Istanbul

di Paola Zuliani –
Il primo impatto con Istanbul non è dei più esaltanti.
Il percorso dall’aeroporto fino all’albergo costeggia in Mar di Marmara su cui si osserva una multitudine incredibile di navi in disordinata rotta verso gli ormeggi o in navigazione in direzione del mare aperto.
Per il resto si presenta ai nostri occhi una città enorme, traffico intenso e caotico, troppa gente. Gli edifici che si offrono alla vista non hanno nulla che possa rivelare il fatto di essere giunti in una citta mediorientale.
Poco a poco, però, ci vengono incontro piccole cupole e sottili minareti, l’aria si riempie di odori speziati, si comincia a percepire i dolci suoni della lingua turca e finalmente siamo a Istanbul.
Passano le ore e l’atmosfera acquista sempre più incanto. Alle sette, in una serata fredda che sfuma in una sottile nebbia, sulla piazza dove si fronteggiano la Moschea con i suoi sei minareti delicatamente illuminati di arancione e Santa Sofia avvolta in un’ eterea luce azzurra, all’improvviso il muezzin intona l’ultima preghiera. La sua voce dilaga per l’aria fredda e altre preghiere rispondono da tutti gli altri minareti. E’ il momento magico della città, con i suoi odori penetranti ormai dissolti, con i suoni che vanno placandosi e su cui si adagia la preghiera serale.
E’ questa l’ora in cui il fascino di una città mediorientale ti prende, ti avvolge per non abbandonarti mai più, lasciando un segno indelebile nella memoria e nell’anima.

E’ da poco sorto il sole e dalla finestra dell’albergo vedo che la città si mette in movimento molto presto. Alle 6,30 il traffico è già pesante per diventare caotico in breve tempo.
La luce mattutina è molto trasparente e acquista i toni dorati dell’autunno che si riflettono nelle foglie ruggine dei grandi platani che fiancheggiano le vie di collegamento tra un quartiere e l’altro.
Non c’è strada senza un negozio, non c’è marciapiede senza che qualcuno venda qualche cosa. Gruppetti di giovani offrono te o caffè purchè si entri nel negozio.
Altri puliscono le scarpe ai passanti. Anziani solitari con una bilancia più o meno antiquata aspettano che qualcuno abbia voglia di verificare il proprio peso.
Venditori ambulanti di ciambelle di sesamo. I più organizzati hanno carretti con una cassa di vetro chiusa, altri portano un vassoio sulla testa su cui i dolci stanno impilati in stabile equilibrio. Dappertutto, data la stagione, ci sono posti ambulanti per la vendita delle castagne arrostite.
Il mercato delle spezie, o mercato egizio, situato in una piazza davanti ad una moschea e al Ponte di Galata, è un altro punto nevralgico di attività commerciali.
Il settore più antico, come il Gran Bazaar, è al chiuso, ma altri posti di vendita si trovano all’esterno sulla piazza.
Originariamente il mercato era dedicato esclusivamente alla vendita delle spezie. Ora però molti hanno abbandonato questa specialità prettamente orientale per commerci più moderni : oggetti in plastica, radio e macchine da scrivere, abbigliamento e scarpe.
Rimangono comunque molti posti per la vendita delle spezie.
Si può comprare in qualunque carta di credito o in qualsiasi moneta : ho visto una coppia di austriaci acquistare in schellini e avere il cambio nella stessa moneta.
Ad ogni fermata i negozianti offrono da provare le loro specialità e in breve il visitatore ha potuto assaporare dolci di gomma arabica, soffici fichi ripieni di noci e miele, dolci di ogni colore e varietà.
Ci si può sedere e parlare con l’inserviente che, in italiano, spagnolo, inglese o francese non indugia a spiegare le meraviglie gastronomiche che si offrono alla vista.
Le immagini che più richiamano l’attenzione sono senza dubbio i sacchi colmi di spezie in polvere di ogni colore : giallo zafferano, dorato curry, ocre paprika, peperoncino rosso, verde henné e poi collane di fichi secchi, gocce ambra di uva sultanina, trionfo di profumi di rosa, miele, zucchero e cannella.
File di pepeproncini che pendono dal tetto e odore penetrante della noce moscata e poi cardamomo in polvere o in semi, altri sacchi con pepeproncini più o meno finemente sminuzzati.
Su tutti regnano sovrani i pistacchi. Chili e chili in sacchi, in scatole, in vassoi di vimini attorniati da una varietà inenarrabile di altri frutti secchi.
Usciamo dal mercato inebriati dai colori, dai suoni, dai sapori e dall’estrema gentilezza delle persone.
Ci dirigiamo verso il Ponte di Galata per passare sull’altro lato e andare a mangiare al mercato del pesce. Immediatamente ci viene incontro un profumo di sardine alla brace. Ci abbraccia un denso fumo di carbone. Vicino ai banchi di vendita del pesce tre o quattro persone freneticamente arrostiscono le sardine e preparano panini accompagnando il pesce con un misto di cipolla tritata e prezzemolo.
Questo è stato il momento in cui abbiamo assaporato l’ambiente più autenticamente locale.
Seduti su un banchetto, tutti in fila davanti al molo insieme ad una decina di turchi e, in fondo alla fila, un silenzioso fondamentalista, abbiamo gustato il panino al tepore di un dorato sole autunnale con la sagoma della moschea di Solimano di fronte ai nostri occhi, al suono delle voci dei venditori e dello sciabordare delle acque del Bosforo.



