Viaggio nel Gabon

di Diana Pasetti – 
“Vengo anch’io” dissi decisa, piantando I piedi, ben saldi, al centro della stanza.
John, sorpreso, interruppe il suo organizzare quel prossimo viaggio nel Gabon.
Stava impartendo ordini sul modo in cui si sarebbero dovuti riunire, enormi quantitativi di medicinali, bende, vaccini, latte in polvere e altre necessità primarie che attendevano ammucchiati nel nostro garage e nei box di tutti I vicini. Le automobili, sfrattate, erano temporaneamente parcheggiate in strada.
Le donazioni erano arrivate numerose, nei giorni precedenti, con tutti I mezzi immaginabili. Grandi ditte avevano fatto scaricare casse intere di prodotti. Gruppi religiosi avevano raccolto presso I fedeli ogni ben di Dio prima di consegnarceli. ERA anche accaduto che qualche singola famiglia ci portasse un pacchetto, del vestiario. Le scuole avevano voluto partecipare raccogliendo le lettere che I bambini indirizzavano ai loro coetanei africani.
Stavamo vivendo, da giorni, in un generoso confuso subbuglio.
John stava ora cercando di procurarsi dei mezzi per trasferire l’ingente carico fino all’aeroporto, organizzandosi con l’aiuto di volontari. Lì un aereo della Croce Rossa gli sarebbe stato messo a disposizione. Sei o sette persone erano riunite, da ore, a casa nostra. Il sole stava tramontando, portando con sé un tiepido pomeriggio romano. Nella stanza un acre odore di fumo. Ovunque erano sparsi fogli scribacchiati e cicche di sigarette. Una gran confusione. L’unico telefono appoggiato in terra, non faceva che squillare.
Io entravo ed uscivo in continuazione dalla porta, portando ora questo, ora quell’oggetto. Tutti chiedevano qualcosa, senza pertanto prestarmi la pur minima attenzione.

“Vengo anch’io!” ripetei con forza. John, mi guardò allora stupito e poi scandalizzato, da un comportamento alquanto ardito, che non riconosceva in me. Solo allora, credo, gli altri notarono la mia presenza.
A casa, ero sempre stata considerata una “sciocca nata” da entrambi I miei genitori. Per John, mio padre, noto radiocronista, in particolare, ero un animaletto di peluche da accarezzare istintivamente se gli passi vicino, oppure, un pupazzo da tiranneggiare, secondo i propri umori. Era sconcertato e sorpreso, dal tono della mia nuova voce, alta e decisa. “Ragiona” continuai piantando gli occhi ben fissi nei suoi “come farai a trasportare in giro, per mezzo mondo, da solo un apparecchio da registrazione che peserà 50 o 60 chili? Chi ti aiuterà su e giù per la scaletta degli aerei? Da una imbarcazione all’altra, dimmi chi ti aiuterà?” L’entusiasmo per il recente successo ottenuto nell’aver raccolto, con una trasmissione alla radio francese, in contemporanea di quell’italiana e inglese, l’attenzione di mezza Europa, si fermò per un attimo. John si era dimostrato davvero grande con la sua “Chene du bonheur” in favore del dott. Schweitzer e dei suoi diseredati in terra d’Africa. Già il registratore! Occorreva imbarcare anche quello. Soprattutto quello. Per John era più importante di tutto il resto. Come aveva fatto a non pensarci?
Papà mi fissò ancor più profondamente con quei suoi occhi azzurri così trasparenti, così strani.
D’un tratto il pupazzo si era messo a parlare. Non solo, aveva anche espresso un problema. Il trasporto del registratore! Come non averci pensato?
John era indubbiamente un pioniere delle comunicazioni a distanza, e anche un reporter geniale in quei primissimi anni sessanta.

