte mi è capitato di trovare, lo sento pieno di energia e magia, la vita si svolge ancora per lo piu’ come centinaia di anni fa’, sembra di vivere in una favola. Ad un tratto, sento provenire da dietro la porta un canto, a volte un po’ stonato, ma comunque piacevole. Mi avvicino e guardo da una fessura nel portale tra due assi di legno. All’interno c’e’ un bambino, anch’esso monaco, che pulisce il cortile accuratamente. Non so come ma mi riesce a vedere, incuriosito si avvicina velocemente alla porta, al che io mi distacco, cosa mai vorrà fare? Passano due secondi e da una fessura un po’ piu’ grossa, il bambino mi tende la mano, vuole cercare il contatto, così senza paura mi avvicino e gliela porgo. Contento e sorpreso dalla mia forte stretta, ritorna a pulire il cortile. All’improvviso mi distoglie dai miei pensieri l’arrivo di un giovane monaco, sara’ mio coscritto, avrà circa trentadue anni, ha sulla testa una cuffia coloro giallo/arancione acceso, il classico insieme di lenzuola bordò, rosse ed ocra che gli ricoprono il corpo, ed un paio di vecchi sandali in cuoio, portati sopra a pesanti calzettoni, anch’essi arancioni. Ma la cosa che mi attira di piu’ e’ il suo volto, ha un’espressione simpaticissima, il suo sguardo mi trasmette tranquillità, serenità. Mi si avvicina, mi saluta con il classico modo ladakhi, ossia “Julee”, “Julee” gli rispondo. Come ti chiami? Matteo e tu? Norgas. Dopo i primi saluti, mi chiede se sono interessato ad entrare a visitare il Gompa. Annuisco e mi fa segno di seguirlo. Così faccio. All’interno c’e’ ancora il bambino di prima, Norgas gli si avvicina e gli dice qualcosa sottovoce. Capisco dal tono che lo sta rimproverando per non avere ancora finito il suo lavoro, poi gli tende la mano, si fa dare la fascina usata dal piccolo e, lo aiuta a finire. Nello stesso momento arriva un locale con un grosso vassoio tra le mani, sul quale c’e’ una composizione di cibo, finemente ed accuratamente realizzata. Quelli che sembrano piccoli “Stupa”, (gli stupa sono costruzioni di diverse dimensioni, caratteristiche dei luoghi buddhisti. Esse sono nate con lo scopo di fare delle “sepolture” rialzate rispetto al livello del terreno dove riporre le reliquie del Buddha e d’altri santi. Spesso di color bianco, hanno una dimensione in base all’importanza del defunto, sembrano dei copertoni, dei salvagente messi uno sull’altro, dal piu’ largo al più stretto, quasi a formare una piramide arrotondata. Anche qui come a Dharamsala i devoti pregano e ci cammino intorno, sempre in senso orario. Sono fatti con farina di grano, impastata con acqua e frutta secca sbriciolata, una specie di piccolo panino, con frutti secchi incastonati a formare strani disegni decorativi. Poi ancora nel piatto c’erano albicocche secche, biscotti e l’immancabile “chapati”. Mi tolgo scarpe e cappello, entro con l’uomo ed il monaco nel tempio del palazzo. Raggiungiamo la sala principale, la quale e’ formata da due colonnati che dividono la stanza in tre parti. Sulla destra c’e’ una libreria chiusa con vecchie finestrelle a quadretti, arricchite da colorati vetri. All’interno si possono vedere antichi manoscritti avvolti in tessuti di diverse sfumature, anch’essi segnati dal tempo. Proprio nel mezzo della libreria c’e’ un’apertura di un metro per un metro, alla quale si accede su una scalette con tre gradini in legno. Chiedo incuriosito a Norgas dove porta quell’entrata. Mi risponde che si apre su una piccola grotta, nella quale più di mille anni fa’ circa, i monaci facevano meditazione. Anche se molto difficile cerco di immaginare come potessero essere mille anni fa’, in queste desolate e remote vallate. Chissà che silenzio, che pace, “disturbata” solo dall'”ululare” dei venti, che ancora oggi si possono sentire rimbombare nella valle e, purtroppo anche nella mia camera. Le colonne in mezzo alla sala, sono unite tra loro da lunghi assi di legno, poste a circa un metro d’altezza dal pavimento, coperte da cuscini lavorati a mano. Sulla parete di sinistra ci sono diverse divinità precedenti il Buddha, sotto le quali c’e’ ogni tipo d’offerta: monete, cibo, fiori, candele e profumati incensi.
