di Pierluigi Cortesi –
Tramontato, non senza rimpianti e auto-recriminazioni, il progetto del “viaggio di una vita” fino a Capo Nord, insieme a Paolo Pattoneri, ho cominciato a cercare una meta sicuramente meno ambiziosa, ma che non fosse una destinazione qualunque, un banale riempitivo. Nelle settimane seguenti, ho ricevuto una mail in cui un amico tedesco, Jürgen, mi invitava a partire per un viaggio in bici da casa sua fino a Dresda.
Così, mentre da un lato seguivo l’avanzata di Paolo verso il Grande Nord, dall’altro cominciava a prendere corpo l’idea di partire per la Germania: in fondo sarebbe stata anche la rivincita su un altro viaggio mancato, quello del 2007 per Brema.
La proposta di J. consisteva in un viaggio in 5 tappe (di 130-140 km al giorno) con partenza da Tübingen, attraversando verso Oriente quasi tutta la Germania fino a Dresda, città vicino al confine con Repubblica Ceca o Polonia e splendidamente rinata dopo le distruzioni della guerra e il periodo difficile vissuto sotto il regime della DDR. L’unica mia perplessità derivava dal fatto che il periodo a cavallo di Luglio e Agosto è notoriamente caldo anche a quelle latitudini, ma non c’erano alternative, dato che quella è l’unica finestra temporale possibile per J. Della partita sarebbero stati anche Lothar e Jan due suoi amici della mia stessa età la cui compagnia avrebbe reso più piacevole il viaggio e consentito una riduzione dei costi.
Ho cominciato a documentarmi e a cercare informazioni sui passi appenninici e alpini da superare e sui possibili B&B, alberghi e ostelli in cui passare la notte. La prima bozza del viaggio prevedeva di percorrere la costiera tirrenica da Castiglioncello fino ad Aulla e poi, scavalcato l’Appennino, scegliere uno dei possibili itinerari per la Germania: puntare su Milano e provincia, raggiungere Chiasso e il San Gottardo (il passo, ovviamente, non il tunnel) e infine passando da Zurigo raggiungere Jettingen, casa di J. , presso Tübingen; oppure valicare le Alpi progressivamente più a est, dai passi del San Bernardino, dello Spluga o del Bernina. Dalle informazioni raccolte non è emersa una sostanziale differenza in kilometri o difficoltà tra i vari tracciati. A togliermi dall’indecisione sono intervenute due proposte: Paolo mi invitava a passare da Borgotaro e a fare la prima tappa a casa sua, da dove poi sarei ripartito l’indomani insieme a lui per una cinquantina di km; J. per parte sua proponeva di passare non da Zurigo, ma da Costanza, dove lo avrei incontrato per pedalare insieme gli ultimi 150 km fino a casa sua. L’idea di fare qualche pezzo di strada in compagnia è risultata vincente e mi ha spinto ad accettare entrambe le proposte e a elaborare quindi il tracciato definitivo del percorso Castiglioncello-Jettingen (pianificare la seconda parte del tour, Jettingen-Dresda, ovviamente, sarebbe stato compito di J.).
Ho suddiviso così l’itinerario in 5 tappe: 1) Castiglioncello -(passo del Brattello)- Borgotaro; 2) Borgotaro-Piacenza-Milano Nord; 3) MilanoNord-Chiasso-Bellinzona; 4) Bellinzona-passo San Bernardino-Chur; 5) Chur-S. Margrethen-Konstanz; 6) Konstanz-Jettingen.
Il passo successivo ha riguardato il reperimento delle strutture nelle quali pernottare: la sera della prima e ultima tappa avrei avuto la possibilità di essere ospitato dai due amici, a cui poi si è aggiunta la disponibilità di Lothar a trovarmi un alloggio a Konstanz, dove lui vive. Per le tappe 2, 3 e 4 avrei provveduto io tramite Internet.
La successiva fase dei preparativi ha riguardato la bicicletta: a parte i soliti controlli/sostituzioni di routine – camere d’aria e copertoni, mastice e toppe, cavi e tacchetti dei freni, etc.- le questioni importanti da affrontare erano due: cosa fare per affrontare le salite più impegnative (a cominciare dal valico delle Alpi) e come risolvere il problema del portapacchi e del peso dei bagagli. Nel primo caso la soluzione più ovvia sarebbe stata quella di sostituire le due moltipliche attuali (un 52 e 39 tutto sommato vecchiotte) con una tripla, il che avrebbe comportato anche altri interventi (a partire dal deragliatore) e si sarebbe rivelato piuttosto dispendioso, oppure scalare diversamente i pignoni, inserendo un 30 al posto dell’attuale 28, ma la forbice tra il più piccolo e il più grande diventava così troppo ampia; o ancora, ed è questa la soluzione che ho adottato alla fine, limitarsi a sostituire le due corone del movimento centrale con un 50 e un 34 di una compact; è un compromesso soddisfacente: rinunciando a un po’ di velocità massima, si riesce ad accorciare ulteriormente lo spazio di pedalata in salita (il nuovo 34/28, che equivale a un 39/32, sviluppa 255 cm contro i 293 precedenti) e oltretutto con un costo accettabile. Più problematica è la seconda questione: il portapacchi posteriore è ancorato al telaio (che è sprovvisto degli appositi occhielli) per mezzo di fascette in gomma e metallo e tende a scivolare e a ondeggiare in corsa. Alla fine, dopo essermi consultato con il mio ciclista, opto per un leggero portapacchi a sbalzo (cioè da attaccare al cannotto della sella) a cui si adattano perfettamente le mie 2 borse di grandezza medio-piccola, sufficienti per portare il bagaglio minimo indispensabile per un viaggio di una decina di giorni d’estate.
A metà giugno la bici è sostanzialmente pronta; non così la preparazione fisica: la pigrizia, suffragata da un tempo straordinariamente piovoso fin quasi all’estate, mi ha impedito di non solo di allenarmi specificamente alle lunghe distanze, ma anche di mantenermi un minimo in forma; ma tutto sommato è la cosa che mi preoccupa di meno: non è una competizione quella a cui mi accingo e, come già in altre occasioni, so che la gamba me la farò man mano.
Intensi scambi di mail e sms con gli amici al di qua e al di là delle Alpi, assillo nei confronti dei familiari tempestati da mille richieste ansiogene, ritocchi conclusivi, preparazione dei bagagli, qualche uscita di prova, controlli frenetici dell’ultim’ora e finalmente, la terza domenica di Luglio, caricamento dei bagagli e partenza!
Diario di viaggio
1 Castiglioncello-Borgotaro
Il tracciato stabilito sulla carta, almeno fino al confine tosco-ligure, è uguale a quello di altri viaggi; perciò non mi aspetto grandi novità nella parte iniziale; invece la partenza anticipata e il bel tempo (nel precedente viaggio da Livorno a Borgotaro mi era parso di essere un ciclista subacqueo: quasi 8 ore di pioggia fitta e ininterrotta) mi permettono di vedere e godere panorami non ancora guastati da afa e traffico. L’estate è avanzata, però le prolungate piogge primaverili e un Giugno tutto sommato soleggiato ma tutt’altro che torrido hanno consentito alla vegetazione di mantenere un vivace tono di verde senza ingiallire. Una leggera tramontana rende nitido il cielo ed evidenzia il profilo accidentato delle Apuane a Nord e quello più morbido degli Appennini un po’ più a Est. Andatura rilassata ma spedita, nell’aria frizzantina del mattino. Poi, inevitabili, i primi intoppi e le prime code di vacanzieri dalle parti di Viareggio, Massa e soprattutto Sarzana; ma è una bella giornata estiva, oltretutto di domenica, ed è comprensibile che un buon numero di persone si sposti verso località di villeggiatura e lo spirito lieve con cui ho intrapreso il viaggio mi spinge ad essere un ciclista meno talebano e intollerante del solito nei confronti degli automobilisti. D’altra parte sono costretto a rallentare anche perché la strada, man mano che mi allontano dalla costa, inizia a salire.
Seguendo il fiume Magra, dopo Aulla e S. Stefano Magra, raggiungo Villafranca in Lunigiana, sede tra l’altro di un interessante Museo Etnografico, e qui mi imbatto casualmente in un cartello che indica il l’antico tracciato della via Francigena, la quale, scendendo dai rilievi della Cisa, entrava nell’attuale centro storico di Villafranca attraverso una stradina ed un ponte ora solo pedonali, per poi proseguire in direzione di Aulla e Sarzana; ma in realtà più che di un’unica via sarebbe corretto parlare di un fascio di percorsi più o meno alternativi e paralleli che collegavano tra loro le tappe più importanti. Il richiamo alla Francigena e agli avventurosi pellegrinaggi medioevali mi pare di buon auspicio per il viaggio che ho appena iniziato e mi riporta alla mia sofferta esperienza di “bicigrino” di due anni fa, da Livorno a Santiago de Compostela. Quasi a conferma di ciò, poco dopo, all’altezza di Filattiera, una bella chiesa romanica si materializza sul lato destro della strada: è la pieve di Santo Stefano di Sorano citata da Sigerico nel suo storico viaggio da Canterbury a Roma a ridosso del 1000. Ne approfitto per concedermi una pausa e visitarla (il richiamo dell’ombra e del riposo, lo confesso, è probabilmente superiore a quello dell’arte e della storia). L’edificio, restaurato di recente, ha il classico aspetto sobrio e severo delle pievi romaniche: una navata centrale e due più piccole laterali, di cui quella destra mi pare la meno rimaneggiata; le finestre alte e piccole e la mole del campanile, simile a una solida torre medioevale, fanno pensare che oltre a quello religioso assolvessero anche compito di difesa, come è frequente nelle chiese dell’alto medioevo (mi vengono in mente le finestre dai pesanti battenti in pietra della chiesa di Torcello nella Laguna di Venezia).
Fa ormai decisamente caldo quando raggiungo Pontremoli; mi fermo perciò a fare rifornimento d’acqua e a mangiare un boccone al solito bar, dove già ho avuto modo di sostare in altre due occasioni: nel 2000 al tempo della mia prima esperienza di viaggio in bici con Alberto e pochi mesi fa, quando raggiunsi Borgotaro per discutere con Paolo Pattoneri del viaggio che avremmo dovuto fare insieme a Capo Nord. In entrambi i casi il tempo fu inclemente, per non dire pessimo, ed ero entrato nel bar lasciandomi dietro una scia d’acqua; stavolta la situazione meteo è molto migliore, ma è ugualmente una scia quella che mi porto dietro, solo che stavolta è sudore.
Dopo un km circa lascio la SS.62 e prendo a sinistra per il passo del Battello, che mi porterà di scavalcare l’Appennino e scendere in Emilia, a Borgotaro, passando appunto dalla valle del Magra a quella del Taro. Il sole picchia forte nell’aria tersa, ma la strada, anche se si inerpica decisa, è gradevole per la presenza di frequenti curve e zone d’ombra. Subito dopo il valico, dove mi fermo il minimo indispensabile per una foto e un succo di frutta, data la presenza di decine di rombanti centauri, trovo Paolo, che mi è venuto incontro in bici, appena smontato dal lavoro. Durante il suo incredibile viaggio solitario a Capo Nord (a cui purtroppo io avevo poi dovuto rinunciare a causa di qualche acciacco fisico e morale), lo avevo soprannominato “Patton, generale d’acciaio” per la tenacia con cui portava avanti la sua difficile impresa e, in effetti, vederlo così asciutto, in forma e determinato non fa che confermare il soprannome. Affrontiamo insieme la discesa, una dozzina di km con curve e pendenze a tratti di tutto rispetto; ho così modo di testare la tenuta del nuovo portabagagli a sbalzo, che non si è mosso di un millimetro.
A casa sua dove mi ospiterà al termine di questa mia prima tappa, mi racconta dei momenti più duri e di quelli più entusiasmanti vissuti nel suo percorso di oltre 4.000 km, ma anche degli incontri che ha avuto modo di fare: spesso strani, a volte incredibili, ma sempre pervasi da un forte senso di umanità, indipendentemente da latitudine, nazionalità, credo religioso delle persone conosciute. A sfatare qualunque pregiudizio o stereotipo, sono risultate straordinarie la disponibilità e la generosità, sempre spontanee, discrete e mai ostentate, di persone del centro e del nord-Europa, che di solito noi “Latini” etichettiamo come fredde, indifferenti o poco sensibili: persone che si fermano a chiederti se ti serve aiuto o informazioni, perché ti hanno visto incerto ad un incrocio, o che deviano di 10 km per portarti ad un’officina, o che mandano il figlio a cercare per te un ufficio postale, o che ti invitano a cena o a dormire a casa loro. Anche queste scoperte (o meglio conferme) sono il gradito dono che ci offrono i viaggi “lenti” quali sono quelli in bicicletta o a piedi, tanto diversi da quelli del turismo motorizzato, di massa, stile “mordi e fuggi”.
È significativo, poi, che forse proprio lontano da casa e da persone della stessa nazionalità si possa sentire nell’altro che si incontra un “connazionale”, un tuo simile, nel senso nobile che Einstein dette quando alla domanda di che razza fosse, rispose semplicemente: “Umana”. Passiamo buona parte della sera a parlare di questo, incuranti del fatto che domattina dovremo alzarci piuttosto presto: Paolo infatti, a mo’ di viatico, ha deciso di pedalare con me almeno fino a Fidenza, ricambiando così la compagnia che gli feci io per i primi 30 km del suo viaggio. Ci salutiamo, infine dandoci appuntamento per domattina; vado a dormire stanco sì, ma di una stanchezza sana, che invita al sonno, e soprattutto soddisfatto di questa prima giornata di viaggio e della chiacchierata che l’ha conclusa.