Al suo attivo, John aveva ricevuto una educazione di livello internazionale. Aveva una famiglia in diplomazia, conosceva svariate lingue e soprattutto possedeva la padronanza dello spazio. Ovunque si trovasse pareva essere a casa sua.
Inoltre, possedeva l’incantesimo di seguire sempre il suo istinto. Un istinto veramente valido anch’esso dato che lo conduceva sempre in prima linea per ciò che riguardava il suo impegno di libero professionista. La sua missione come amava definirla lui. Ed era uno scoop dietro l’altro. Unico ingombro proprio quell’apparecchio, ancora primitivo, per un modo di muoversi così veloce. Non era adeguato ad una personalità e un tempismo sempre in corsa.
Il registratore allora, era un baule di legno enorme, contenente fili e valvole, non transistor degli anni ancora a venire. Ed era pesante. Per trasportarlo da un luogo all’altro occorrevano sempre due persone. Una per parte a quel mobile, per cercare di sollevarlo, aggrappate alla cinghia di cuoio che l’avvolgeva, una volta chiuso.
John si doveva poi, ancora caricare sulle spalle una borsa contenente metri di filo elettrico, con a capo, un microfono che pareva una lampadina. Più che un radiocronista assomigliava ad un facchino. Un portatore con molti sogni in testa, innumerevoli domande da formulare, tante conoscenze e posti ancora da incontrare.
Egli credeva pazzamente nel suo mestiere: l’andare, il cercare, l’indagare sempre. La sua vita? Un’avventura! La ricchezza? Presentare questa vita e I suoi personaggi al prossimo. Ritrasmettere suoni, impressioni, vibrazioni!…

Eravamo una ben strana copia davvero sulla pista dell’aeroporto di Roma quella mattina. Piazzati sotto l’ala di un Jet ad elica, entrambi con I capelli in balia ad un forte vento. Sopra di noi un cielo plumbeo che minacciava pioggia.
John controllava meticolosamente, sotto la pancia dell’uccello metallico, il carico dei doni ricevuti ed arrivati miracolosamente fino a lì. Io, immobile come un soldatino, alla guardia del “baule” ai piedi della scaletta, piccola, magra e già intirizzita dal freddo.
Sandro, il nostro fotografo e parte integrante della spedizione non era ancora arrivato e John si stava davvero innervosendo per questo.
“Lo vedi?” mi gridava alzando appena il capo, mentre continuava a contare le casse man mano che venivano caricate.
“Lo vedi?” Facevo finta di non sentirlo, per non innervosirlo ulteriormente pur tenendo gli occhi ben fissi sul cancello della palazzina aeroportuale aperta sulla pista…
Anche un aeroporto era diverso allora. Raggiungere un velivolo era come attraversare una piazza per raggiungere una nuova momentanea dimora…. “Eccolo! Sta’ arrivando” gridai a mia volta scorgendo un piccolo uomo che correva verso di noi trafelato.
Anche l’equipaggiamento di Sandro era di notevoli proporzioni. Il pover’uomo scompariva quasi sotto le numerose apparecchiature fotografiche. Cercava inoltre di trascinare una pesante borsa di pelle ciondolante raso terra. Le tasche del suo abito trasandato erano rigonfie di pellicole e lampadine. Appena in tempo sull’orario stabilito.
La stiva del velivolo si stava già richiudendo dietro al prezioso carico. I piloti intenti a provare, per un’ultima volta, il funzionamento dei comandi. Finalmente ci stavamo imbarcando.
La ripida scaletta fu percorsa parecchie volte in su e giù per caricare tutto ciò che doveva essere portato a bordo. Per ultimo il bene più prezioso: la macchina parlante, il baule!
Fummo in tre ad issarlo con fatica. Uno scalino e fermata, un altro ancora e sosta fino a poterlo adagiare sul pavimento dell’aereo.
Il portellone era ancora aperto quando mi sedetti vicino al finestrino allacciandomi una primitiva cintura di sicurezza.
“Ma che fa? Viene anche la scimmietta?” chiese Sandro stupito. Nessuno si era preoccupato di informarlo. Anche lui aveva una figlia della mia età più o meno, lasciata alle cure della mamma, al riparo nella sua casa. Mio padre alzò le spalle come per dire: “Non farci caso. Sa badare a se stessa.”

Non tenni conto del trascorrere del tempo in quel primo volo della mia vita. Non ricordo proprio quante volte la pancia mi sia saltata in gola, per I sussulti causati dai vuoti d’aria, prima di riassestarsi definitivamente al suo posto.
Trascorrevo il tempo in un dormiveglia continuo, mentre I due uomini parlavano ininterrottamente di lavoro. Si scambiavano le proprie esperienze, litigavano per le idee politiche di Sandro e apolitiche, umanistiche e ideologiche di John.
C’era una sola hostess a bordo, tanto anziana e premurosa da sembrare una zia. Arrivava ogni tanto offrendoci panini imbottiti come se fossimo ad una scampagnata e del caffè tenuto caldo in termos. John ed io detestiamo il caffè. Sandro ne beveva a litri.