Passiamo tra le statue e la libreria, calpestando un consumato pavimento di legno. Entriamo, sempre attraverso una minuscola porta, in un piccolo locale, con solo due colonne nel mezzo, unite da una corda inarcata dal peso di bianchi scialli annodati appesi su di essa. Poco piu’ dietro ci sono degli scaffali con busti d’altre importanti divinità buddiste. Solo i raggi provenienti da una piccola finestrella riescono a scaldare un po’ l’aria nella fredda sala. Appena entrati, sulla sinistra, c’e’ un bancone lungo quanto tutta la parete. E’ distaccato un metro da essa, coperto con lenzuola rosse ed arancioni, ed e’ posto solo a 40/50cm da terra. Su di esso sono appoggiati alcuni oggetti e strani strumenti musicali. Una campanella, un particolare attrezzo fatto in corda, sembra quasi una sega per il ferro ma senza seghetto, e dalla parte opposta all’impugnatura c’e’ una specie di tampone. Scoprirò in seguito essere il “bastone” usato per battere un tipico tamburo tibetano. Sempre sul “tavolo” si vedono delle ciotole in ottone, chiuse da coperchi anch’essi in ottone. Ma le cose piu’interessanti sono dei leggii di legno, con appoggiate lunghe e strette strisce di carta, sulle quali sono incise le loro preghiere con i tipici caratteri tibetani, penso che siano piu’ o meno come la Bibbia per i cristiani o il Corano per i musulmani. Lungo il muro al di là del bancone ci sono tre posti a sedere, il primo quello sulla destra, il piu’ vicino alla finestrella, e’ abbellito da una “sedia” in legno, ma senza gambe, con soffici cuscini, sui quali e’ comodamente seduto un anziano monaco, avrà circa settanta anni, con piccoli occhialini ed appuntiti baffetti, un viso segnato dal tempo, dal sole dalle basse temperature e, dalle dure condizioni atmosferiche.
Anche il posto centrale e’ arricchito da grossi cuscini, che aiutano a star comodamente seduto un altro monaco, anch’esso con occhiali, ma un po’ piu’ stretti del primo, e lunghi baffetti neri, che gli arrivano fino al centro delle guance. Avrà 50 anni circa, però dai pochi denti che ha in bocca ne dimostra almeno settanta. Alla fine del bancone c’e’ Norgas, mi fa’ cenno di entrare senza timori e di sedermi dove preferisco, e’ l’ora della preghiera. Fiero, ma nello stesso tempo un po’ a disagio per l’importanza dei monaci che ho di fronte (scoprirò essere i tre piu’ importanti di tutto l’intero Gompa), entro e mi siedo proprio di fronte a loro. Ancora prima di trovare una comoda posizione, iniziano a pregare, leggendo e facendo passare velocemente tra le dita, le strisce votive, creando una melodia, che sembra piu’ una canzone, recitata a doppia velocità, dove i tre cercano di mantenere lo stesso ritmo e le stesse parole.