Percorsi oggi 181 km in 7h:51’
2 Borgotaro-Busnago
Al risveglio, mi attende la sorpresa: sfuma il progetto di Paolo di accompagnarmi: lo hanno richiamato con urgenza sul lavoro per un problema che solo lui è in grado di risolvere. Parto perciò da solo, di buon’ora alla volta della famigerata via Emilia, seguendo le scorciatoie indicate da Paolo. Oggi dovrebbe essere una tappa più riposante di quella di ieri, anche se forse un po’ meno varia: per 150 km circa, fino alle soglie di Milano è tutta pianura.
Fino a Fornovo e da qui a Medesano e Fidenza, il percorso scorre veloce, poi –come prevedibile- afa e traffico prendono il sopravvento; la prima non può essere evitata, ma il secondo sì: basterebbe abbandonare la via Emilia e affidarsi alla rete di strade secondarie che in qualche modo le si affiancano; però il timore di allungare troppo il percorso e di conseguenza i tempi che mi sono prefisso mi condannano a restare sulla SS.9.
Ad Alseno, prima di Fiorenzuola, un cartello attrae la mia attenzione: “Abbazia di Chiaravalle”. Si impone una deviazione e una visita, magari rapida, alla celebre abbazia cistercense legata in eterno alla figura di san di Bernardo: mica posso offenderlo con un rifiuto, tanto più il giorno prima di affrontare il passo alpino del suo quasi omonimo san Bernardino! In realtà il caldo e la fatica hanno ottenebrato i miei neuroni, i quali non mi avvertono in tempo che la celebrata Abbazia di Chiaravalle si trova più a Nord, in provincia di Milano, non di Piacenza. Mi rendo conto dell’errore solo davanti alla facciata della chiesa, per l’assenza della famosa Ciribiciaccola, la torre dell’abbazia milanese. Questa è invece l’abbazia di Chiaravalle della Colomba, peraltro anch’essa fondata dal medesimo santo benedettino negli stessi anni. Dall’esterno appare suggestiva e con ogni probabilità varrebbe ugualmente una visita all’interno, ma è inesorabilmente chiusa, per cui, scattata una foto consolatoria, non mi resta che tornare al mio percorso “tra la via Emilia e il West” (anzi il Far West del traffico). Prima però approfitto di uno spiazzo con panchina, ombra e fontanella, per consumare un frugale pasto, che interrompo più volte per fotografare, senza farmi vedere, un vistoso omone con tanto di turbante e folta barba (di sicuro uno dei tanti lavoratori indiani immigrati in Padania a lavorare nel settore dell’allevamento). Neanche questo tentativo però va a buon fine, per cui non mi resta che riprendere la marcia verso Nord con la consapevolezza di aver perso almeno un’ora. E questo ritardo comporterà anche la definitiva rinuncia alla cistercense Chiaravalle milanese.
Il rumore assolutamente incessante dei veicoli e le zaffate degli scarichi di tanti diesel o dei motori mal carburati, il pericolo rappresentato dai troppi automezzi pesanti che sembrano divertirsi a piombarti alle spalle e restare minacciosamente attaccati alla tua ruota posteriore oppure a sorpassarti a tutta velocità a pochi cm di distanza (in un paio di casi arrivano a sfiorarmi lo specchietto retrovisore del manubrio), oltretutto incuranti dello spostamento d’aria che provocano, per non parlare del continuo stop and go dovuti a semafori, code o lavori in corso, risultano spossanti e mi costringono a frequenti soste “rigeneratrici”. Mentre i primi 100 km sono quasi volati, i successivi 40 si rivelano pesantissimi. Dopo un’ultima sosta, sdraiato all’ombra di un cespuglio in un giardino pubblico, decido finalmente di cambiare percorso: non seguirò l’Emilia fino a Milano (avevo preventivato di dormire dalle parti di S. Donato Milanese), ma cercherò un itinerario che aggiri la metropoli più a Est.
A Piacenza, intanto, la ricerca di un bar dove prendere un caffè e un succo di frutta mi porta nel locale di un cinese che ha qualche difficoltà a parlare in italiano, ma è gentilissimo e prodigo di consigli che non sempre capisco. Capisco fin troppo bene, invece, un avventore che, non richiesto e nonostante io sia con tutta evidenza ansioso di rimontare in sella, attacca una filippica sui presenti mali dell’Italia e sull’unico possibile rimedio: affidare il Paese ad amministratori … cinesi, i quali hanno già dimostrato in patria di saper fare prosperare la propria economia esportando i loro prodotti in tutto il mondo e di saper governare un popolo di 1,3 miliardi di persone. Le mie perplessità su questioni banali come il rispetto dei diritti civili, delle basilari norme della sicurezza sul lavoro, la qualità dei prodotti etc. non smuovono le sue granitiche certezze. Riesco a in qualche modo a liberarmi e raggiungo il ponte sul Po finalmente ripristinato e dotato anche di una ciclabile.
A Lodi inizia l’avventura del percorso alternativo alla via Emilia. Tre gruppi di persone si prodigano a suggerirmi l’ itinerario migliore per aggirare Milano e raggiungere Como, ma la scarsa attitudine a memorizzare tutti i “…svolta alla seconda a destra, poi prendi la terza a sinistra…”, complice anche un caldo appiccicoso scirocco, mi fanno perdere km e minuti preziosi. Sono due nordafricani, strano a dirsi, quelli che con la massima naturalezza mi forniscono le indicazioni più chiare sulla strada da fare (forse perché è l’unica che conoscono); in ogni caso questo incontro (dopo l’indiano e il cinese) mi dà la conferma di quanto la nostra società stia diventando multietnica.
In qualche modo arrivo all’Adda e zigzagando tra paesini resi silenziosi e quasi disabitati dalla canicola pomeridiana, riesco a raggiungere Rivolta d’Adda; qui mi fermo col pretesto di scattare una foto alla romanica Chiesa di San Sigismondo, quasi a nascondere a me stesso che questa tappa si sta trasformando in una fuga dal caldo e dai tubi di scappamento. Così è stato – e mi duole doverlo ammettere – per l’abbazia di Chiaravalle, che tante volte ho immaginato di andare a visitar appositamente e che oggi mi sono limitato a sfiorare superficialmente, attratto più dalla possibilità di una pausa e di un po’ d’ombra che da un reale interesse artistico. Ma la vera ambiguità consiste nel fatto che ogni mio cicloviaggio, tanto più se in solitaria, tende a essere un conflittuale compromesso tra aspirazione contemplativa e smania di arrivare, tra desiderio di osservare, ascoltare, gustare e inconfessata urgenza di dimostrare di essere ancora in grado di percorrere 200 km o più senza fatica come venti anni fa, insomma tra bisogno di assecondare il tempo nella sua seducente lentezza e di vincerlo nella sua implacabile rapidità.
Da Rivolta d’Adda seguendo il fiume, che però vedo solo poche volte in occasione di qualche attraversamento, raggiungo Trezzo e qui, finalmente, punto a Ovest in direzione di Vimercate, nella speranza di trovarmi ormai a Nord-Est di Milano abbastanza da evitare il traffico della metropoli e della sua smisurata periferia. Questa interminabile serpeggiante marcia di avvicinamento alle Alpi mi è costata almeno una trentina di km (anche oggi ho già superato i 180 km) e un paio d’ore in più, per non parlare dello stress: anche se non mi sento fisicamente stremato, mi rendo conto che è l’ora di fermarsi, tanto più che il tardo pomeriggio sta sfumando nella sera.
Dopo qualche trepidazione e una mezz’ora di infruttuosi tentativi di scovare un Bed & Breakfast, la ricerca di un alloggio si conclude a Busnago, dove si trova l’unica struttura della zona, l’Hotel “Pianura Inn”, peraltro sconsigliatomi dagli abitanti del luogo, che lo ritengono “troppo caro” per me, come mi dicono con quasi affettuosa sollecitudine. Effettivamente, compiuto un rapido check-in del mio aspetto trasandato (indumenti stropicciati chiazzati di sudore e di acqua con cui ho bagnato continuamente i capelli per rinfrescarmi), non posso dar loro torto se mi hanno considerato poco più che uno straccione. Ma, in realtà, il prezzo dell’albergo (una singola con frigo e TV a 64 €, comprensivi, oltre alla colazione di domattina, anche di una cena di buona qualità e soprattutto di aria condizionata e della possibilità di portarmi in camera la bici) è più che accettabile; e poi il poter pagare con carta di credito, anziché in contanti, non mi dà l’impressione di spendere.
Percorsi oggi 188 km in 7h:49’
3 Busnago-Pian San Giacomo
Risveglio anticipato, ma non altrettanto la partenza, soprattutto a causa dei bagagli che si rivelano ogni volta un nuovo puzzle a incastro difficile da risolvere.
Sulla via per Vimercate il traffico è già intenso alle 8.30, ma la strada è abbastanza ampia e scorrevole, nonostante qualche deviazione per lavori in corso. Il paesaggio, tuttavia, non è un granché: classica, interminabile periferia industriale di un’area metropolitana, con capannoni, alternati a condominii, centri commerciali o villette con giardinetti (e, immancabili, orribili nanetti). Anzi, passando davanti al cartello “ARCORE”, mi chiedo come sia possibile che un certo Cav, laureato alla Sorbona, cultore di Erasmo da Rotterdam, proposto dai suoi fan come Nobel per la pace, amante di personali mausolei e vulcani stile Mirabilandia, si sia “abbassato” ad abitare in una zona ordinaria come questa; poi mi sovviene che villa Certosa (per non parlare delle altre sue nobili dimore) non è certo una banale villetta a schiera che dà sullo stradone che io sto percorrendo. Resisto alla tentazione di auto-fotografarmi col cartello sullo sfondo in qualche posa irriverente, solo perché così mi sembrerebbe di dare a un così signorile personaggio più lustro di quanto non meriti.
Vorrei evitare la strada per Como che passa da Cantù, che mi hanno descritto come assai frequentata e con salite di cui oggi non sento proprio il bisogno. Perciò chiedo a più riprese consigli sul miglior itinerario: ogni volta una risposta diversa e ogni volta e ogni volta mi faccio convincere dall’ultimo suggerimento. Inoltre i toponimi, così spesso terminanti in –ate, finiscono col confondermi. Finisce così che percorro un bel po’ di km in più, non disdegnando qualche salitella fuori programma, finché presso un cantiere edile un signore, probabilmente il proprietario o l’ingegnere che sovrintende ai lavori, dopo avermi vivamente sconsigliato la “Comasina” o la via per Cantù, mi indirizza sulla strada in direzione Lecco, da cui dopo qualche km deviare per Como. Accetto, anche se poco convinto, ma in effetti la scelta risulta azzeccata: il percorso non è particolarmente battuto, né monotono e soprattutto è spesso ombreggiato. 15 km dopo, mentre sono fermo in dubbio tra le due possibilità di un bivio, vengo raggiunto dallo stesso signore, che salito in bici da corsa ha voluto sincerarsi che io non sbagliassi strada; non solo, mi accompagna anche per un tratto fino al bivio tra Lecco e Como. La sua disponibilità mi fa tornare in mente gli esempi di gentilezza citati ieri sera da Paolo, a conferma del fatto che le persone sensibili e premurose esistono ovunque ed in un viaggio “lento” è più facile incontrarle.
In prossimità di Como affronto una discreta salita seguita da una ripida discesa verso la città e il suo lago, che mi si apre davanti all’improvviso in tutta la sua bellezza, già dopo poche centinaia di metri. Anche il centro di Como risulta gradevole, pulito e vivace, senza mai essere caotico, come a volte certe città di frontiera o località di villeggiatura. Verso Cernobbio vorrei raggiungere la frontiera godendomi il lungolago, ma un carabiniere mi dice che non è possibile e mi dirotta su una stradina in ripida salita che dopo un bel po’ di km e sudore mi fa raggiungere un colle da cui ridiscendo finalmente verso Chiasso per scoprire che la via del lungolago era praticabilissima, oltre che più agevole.
Telefonate d’obbligo, e di piacere, a moglie (che per un lungo mese ha ascoltato, sopportato, cercato, trovato, rammendato, ritrovato, preparato, riritrovato…), figlie (che si sono occupate del supporto psicologico, sanitario, logistico), cane (che ha quasi smesso di mangiare da quando sono partito e va alla ciotola solo se glielo chiedo per telefono), amici (supporters e compagni di viaggio reali, possibili e impossibili).
Senza particolari emozioni oltrepasso, per la prima volta in bici, la frontiera italo-elvetica. Nessuna guardia confinaria pensa a fermarmi (e sì che qualche perplessità su questo straniero sbrindellato sarebbe anche legittima), né io vado in cerca di un ufficio cambi: perfettamente istruito dalle donne di casa sulla piena accettabilità sia degli euro che della mia carta di credito, foss’anche per pagare un cappuccino, tiro dritto in direzione Mendrisio senza particolari problemi anche quando la strada comincia a salire: certo in alcuni tratti la pendenza si fa sentire e il sole vivo punge le gambe e gli avambracci, ma collo e torso sono coperti (dopo le scottature del viaggio a Santiago ho imparato la lezione e da quando sono partito non ho quasi mai tolto la mia canottiera ultralight antisudore, nelle ore centrali della giornata) e i frequenti cambi di direzione ad ogni curva alternano le parti esposte al sole. Del resto l’ascesa non è nemmeno troppo lunga e raggiunto il culmine, a meno di 400 m. slm, inizia una piacevole discesa verso il lago di Lugano, a velocità sostenuta, ma non eccessiva, perché voglio godermi il panorama. In effetti il quadro che mi si presenta già prima di raggiungere il bordo del lago è stupendo, di quelli che riduttivamente si definiscono da cartolina, se non fosse che le immagini delle cartoline sono banali copie oltretutto parziali, mentre quello che ho davanti è l’originale a quasi 360°. Lo scenario in realtà non differisce molto da quello di una delle belle e curate località delle Alpi o Prealpi italiane e se uno non sapesse dove si trova potrebbe credere di godere uno scorcio del lago di Como; del resto mi trovo ancora sul versante meridionale delle Alpi ed è dovuto a motivazioni storiche e non geografiche se questo lembo di territorio appartiene politicamente alla Confederazione Elvetica anziché all’Italia, come invece il tratto che da Chiavenna porta al passo dello Spluga; la stessa lingua parlata e scritta qui è quella italiana ed è più facile trovare i nomi delle strade o dei paesi con scritta bilingue nella sedicente Padania che non qui.