Aprì definitivamente gli occhi all’improvviso, abbagliata più dalla luce che dall’ennesimo sussulto. Guardai fuori dell’oblò pronta a rituffare gli occhi nell’intensità azzurra del cielo…invece sotto a noi si presentava un mare di fitta vegetazione.
Un fiume largo tagliava la giungla in due come una lunga ferita. Stavamo scendendo e man mano che l’aereo si avvicinava nuovamente alla terra s’intravedevano delle case basse costruite ai bordi del fiume. Sul di esso galleggiavano piccole imbarcazioni in movimento. Poi proprio sotto di noi, una striscia d’asfalto…la pista d’atterraggio.
Un’altra nazione ci attendeva, il Gabon. Un mondo di cui a malapena avevo sentito parlare, ma la sua capitale aveva un nome che da solo, mi riempiva d’entusiasmo: “LIBREVILLE” Città libera.

Il volo era così giunto alla sua conclusione. Avvicinandomi con gli altri all’uscita rabbrividì un attimo, colta da un senso di vertigine, nel vedermi posta così in alto dal suolo.
Sotto di noi, degli uomini dalla pelle nera come il carbone, stavano già avvicinando una scala stretta e ripida, da incollare alla porta del velivolo. Tutto era così nuovo per me. L’informazione non era come oggi, a portata di mano, ma tutta da scoprire e sulla propria pelle.
Aprirono il portellone e un’aria piacevolmente calda e umida mi accarezzò il viso.
Ancora una volta mi trovai nella difficoltà del mio compito quale collaboratrice nel trasporto del baule.
La discesa dal velivolo si presentava ben più ardua della salita. Uno scalino per volta ed un padre brontolone: “Non così…non lo strusciare….Alzalo ti dico..”
In basso, sotto l’apparecchio ci aspettava un nugolo di negretti festosi. Era raro l’apparire di un aereo della Croce Rossa da quelle parti, e suppongo ancor più raro vedere un gruppetto di “bianchi” arruffoni e disastrati intorno ad un baule di legno trascinato per le cinghie. “Un cadeau pour nous?” Un regalo per noi?

Sulla pista la pancia dell’aereo fu nuovamente aperta e le casse, contrassegnate da una croce, scaricate e portate velocemente su alcune Jeep venute a riceverci.
Anche noi fummo letteralmente caricati.
Non so quanta polvere mangiammo su strade sterrate, mentre lo stomaco aveva ripreso nei suoi rimbalzi pazzeschi, per tutte le buche in cui andammo a finire, strada facendo, fino a giungere in vista di un molo primitivo. Delle imbarcazioni ci attendevano e anche interi nuclei familiari di una popolazione locale in festa.
Intorno a noi si levavano ora grida gioiose, s’improvvisavano balli. Tutti cercavano di toccarci. Tutti volevano un abbraccio. Per fortuna molte persone aiutarono a trasportare casse e registratore dalle Jeep alle barche con l’apprensione ormai incontenibile di John.

Come Dio volle, stavamo ora navigando, verso Lambaréné. Scivolavamo dolcemente, lasciandoci cullare questa volta sul grande fiume Ogooué. La temperatura era mite. I miei occhi sbarrati per la meraviglia della natura che ci circondava. I due giovani uomini si stavano lasciando andare in balia all’esaltazione…
Eravamo così lontani da casa. Proiettati di colpo in un’altra dimensione. Pensai ai miei compagni di scuola. Certamente si trovavano in classe in quello stesso momento, mentre io, in Africa equatoriale, a soli 17 anni ed I capelli, come sempre, spettinati al vento, sguardo sperduto nello spazio e cuore in gola!