All’improvviso il Monaco più vecchio, senza arrestare la comune preghiera, inizia a suonare dei piatti tibetani in ottone, i quali sembrano coperchi di una pentola a pressione. Le onde del suono vibrano nella stanza, accompagnate adesso anche dal Monaco di mezzo, con un ritmico battito di un tamburo suonato impeccabilmente. Il piu’ giovane, Norgas, in tempi prestabiliti, alza improvvisamente il tono della voce, penso per porre l’accento su alcuni passi importanti della preghiera mattutina. Senza fatica mi faccio avvolgere dall’incredibile situazione in cui sono capitato. Chiudo gli occhi, cosicché le emozioni diventano ancor piu’ vicine, forti e vere. Ascolto la melodia come se fosse da me già conosciuta, una delle mie preferite. Cerco di concentrarmi solo su ogni singola voce, ed ogni singolo suono che riescono a riprodurre. Il piu’ vecchio e’ il “direttore d’orchestra”, e’ solo lui che dirige e stabilisce il ritmo. Le sue labbra, così come quelle degli altri, si muovono così velocemente da assumere forme che sembrano quasi delle smorfie. Essi riescono con solo tre voci, due strumenti ed una campanella a creare musica e, preghiere trasformate in dolci canzoni, tutte coinvolgenti da far venire la pelle d’oca. Il Monaco nel mezzo e’ colui che ha la voce predominante nel gruppo, quella che spicca al di sopra delle altre. Suona il tamburo a memoria, senza un minimo errore, nello stesso tempo legge, sfoglia le strisce votive e mi guarda dritto negli occhi, come se volesse vedere se veramente capisco l’importanza del momento. Chissà quanti anni, mesi, giorni, ed ore che hanno passato a pregare in questa buia stanza. Hanno una costanza ed una sicurezza invidiabile. Norgas, essendo il più giovane e meno allenato, in alcuni momenti sembra che si perda nelle parole delle preghiere. E’ distratto probabilmente anche dalla mia presenza, perde il contatto con gli altri due, ma in un batter d’occhio ritrova il punto e continua a seguire il gruppo. Ogni trenta minuti si fermano, sorseggiano un tè ricco di burro sciolto e mangiano le offerte donate dai fedeli. Li guardo con un po’ d’appetito, infatti, se n’accorgono e mi offrono una parte di tutto ciò che hanno. Mi piace poter assaporare, assaggiare quello che mangiano quotidianamente, provare la loro dieta quotidiana (ricca di grassi e zuccheri per affrontare meglio le rigide temperature). Penso che sia tutto buono e gustoso, non si trattano poi così male. Ripongono le tazze sul tavolo e mettono qualche albicocca secca in tasca per la giornata e riniziano la dolce preghiera. Cerco sempre piu’ di immergermi nella situazione, anche aiutato dall’atmosfera della piccola stanza, che regala piu’libertà e confidenza con i presenti. Inoltre la musica ti rende partecipe e ti dà la possibilità di sentirti parte di loro. Guardo fuori dalla piccola finestra , dalla quale caldi raggi solari fanno capolino proprio di fronte ai miei piedi ed immense pareti spolverate di neve si ergono in lontananza. Che magia, che spirito, che luogo profondo, che esperienze indimenticabili. Passano circa due ore prima che finiscano la sessione mattutina di preghiera, poi insieme a Norgas visito ancor meglio il Gompa, acquisendo maggiori informazioni. Il palazzo e’ stato costruito circa mille anni fa’ ( intorno al mille D.C.) da un Lama molto vicino a Buddha. Al momento del suo arrivo, a quella che poi sarebbe diventato il villaggio di Lamayuru, c’era un grande lago glaciale, lo scenario era perfetto, unico, cosicché il Lama decise di andarsene con la promessa che sarebbe ritornato in un luogo così speciale con altri Monaci per costruire il sacro Gompa. Era considerato anche il posto ideale per far meditazione ed acquisire sempre nuove conoscenze sulla mente e sullo spirito. Al suo ritorno il lago non c’era piu’, si era svuotato, rendendo ancor piu’ particolare il luogo, con quei giochi di forme e di colori che ancora oggi circondano il sacro palazzo. Sui pendii delle montagne circostanti si possono ammirare costruzioni naturali in sabbia, che sembrano delle cattedrali nel deserto dipinte da Salvador Dali. Norgas m’invita a seguirlo, si vede che mi ha preso in simpatia. Sono solo, l’unico straniero in tutta la zona e così mi dedica più tempo. Usciamo dal Gompa, passiamo attraverso un lungo e basso corridoio, che porta al percorso sacro, formato da 108 ruote di preghiera. Lo seguo e senza parlare cerco di copiarlo in tutti i suoi movimenti, così da non fare qualcosa contro il loro credo che potrebbe essere offensivo. Infine arriviamo ad una grossa “ruota” o meglio un grosso “cilindro” votivo, anch’esso, come quello di Mulbek, ad ogni giro completato ha una campanella, che delicatamente rilascia suoni che percorrono senza barriere le vie del villaggio. Non mi sembra vero. Non credevo fosse ancora possible al giorno d’oggi, trovare luoghi in cui e’ la spiritualità e la preghiera a dominare la vita quotidiana di centinaia di persone..