Costeggio il lago, scattando frequenti foto, in gran parte senza smettere di pedalare (col risultato prevedibile di ottenerne un bel po’ sfocate, storte o fuori centro) e oltrepassato Bissone, percorro il lungo ponte che mi conduce a Melide, parallelamente alla linea ferroviaria e all’autostrada. Alle spalle del paese scure colline si ergono quasi a strapiombo per qualche centinaio di metri e intravedendo strade e autostrada salire fin lassù, mi prende lo sgomento di dover anch’io arrampicarmi a quell’altezza, poi ricordo che ci sarà sì una salita piuttosto dura prima di arrivare a Bellinzona, ma comincerà solo dopo aver raggiunto Lugano. Per sanzionare la mia dabbenaggine mi concedo un autoscatto accanto a un cartello che indica “oggi giornata del pollo”.
Proseguo lungo il lago e mentre sul lato destro sfila la piccola enclave italiana di Campione, davanti l’orizzonte si allarga man mano aprendosi al bel promontorio di Castagnola e al tratto nordorientale del lago che rientra in Italia verso Porlezza; il tutto in una splendida cornice verde-azzurra a seconda delle diverse tonalità delle acque, delle colline sovrastanti e del cielo. Finalmente, dopo un’ultima curva, appare lo skyline della città con i suoi bianchi palazzi che specchiandosi nell’acqua mi ricordano le immagini di Lucerna o Montecarlo rimaste impresse nella memoria dei miei viaggi da bambino. Da Riva Paradiso raggiungo la città e scelgo per la sosta un piccolo Eden: una panchina in un piccolo parco sulla riva tra aiuole stracolme di fiori curate quanto pulite (siamo in Svizzera, perbacco!) e davanti a un getto d’acqua che nasce dal lago, vicino alla riva, innalzandosi di parecchi metri prima ricadere verticalmente a spruzzare un gruppetto di germani reali. Di solito, vivo il momento dei pasti tanto più in un luogo pubblico o in occasioni simili a questa, come un momento privato e per una sorta di pudore cerco di dare nell’occhio meno possibile, mangiando in fretta e quasi di nascosto; ma stavolta la vista di altri ciclisti, locali o di passaggio come me, che sbocconcellano un panino godendosi l’ombra o la vista del lago e dei fiori, mi toglie ogni sorta di ritrosia e mi invita ad assaporare in tutta tranquillità il mio modesto lunch e il fresco venticello che proviene dal lago.
Rinfrancato e sollecitato solo dal timore di indugiare troppo a lungo in vista della scalata al S. Bernardino, riparto seguendo le indicazioni stradali per Bellinzona: a neanche 200 m. dal lungolago la strada mi avvisa subito che la musica è cambiata e ci sarà da soffrire: una prima salita davvero tosta e poi una serie di saliscendi mi avvertono che ora si comincia a fare sul serio. Il pezzo più duro, però è quello che mi porta verso il passo di Monteceneri (600 m. circa), in cui al caldo si associa la mancanza d’acqua di cui ho dimenticato di rifornirmi a Lugano. Inutilmente ne cerco per strada e mi sembra un paradosso in un Paese così ricco di acque come la Svizzera. Poi ad un certo punto ho una folgorazione: un cartello annunzia un’area di sosta a un centinaio di metri; oltretutto l’area è denominata S. Francesco e -non bastasse il nome- al suo ingresso un’iscrizione riporta il distico del Cantico delle Creature dedicato a “nostra sorella Acqua”. Tanto più cocente è la delusione, quando, raggiunta la fontana, devo constatare che di acqua non c’è nemmeno l’ombra. In un bagno di sudore arrivo finalmente al passo di Monteceneri e approfitto della presenza di un distributore per inzupparmi d’acqua dentro e fuori, prima di affrontare una discesa mozzafiato che mette a dura prova i freni e la mia attenzione.
Come Lugano mi era parsa gradevole e caratteristica, così Bellinzona mi sembra anonima e deludente, complice forse anche il gran caldo dovuto al crescente Föhn (chissà se il nome è imparentato col vocabolo dialettale salentino “faugna” che, ricordo d’infanzia, si riferiva al caldo umido appiccicoso dei pomeriggi d’agosto) che scende dai monti in direzione apparentemente contraria alla mia, facendomi sudare ancora di più. Ma forse è meglio non tranciare giudizi, dato che di Bellinzona sto sicuramente attraversando la periferia, non certo la parte più bella e significativa della città. Comunque non vedo l’ora di lasciarmela alle spalle, anche per avvicinarmi il più possibile al san Bernardino, che è il tratto più alto e impegnativo di tutto il viaggio. Ho infatti pianificato l’itinerario in modo da affrontare questo passo di oltre 2.000 m. a cavallo di due giornate; questo ha comportato due tappe piuttosto lunghe e faticose all’inizio, ma mi permetterà di spezzare in due la scalata, dormendo a circa metà salita e affrontando la mattina seguente il troncone finale. Una volta sceso dal san Bernardino, il più sarà fatto e sia pure con i soliti prevedibili saliscendi, avrò due tappe più leggere e corte prima di arrivare a Konstanz, ovvero Costanza, la prima città tedesca, sull’omonimo lago; qui, altra sosta obbligata, al mattino del sesto e ultimo giorno, mi attenderà l’amico Jürgen, che mi guiderà per il tratto terminale fino a casa sua, a Jettingen, presso Tubinga.
Ho conosciuto Jürgen per caso tre anni fa, mentre pedalavo tra Livorno e Castiglioncello; da un semplice scambio di informazioni, seguito da una chiacchierata e da una serie di brevi uscite insieme nella zona, è nata un’amicizia che si è rinnovata negli anni seguenti: J. infatti è un insegnante che, oltre ad organizzare ogni anno uno scambio scolastico tra la sua classe ed una di Taranto, è ottimo conoscitore di tutta l’Italia e della Toscana in particolare, dove viene almeno una volta l’anno col duplice obiettivo di trascorrere un periodo di vacanze e di migliorare la sua conoscenza dell’italiano. Inoltre il fisico solido e asciutto e l’età ancora giovanile gli consentono di essere un ciclista discreto ma non maniacale: amante della velocità e ancor più delle salite (meglio se impegnative, come ho avuto modo di sperimentare a mie spese, e in percorsi immersi nella natura), meno delle corse forsennate e competitive tipiche di certi grupponi.
A Lumino, pochi km da Bellinzona, dopo il bivio che costringe a scegliere tra il passo del san Gottardo e quello di san Bernardino (ed in effetti anch’io sono stato a lungo incerto su quale dei due indirizzare la mia scelta), trovo uno spiazzo con una fonte in pietra, che eroga acqua freschissima, e con un sedile sotto un albero, che invita al riposo. Non è certo la prima sosta che mi concedo in questo viaggio, ma il pensiero che solo tre giorni fa ero in Toscana, stamani presso Milano ed adesso nel cuore (insomma…) della Svizzera, mi hanno reso ottimista circa i tempi e le mie possibilità.
Riparto dopo un’ora abbondante, ma pago il fatto che, se il vento è ora diminuito (e comunque pure io ho cambiato direzione), in compenso il caldo afoso è aumentato e il cielo, fattosi plumbeo diffonde il caratteristico odore di ozono che precede la pioggia. Che infatti non tarda ad arrivare. D’altra parte d’estate e a ridosso delle montagne è cosa ben prevedibile. Non è una pioggia violenta, bensì intermittente e fastidiosa, specie ora che inizia la salita, perché costringe a frequenti soste per infilare e togliere la mantellina, col risultato che alla fine sono ugualmente umido d’acqua e di sudore.
A Lo Stallo è segnalato un albergo, ma non è qui che ho deciso di fermarmi: è una quota ancora troppo bassa e preferisco salire ancora un bel po’, per ritrovarmi domani il dislivello minore possibile da superare.
Continuo così in direzione di Soazza, mentre la pioggia si intensifica e la pendenza si inasprisce, a differenza di un grafico scaricato da Internet che riportava un dislivello minimo. Al bivio da cui parte la deviazione per il paese, un cartello ammonisce che là non c’è possibilità di alloggio, ma la cosa non mi preoccupa, perché la mia meta è più in alto, a Mesocco, dove Internet (peraltro a fatica, perché riportato dal solo Google) mi ha scovato un B&B il “Garmi”.
Maledicendo le inesattezze dei grafici altimetrici, che riportano tra Soazza e Mesocco una pendenza media del 5-6%, mentre invece in almeno un tratto ho la sensazione di affrontare più del 10%, finalmente, a pomeriggio avanzato e sempre più stanco, raggiungo Mesocco a circa 800 m. Il paesino è in ripida salita; all’inizio in uno spiazzo c’è una corriera in sosta, ma io tiro dritto verso l’alto, in cerca del “Garmi”, ma del B&B nessuna traccia e, se è per quello, nemmeno dei paesani: sembra un villaggio abbandonato. Finalmente, all’estremità opposta di Mesocco, 500 m. più in alto, trovo un gruppo di donne che mi spiega che il B&B non esiste più da un pezzo e che le uniche strutture ricettive si trovano al villaggio di san Bernardino, distante “solo” una decina di km, come se invece di due gambe striminzite e sfinite io avessi i quattro cilindri di una Enduro. Provo a spiegare che i km sono 16 e di salita dura che io non mi sento proprio di affrontare; l’unica soluzione che mi prospettano, allora, è quella di raggiungere il villaggio per mezzo di una delle tante corriere che partono dal piazzale all’inizio del paese. La proposta contrasta col sacrosanto principio di non utilizzare mai mezzi a motore nei miei ciclo-viaggi, ma è un’emergenza e non è il caso di fare gli schizzinosi. Vorrei scendere giù alla fermata a prendere la prima corriera possibile, ma le donne insistono perché aspetti che prima cerchino l’orario, poi un paio di occhiali per leggerlo, infine per decifrarlo, dato che evidentemente non sanno il tedesco. Nel frattempo si aggrega a noi una coppia di trekker di mezz’età, probabilmente tedeschi, anch’essi in cerca di alloggio e pure a loro viene spiegata la questione. Alla fine riusciamo a sganciarci e a piedi ridiscendiamo tutti e tre i 500 m. fino al piazzale, solo per accorgerci che nel frattempo la corriera è partita e che era l’ultima, salvo una che alle 23.30 passerà da qui ma per tornare a Bellinzona. Costernazione generale. A questo punto l’unica possibilità per me è quella di provare a raggiungere prima di notte Pian San Giacomo, dove Internet maledetto (ma dovrei maledire la mia superficialità per non aver controllato a suo tempo) mi dava un ristorante con possibilità di pernotto. Salutati i due stranieri, ancora indecisi sul da farsi, pedalata dopo pedalata mi spingo fino al punto da cui sono incautamente disceso 10 minuti fa, ritrovo il gruppetto di donne che mi hanno fatto perdere la corriera e ora fanno ciao-ciao con la manina e proseguo, mentre la pioggia mi dà un po’ di tregua e comincia a imbrunire.
C’è molta umidità, ma nonostante l’altitudine, non fa freddo, o per lo meno la fatica non me lo fa sentire. Benedico la scelta, fatta prima di partire, di montare una moltiplica “compact” 50-34, prima di partire, proprio per affrontare le Alpi coi bagagli; ma ho già impostato il rapporto più agile e sento che non mi basta. In determinate condizioni 5 km possono essere lunghissimi e più di una volta sento la tentazione di scendere e spingere a piedi, ma lo rimando sempre “al prossimo tornante”, sapendo che se lo faccio una volta, sarò portato a ripeterlo; perciò tengo duro, ripetendo il motto del mio amico Paolo “Mai mollare”.
Ricomincia a piovigginare e la velocità oscilla tra i 7 e i 10 km/h ed è buio quando finalmente la pendenza si ammorbidisce e raggiungo Pian San Giacomo. Ma il presunto villaggio esiste solo sulla carta: trovo solo una casa con una finestra illuminata, però è privata; provo a chiamare, nessuno risponde. Proseguo scoraggiato per altri 200 m. e finalmente vedo un ristorante con le luci accese e delle auto parcheggiate davanti. Sono salvo! Mi precipito dentro così come sono, scarmigliato, sudato, con casco e canottiera e chiedo: <<C’è una camera libera, vero?>> <<No, mi dispiace.>> è la raggelante risposta; allora, senza nemmeno bisogno di fingere, assumo l’espressione più sconsolata e demoralizzata possibile, implorando a voce bassa: <<Nemmeno una stanzetta, un locale ripostiglio, un sottoscala…?>> <<Purtroppo qui non c’è proprio posto. Bisogna che arrivi al Villaggio.>><<Ma sono 9 km di salita e poi pioviggina e fa buio… Non avete nemmeno un capanno per gli attrezzi?>> Il gestore e la madre si guardano negli occhi e poi: <<Be’, veramente ci sarebbe una stanza di sgombero, dove a volte ci riposiamo il pomeriggio, però non è adatta e non…>> <<No, no! Va benissimo.>> interrompo io prima che ci ripensino.
Mezz’ora dopo, lavato e rivestito, sono davanti a un vassoio di almeno tre etti di spaghetti fumanti letteralmente annegati in un ottimo sugo al pomodoro e accompagnati da un bicchiere di vino e pane in abbondanza. Spolvero tutto con evidente voracità e quando vedo che stanno aspettando solo me per chiudere, mi alzo e vado a pagare. Incredibile! Non vogliono nulla per la stanza e chiedono solo 10 franchi per la cena, regalandomi anche una bottiglia d’acqua minerale, nel caso mi venisse sete di notte.