Nel nostro navigare lento sul fiume, altre imbarcazioni ci raggiunsero. Delle piroghe cercarono di avvicinarci. Tutti volevano sapere se davvero le casse contenevano medicinali. Domandavano I nostri nomi, e se li passavano da persona a persona come un’eco sempre più storpiato, tutto ciò continuando a navigare.
Una intera scorta d’onore ci stava accompagnando adesso, mentre nasceva spontanea una festa sul fiume. Una festa improvvisata con canti e gioia proprio vicino a noi, intorno a noi, mentre sull’altra sponda, il suono dei tam tam, ci dava anch’esso il benvenuto scandendo parole sui tamburi. Giungemmo dunque in molti sulle sponde di un’altra riva. Proprio in tanti a Adolinanongo.
Mi parve che tutta l’Africa fosse presente insieme a noi, piombati chissà da quale continente di bianchi, mentre l’unico uomo bianco che ci appariva in lontananza, era un vecchio ossuto che già sventolava, in aria, un capello da cacciatore. Il dottor Albert Schweitzer sicuramente!
Man mano che ci avvicinavamo vidi I suoi lunghissimi baffi rivolti in su ed un sorriso triste. Era tutto vestito di bianco, come per apparire meglio, come per non perdersi forse?
John e Sandro alzarono a loro volta le braccia in segno di saluto… “Ont vous attendez avec impatience”. Vi attendevamo con impazienza, disse il vecchio quando riuscimmo a raggiungerlo.
I due uomini saltarono giù agili dalla nostra imbarcazione sbilanciandola, senza badare a me, che per poco non caddi in acqua.
Il Dottor Schweitzer mi guardò con curiosità senza chiedere nulla, mentre in me entrava tutta l’emozione del mondo.
“Ma fille” disse allora John. ” E’ voluta venire…non c’è stato verso lasciarla a casa. Voleva conoscerla.”
“Je m’appelle Docteur” mi disse allora con una carezza. “Tutti qui mi chiamano Docteur” e con grande semplicità si avviò lungo una strada polverosa aspettandosi di essere seguito.
Guardai il registratore, interrogando John con lo sguardo. Anche lui parve preoccupato vedendolo trasportare con tanta disinvoltura da un paio d’indigeni incuriositi.
“Doucement. C’est une boite magique”. Piano è una scatola magica!

Quante ore erano trascorse dalla nostra partenza dall’Italia? Quante ore senza un pasto completo, senza potersi distendere nel sonno? Non lo avrei mai saputo, ma sicuramente erano passati 10.000 km. di distanza e con un mezzo che, si può ora ben dire, di fortuna.
Barcollavamo. Le nostre gambe faticavano a ritrovare un equilibrio. Fui dunque ben grata ai due giovani che mi avevano evitato il trasporto della “scatola magica”.
Molti indigeni, si erano allineati lungo la riva fino alla strada.
Sbarcavano così le casse dalle imbarcazioni, con un passamano veloce i piedi nudi, sempre cantando, ritmando la musica con passi di danza.
Amai subito I loro canti, teneri, semplici. Si sarebbero quasi dette delle nenie per bambini.
Altissime palme costeggiavano il viale che stavamo percorrendo, sotto le quali si potevano vedere delle capanne con tetti formati da foglie essiccate. Viottoli appena accennati, le collegavano tra loro.
” Dov’è l’ospedale Docteur?” chiesi
“Mais le voici” Eccolo rispose indicando una baraccopoli proprio davanti a noi.
Sorrise da sotto I suoi baffi, la testa inclinata, guardandomi enigmatico. L’avremmo potuto visitare più tardi ci disse ancora proseguendo verso la propria dimora.
La sua era una ben semplice casa, ordinata nel suo insieme. Costruita interamente di legno e dal tetto spiovente. Alte palme e banani la circondavano ed era quasi interamente ricoperta dalle buganvillee. All’esterno, in un patio, ci attendeva una tavola imbandita, intorno alla quale delle donne indigene si stavano dando un gran da fare. Il nostro ospite ci fece cenno di accomodarci su delle panche…offrendo a tutti succhi di frutta tropicale.
“Posso andare al…” chiesi.
All’interno della casa mi indicarono una porta. Mi guardai un attimo intorno. Mi trovavo in un largo androne. Due sole le porte, quella di un primitivo bagno dove l’acqua era raccolta in damigiane di terra cotta, ed un’altra in fondo al locale.
Lungo il resto del corridoio delle lunghe tende scendevano dal soffitto dividendo gli spazi in vari scomparti. Sembrava trovarsi in un’enorme camerata con tanti letti allineati lungo una parete. Ero così stanca che ne scelsi uno qualsiasi e mi sdraiai.
“Solo due minuti” pensavo per cadere d’incanto in un sonno profondo.