16/12/2005 Arambol Goa India
Mancano ormai pochi giorni alla fine del viaggio. Anche la missione India e’ da considerarsi completata, compiuta nel migliore dei modi. La ricorderò sicuramente come un’avventura diversa dalle altre, più dura, per le lunghe distanze da percorrere, per il cibo (particolarmente nel mio caso), per usanze e realtà fino ad ora a me sconosciute. Brevemente vi scrivo dove sono stato per darmi un’idea complessiva del giro fatto in ottantadue giorni. In totale ho percorso piu’ di diecimila km su treni, jeep, tuk-tuk, vespa, carretti, biciclette, bus, cyclo’ (biciclette a tre ruote), moto ed altri. Ho raggiunto il passo carrozzabile piu’ alto al mondo, Khardung La 5578 mt e, da li sono salito fino a 5800 mt.
Dopo il Ladakh sono andato in Himachal Pradesh. Per raggiungerlo ci sono voluti due giorni di viaggio ed una notte passata in una tenda a circa 3800 mt con meno venti gradi. Una bottiglia intera d’acqua si e’ ghiacciata in 2 ore, ho dovuto tenerla con me sotto i piumoni.
Sono rimasto in un piccolo villaggio con sorgenti d’acqua bollente. Ho passato una settimana di pace e tranquillita’ in mezzo ad un’altra regione montuosa nella “testa” dell’India. In seguito sono ritornato (su consiglio di un Monaco a Leh) a Dharamsala per prendere appuntamento con il dottore del Dalai Lama. Dopo alcuni giorni d’attesa sono riuscito a farmi ricevere e visitare. Mi ha prescritto una particolare dieta (impossibile da mantenere in India) ed una cura a base di pillole ayurvediche, le quali, mi assicura, non hanno nessuna controindicazione, vedremo. In seguito ho preso uno scomodo pullman, che in quattordici ore con diversi imprevisti, mi ha portato da Dharamsala a Delhi, dove mi sono fermato solo un paio di giorni. Dopodiché ho preso un night train per arrivare fino a Varanasi (o Benares o, Kashi) dove ho visto bruciare cadaveri, su pire in legna, lungo le rive del sacro fiume Gange, la madre di tutti i fiumi e di tutti gli uomini. Ho visto all’alba ed al tramonto la pooja (preghiera) di centinaia di fedeli, che si riversano sui Ghats (scalinate che portano al fiume di fronte a splendidi palazzi fatti ergere dai Maharaja) per fare offerte al fiume, bere le sue acque (e’ uno dei fiumi piu’inquinati d’India), fare il bagno, lavare i panni ed i bambini. Varanasi e’ considerato il luogo abitato piu’ vecchio al mondo, il luogo sacro in cui almeno una volta nella vita i pellegrini induisti devono recarsi ed immergersi. Molto bella e’ stata anche Khajuraho con i suoi curati templi tantrici. Orcha con le sue case azzurre, e’ una città blu con immensi forti, palazzi di Maharaja e templi votivi. A metà novembre sono andato in Rajasthan, un’altra splendida zona in indiana. Li ho visitato Bundi ed altre favolose città con altri bellissimi forti Mugali arroccati su colline ed, incredibili palazzi anch’essi fatti costruire da ricchissimi Maharaja. Quattro giorni di letto, ed una settimana d’antibiotici mi hanno un po’ spaventato e buttato a terra, ma anche questa e’ passata. La prossima tappa e’ stata Omkareswar, altro villaggio sacro e luogo di pellegrinaggio sulle rive del fiume Narmada, considerato il secondo fiume piu’sacro in India, chiaramente dopo il Gange. Dopo alcuni giorni ho raggiunto Mumbay con un treno notturno. La città mi e’ piaciuta molto, anche se l’ho trovata molto cara rispetto agli standard indiani. Ci rimango per due soli giorni, dopodiché 12 ore di treno e raggiungo Goa la magica, “antico” possedimento portoghese. Qui ci rimarrò fino alla fine del viaggio, a godermi cibo, belle e solitarie spiagge, che sognerò una volta ritornato nella fredda Italia. Vi ringrazio per avermi seguito, mi scuso per gli errori grammaticali presenti nei racconti, ma i luoghi in cui scrivevo, i programmi ed i computer (la velocità di connessione era di solo10kb/sec.) che ho usato erano veramente obsoleti. Ogni tre per due andava via la corrente, non ho mai trovato una stampante per stampare i testi e rileggerli, in piu’ c’era inserito il correttore automatico solo in inglese che mi cambiava le parole!!! Una volta ritornato nel nostro splendido ed unico paese, vi manderò alcune foto per cercare di farvi capire ancora meglio i luoghi visitati, i personaggi ed i protagonisti delle avventure. Grazie ancora a tutti voi.