Confortato da tale prova di generosità, torno in camera mia con un calore dentro che non è dovuto solo agli spaghetti; quindi lavati i panni, li stendo come posso vicino alla finestra da cui filtra a raffiche il vento, riordino le mie cose sparse caoticamente sul letto e supplisco alla mancanza di lenzuola, sistemandomi alla meglio tra due coperte. Infine spengo la luce e sprofondo in un sonno di piombo.
Percorsi oggi 156 km in 6h:35’
4 Pian San Giacomo-Chur
Appena sveglio, mi affaccio alla finestra e ho la bella sorpresa di vedere un cielo sereno che inonda di luce prati e pendii; il vento, oltre a spazzare via le nubi, ha asciugato anche la strada. Perfino i miei panni sembrano asciutti e stirati. Preparo i bagagli e faccio allegramente colazione con quel poco che mi è avanzato da ieri, sperando di non rimanere senza carburante negli ultimi metri di salita; infine parto dispiaciuto di non poter salutare e ringraziare nuovamente nessuno, visto che il ristorante è ancora chiuso.
Anche se mi sento carico di energia ed entusiasmo, saggiamente utilizzo le mie forze con parsimonia e cerco di individuare un ritmo costante di pedalata, senza tentare inutili accelerazioni quando la pendenza viene addolcita da qualche tornante o avvallamento. Mi fermo anche qua e là a scattare foto: il panorama lo merita davvero, pur se le mie scelte risultano in ritardo o in anticipo di qualche centinaio di metri rispetto all’inquadratura migliore. Anche questo, comunque, aiuta a minimizzare la fatica, che non è poca. Dopo un iniziale km di quasi pianura, infatti, la strada si è subito impennata e sale a una pendenza media del 7-8%
Qualche macchina, ma soprattutto tanti motociclisti in tuta nera, da soli, in coppia o ,più spesso, in gruppi rombanti, mi sorpassano di slancio e qualcuno mi suona o mi rivolge un cenno di mano a mo’ di incoraggiamento (visto che una volta tanto sto ben attento a restare incollato al lato destro della strada che è tutt’altro che larga.
Dopo 7 km la salita si interrompe e si scende in un paio di km fino al Villaggio di San Bernardino, un agglomerato di case con qualche negozio di souvenir, di abbigliamento o di articoli sportivi, un minimarket e alcuni ristoranti e bar. In uno di questi mi fiondo io per completare a suon di cappuccini e croissants la mia magra colazione di stamani. Poi, attraversata la piazza del paese, assordata dal frastuono di un torrente impetuoso che le scorre a lato, riparto affrontando subito in salita l’ultimo tratto che mi porterà al passo dopo altri 7 km, pedalata dopo pedalata, tornante dopo tornante.
Anche se il peso delle salmerie si fa sentire e maledico le tante cose probabilmente inutili presenti nel mio bagaglio (ma che al prossimo viaggio sarò comunque incapace di depennare), la salita non è impossibile; basta tenere un ritmo costante e guardare il panorama, invece del contakm.
Il sole della prima mattina, intanto, è stato oscurato dalle nubi e ogni tanto cade qualche goccia di pioggia, ma la temperatura resta gradevolmente tiepida.
Sul mio orologio consulto l’altimetro, che però non è molto affidabile, dato che non ne ho potuto controllare l’esattezza prima della salita. Quando segna 1970 m. ecco che intravedo gruppetti di persone fermi su uno sperone di roccia a scattare foto ricordo; la cosa mi rincuora come ebbe a rincuorare Colombo quando avvistò stormi di uccelli poco prima di raggiungere la meta. E infatti, superato lo sperone con un ultimo sforzo, ecco che all’improvviso si presenta una vista inaspettata: un laghetto si stende per lungo, parallelamente alla strada che, rimanendo in piano, dopo 500 m. raggiunge il passo. Questo è contrassegnato da un cartello (che riporta nome e quota del passo: foto obbligatoria se si ha la pazienza di mettersi in fila a fare la coda) e da un tozzo e trascurato edificio, l’unico prima della discesa: è il cosiddetto Ospizio che sembra più che altro consistere in un minibar acchiappa-turisti. Prima di ripartire, rincontro qui i due camminatori che mi salutano cordialmente (la cordialità è reciproca e genuina, come è normale tra chi ha vissuto –poco importa se con sconosciuti- momenti emotivamente significativi) e mi raccontano che sono dovuti tornare di notte con il bus fino a Bellinzona per trovare da dormire.
Fatte le foto di prammatica, saluto il Canton Ticino e quella parte di Svizzera che fa parte della regione geografica italiana; un colpo di pedale e via, giù per la discesa, che pare ripida quanto la salita, ma è più corta e meno godibile, perché meno varia paesaggisticamente e interrotta da continue curve a U che costringono a frenate frequenti e faticose.
La strada si fa meno scoscesa appena passato il ponte sul Reno, a Hinterrhein, ma, sia pure con qualche saliscendi, la pendenza media resta nettamente favorevole. Procedo perciò a gran velocità, anche troppa, tanto che al termine di una ripida discesa, imbocco per un’errata valutazione la corsia d’uscita dell’autostrada e devo invertire precipitosamente la marcia per non finire in mezzo al traffico veloce. In effetti l’errore è stato causato dal fatto che improvvisamente la strada si è tanto rimpicciolita da sembrare poco più di un sentiero, in cui due auto non potrebbero incrociarsi. Però è ombreggiata, in discesa, scorre diritta parallela all’autostrada e in alcuni tratti si allarga in una vallata sempre più ampia, in altri si infila in strette gole in cui il verde scuro degli abeti si apre a volte lasciando intravedere l’incredibile verde smeraldo di qualche laghetto o una spumeggiante cascatella.
Ma il tratto più suggestivo è quello poco prima di Thusis: senza che quasi me ne accorga, mi trovo in una stretta gola, sprofondata tra due pareti rocciose che impediscono l’accesso diretto dei raggi solari; la luce infatti diminuisce bruscamente, come se una spessa nube avesse oscurato il sole e la temperatura si abbassa di colpo, mentre dal burrone che intuisco al di là delle protezioni improvvise correnti di aria gelida risalgono sommandosi a quelle provocate dal moto. La strada, già stretta, si incunea tra le pareti dell’orrido, dando l’impressione di volersi restringere ulteriormente e provocando qualche brivido, non so se di freddo o claustrofobico; ma il momento più impressionante è quando, dopo una stretta curva presa a eccessiva velocità, mi trovo davanti una parete di roccia apparentemente senza apertura; in realtà il passaggio c’è, anche se è reso poco visibile dal grigio scuro della roccia e dalle ombre che vi disegna sopra la scarsa luce che piove dall’alto; è una fenditura che pare più irregolare di quanto non sia e che reca ancora i segni dei picconi che l’hanno scavata; introduce in un tunnel gelido e buio che mi costringe a fermarmi per coprirmi meglio e accendere le luci di bordo, anche se nessuna auto o moto sembra intenzionata a interrompere il silenzio cavernoso della galleria . Quando poco dopo esco di nuovo all’aperto e al sole, leggo su un cartello turistico quello che è l’appropriato nome assegnato a questo tratto di strada: “Via Mala” e solo ora mi accorgo che preso dall’aspetto minaccioso e quasi sovrannaturale della gola, mi sono dimenticato di scattare qualche foto.
Finalmente raggiungo Chur, ovvero Coira in italiano (mi trovo nella Svizzera ladino-germanofona dei Grigioni di cui Chur è il capoluogo, che però conserva nel nome l’antica denominazione d’epoca romana “Curia Raetorum “); l’attraverso così rapidamente che, senza nemmeno il bisogno di consultare la cartina, mi ritrovo davanti a un arco oltre il quale scorgo strade lastricate e costruzioni di epoca medioevale: è il centro storico. Vi entro con la bici a mano; le strade sono strette, brevi e tortuose, come è logico aspettarsi da una planimetria medioevale, e -onore agli amministratori locali- rigorosamente pedonalizzate e provviste di panchine su cui il turista può riposarsi. Tutt’intorno abitazioni private e palazzi in stile dell’epoca, alternati a caffè, ristoranti e vetrine di negozi moderni, tutti però di foggia sobria e appropriata.
Il tempo di percorrere le prime stradine e subito trovo l’hotel che ho individuato in Internet come quello più adatto per pernottare. Alla reception provo con un po’ d’impaccio prima in tedesco, poi inglese a chiedere di una camera libera, ma la risposta è comunque un inequivocabile <<Nein>>. Peccato perché l’Hotel si trova in un edificio interessante, anticamente sede di non so quale corporazione. Cerco di consolarmi pensando che forse era molto caro, ma non vorrei che si ripetesse anche oggi come ieri sera il problema della ricerca disperata di un alloggio; in ogni caso la colpa sarebbe solo mia per non aver provveduto a suo tempo a contattare l’albergo via mail o telefono.
Nella ricerca di un altro Hotel (qui i B&B sembra che nessuno sappia cosa siano) vengo indirizzato al Franziskaner, poco lontano, in una piazzetta (vicino alla porta ad arco da cui sono entrato e di fronte a una graziosa fontana in pietra); qui ho maggior fortuna: parlano l’italiano, la stanza è spaziosa, il prezzo – comprensivo di un’abbondante colazione – è abbordabile e la bici è al sicuro in un cortile interno; inoltre ha un’ottima posizione nel cuore del centro storico, per cui, appena sono presentabile, ne approfitto per girare e scattare qualche foto tra i vicoli animati e ricchi di storia .
Dopo cena, sistemate le mie cose, via a letto per il giusto riposo, perché i km sono stati pochi, è vero, ma con il san Bernardino sulle spalle, oltre ai residui di stress dei giorni precedenti.
Percorsi oggi 90 km in 4h:30’ stile
5 Chur-Konstanz
L’uscita dalla città è facile quanto l’ingresso; la strada è scorrevole, le indicazioni sono chiare, quel che non è del tutto chiaro è, nella mia mente, il percorso migliore da seguire, una volta lasciata Chur e il cantone dei Grigioni: se cioè convenga viaggiare sulla cantonale parallela al Reno che tra l’altro segna qui il confine con il Liechtenstein, oppure tagliare all’interno, verso Ovest, per evitare strade troppo battute da auto e camion (anche se devo ammettere che finora, pur nei tratti a traffico più intenso, in Svizzera non ho incontrato problemi). A casa nella mia ricerca su Internet ho visto che Chur è il punto di incrocio di numerosi percorsi ciclabili Eurovelo, tra cui quello che viene da Andermatt e dal S. Gottardo (che qui prende il nome svizzero di Nord-Süd Route 3) e quello che raggiunge il lago di Costanza (Eurovelo 15) dopo un centinaio di km. È quest’ultimo che vorrei imboccare, ma non so dove intercettarlo esattamente né intravedo la relativa segnaletica. Intanto procedo spedito verso Landquart, che dista una quindicina di km da Chur e lì deciderò.
La strada scorre diritta e senza intoppi né dubbi, oltretutto in leggera discesa e in assenza di vento, lungo la cantonale a Est del Reno; intorno declivi con prati, frutteti e le caratteristiche case della regione, che è poi quella in cui è ambientato il celebre cartone animato di Heidi (anche se nel mio immaginario quello era collocato in un ambiente caratterizzato da alte e innevate vette alpine); tanto che sarei quasi tentato di farvi una visita e magari portare un ricordo alla mia nipotina.
Ad una rotonda priva di segnaletica, ho un’incertezza che mette in crisi due ciclisti alle mie spalle; mi scuso e ne approfitto per chiedere informazioni. I due sono la mia salvezza. Uno di loro, Mario, di madre calabrese, parla discretamente l’italiano, per cui (oltre alle inevitabili domande che mi sento rivolgere in ogni viaggio all’estero sulla nostra situazione politica passata o presente che gli stranieri non riescono assolutamente a comprendere) non solo mi spiega qual è il percorso migliore per il lago di Costanza, ma decide di guidarmi fino all’imbocco della ciclabile lungo il Reno (anche se intuisco che questo gli costerà una deviazione di qualche km rispetto alla sua meta, il piccolo cantone di Appenzell).
Lasciamo dunque la cantonale e attraverso una rete di piccole e deserte stradine vicinali raggiungiamo la ciclabile sul Reno, o Rhein Radweg, la famosa Eurovelo n°15. che segue il fiume, costeggiando il lago di Costanza verso Ovest e poi puntando decisa a Nord, fino alla foce a Rotterdam. Per inciso, ancora adesso non ho notato particolari segnalazioni e mi chiedo come facciano a individuarla quelli che non sono del posto.
Ora lo scenario è completamente cambiato: non più auto, case, incroci, rumori, ma solo un lungo diritto nastro scuro, affiancato sulla destra dal nastro argentato del Reno; all’estremo di ciascun lato una fila folta di alberi e siepi, al di là della quale colli e montagne occhieggiano come giganti curiosi. La pista, in genere abbastanza ampia da poter permettere teoricamente il passaggio di due vetture affiancate, è stata costruita su un ampio argine del fiume e pare svilupparsi all’infinito verso Nord. Su tutto regna un silenzio quasi irreale in cui si distinguono a tratti il fruscio delle ruote, il cinguettio di un uccello che passa vicino, lo sciacquio delle acque quando si infrangono su un masso; eppure non mancano le persone, ma queste sono un tutt’uno con l’armonia della natura, non un corpo estraneo che le usa violenza.