Passò molto tempo invece. Tacquero I canti, scomparve l’allegro gridare e il cicaleccio delle donne. Si chetarono I galli dispettosi, terminò ogni confusione.
Immersa com’ero nel sonno, le membra finalmente distese, sognai due ruvidi baffi baciarmi la fronte e delle mani stanche coprirmi con un lenzuolo.

Mi risvegliai molte ore dopo, con il vociare nuovo dei bambini, le stridule voci di giovani donne, il chicchirichì di un gallo noioso e…il dolce suono di un organo.
Bach! Qualcuno stava suonando Bach!
Mi guardai intorno e non vidi nessuno all’interno della casa. La musica che si spandeva nell’aria proveniva da una porta chiusa in fondo al corridoio. “La stanza del Docteur” pensai, e uscii in punta di piedi, non osando disturbarlo…
Fuori, la tavola circondata da panche era nuovamente imbandita: nescafé, succo di cocco, thé e tanta frutta tropicale.
“Ho sentito della musica, l’organo..” Dissi ad un boy.
“E’ il Docteur” m’informò “Suona tutte le mattine prima della colazione”.

Gironzolai un poco nei dintorni quindi incontrando Sandro e Papà. Stavano facendo il bagno lì nel fiume. Erano in mutande eccitati e ridevano come bambini. Li osservai per un po’ abbagliata da una luce così tersa, poi mentre si preparavano ad uscire dall’acqua, gettai loro l’asciugamano appoggiato sulla riva e sorrisi. Tornammo insieme verso casa, per raggiungere il nostro ospite e consumare con lui la nostra prima colazione africana.

Eravamo in tanti, adesso, intorno al tavolone di legno grezzo. Tra gli altri, un medico giapponese, alcuni volontari europei e degli infermieri di colore. Sandro e John avevano conosciuto già tutti il giorno prima, mentre io mi ero eclissata.
Quasi tutti parlavano francese, la mia prima lingua. Fui perciò contenta di comprendere ciò che veniva detto. Sandro, seduto vicino a me domandava: “Scimmietta, traduci per favore”- Io ascoltavo attentamente e poi traducevo. Sandro era l’unico a non comprendere, ed io felice nel potermi rendere utile. Ciò mi faceva sentire parte del gruppo.
Il dottor Schweitzer ascoltava, come tutte le mattine il resoconto sui malati giunti durante la notte. Oppure discuteva dei casi più gravi, di coloro che si sarebbero dovuti operare.
Organizzava così le sue giornate, alla buona, tra una tazza di thé e dei bambini gioiosi che correvano intorno a tutti noi.

La nostra presenza in quella mattinata rendeva poi tutto particolarmente felice. Con noi erano giunti quintali di medicine e tutti speravano in qualcosa in più. Un miracolo, forse, per I loro cari ricoverati. L’ospedale era, a corto di tutto, prima del nostro arrivo. Avevo già notato delle putride bende stese ad asciugare al sole. Avevo già potuto vedere, nella mia passeggiata mattutina, una lunga fila di persone avvicinarsi al capannone centrale, dove era allestito un primo soccorso.
Nel villaggio si era poi sparsa la voce che un visitatore d’eccezione era arrivato carico di medicinali sacri e anche munito di una macchina che aveva il potere di fotografare le parole e di farle risentire.

Si, era proprio una mattinata speciale! Di nuovo tante persone si stavano affollando intorno a noi. Tanti corpi neri appena ricoperti di stracci. Tanti visi difficili da scrutare. Solo I denti bianchi risaltavano così bene su visi veramente indefinibili ancora per me.
I bambini poi…mi tiravano per le braccia, si attaccavano al mio collo. Annusavano I miei lunghi capelli lisci e mi trascinavano infine dai loro parenti ammalati, verso un capannone, posto proprio in mezzo ad un spiazzo fangoso su cui si dividevano vecchi binari arrugginiti dove probabilmente non era mai passato nessun convoglio. Lungo ad essi, erano disposte altre capanne fatte di bandoni di latta, mattoni di fango.
Sandro mi seguiva ovunque andassi, con la sua rolley flex sempre pronta. Non faceva che scattare foto e cambiare lampadine al flash all’interno dei reparti posti nella semioscurità.
Ciò che io vidi mi spezzò letteralmente. Corpi ricoperti di piaghe purulente, arti completamente mancanti per via della lebbra, bambini stesi su brandine di legno dai visi ricoperti di mosche…
Terribile e spaventosamente crudele! Cercai di non far trapelare quell’improvvisa, intensa stretta al cuore. Nemmeno per un attimo. Per tutti ebbi un sorriso. A tutti toccai la spalla, una mano. A tutti chiesi il nome, con una generosità che solo i volontari lì presenti sapevano dare, oppure una giovane come me, non ancora contaminata da una società dei consumi.

