New York, quello che le guide non dicono

di Stefania Campanella –
“Sfogliate pure, visitatori di ogniddove, sottolineate con l’evidenziatore le tappe imperdibili del vostro prossimo viaggio. Ma nessuna guida è migliore del luogo stesso in cui vi trovate. Basta ascoltarne il respiro e seguirne il ritmo. A quel punto sì che sarete davvero persi. Dentro un nuovo fantastico mondo.” Gepy l’Avventuriero Nel cuore di Manhattan, a ventisette passi da Time Square, c’è un bar dove si parla solo lo spagnolo. Dopo aver ordinato un cafe, facendo attenzione che non me ne servano uno normal, che a NY significa con latte, prendo il mio cup e mi preparo a divorare chilometri.
Proprio così. Sto per ingurgitare mezzo litro di lontanissimo parente dell’espresso da un agglomerato plastico-alimentare, uno di quelli in cui da Mac Donald ti ci servono la Coca Cola. È il modo più veloce per iniziare a vivere Manhattan da autentica newyorkese.
Fingo di bere un po’ dell’infuocato caffè, visto che se lo facessi davvero le mie labbra diventerebbero un nuovo capolavoro di Picasso. Ma è servito ad ingannare la città che, riconoscendosi nel mio gesto, sta già guidandomi sulla quarantaseiesima.

Mi fermo davanti ad un tipico negozio da 99 cents: un bazar orientale in cui si può sbrigare, in modo indolore per il portafoglio, l’inspiegabile usanza italiana di dover portare un regalo a tutti quando si va negli Stati Uniti. Sopra di me solo la verticalità cristallina di un grattacielo.
Chissà quanti 0 e 1 digitati staranno cambiando il mondo in questo momento? Magari proprio da uno di questi piani che mi sovrastano… La complessità della riflessione mi spinge a saltare il discount cinese e a seguire il ritmo salsa delle streets. Salsa non per una vena latina, ma per il melting pot di possibili vite che tenta chiunque ci passeggi. A suon di congas allora, supero la quarantesima e viro verso sud. Una giornalista americana che vive nell’East Village mi ha detto che la quarantesima è il suo off-limit. Andare oltre sarebbe sconfinare in una Manhattan che non la rappresenta.

Forse anche chi vive nel lussuoso Upper East Side non scende mai negli inferi del Village. Di certo non immaginavo che anche qui ci fosse una sorta di antagonismo cittadino, un po’ come tra Roma nord e Roma sud o tra Milano dentro e fuori le mura.
Il caffè è finito da un pezzo e voglio capire cos’altro può fare di me una newyorkese autentica, anzi in questo caso una newyorkese che non supera la quarantesima, visto che mi trovo all’altezza della ventisettesima. Vagando, mi trovo in uno slargo occupato da alcune bancarelle. Mi informo: è il Flea Market. Un orrido ammasso di cianfrusaglie che ogni sabato danno vita a questo strano mercato per essere vendute chissà a chi. Do un’occhiata, magari scovo un Andy Warhol very original, chessò uno scarabocchio di quando era piccolo finito tra questi ciaffi per caso. E invece no, ma come distolgo lo sguardo dalla montagna di roba in cui stavo rovistando, mi rifletto in una vetrata tirata a lucido, che sembra lo specchio di Alice nelle Meraviglie. Che mondo nasconde? Senza che nessuna mappa me lo abbia segnalato, per puro caso, entro al Greenroom, tappa che nessun vero fanatico del trendy salterebbe per il brunch del sabato. E oggi è proprio sabato. La musica jazz dal vivo sembra suonata dalle piante che affollano questo locale. Ma è quell’immenso ficus benjamin a produrre l’irresistibile pezzo di Gerschwin che sto ascoltando? Non esageriamo adesso, è solo che la band è nascosta da una parente stretta della foresta amazzonica. Ci sono piante e alberi di ogni tipo. Per quindici dollari pranzo e soprattutto bevo champagne. Altri appuntamenti americani mi insegneranno che negli Stati Uniti è un’usanza sorseggiarne durante il brunch. Intanto fuori, l’assenza di giapponesi e di zainetti Invicta mi convince che New York mi sta volendo bene, portandomi nei suoi posti più veri e paradossalmente così poco nascosti. Accetto l’invito e riprendo a camminare. 