Sul prato ampio, pulito, verdissimo che a sinistra separa la pista dagli alberi (e che probabilmente serve come camera di compensazione in caso di piena del fiume) passeggiano due aironi, mentre altri uccelli vi si posano o zampettano, indifferenti alla presenza umana, che è tutt’altro che limitata. Anzi l’elemento che stupisce forse più di altri è che la Rhein Radweg (ma, presumo, anche le altre grandi ciclabili europee, che purtroppo non conosco) è percorsa da una incredibile moltitudine e varietà di utenti: ciclisti, pattinatori, trekker o corridori a piedi, semplici pedoni, alcuni per una normale passeggiata di mezz’ora in un ambiente rilassante, altri attrezzati per percorsi molto più lunghi. Altrettanto stupefacente è notare la quantità di persone di tutte le età e spesso di interi gruppi familiari, che amano (è la parola giusta) muoversi insieme in bicicletta (non importa di che tipo/dimensione/marca/costo), come se fosse la cosa più naturale del mondo e nel pieno rispetto reciproco. Certo anche da noi c’è gente che usa la bici, ma con una diversa consapevolezza e soprattutto una differente filosofia: più che come un diritto naturale a una mobilità sostenibile, è visto come una concessione strappata a forza, soggetta a subire le prevaricazioni altrui o a reagire operandone a propria volta a danno di altri utenti della strada. Qui invece nessuno occupa gran parte della carreggiata, si produce in scriteriate gare di velocità, o tenta sorpassi azzardati sfiorando chi procede più lentamente;le biciclette non mancano davvero, ma è assai più raro che in Italia vedere gruppetti di 5-10 ciclisti con tute sponsorizzate e atteggiamenti competitivi ai limite dell’aggressività scimmiottare i protagonisti del Giro o del Tour, senza degnare di uno sguardo il paesaggio e poi, al termine dell’uscita, risalire compiaciuti in auto e comportarsi ancora da padroni della strada, stavolta come automobilisti.
Parallela e simmetrica alla ciclabile svizzera, sull’altra sponda del Reno scorre la ciclabile del Liechtenstein, oltre la quale si vedono pochi centri urbani sparsi tra le colline e, per la verità, non particolarmente interessanti. La curiosità prende comunque il sopravvento, soprattutto quando mi ritrovo a destra un ponte interamente coperto in legno e oscuro all’interno, che pare uscito da un’avventura medioevale; così lo percorro dall’estremità svizzera a quella del Principato, mentre il contrasto tra la moderna bici con forcella in carbonio e la cigolante struttura in legno del ponte producono uno strano effetto, sottolineato dal rimbombo ogni asse. A sottolineare questa sensazione di sfasatura spazio-temporale, proprio mentre esco dal tunnel sull’altra sponda, vi entrano in gruppo una mezza dozzina di uomini a cavallo. Da una rotonda si dipartono varie strade, una punta direttamente verso le colline all’interno del Paese, probabilmente a Vaduz, anche se mi manca la conferma della segnaletica; ma non ho il tempo né un particolare desiderio di abbandonare una pista ciclabile per tuffarmi in un centro cittadino, anche se sicuramente non una metropoli, quale dev’essere la capitale di questa microscopica nazione che mi raffiguro una via di mezzo tra un Paese da operetta e un paradiso fiscale, ma mi rendo conto che sono caduto anch’io vittima dei luoghi comuni e dei preconcetti di chi giudica senza conoscere. A immediata riprova di questo, un automobilista che mi ha evidentemente notato fermo presso una rotonda e incerto sul da farsi, si ferma per chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Seguendo i suoi consigli, riparto lungo la ciclabile in direzione del lago di Konstanz, o Bodensee, nel quale il Reno si immette per poi raggiungere le Cascate di Sciaffusa, continuare verso Ovest e poi piegare nuovamente e definitivamente a Nord fino alla foce.
Anche la ciclabile orientale segue il fiume, ma con frequenti brevi deviazioni verso l’interno, in prossimità di qualche paesino o di un ramo secondario del Reno. È più in basso e forse un po’ meno larga della pista sull’argine svizzero; presenta brevi tratti di sterrato e talvolta pare meno curata, ma forse è solo una situazione momentanea dovuta a un temporale notturno che ha lasciato al suolo terra, foglie e rametti.
Approfitto di una deviazione all’interno di una zona boscosa e della presenza di un’area da picnic per apparecchiarmi e organizzare il mio lauto pranzo a base di baguette, formaggio spalmabile, pomodori e latte; la scarsa varietà del cibo è compensata dalla quantità: latte e pane insieme raggiungono da soli un kg e mezzo. Niente di strano, quindi se la ripartenza è un po’ fiacca e mi sento appesantito anche nella mente, tanto che in una deviazione mi perdo e stento a ritrovare la strada.
Uscito dal Liechtenstein senza quasi accorgermene, ormai mi trovo da un bel po’ a pedalare in territorio austriaco. Per non correre il rischio di perdermi nuovamente e di finire sul lago a Bregenz, saltando il bivio per Rorschach, decido di riattraversare il Reno, stavolta su un normalissimo ponte in cemento. Saluto la Rhein-Radweg che mi ha felicemente accompagnato per tanti km (almeno 80-90, più di tutti quelli percorsi nella mia intera vita ciclistica) e riattraverso il confine svizzero. Il ritorno nel traffico misto non è facile né gradevole dopo l’esperienza della ciclabile; mi ci vuole del tempo prima di riabituarmi al rumore, ai motori agli attraversamenti urbani, alle segnaletiche dai toponimi sconosciuti, alle strade assolate. Vengo però ripagato del sacrificio quando a Rorschach raggiungo il Bodensee. Non so se la costa settentrionale, quella tedesca, del lago sia più incantevole di quella svizzera meridionale, ma il vivo colore turchese delle acque appena increspate dalla brezza pomeridiana, il fresco ombrello protettivo degli alberi e la ricchezza dei fiori nelle aiuole curate con la proverbiale scrupolosità elvetica giustificano la mezzora di riposo che mi prendo sul muretto del parco sul lungo lago. La situazione si ripete in seguito in un’altra località rivierasca, ad Arbon, sicuramente anch’essa una perla del turismo lacustre. Vi arrivo attirato dall’indicazione di un percorso ciclabile, ma dopo qualche km preferisco abbandonarla, perché più che una pista è una passeggiata zigzagante e sterrata in un parco in cui si accalcano famiglie con cani, mamme con carrozzine, bambini in bicicletta e pedoni con gelato in mano. E poi, a forza di indulgere in soste rilassanti e contemplative, il pomeriggio sta avanzando a grandi passi e non voglio arrivare tardi a Konstanz, che non so bene quanti km sia ancora distante. Qui infatti attende una chiamata al mio arrivo un amico di Jürgen, Lothar, che abita qui e che si è premurato di trovarmi da dormire, cosa tutt’altro che facile dato il luogo e il periodo; infatti a casa io, per quante ricerche facessi su internet, non ero riuscito a trovare nulla a un prezzo inferiore ai 100-150 €.
Riprendo perciò la hauptstraße che mi porta fuori città e pedalo di buona lena verso la mia meta.
E qui, a pochi km dall’arrivo, quando ormai sono rilassato perché la mia quinta giornata ciclistica sta per concludersi con piena soddisfazione e addirittura in anticipo sui tempi previsti, accade ancora una volta quel che non doveva più accadere e che invece si ripete con identiche modalità e (quasi) identiche conseguenze: come nel viaggio a Santiago, un cordolo di cemento, grigio come grigio è il fondo stradale, si erge all’improvviso a dividere la corsia ciclabile che sto percorrendo da quella pedonale. L’imprecazione parte quando già sono in volo ed è stroncata dal colpo della caduta, violenta e incontrollata, sul marciapiede fortunatamente e non in mezzo alla strada, dove stanno passando numerose vetture. Una di queste si ferma e ne scende una signora, spaventata dal mio volo, per prestare soccorso. Sono caduto anche stavolta sul lato destro, battendo quindi testa, spalla, gomito, anca e ginocchio; il casco mi ha protetto a sufficienza, ma il resto duole e sanguina parecchio. La buona samaritana mi aiuta a medicarmi e in un italiano scorrevole che ha appreso dal marito calabrese (tanto per cambiare) mi spiega che quello è un punto pericoloso dove una settimana fa era già caduto un altro ciclista. Come consolazione non è granché, ma se non altro, dolore, ammaccature ed abrasioni a parte, non ho riportato altri danni (due anni fa una clavicola incrinata e soprattutto un vasto ematoma erano stati ben più gravi); quello che invece non mi va proprio giù e anzi mi fa infuriare moltissimo con me stesso è il ripetersi di un evento che non può più essere considerato una sfortunata coincidenza: è la quarta volta in tre anni (la seconda in tre mesi, per non parlare di molti altri eventi simili, ma senza conseguenze) che cado per non aver notato qualcosa davanti a me. L’ultima volta mi è costato la rinuncia al previsto viaggio a Capo Nord con Paolo. Distrazione, stanchezza, vecchiaia o cosa? Inoltre finora mi è andata relativamente bene, ma non posso continuare ad andare in bici costituendo un pericolo per me e per gli altri. Devo accettare questa mia sopraggiunta inabilità, come si accettano occhiali o dentiere man mano che si avanza negli anni? La rabbia e la frustrazione sono intense, ma sterili, tanto più che adesso devo pensare a concludere la giornata alla meno peggio e domattina verificare le mie condizioni prima di decidere se è il caso di proseguire. Perciò chiamo per prima cosa Lothar e ci diamo appuntamento alla stazione centrale di Konstanz verso le 18.30. Ho abbastanza tempo per cercare una fontana e darmi una ripulita sommaria che mi renda meno impresentabile, ma mi rendo conto che la maglietta antisudore che indossavo al momento della caduta è ormai slabbrata e lacerata irrimediabilmente; poi raggiunta Kreuzlingen, che è la cittadina elvetica unita a Konstanz immediatamente al di qua del confine, trovo il varco che mi consente di entrare nella città tedesca e raggiungere la stazione centrale. Una decina di minuti dopo incontro Lothar: somiglia vagamente al grande Puffo e condivide con me grossomodo la corporatura, l’età, la bicicletta, Internet e –a quanto mi ha descritto Jürgen – la parsimonia: tanto per fare un esempio, è riuscito a trovare un biglietto andata e ritorno per New York a prezzi eccezionalmente bassi, a visitare gratuitamente mezza dozzina di celebri musei altrimenti costosi e conosce praticamente tutti i luoghi dei cinque continenti in cui la birra dal secondo boccale in poi può essere bevuta gratis a volontà. Soprattutto per questo gli è stato conferito l’incarico di reperirmi un alloggio. Comunichiamo facilmente in inglese, e quando gli mostro la mia maglietta, mi risponde di non preoccuparmi: mi porterà ad un negozio dove potrò comprarne una nuova. Io veramente preferirei andare prima all’albergo per finire di lavarmi, cambiarmi e sistemare medicazioni e fasciature, ma lo lascio fare. Attraverso un complicatissimo giro nel centro storico (una sorta di arabesco per congiungere due punti altrimenti vicini, forse per farmi ammirare le bellezze della città vecchia, ma non sono molto in condizione di goderne), mi guida fino a un primo negozio, poi a un secondo, infine a un terzo, l’unico provvisto delle famigerate magliette, poi quando si accorge del loro costo elevato, esterrefatto vorrebbe portarmi via, ma a quel punto sono io a insistere e ne compro una: 37 € non sono pochi ma in Italia non l’avrei trovata per molto meno e poi mi serve. L’unico rimpianto è che non accettano pagamenti con carta di credito e perciò devo usare i contanti che si stanno assottigliando sensibilmente. Alla faccia di quanti mi avevano assicurato che all’estero avrei pagato con la carta anche le spese più insignificanti! L’unico pagamento possibile finora è stato quello dell’hotel di Chur. Ripartiamo alla volta dell’albergo; lo stile di guida di Lothar è a dir poco creativo: roba da far venire l’esaurimento anche al più scafato ciclomotorista partenopeo (vabbè, anche questo è un luogo comune, un pregiudizio), ma dopo un po’ di giri concentrici, salite sui marciapiedi, zigzag tra i mezzi pubblici, sensi vietati, scavalcamenti di transenne etc. che mi fanno sentire come a casa, non mi sorprendo più, però non riesco a capire dove stiamo andando e perché ci allontaniamo sempre più dalla città; solo dopo essere arrivati in aperta campagna, capisco che siamo nuovamente in Svizzera e che ci siamo lasciati alle spalle anche Kreuzlingen. Arriviamo finalmente in un paesino e al mio albergo che sono le 21. Contrito per non esser riuscito a trovare qualcosa di più economico, Lothar si prodiga in scuse e ce ne vuole per rassicurarlo che a me va bene così, tanto più quando dopo scopro che la spesa, comprensiva della solita colazione a buffet si ferma a 45€ la somma più basa pagata finora, oltretutto con carta di credito. Per ricambiare la sua disponibilità e cortesia vorrei invitarlo a cena, ma gentilmente declina l’offerta e solo dopo capisco che data l’ora e le abitudini dei popoli anglosassoni, deve aver cenato già prima del nostro incontro. Ci diamo appuntamento a dopodomani, domenica mattina, quando partiremo insieme a Jürgen e Jan, il quarto del gruppo, alla volta di Dresda. Mangiata svogliatamente una pizza, torno in hotel, faccio una doccia ed esamino la situazione sanitaria: le abrasioni sono vaste e sanguinolente, ma sono state ben pulite e disinfettate, i lividi comprensibilmente ampi non presentano grossi ematomi, per sicurezza tuttavia metto abbondante crema anticontusioni, infine, se ci fossero fratture anche piccole me ne sarei ormai accorto dal rialzo di temperatura, dal gonfiore e soprattutto dal dolore, che rimane invece accettabile. Con questa consapevolezza ottimistica dopo aver rassicurato Jürgen, informato nel frattempo da Lothar, e dato conferma per il nostro incontro domattina, me ne vado a dormire
Percorsi oggi 140 km in 6h:10’
6 Konstanz-Jettingen
Notte agitata soprattutto per il riacutizzarsi del vecchio dolore alla spalla destra, a cui si è sommato quello della caduta di ieri, che mi impedisce di dormire come d’abitudine sul lato destro; l’articolazione è tutta un crocchiare e scricchiolare, tra indolenzimenti e movimenti un po’ limitati, ma pare funzionare, le gambe sono intorpidite dal riposo mancato più che dai km di ieri (è stata la pedalata meno faticosa di tutto il viaggio finora), dopo una abbondante dose di caffè torneranno a girare normalmente.