Un vero e grosso abbraccio
Marga
P. S. Per finire mi piace lasciarvi con queste ultime righe, nelle quali provo ad esprimere la bellezza dei luoghi visitati con gli occhi di un personaggio d’eccezione: un angelo.
ANGELO
Immaginate di poter volare alto sopra a queste vette.
Immaginate di essere un angelo, che con un lieve battito d’ali, si sposta alla ricerca di un posto unico, solitario, in una vallata o in luoghi sempre e solo sognata. Immaginate di ammirare alberi con foglie lasciate al vento, che con il loro fruscio nascondono e svelano colori, talmente accecanti che sembrano preziose sete colorate. Immaginate in questa valle di spostarvi tra le correnti d’aria, che accarezzano la superficie d’azzurri laghi, con le nuvole che si specchiano nelle sue acque, creando, con le montagne attorno, un quadro in continuo e lento cambiamento. Pensate con il vostro volo di sfiorare lo scorrere d’impetuosi torrenti, che ad un tratto si buttano nel vuoto, trasformandosi in bianche cascate, che sfumano all’orizzonte sulle cime innevate. Pensate di trovarvi dove gli unici “rumori” sono il vostro respiro e il battito d’ali di grossi rapaci, che con dolcezza ballano nel vento, tenendo tutto sotto controllo, proprio come voi, angeli venuti dal cielo per vagare in questo paradiso. Immaginate arroccati sulle cime rocciose delle colline, a cavallo d’impervi dirupi, castelli e forti in rovina, attorniati da mistiche bandierine. Di sotto a loro, l’incrocio di tre fiumi ed altrettante valli, ognuna completamente diversa dalle altre. L’incontro delle acque sembra un insieme di forti abbracci, dove king fisher, graziosi, agili e colorati uccelli pescatori, si gettano alla ricerca di cibo. Non sbagliano un colpo, rapidamente scompaiono sotto la superficie, per poi emergere poco dopo con la preda nel becco.
Verdi e dolci pendii che fanno da pascolo ad imponenti yak solitari con il lungo pelo nero, le appuntite ed incurvate corna, che gli danno un’aria possente, forte, regale, come la terra che li circonda. Continuate a volare in cerca di nuovi desideri, appena pensati, eccoli esauditi, non c’e’ luogo o zona che non v’incuriosirà, siete attratti dalla spettacolarità della natura in tutte le sue forme e fantasie, talvolta così complicate da lasciarvi stupiti. Immaginate che il tempo si possa fermare per poter così rimanere ad apprezzare il momento, la realtà, quello che siamo, quello che eravamo, ma soprattutto quello che ci circonda. Siete in Ladakh dove l’immaginazione distrugge ogni confine, ogni folle guerra, lasciandosi trasportare libera nei raggi solari nell’infinito di una regione lontana dal mondo, ma vicina ai vostri sogni proprio come voi dolci angeli!
BIBLIOGRAFIA e siti internet consultati:
. Lonaly planet India english version;
. Wikipedia l’enciclopedia on line per le informazioni sulla storia delle religioni;
. Mandala: www.riflessioni.it
. Scontro tra India e Pakistan:
. Rivista TRAVEL di settembre 2005
Il Viaggio Fai da Te – Hotel consigliati in India |