A dire il vero non ero mai entrata in un ospedale in vita mia. Nemmeno nella mia città, Roma.
Era la prima volta in assoluto e l’approccio davvero drastico. Ben sapevo però che da noi I malati erano soli. I famigliari potevano andare a trovarli solo in determinate ore del giorno e per visite brevi. A Lambaréné invece, il malato si faceva accompagnare dalla moglie, dai figli e si portava dietro la capra e la mucca. Era così circondato in ogni momento dai suoi cari che continuavano vicino a lui la loro vita di tutti I giorni. Questo faceva parte integrante della terapia del dottor Schweitzer, altrimenti I malati non si sarebbero lasciati curare.
Ciò che più mi colpì era l’atmosfera. Non triste e angosciante come penso fosse per un malato in perenne attesa, ma sereno. La forza vincente di quel luogo era dunque un ospedale che ospitava tante piccole comunità che, tutte insieme formavano il villaggio.
Un villaggio costruito sul bisogno, sull’altruismo e sulla generosità dove un grande vecchio vegliava incoraggiando e spingendo a sperare.

La vita si svolgeva lì proprio come dall’altra parte della collina, che visitai in seguito. I bambini giocavano con la terra, le mucche venivano munte davanti ad una capanna improvvisata. I vecchi seduti vicino ad un uscio, fumavano una sorta di sterpaglia arrotolata, e aspettavano con gli altri che un parente guarisse, per ritornare poi insieme alla normalità della sua vita.

Visitai tutto già il primo giorno, anche il reparto maternità, accompagnata da Sandro dalle mille domande, che m’incitava a tradurre all’infinito. “Non è francese questo. Non posso tradurre” gli dissi quando anch’io non comprendevo “E’ lingua Bantu”.
Gli abitanti di quei luoghi erano per la maggior parte Pigmei, piccoli uomini dediti alla caccia e al raccolto. A volte accadeva però che si mischiassero con i Bantu, tribù più sedentarie che conoscevano, seppur in modo molto approssimativo, l’agricoltura.
Nel frattempo John spariva per conto suo alla ricerca di storie da imprigionare sui suoi nastri magnetici e nel suo cuore.

Appresi molto parlando con I nativi in quei pochi giorni di permanenza nel Gabon. E gli abitanti del luogo si affezionarono a noi. Cercavo, inoltre, di rendermi utile per quanto mi fosse permesso. Aiutavo gli incapaci a nutrirsi, le infermiere a fasciare le piaghe, membra invalide a girarsi sul pagliericcio.
A fianco del dottore giapponese imparai persino a vaccinare I bambini. Inoltre portavo messaggi verbali ai parenti dei malati rimasti dall’altro lato della collina, per poi ritornare sempre carica di doni, alla casa che mi ospitava.
“Petit cadeau”. Piccoli regali: una pelle di serpente, un cesto intrecciato, un fiore, un bracciale di perline multicolori. In un momento d’abbandono mi avvicinai all’unico tavolo circondato da panche per scrivere sul mio diario le emozioni che stavo vivendo, quando sorpresi le docteur a fare la stessa cosa. Lui usava mozziconi di matita e fogli già usati…Mi accorsi allora che non avevamo pensato a portare delle risme di carta per lui…e gli porsi I miei quaderni vuoti e le penne a biro che avevo portato con me….