Termino di fare colazione e di preparare il solito panino per lo spuntino di metà mattinata, quando mi si avvicina il gestore dell’hotel che ha visto le ferite al gomito e si offre di cambiarmi la medicazione, aggiungendo un’apposita pomata. Accetto, ringraziandolo sinceramente per la sua gentilezza e competenza: ancora persone premurose e generose. Poi parto per Kreuzlingen e riattraversata per l’ennesima volta il confine, arrivo alla stazione di Konstanz. Mentre aspetto l’arrivo del treno di Jürgen faccio il conto di quante volte ho attraversato frontiere ieri: Svizzera, Liechtenstein, Austria, Svizzera, Germania, Svizzera, roba da contrabbandiere professionista di prima classe!
Con elvetico-teutonica puntualità arriva il treno con Jürgen e bici al seguito: per esser qui alle 8.30 si è alzato quattro ore prima e adesso faremo insieme i 130-140 km fino a casa sua. È già vestito con casco, guanti e scarpette; sul manubrio ha montato il suo smartphone Samsung che utilizzerà come navigatore sia oggi che durante il viaggio da casa sua a Dresda, tenendo l’auricolare incollato all’orecchio destro, soluzione sicuramente pratica, ma poco gradevole, almeno dal mio punto di vista.
Partiamo poco prima delle 9. I primi km sono lentissimi: pare che uscire da Konstanz sia molto più complicato che entrarvi, o più probabilmente è il navigatore di Jürgen che ci costringe spesso ad aggirare una zona pedonale o un senso unico e allungare così il percorso di mezzo km, anziché andare contromano per 50 metri; sta di fatto che mezzora dopo non abbiamo ancora lasciato la città. Ho l’impressione che, se ci facessimo guidare dal semplice senso di orientamento e accettassimo qualche piccola trasgressione, saremmo molto più avanti; ma la guida è Jürgen e io ho completamente abdicato da ogni mia attività decisionale, delegando ogni scelta e responsabilità a lui, che a sua volta fa lo stesso col suo Samsung. È una situazione comoda per me, perché mi deresponsabilizza ed elimina ogni ansia, incertezza, necessità di prevedere, pianificare, mi solleva dalla difficoltà di chiedere informazioni parlando con la gente del luogo e mi fa sentire come un turista affidato in tutto e per tutto a un’organizzazione super efficiente, il quale deve limitarsi a pedalare dietro o a fianco del suo accompagnatore. L’altra faccia della medaglia è che questo tipo di viaggio presenta sicuramente meno imprevisti ed è più rassicurante, ma può anche risultare più monotono. Staremo a vedere.
Finalmente siamo lontani dalla città e pedaliamo in aperta campagna. Il navigatore, seguendo le impostazioni ricevute, ci conduce lontano dalle Bundestraße su strade secondarie, a volte stradine comunali o vicinali, povere di segnalazioni e semideserte, su cui è più facile incontrare un trattore che un’auto; sono percorsi che allungano sicuramente le distanze e che io, anche volendo, non avrei potuto scegliere, per il pericolo di perdermi in quella rete di vie di comunicazione che differenzia la viabilità tedesca rispetto alla nostra: in Italia, in genere, tra il punto A e il punto B c’è un percorso lineare principale, magari con uno o due itinerari alternativi, non un reticolo di strade secondarie dalle mille possibilità combinatorie. Tuttavia, se – come è giusto in un viaggio – non si ha la frenesia di arrivare prima possibile, questa scelta è la migliore, perché permette di vedere realtà altrimenti nascoste. A quel poco che ho modo di capire di persona o attraverso le delucidazioni di Jürgen, in un contesto fortemente antropizzato come quello tedesco le grandi vie di comunicazione sono generalmente circondate da opere di urbanizzazione o comunque da insediamenti umani, industriali, commerciali che lasciano ben poco spazio alla natura, mentre adesso invece lo sguardo si riempie dei mille colori dei campi a seconda delle colture di ciascun appezzamento, dell’alternarsi di boschetti a prati e pascoli, riducendo apparentemente l’intervento umano alla sola stradina che si srotola sotto le ruote o ai piccoli villaggi che appaiono improvvisamente dietro una curva o al di là di una collina. È un po’ la stessa sensazione di isolamento dal mondo del rumore e del cemento provata lungo la ciclabile del Reno. Mi stupisce anzi la mancanza di case nei pressi dei campi, ma Jürgen mi spiega che in campagna costruire abitazioni private al di fuori dei villaggi non è permesso, nemmeno ai contadini che perciò devono ogni giorno partire da casa per raggiungere il proprio podere.
Le strade scorrono, con frequenti incroci e cambi di direzione, su brevi tratti pianeggianti, ma più frequentemente alternano brevi discese ad altrettanto brevi (ma non per questo leggere) salite in un saliscendi continuo, smentendo in pieno chi pensa che quanto più ci si allontana dalle Alpi, tanto più il percorso sia piatto.
Anche se il continuo mutare degli orizzonti, le curve, i boschi ombrosi rendono vario il viaggio, alla lunga la stanchezza si fa sentire, almeno per me, visto che il mio compagno pedala come se fosse appena salito in sella. Perciò accolgo con piacere la proposta di fare una pausa. Siamo a Fridingen, un paese di piccole dimensioni con la sua piazzetta dotata di fontana, due panchine all’ombra di un albero e un paio di negozietti, ma quello che attira maggiormente la mia attenzione è una grande casa del tipo “a graticcio”: un tetto di mattoni rossi su due spioventi molto inclinati e muri esterni bianchissimi su cui spiccano le travi verticali, orizzontali e oblique della struttura in legno,. A conferire poi maggior vivacità all’edificio contribuiscono anche disegni e scritte tra le finestre e gli immancabili gerani o altri fiori variopinti. Queste abitazioni tradizionali, la cui origine si perde nella notte dei tempi, sconosciute nell’Europa mediterranea, ma frequenti soprattutto nell’Europa centro-settentrionale (mi vengono in mente York in Inghilterra e Strasburgo in Alsazia), non sono le prime che vedo in questo viaggio (già Chur ne mostrava di molto belle) e so che moltissime altre ne vedrò, ma mi soffermo sempre ad osservarle con piacere: mi hanno affascinato fin dall’infanzia, forse perché da sempre associate a un mondo magico di streghe, maghi, folletti etc.
Approfittiamo della sosta per comprare qualcosa da sgranocchiare che si aggiunge ai panini preparati prima della partenza. Già che ci siamo telefono a casa per rassicurare Gea dell’avvenuto incontro con Jürgen (non le ho ancora detto della caduta) e descriverle questa prima parte del viaggio.
Torniamo in sella e riprendiamo la pedalata verso Nord, dato che non siamo neanche a metà percorso. Solo ora mi accorgo che il corso d’acqua che divide in due la cittadina è nientemeno che il Danubio: visto da sopra il ponte sembra poco più di un fiumiciattolo, largo quanto un modesto canale d’irrigazione e nulla farebbe sospettare che sia quello stesso maestoso “schöne blaue Donau” che passa dalle principali capitali mitteleuropee e ha ispirato tanti artisti.
Tanto per cambiare il cielo, prima azzurro e terso si copre di nubi scure che minacciano un forte acquazzone, il quale però non arriva; arrivano invece le salite e non si tratta di viadotti o di collinette, ma di chine che salgono ininterrottamente per km fino a toccare i sette-ottocento metri. Sono però fiero di riuscire a tenere il passo del mio battistrada che, con una bici più leggera della mia e un semplice zainetto come unico bagaglio, sembra affrontare con disinvoltura ogni salita; io sono sudato e ho un po’ di fiatone, è vero, tanto da ricorrere sempre più spesso alla borraccia, ma sono soddisfatto che la caduta di ieri non abbia lasciato altre conseguenze che un po’ di dolore che la fatica riesce in gran parte a mascherare. Una volta raggiunta la cima, la salita si inverte bruscamente, annullandosi in una discesa altrettanto dura e a una velocità da brividi in tutti i sensi, quando si svolge non più sotto il sole cocente ma in un bosco al coperto di un tunnel di alte piante che non fanno filtrare raggi di luce.
Abbiamo ormai percorso quasi un centinaio di km, attraversando paesi e villaggi e comincio a pregustare l’imminente arrivo quando cominciano a cadere le prime gocce e a levarsi un vento freddo e violento, carico di elettricità. Per fortuna siamo entrati in un borgo e troviamo rifugio in un bar. Inutile affrettarsi, spiega Jürgen: da casa lo hanno avvertito telefonicamente che un nubifragio si sta abbattendo da quelle parti e pare spostarsi nella nostra direzione. Decidiamo perciò di effettuare un’altra sosta a base di caffè e gigantesche fette di torta, che in altri contesti avrei rifiutato perché troppo ricche di panna o burro, ma ora risultano graditissime. Quando ripartiamo la pioggia non è del tutto cessata, ma la situazione sta rapidamente migliorando ed è evidente che il temporale ci ha solo sfiorato e ora sta dirigendosi altrove. Col sole, però, torna rapidamente anche il caldo e l’umidità si converte in afa. La ciliegina sulla torta poi è costituita da una salita che “è dura, sì, ma è l’ultima della giornata” mi rassicura mentendo spudoratamente il mio compare. Infatti niente da obiettare sulla durezza: si superano i 900 m. slm e la fatica è davvero tanta e i muscoli sono così tesi per lo sforzo continuo che sembrano sul punto di grippare da un momento all’altro; ma non faccio in tempo a godere della discesa che subito un altro poggio si profila all’orizzonte. Sto cominciando a mandare al diavolo la Germania i suoi bucolici boschetti e le sue mille colline e le sue inesistenti pianure; quasi quasi rimpiango la Pianura Padana… be’ non esageriamo.
Ho terminato l’acqua da un pezzo e le riserve di glicogeno dei miei muscoli si sono esaurite, comincio perciò a staccarmi da J che deve quindi rallentare. Vedendomi così provato, J. adotta una cura che si rivela peggiore del male: comincia a dire <<Coraggio, siamo quasi arrivati, siamo agli ultimi km>> Io non ho cartine, né riscontri visivi, né la lucidità per calcolare mentalmente quanti km manchino davvero; così gli credo fino alla più cocente delle delusioni quando mi rendo conto che quel villaggio sullo sfondo non è la nostra meta, che quel colle non è l’ultimo, che dopo questi 5 km ce ne sono almeno altrettanti…
Intanto, i previsti 130 km si sono allungati di un buon 20% e l’inattendibilità dei miei calcoli e dei miei pronostici mi fa rassegnare ad un arrivo che non arriva mai, per cui smetto di controllare tabelle e contakm e dedico piuttosto la mia attenzione a ciò che mi sta intorno. E questo si rivela un bene, perché, assunta una posizione in sella più rilassata ed una velocità ancor più cicloturistica, inganno la sete e la fatica osservando il paesaggio: spariti i boschi e le strade ombreggiate, ci troviamo ora su un pianoro aperto e sconfinato in cui i campi di granturco si alternano a quelli di grano non ancora mietuto (la stagione –mi spiega Jürgen- quest’anno è un po’ in ritardo a causa del maltempo primaverile) e nella luce diffusa del pomeriggio assumono un intenso colore ambrato, mentre la stradina, diritta e solitaria sembra condurre verso il nulla: solo qualche punta di campanile emerge ogni tanto a grande distanza sopra le spighe di quel mare dorato.
Ogni tanto, ai margini di qualche appezzamento coltivato scorgo una specie di edicola improvvisata, o più spesso una semplice panchetta, con sopra un cartello e una cassettina. Alla fine ne chiedo la spiegazione a Jürgen: si tratta di una sorta di self-service in cui chi passa di lì può fermarsi a cogliere dei fiori o dei frutti direttamente dal campo, depositando il denaro equivalente nella cassettina; il tutto all’insegna della fiducia nell’onestà del prossimo. Inevitabile chiedersi quanto un simile sistema potrebbe aver fortuna a sud delle Alpi e come ne sorriderebbero tanti miei compatrioti con l’aria furbesca di chi crede di saperla lunga e non si rende nemmeno conto di quanto è alto il prezzo che deve pagare, in termini di qualità della vita, rinunciando a queste facili pratiche di convivenza civile.
Non fosse per i ticchettii, gli scricchiolii e i cigolii del mio bolide, che rivendica anche lui il diritto a lamentarsi, o per i versi di qualche cornacchia che sembra disapprovare la nostra intrusione, regnerebbe il silenzio più assoluto, tanto da farmi venire in mente i pomeriggi assolati e deserti della Puglia della mia infanzia, rotti soltanto dal frinire intermittente delle cicale.
Poi, come Dio vuole, senza altre salite (ma è anche possibile che la mia mente si sia rifiutata di registrarle o ne abbia rimosso la memoria), mi ritrovo in una via costeggiata da villette tutte diverse, ma nello stesso stile: a un piano con seminterrato e mansarda, tetti spioventi, colori chiari di legno e intonaco, ampie vetrate, giardino molto curato e con piante fiorite tutt’intorno. Una di queste è la casa di Jürgen. Siamo arrivati; la giornata e la prima parte del viaggio si concludono qui. Riesco appena a grugnire qualche saluto e mi precipito sulla prima di una lunga serie di bottiglie d’acqua. Al momento della doccia trovo una bilancia e mi peso: quasi cinque kg meno del giorno in cui sono partito, ma so che sono soprattutto i liquidi persi oggi, in una giornata, che si è rivelata alla fine una delle più dure del viaggio, più stancante perfino del San Bernardino. Dopo un giorno di sacrosanto riposo, dopodomani inizierà la seconda parte del tour, ma ad un ritmo – speriamo – più blando, con direzione Est e non più Nord.