Shopping no problem

“Dico sempre che lo shopping è meno caro di uno psicanalista.”
Tammy Faye Bakker



Credo di essere nel cuore del Greenwich Village. Le case ora si sono fatte tutte basse, con fiori alle finestre e gatti sognanti dietro; la maggior parte dei passanti porta con sé uno strumento musicale e noto innumerevoli Nail’s shop, uno ogni dieci negozi. Per 6 dollari c’è un’orientale disposta a farti le mani, con tanto di scrub ai sali marini. Lo smalto lo scegli tu tra mille. Dei grandi centri commerciali non c’è traccia. L’atmosfera mi fa venire voglia, anzi un vero e proprio bisogno, di Vanilla Coke, la coca cola più azzardata e azzeccata che conosca. La prima sorpresa delle viette con gli alberelli ai lati è Salvation Army. Questa Onlus (credo lo sia) raccoglie oggetti e indumenti di ogni genere per poi distribuirli nei propri punti vendita e rivenderli. Sono negozi conosciuti in tutta America. Il ricavato va in beneficenza of course. Ma non si tratta di merce avariata: qui ho trovato levis a 8 dollari, giacche di pelle a 10, t-shirt, per cui certi adolescenti italiani venderebbero la madre, a 2… Ny offre davvero tanto shopping low budget, basta scovarlo. Un’altra chicca è costituita dai vestiti del Prom Day.
Questa festa tutta a stelle e strisce (paragonabile al nostro ormai sorpassato debutto in società) fa sì che le ragazze scelgano per l’occasione un fantastico vestito. E per la felicità di chi capiterà poi in un negozio dell’usato, lo indosseranno solo una volta. Come il vestito da sposa. Da Domsey’s, all’inizio di Brooklin, c’è un palazzo intero per poter scoprire le gioie dello shopping senza correre il rischio di diventare un’eroina di Sophie Kinsella1, con milioni di vestiti da sera (ex Prom-day) a soli 6 dollari.
E poi dicono che Manhattan è cara.

Lower East (in)side

“Ci dovrebbe essere un Lower East Side nella vita di ognuno.”
Irving Berlin

La metafora della grande cipolla è la più calzante per il quartiere che – dopo aver sistemato la lunga coda di capelli finti che arricchisce la mia capigliatura – sto per attraversare. Il Lower East Side, infatti, si lascia scoprire strato dopo strato e ognuno rappresenta un decennio, un gruppo etnico, qualcuno. Infatti, ho un’emozione in più nel percorrerlo: qui c’è lo SIN-E, il locale in cui suonava Jeff Buckley, un musicista di cui solo da qualche anno, cioè dopo la sua tragica morte nel Mississipi, il mondo sembra essersi accorto. Inizio a riprodurre mentalmente le note di Last Goodbye e mi viene voglia di fumare una sigaretta seduta. Un problema, visto che in tutta Manhattan è permesso solo in cinque locali. Ma il LES non nega niente a nessuno, così mi dirigo verso il Karma, uno dei rarissimi smoking bar dell’isola. Per fortuna sono munita di scorte comprate al duty free, considerando che per un’ordinanza del sindaco qui qualsiasi pacchetto costa 8 dollari. Supero negozietti artigianali o quasi, bancarelle punkabestia, negozi piccolissimi ed esclusivissimi di cd (se cercate qualcosa di Bill Laswell non mancate quello sulla Bowery), locali marocchini molto in voga, sushi freschissimi, ristoranti indiani profumatissimi e pub accoglienti, issimi anche loro.
Sono lontana dalla New York dei film e, nello stesso tempo, sono proprio lì. Infatti, la città deve veramente amarmi, perché sbuco a un incrocio con Delancey Street. La via in cui è stata girata una scena del mio film preferito: C’era un volta in America. Mi immedesimo in una di quelle donne ebree che il giovedì sera, negli anni Dieci-Venti, si recava a un mercato del quartiere per preparare il shabbat, mentre dieci metri più in là, i gangster ebrei, gli stessi interpretati nel film da De Niro e gli altri, si sparavano per inventare la loro America.