Per arrivare al caffè dove Pierre Loti si ritirava a scrivere ci vogliono almeno tre quarti d’ora di macchina partendo dalla Moschea Azzurra. Arriviamo verso le 17 che è quasi notte.
Scendiamo la piccola scala di pietra passando sotto una pergola, la terrazza con i tavolini rossi e bianchi si apre con un abbraccio sul più suggestivo spettacolo notturno che abbiamo avuto finora di Istanbul.

Sotto di noi si snoda il Bosforo discretamente illuminato. Nelle due vie laterali al canala il traffico caotico del pomeriggio comincia a diluirsi.
Sulla nostra destra, sotto un cielo che non rivela la luna, splendono due moschee ammantate di una luce dorata. Per il resto la città è scarsamente illuminata, caratteristica notturna di Istanbul.
Passeggiando per le strade le uniche fonti luminose che permettono di rendere i marciapiedi visibili sono quelle dei negozi aperti senza un orario preciso, ma comunque almeno fino alle 11 di sera.
I lampioni sono quasi inesistenti. Laddove esistono a molti mancano le lampadine, altri sono rotti, la maggior parte, nelle grandi strade, serve come appendiabiti per capi di abbigliamento di scarsa qualità, in un disordine e un ammonticchiamento difficilmente descrivibile se non lo si vede di persona.

Davanti ai negozi che vendono cappotti in pelle, due o tre uomini e donne passeggiano costantemente su e giù per il marciapiede in una precaria sfilata di moda.
I punti di vendita che senz’altro offrono più attrattiva per i turisti sono quelli dei tappeti.
Nei negozi si entra camminando su decine di tappeti. Alle pareti pendono manufatti dell’Anatolia in lana, piccoli, grandi, lunghi, stretti in un turbinio di colori e di disegni.
A terra piegati decine e decine di kilims dal caratteristico e penetrante odore di cotone crudo.
Ovunque si può girare assolutamente senza alcun timore, la gente in generale è simpatica e pronta al dialogo con una straodinaria somiglianza, almeno nel carattere, con la gente della Campania. Anche alla sera le strade sono sicure come lo sono quelle di altre città europee e i locali in cui ci si ritrova più volentieri sono le fumerie di narghilé, dove, oltre che fumare con le tipiche pipe ad acqua, si può sorseggiare il té seduti sui cuscini o sui banchi ammantati di tappeti, si chiacchiera, si vendono tappeti, si fanno affari e ci si procurano clienti facendo dell’ambiente un caldo e simpatico ritrovo per gente del luogo e per turisti che rimarranno affascinati e sorpresi per la gentilezza e per l’attenzione che il popolo turco offre agli stranieri facendo in modo che si sentano un poco come a casa loro.

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