Intanto chiamo casa per dare a Gea la lieta novella e ricevere le ultime informazioni: stranamente pare che in mia assenza il mondo non si sia fermato, anzi abbia preso a girare senza i soliti intoppi; c’è un solo problema: Otto il mio amato bassotto, nonché unico erede maschio e perciò primo nella linea di successione, è diventato ogni giorno più disappetente e inattivo, dopo la mia partenza. Me lo faccio passare al telefono e gli parlo a lungo con dolcezza, invitandolo a fare la pappa. Con la coda dell’occhio Jürgen mi guarda sconcertato, ma Gea mi rassicura: Otto ha scodinzolato e ora sta andando alla sua ciotola a mangiare. Fiero di questa mia qualità taumaturgica a distanza, vado anch’io a mangiare un boccone prima del meritato riposo.
Percorsi oggi 153 km in 6h:30’.
In totale percorsi 904 km in 6 giorni (41h:7’) alla media di 22 km/h. Superati dislivelli per un totale di circa 7.000 m., di cui oltre metà in area appenninica e alpina, il resto tra le colline tedesche.
La giornata di ieri si è svolta all’insegna del riposo, almeno quello fisico. Al risveglio mi sentivo abbastanza riposato, anche se per tutta la notte non facevo che destarmi per il dolore alla spalla e per il timore di bagnare lenzuolo e materasso col sangue che mi usciva dalle ferite non ancora rimarginate; comunque, a differenza di quando sono a casa, non ho mai avuto problemi a riaddormentarmi. Appena entrato in sala da pranzo per il breakfast, ho trovato J. (Jürgen) e sua moglie Gabi davanti alla tavola già imbandita con ogni sorta di cibarie solide, liquide e cremose; penso che farmi recuperare i cinque kg persi nel viaggio fin qui siano per loro un punto d’onore, sta di fatto che comunque io non mi sono lasciato pregare e che ho ingurgitato quanto la decenza mi ha consentito (e forse qualcosina in più).
Nella pausa dopo la colazione ho avuto modo di visitare la casa: la prima impressione che se ne ricava, almeno chi come me è abituato a vivere in appartamento, è di grande luminosità e spaziosità, dovuta probabilmente alla mancanza di porte tra le stanze del vasto reparto giorno e alle ampie finestre e porte-finestre che danno sull’esterno e lasciano entrare una gran quantità di luce, oltre alla vista di un giardino non enorme, ma con un prato ben curato e piante variopinte che costituiscono un anello di colore tutt’intorno ai muri bianchi della casa. Il reparto notte (con uno studio, oltre alle camere da letto) si trova al piano superiore, mentre nel seminterrato ci sono altre due camere (una è la mia) con vista sul giardino, locali per il tempo libero e di servizio. Il tutto . come ho avuto modo di vedere dal confronto con altre abitazioni . segue uno schema abbastanza libero, probabilmente su progetto originale di un buon architetto, ma la principale attenzione . mi spiega J.. è quella riservata alla efficienza energetica, necessaria per combattere il rigido clima invernale: questa è curata nei minimi particolari a cominciare dall’uso del legno nelle pareti e nel tetto, all’isolamento e alle coibentazioni, ai doppi vetri, alla cattura dei raggi solari che vengono fatti entrare e “imprigionati” all’interno, all’installazione dei pannelli solari e, infine, ad un efficiente sistema di riscaldamento a legna (più economico e meno inquinante che a carbone o gasolio); a testimonianza di questo J. mi mostra la legnaia, in pratica una sorta di miniappartamento con tre locali in cui con teutonica precisione sono selezionati e quasi classificati come i volumi di una grande biblioteca tonnellate di ceppi di legno tagliati e squadrati.
Poi J., anche in vista della partenza domattina, mi convince dell’opportunità di far controllare la mia bici che emette strani cigolii e ticchettii; andiamo perciò dal suo meccanico di fiducia il quale, da buon intenditore, mostra di conoscere e ammirare la marca della mia Tommasini, un po’ meno le sue condizioni generali, soprattutto per quanto riguarda il cambio. Il mio timore è che proponga di ripararla sostituendo la maggioranza delle parti in movimento con costi stratosferici, ma, dopo aver provato a fare qualche regolazione, il responso mi rassicura e sconforta nello stesso tempo: di veramente rotto o pericoloso non c’è nulla, ma i segni dell’usura (e della cattiva manutenzione, non lo dice, ma so che lo pensa) sono davvero tanti e cambiare pezzi sarebbe troppo lungo e costoso; posso continuare così, almeno finché regge, e alla fine del viaggio ricorrere magari a una pietosa eutanasia (ma anche questo non lo dice esplicitamente).
La seconda parte della mattina è riservata alla visita della vicina città di Tubinga, ovvero Tübingen, ricca di storia e di cultura fin da quando nel Medioevo fu uno dei primi e più importanti centri universitari europei. Nel suo seminario cattolico, come si legge sulla lapide all’ingresso, si sono formati i grandi della cultura germanica: il medico Alzheimer che dette il nome all’omonima malattia mentale e il poeta Hölderlin che malato mentale ci morì, studiosi della fisica, della metafisica e dell’astrofisica come Geiger, Hegel e Keplero, o il teologo Hans Küng col suo collega Ratzinger non ancora papa e molti altri ancora, di cui colpevolmente ignoro il nome, ma che J. e Gabi sono orgogliosi di citare, ottenendo in cambio da me un frettoloso quanto falso “Aaah…” di ammirazione.
Ma la parte più interessante e pittoresca, quella che fa di Tübingen la San Gimignano del Baden-Württemberg, è il centro storico con le sue tipiche case a graticcio, costruite cioè su un’intelaiatura di travi rivestita da un intonaco a calce dal quale la struttura in legno riemerge con disegni leggermente diversi l’una dall’altra; se la tecnica di costruzione è praticamente la stessa, in realtà le abitazioni si differenziano le une dalle altre proprio in virtù della diversa disposizione delle travi a faccia vista, che costituiscono una sorta di disegno geometrico variabile da edificio a edificio. Ed in una giornata di sole è uno spettacolo che mette allegria vedere le persone camminare liberamente, tra due file di queste case alte fino a cinque piani, ricche di abbaini e mansarde, lungo le vie, rigorosamente off-limits per i veicoli a motore, intervallate da fioriere, tavolini e colorati ombrelloni.
La visita a Tübingen si conclude nel pomeriggio, dopo che sono stato iniziato ai piaceri dei biergarten: vicino al ponte sulla Neckar entriamo in una specie di parco-giardino con annessa birreria, il “Neckarmüller Biergarten”, troviamo posto a fatica (è sabato) su una panca e ci rimpinziamo io di Ofenkartoffel mit Kräuterschmand (una patatona al forno con salsina di panna acida), loro di Wurstsalat; per tutti accompagnamento obbligato di Pretzel e birra.
Al ritorno ci fermiamo da Reinhard (o Reiner o Reinar o Reinhald o boh?!), il fratello di J. che compie gli anni e che ha riunito tutti i parenti in linea ascendente, discendente e collaterale davanti a una grande tavolata. Il festeggiato è Reinhard, ma la attrazione più attesa devo essere io, l’italiano che ha pedalato quasi mille km per venire in Germania e in onore del quale, mi pare di capire, sono state preparate varie pizze (tutte buone per la verità, tanto che io mi servo, dapprima con pudore, poi senza più freni). In un clima di attenzione quasi imbarazzante per me, fioccano le domande, per lo più in inglese, ma da parte dei più anziani anche in tedesco, per cui faccio fatica a rispondere (ma mai quanto loro a comprendermi), il tutto in un’atmosfera di allegria e calorosa familiarità, accentuato dall’arrivo in tavola della torta e di qualche bottiglia di vino locale. Il tardo pomeriggio si conclude a casa di J. con uno spuntino a base di frutta; finché all’imbrunire, per la quarta volta in poche ore, si ritorna a tavola (ma quante volte al giorno mangiano ‘sti teteschi?).
Nel dopocena diamo una rapida occhiata alle previsioni meteo, che non promettono nulla di buono per l’immediato futuro (ma rimandare la partenza da domani a dopodomani non risolverebbe nulla) e, dopo una breve illustrazione del nostro itinerario dei prossimi giorni, affrontiamo la questione bagagli. J., infatti, è convinto che la grande fatica che io ho fatto ieri a stargli dietro, sia dovuta, oltre che alla stanchezza accumulata nei giorni precedenti, soprattutto al peso delle salmerie, che andrebbero drasticamente ridotte, evitando di portare ciò che non sia realmente in-di-spen-sa-bi-le. Provo a obiettare che tutto ciò che si trova nelle mie borse è – o potrebbe rivelarsi – ne-ces-sa-rio, ma non riesco ad essere sufficientemente convincente ed assertivo, perché continua a scuotere la testa. Lo sfido allora a rifare insieme i miei bagagli: svuoto tutto sul letto, sul tavolino e sul tappeto e cominciamo.
Maglietta da bici? Jawohl! No è possibile di fare senza.
Due pantaloncini da bici, uno per pedalare e lavare la sera e l’altro di riserva? Nein, uno solo: se proprio tu piace bucato, lava al pomeriggio e alla mattina è già asciutto.
Pantaloni lunghi e a mezza gamba? Nein, scegli uno solo; mica è sfilata di moda.
Un paio di T-shirt e una polo? Nein, per dopo pedalata, basta una cosa sola.
Scarpe da bici e scarpe da passeggio? Jawohl, cambio di scarpe è necessario, sì.
Tre paia di calzini? Sei calzini per due piedi soli? Basta uno paio.
Slip, almeno due, no?, uno in bici e uno per la sera? Nein, uno solo: sotto i pantaloncini di bici il vero ciclista porta nulla.
Gambali antipioggia? Perché? Se gambe si bagnano poi asciugano
K-way, mantellina e telo di plastica per riparare i bagagli dalla pioggia? Nein, troppo pessimista: se piove poco, uno basta; se piove troppo, due non serve.
Lampade bici e giubbotto riflettente per la sera? Inutili, no si viaggia di buio, noi.
Fotocamera, telefonino e relativi caricabatteria? Se proprio vuoi, ma anche altri hanno fotocamera e è possibile tuo telefonino anche per fotografie usare.
Documenti e carta di credito? Natürlich! No puoi fare senza.
Mini pronto-soccorso con cerotti, disinfettante, pomate? Perché? Abbiamo farmacie pure in Germania, no credi?
Libro da leggere? Nein, dove tu trovi tempo di leggere?
Occhiali di scorta, temperino multiuso, ago, filo, forbici, kleenex, nastro adesivo, cartoni, elastici e cinghie, corde, fil di ferro? Perché tutto qvesto? Devi aprire bazar?
Penna&Taccuino? Lapis&Gomma? Nein, devi scrivere letterina a fidanzatina? O fare ritratti?
Asciugamani, saponi, shampoo? Perché, quelli di hotel no ti basta?
Buste o sacchetti di plastica? Perché? Devi forse riempire loro con spesa in supermarket?
Biscotti e barrette? Pensi in Germania no c’è bar? O che noi desideriamo stare in dieta?
Pezzo di copertone, chiavi, brugole, smaglia-catena, camere d’aria/mastice/toppe/leva-fascione, cavetti per freni e cambio, dadi, bulloni, raggi …? Qvesto solo e niente altro? Forse devi proseguire per deserto di Gobi?
Dopo questa falcidia in effetti rimane solo un mucchietto di pochi oggetti, ritenuti indispensabili, a cui di nascosto aggiungo gambali antipioggia, un paio di calzini, temperino, fotocamera, penna e taccuino; ma bastano queste poche trasgressioni per farmi sentire quasi un italico furbastro.
A questo punto entrerebbe tutto in una sola borsa e avanzerebbe spazio; soppesando il mio portapacchi, corredato di catarifrangente, tiranti e parafango, J. lancia un’idea: perché non lasciare anche quello e sostituirlo con uno zainetto? Io storco il naso: non ho mai usato zaini per non dover portare sulle spalle un peso che sballonzola qua e là, indolenzisce e fa sudare, ma lui va a prendermene uno da escursionista: è quello della moglie, un po’ più piccolo del suo, leggerissimo, coi distanziatori antisudore sulla schiena e cinghie stabilizzatrici sul davanti, varie tasche tra cui una con un’ utile guaina impermeabile. Lo riempio e lo provo, in effetti è comodo e non batte nemmeno sulle ferite alla spalla, ma soprattutto mi garantisce un risparmio di almeno quattro kg, che sarà benedetto soprattutto nelle battaglie contro le salite: “in hoc zaino vinces”. È fatta, me ne sono già innamorato. Poi J. vuole strafare e prova a farmi rinunciare anche alla borsa sul manubrio (e magari dopo pure alla bicicletta, con la scusa che a piedi sarei ancor più leggero), ma lo convinco ad accontentarsi di quanto ha già ottenuto, dato che per me (e le mie insicurezze) il cambiamento è stato già fin troppo rivoluzionario. Per consolarmi lui mi assicura che tutto quello che ho scartato penserà sua moglie Gabi a portarmelo a Dresda prima che io torni in Italia. Vado a dormire con questa certezza e l’appuntamento a domattina alle 5.30 “Alle 6.30?” “Nein, a la cincve e trenta! Dobbiamo stare in Tübingen a la 7” “Certo, certo, capisco” bofonchio io, ma dentro di me maledico levatacce e partenze notturne, che per me sarebbero in pratica tutte quelle prima delle 9.
È mezzanotte circa quando spengo la luce, accompagnato da muti quanto minacciosi bagliori in avvicinamento nel cielo di inchiostro.