John era raggiante. Stava imprigionando mille voci, mille canzoni nella scatola magica e di sera, al lume delle lampare sotto il portico le faceva risentire.
Il suo registratore era collegato con un lungo filo all’unica presa di corrente della casa, azionata da un generatore. La stessa cui era collegato il prezioso organo del Dottor Schweitzer. Un organo antico e riccamente scolpito. Gli era stato regalato nel lontano 1913 dalla società Bachiana di Parigi ed era tutto foderato di zinco per essere difeso dalle termiti. Una sera il dottor Schweitzer ebbe un triste presentimento e volle il microfono tutto per sé. Sentiva incombere la fine su di lui. “Sono vecchio. 88 anni sono troppi!” si lamentava. Espresse così il desiderio di lasciare I suoi pensieri al mondo. Un suo testamento spirituale!

“Cosa pensa Professore del mondo?” Iniziava a domandare John controllando che le bobine girassero normalmente sul registratore. “Cosa penso del mondo dopo quarant’anni che mi trovo qui? Io sono una piccola rana che vive nel suo stagno. Per me c’è solo un problema: guarire I malati, mantenere in efficienza il mio ospedale, comprendere gli indigeni. Non sono al corrente di tutti I problemi dell’Africa, ma spero che vi sia un progresso regolare in tutti I campi. Da quello materiale allo spirituale. Fare delle profezie è impossibile. Bisognerebbe viaggiare molto ed io non viaggio. Vedere molte persone, ed io sono sempre qui. Mi sono però sempre chiesto: come dare una base solida e profonda alla morale?
Nei dieci anni che sono rimasto all’università, prima come studente e poi come professore, ho avuto la gran fortuna di leggere tutto ciò che su quest’argomento avevano scritto in Cina, in Giappone, in India e da noi. Allora ho compreso che il Bene è Bene e che il Male è Male. La nostra civiltà è liquidata, perché non c’è in essa l’ideale umanitario, un sentimento guidato dagli istinti e dalle ispirazioni umane. Questo purtroppo in tutta la nostra esistenza, sia come individui sia come società!- Noi siamo dei Mostri umani.
Un elemento di forza ci spinge ad essere diversi da quello che in fondo siamo. Da ciò è nata la prima guerra mondiale.
Non abbiamo saputo resistere alla distruzione.
C’è nel mondo una cosa che non comprendiamo: lo sviluppo.
Gli scienziati dicono che tutto ciò che forma la vita si è sviluppato da un’altra vita più piccola: la cellula.
Quest’organismo si è sviluppato e alla fine è apparso l’uomo. L’UOMO che non è solo un essere materiale che sa muoversi, lavorare, fare progressi, ma è una creatura dotata di uno spirito.
E nel profondo della parola “Spirito”, questa cosa inafferrabile, è racchiuso il problema della religione e della filosofia.
Ambedue cercano la stessa cosa camminando per due strade diverse. La religione tende a capire quel che I profeti hanno detto sul bene e sul male. La filosofia tende a spiegarlo aiutandosi con il ragionamento ed il pensiero umano.
Ed ora parliamo di noi che viviamo oggi.
Io dico che ognuno deve cercare di avere un’altra occupazione oltre quella materiale necessaria all’esistenza. Potrà così aiutare coloro che hanno bisogno di essere soccorsi.
Io dico che si deve essere uomini perché l’uomo ha bisogno dei suoi simili. Non si tratta di avere una seconda professione, ma di tenere gli occhi rivolti verso coloro che hanno bisogno. Non è un problema di denaro, ma di tempo, di simpatia!”

A Lambaréné si lotta tutti I giorni per la sopravvivenza con semplicità, con speranza. La gente sa essere felice per una parola, per un gesto, per un po’ d’attenzione.
Ignoranza e superstizione sono però molto diffuse e quindi c’era un’altra immane e costante lotta che il Dottore Bianco doveva affrontare quotidianamente. Lo scontro contro un suo potente antagonista: lo sciamano del villaggio. Molti, troppi erano ancora coloro che si rivolgevano a lui per guarire I propri mali. Così si perdevano delle vite talvolta anche delle malattie semplici, che avrebbero comunque avuto bisogno di un bisturi. Personalmente, ciò che più mi rattristava era l’apprendere in un radioso mattino qualsiasi, che un bambino era stato condotto da lui e non ce l’aveva fatta a superare la notte…
Per fortuna I bambini nascevano anche. Ed erano tanti!