A cuore nudo nel parco

Ho oltrepassato di nuovo il confine: sono oltre la quarantesima verso nord. Tirerò dritto per tutta la Fifth Avenue fino ad arrivare a Central Park e, visto che da quelle parti tutto costa il doppio, compro un pretzel2 da un venditore ambulante, controllando che sia ancora morbido. Appena arrivo all’altezza della settantantesima, non resisto e devo avere la riprova.
È vero. Un hot dog che tre blocks più a sud costava un dollaro, qui ne sfoga3 due. Con aria soddisfatta per questa scampata beffa che di solito si rifila al turista (e io lo sono), entro nel parco e fuggo dal primo tratto di visitatori che sfamano scoiattoli, anche se la vista è favolosa. So che alla mia destra c’è Strawberry Fields, il giardino dedicato a John Lennon, ma la mia guida, the city, mi fa segno di proseguire. E faccio bene.
Non sapevo che ci fosse un castello immerso nel parco. Poi scoprirò che è il Belvedere Castle, la cui terrazza affaccia sul Delacorte Theater, dove l’estate vengono rappresentate opere di Shakespeare. Ma ora è inverno e il cielo è anche particolarmente plumbeo. Quasi invidio io stessa il mio essere lontana dalla frenesia cittadina, immersa in un’atmosfera medievale e poco frequentata, che tuttavia non pare turbarmi. Dietro le mie spalle batte il cuore di Harlem e mi sembra di sentirlo. Intanto, un sax ha appena iniziato a farmi da colonna sonora. Che inaspettato accordo tra paesaggio, suoni e pensieri. Mi metto in cerca della mia orchestra; è costituita da un suonatore di passaggio che scovo sotto un ponticello a pochi metri dal castello. Mi avvicino e lui continua ignorandomi il suo concerto. Il cappello nero impolverato ma non logoro è di fronte a lui e un grande dubbio mi assale: che valore ha un incontro perfetto?
Voi gli avreste lasciato solo un dollaro?

Il ritorno al mio albergo è facile e indolore, visto che la progressiva numerazione delle Streets e delle Avenues indica sempre a che punto ti trovi.
Se solo avessi i soldi, passerei molto più tempo a giocare con Manhattan. Prima di rientrare però, voglio fare un salto in una libreria dell’Upper East Side. E, incredibile a dirsi, ho comprato una guida. Ma ne valeva veramente la pena: si tratta della “Cheap bastard’s guide to NYC”, ovvero i segreti per vivere gratis a New York. Non vi sembra il più bel ringraziamento che la città potesse farmi per averla seguita?

Jeff Buckley, Live at the SIN-E, 2003.
Greenroom 765 sixth avenue
The cheap bastard’s guide to NYC, Rob Grader GLOBE PEQUOT 2002
Domsey’s 496 Wythe Street, south of the bridge
Salvation Army 536 West 46th Street (centro distribuzione)
Karma smoking bar 51 1st Avenue b/w 3rd & 4th Street

1 Shopping in Ny fa parte di una trilogia della stessa autrice, la cui protagonista, malata di shopping, dilapida il suo conto in banca.
2 Pane salato, gigantografia dei comuni salatini con forma simile ad un otto.
3 dal romano sfogare, sinonimo di costare.

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