Regnava perciò una grande confusione, in un’altra serata particolare, sotto il portico, intorno al tavolo, intorno alla scatola magica e soprattutto intorno al Dottor Schweitzer.
Si stava festeggiando l’ennesima operazione riuscita, eseguita dal Docteur e I suoi collaboratori. Due le vite salvate: una partoriente ed il suo bambino.
La ragazza aveva bisogno che le fosse praticato un taglio cesareo. Lo stregone, al quale si era rivolta ormai all’estremo delle forze, non lo sapeva, e comunque non lo avrebbe potuto eseguire.
In estremis era stata tolta dalle mani feticci e accompagnata all’ospedale. E ancora una volta la scienza e la tenacia del medico bianco avevano avuto la meglio, riuscendo a compiere uno dei tanti miracoli, con i rudimentali mezzi tecnici a disposizione.
E’ nata una bellissima bambina, figlia di un mitico cacciatore del luogo, forse per questo le è stato imposto il mio nome. Un nome davvero strano per una piccola nera.
Ne sono davvero felice! Il nome della dea cacciatrice sarà bellissimo anche laggiù, nella profonda Africa equatoriale.
E con la nascita gioiosa della piccola Diana è trascorsa la nostra ultima serata a Lambaréné nel villaggio d’Adolinanongo.

La vera VITA è rullata davanti ai miei occhi in quei giorni africani. Intensa e tangibile, e ho avuto la fortuna di conoscere, al di sopra d’ogni altra persona, luogo, esperienza ed emozione, un essere umano, che con il suo esempio avrebbe condizionato tutta la mia personale, futura esistenza. Con il suo esempio mi ha aiutato a crescere in fretta, dal punto di vista culturale e umanistico.
Non è da tutti poter vivere, seppur brevemente e in così giovane età, vicino ad un premio Nobel per la Pace.
L’anima si è riempita di mille canzoni dalle sfumature più profonde e poetiche. Il desiderio di approfondire si è incuneato nel mio profondo, come un germoglio e non mi avrebbe più abbandonata insieme alla voglia di conoscere, viaggiare, arricchire ogni ulteriore sapere e poterlo poi rinnovare in ogni giorno a venire.

Decine le barche nuovamente pronte a salpare, poco distanti dalla riva sabbiosa del fiume Ogooué. Tutti volevano scortarci fino a Libreville per un ultimo saluto. I tam tam avevano ripreso a battere, prima in sordina poi sempre più forti fino a divenire assordanti scandendo, a modo loro, parole di commiato.
Il grande dottore bianco, in piedi sulla riva così come mi era apparso la prima volta, adesso aveva il volto nascosto dalla balza del suo cappello. Solo quando navigavamo, ormai troppo lontani da lui per vedere le sue lacrime d’addio, se lo tolse e lo sventolò in aria a lungo, salutando. In alto verso il cielo…
Era tanto vecchio, infinitamente stanco e a noi aveva donato le sue speranze affinché il suo mondo continuasse…

Stavamo tornando a casa con un aereo di linea questa volta, e come una veterana del volo, mi sedetti vicino al finestrino e mi allacciai la cintura di sicurezza. Sandro scherzò: “E’ ancora lì la scimmietta?”
Papà si era seduto vicino a me. Prese la mia mano tra le sue…l’aereo aveva già lasciato la pista d’asfalto e ora, virando, si alzava veloce.
Stavamo lasciando il suolo africano, dirigendosi in alto verso le nuvole.
Fuori dall’oblò, sopra di esse così statiche, immobili, mi parve di vedere un vecchio camminare curvo, completamente vestito di bianco.
In quell’infinito, mi parve sentire la musica di un organo suonare Bach…e la musica amalgamarsi al battito delle mani su dei tamburi…”Tam…Tam…” poi, per una volta ancora, sentii la sua voce. La voce di ” Albert mon ami”.
Albert Schweitzer presente a ricordarci il suo messaggio ultimo:
Non si può vivere senza speranza.
La speranza che abbiamo e che conserviamo è la forza della nostra epoca. Il grande pericolo per l’uomo è perdere il suo umanesimo. Non essere più uomo, diventare lui stesso una macchina.
Bisogna reagire. Cercare cosa si può fare come uomini..
Noi dobbiamo, sia per mezzo della religione, sia per mezzo della nostra condotta,cercare quello che vi è di spirituale in noi e…farlo progredire!”

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