1 giorno: Tübingen-Neuler
Nel corso della notte, mi sveglio frequentemente a ogni cambio di posizione nel letto, o perché i piedi sono rimasti fuori dal piumone non rincalzato (che poi sarà leggero quanto si vuole, ma sempre piumone è; a luglio, poi!) che questi discendenti di Ariovisto si ostinano a usare al posto di un lenzuolo; ma più spesso a tenermi desto sono i sordi brontolii che seguono i lampi; contando i secondi che intercorrono tra la luce e il suono, sento che il temporale sta arrivando e quasi quasi mi auguro che sia tanto violento da farci rimandare la partenza almeno di un giorno: un po’ mi vergogno di questa mia piccola viltà, ma il fatto è che pedalare sotto la pioggia è una cosa che detesto.
In un modo o nell’altro arrivano le 5; il suono della sveglia e i movimenti che avverto al piano di sopra mi fanno capire che è comunque ora di alzarsi. Li raggiungo in soggiorno, dove, tanto per cambiare, c’è una tavola apparecchiata con cappuccini fumanti, formaggi, prosciutto, insalata, pretzel, pane, burro, marmellate, yoghurt, müsli, fragoline di bosco, ribes, mirtilli e frutta varia, latte, cioccolata… seguendo con la coda dell’occhio l’esempio di J. e Gabi (che deve essersi alzata un’ora prima per preparare quel ben di Dio), mi abbuffo e mi preparo un paio di panini da portarmi dietro, tanto ormai ho capito che, pioggia o non pioggia, si parte lo stesso. Anche J. consulta spesso il cielo, oltre al suo Galaxy, ma pare meno pessimista di me che annego il mio scoraggiamento nel terzo cappuccino. In effetti, sembra che i tuoni si stiano allontanando.
Comunque pioviggina fitto fitto quando poco dopo le 6 ci raggiunge anche Lothar (arriva direttamente da Konstanz, magari non sarà nemmeno andato a letto; ma quando dormono ‘sti teteschi?) e cominciamo a caricare le nostre tre bici e i rispettivi zaini nella capiente station-wagon di J.
Poi scocca l’ora zero: saluti, cinture, accensione motori, 3, 2, 1, 0… GO! Partiti!
Ma la partenza vera e propria avviene mezz’ora dopo a Tübingen, dalla casa di Jan, il quarto moschettiere, che raggiungiamo in una mezzora; se Lothar dà l’impressione di essere un folletto con i lineamenti da Grande Puffo e l’espressione birichina di Einstein, Jan ha la stazza e la fisionomia del gigante buono e saggio. Certo J. nonostante sia prossimo al giro di boa del mezzo secolo, coi suoi capelli neri e il fisico atletico di un trentenne, sembra quasi un ragazzino in compagnia di tre nonni bianco-criniti.
Terminata la fase delle presentazioni, dei saluti, dei controlli, dell’ultima telefonata a casa, mentre il cielo (di pari passo coi miei timori) trascolora dal nero plumbeo, al viola plumbeo, al grigio plumbeo, finalmente si parte. Sono le 7.30.
Primi km sotto una pioggia fine e intermittente su una stradina comunale che serpeggia solitaria nella campagna; procediamo a moderata andatura in fila indiana, silenziosi e incuranti degli spruzzi che le ruote sollevano, ma non posso fare a meno di mostrare gongolante a J. i miei gambali antipioggia che mi tengono all’asciutto polpacci e piedi. Lui risponde a gesti, minimizzando; in effetti, le pozze sulla strada riflettono un cielo sempre più chiaro e di lì a poco le nubi si aprono alle prime chiazze di blu. Ciò non toglie che per un paio di volte un mini-acquazzone ci costringa a ripararci sotto un ponte.
Poi il sereno prende il sopravvento.
L’andatura sale a 27-30 km/h e con essa il timore di riuscire a tenere il passo dei miei tre compagni d’avventura: mi seccherebbe fare la parte di quello che resta indietro o comunque fa rallentare il gruppo. Di J. nel viaggio da Konstanz a casa sua ho già verificato le capacità di potenza e resistenza (ma anche la pazienza e la disponibilità), di Lothar so che è “uno che ama correre”, oltre a fare molto sport, di Jan non so nulla, ma basta osservare la sua struttura fisica, i suoi bi-tri-quadricipiti per aver un’idea della sua forza.
Il mio zainetto sta comportandosi più che bene: non balla, non dà problemi di aerazione e ha retto egregiamente la prova-pioggia proteggendo anche me, ma con la velocità crescono anche la fatica e il sudore, specialmente quando la strada inizia a salire significativamente; io lascio la coda e affianco J. che apre la fila per rivolgergli alcune domande. Chi è davanti ogni tanto si gira per controllare di persona o per chiedere a chi lo segue se qualcuno è rimasto indietro. “ALLE DA!” è il grido di rassicurante risposta che ci ritorna dall’ultimo della fila.
Pedaliamo così alcuni km, finché in cima a una salita mi accorgo che dietro di noi non vedo gli altri due. Ci arrestiamo all’ombra di un albero ad aspettarli, poi, visto che non si fanno vivi, J. li chiama col telefonino: si sono fermati perché Jan ha accusato un sovraffaticamento, ma stanno arrivando. Ne approfitto per mangiare i panini che ho nello zaino e sdraiarmi su una panchina con le gambe in alto e gli occhi socchiusi, ma solo per qualche minuto, giusto il tempo perché J. mi immortali con una foto. Di lì a poco, infatti, Lothar e Jan ci raggiungono e l’interessato ci spiega che a causa di un disturbo cardiaco, nei momenti di sforzo intenso e prolungato, specialmente sotto il caldo, ha problemi respiratori che lo costringono a rallentare. Mi dispiace per lui, naturalmente, ma mi conforta il fatto che non sarò io a frenare il gruppo.
Ripartiamo e pochi minuti dopo raggiungiamo Schwäbisch Gmund, importante cittadina dell’antica regione della Svevia (oggi inglobata nel Baden-Württenberg): su un colle non lontano si trova il luogo d’origine degli Hohenzollern, e sempre svevo era il casato degli Hohenstaufen a cui appartennero sia Federico I il Barbarossa, sia Federico II che tanta importanza ebbe anche per la cultura italiana. Il centro storico di Schwäbisch Gmund è costituito da una ZTL con strade lastricate su cui si affacciano, come a Tübingen, case a più piani del 1400-1500 perfettamente conservate; noi iniziamo la visita a partire dalla Piazza del Mercato fino a soffermarci presso la chiesa cattolica di S. Giovanni del XIII sec., il più antico edificio della città, in stile chiaramente romanico (nonostante qualche modifica successiva) come si ricava, da archi a tutto sesto, lesene, archetti ciechi, lunette e bassorilievi e dalla classica facciata in cui spicca un rosone e un bel portale con strombature.
Sull’acciottolato accanto alla chiesa dei bambini stanno giocando e spruzzandosi con l’acqua di una fontana pubblica; osservandola meglio, noto che si tratta di una specie di struttura didattica basata su un complesso di canalette sopraelevate e inclinate che lasciano scorrere l’acqua, assecondando la pendenza, lungo un percorso labirintico fatto di chiuse, ritorni e deviazioni, fino a una conca da cui è riportata in alto per mezzo di una vite di Archimede. Pare una via di mezzo tra un progetto di Piranesi e un tentativo di realizzare il moto perpetuo; anche se, chiaramente c’è il trucco ovvero un silenzioso motorino che rende possibile l’illusione, non posso fare a meno di ammirare l’iniziativa e coglierne la valenza educativa: basta guardare come i bambini osservano incuriositi il marchingegno cercando di capirne il funzionamento. Sarebbe bello che, anche da noi, amministratori ed educatori si ponessero l’obiettivo di rendere più stimolanti gli spazi pubblici e di riempire il tempo libero con qualcosa di meglio di un’area vuota in cui al massimo scalmanarsi giocando a pallone o contendendo lo spazio a nonni e carrozzine.
Mangiato un boccone in un caffè all’aperto, lasciamo la città e riprendiamo il nostro cammino, privilegiando il più possibile –praticamente sempre – le ciclabili e le strade comunali, rispetto alle quali Kreisstraßen, Landesstraßen e Bundesstraßen sono sicuramente più diritte e brevi, ma più trafficate e meno sicure, soprattutto queste ultime. Ne guadagna inoltre anche l’aspetto paesaggistico, che ci permette, come raramente mi è successo nei miei ciclo-viaggi un po’ nevrotici, di godere delle distese variamente colorate dei campi di granturco o grano, di vigneti, prati e pascoli o della fresca ombra dei boschi in cui predominano conifere di notevole altezza.
L’unica nota stonata riguardante la viabilità mi sembra essere l’alto numero di lavori in corso i quali, soprattutto all’ingresso/uscita dei centri urbani, ci costringono a fare lunghe e tortuose deviazioni che non sempre il navigatore di J. riesce a prevedere, oppure a scendere di sella e percorrere bici alla mano –e talvolta in braccio- fastidiosi tratti disselciati. Dopo l’ennesima interruzione ne chiedo la ragione a J., anche per tirare, da buon italiano, una frecciatina alla tanto decantata perfezione tedesca; ma la risposta del mio compagno è molto chiara e tronca sul nascere ogni nazionalistica velleità di rivincita: questo è il periodo in cui le città tedesche sono svuotate dalle vacanze e quindi il disagio per la popolazione locale è minore; inoltre i lavori si concludono in genere in una o due settimane, prima del grande rientro e della riapertura delle scuole.
A pomeriggio avanzato, dopo un paio si soste “tecniche” (per accompagnare un cappuccino a una fetta di torta locale ipercalorica e approfittare della toilette) presso un caffè, raggiungiamo la meta finale prevista per oggi, Neuler, un paese, anzi un minuscolo villaggio, in cima ad un poggio (che ci ha richiesto l’ultimo strappo della giornata), con pochi edifici, parte dei quali costituita da una fabbrica di birra, poche case, qualche negozio e, naturalmente, la struttura in cui pernotteremo: il “Landgasthof Bieg”: è una via di mezzo tra B&B e hotel; non so quante stelle gli vengano attribuite, ma la stanza è veramente bella e ampia con servizi (tra cui breakfast, wi-fi, tv satellitare, frigo-bar, balcone, parcheggio bici al coperto, etc. degni di un quattro-stelle) con buone specialità locali per cena, che i miei compagni di viaggio, dopo particolareggiate spiegazioni su ingredienti e ricette, mi invitano a provare accompagnandole con frequenti brindisi a base di birra (oltretutto il Gasthof è proprio di fronte alla brauerei). Sorprendente in senso positivo il costo: una trentina di euro per l’albergo e una decina per la cena. Lothar merita davvero i nostri complimenti per aver scovato in rete hotel così convenienti nel rapporto qualità/prezzo.
Al termine, breve passeggiata sotto le stelle. Dopo un esordio incerto, che mi aveva fatto temere il peggio, il meteo ci ha ripagato con una giornata davvero gradevole (J. però mi mette in guardia dall’eccessivo ottimismo: per domani è prevista pioggia al mattino); o forse a renderla tale è stato anche il fatto di pedalare in compagnia, chiacchierando, assecondando curiosità, sostando spesso senza mai arrivare a sforzi intensi e prolungati o a crisi di stanchezza acuta; anche la soluzione dello zaino si è rivelata indovinata. Bilancio dunque positivo di questa prima giornata.
Forte di queste rassicuranti constatazioni e sperando che J. non russi, vado a dormire.
Percorsi 120 km circa in 5h:30, superate tre alture principali, in media di 500 m ciascuna
2 giorno: Neuler – Bubenreuth
J. non ha russato, ma la luce del giorno ha anticipato di un bel po’ la sveglia del mio telefonino: pare che nella patria di Einstein e Von Braun persiane, tapparelle, scuri o marchingegni consimili siano sconosciuti quanto i bidet; tutt’al più si trovano delle leggere tende che, se non proprio trasparenti, si impegnano poco a fermare la luce del sole. D’altra parte stamani di sole ce n’è davvero poco: stanotte, confermando le previsioni di J., ha piovuto a tratti e anche ora cade una pioggerellina impalpabile, che non ci toglie però il buonumore né l’appetito quando ci ritroviamo al tavolo per la colazione quasi tutti contemporaneamente. Sono l’unico a non servirsi di prosciutto e uova sode, ma mi consolo facendo il bis (e anche il tris e il quadris …) di tutto il resto.
Si temporeggia un po’ in attesa che spiova e si inganna il tempo telefonando a casa. Tra l’altro J. ci racconta che ieri, mezz’ora dopo la nostra partenza, a Tübingen si è scatenato un vero e proprio nubifragio con vento, pioggia e soprattutto grandine dai chicchi grossi come susine, che hanno lasciato il segno sulla carrozzeria della sua auto (parcheggiata sotto casa di Jan), ma non se ne preoccupa più di tanto: ci penserà l’assicurazione a risarcirlo nell’arco di una o due settimane. Evito di fare confronti e commenti.
Finalmente partiamo. Ieri la tappa aveva una prevalenza di salite; oggi al contrario si scenderà di quota più che salire. Tanto meglio.
Intanto pedalando a fianco di Lothar noto una targhetta con stampato il n° 242 sul carro posteriore della sua bici; gliene chiedo conto e lui mi spiega che è il numero progressivo con cui ha partecipato a una gara ciclistica poco tempo fa. Incuriosito, vengo a sapere da J. che Lothar, oltre a partecipare ogni anno a due tre importanti maratone (tra cui quella di New York, Londra o Parigi), è nientemeno che un iron man. Cioè? -chiedo io- Cioè -spiega lui- partecipa a competizioni in cui corre in bici per 180 km, poi a piedi per 42 km e infine a nuoto per 3 km e mezzo; insomma una specie di triathlon di cui io sarei forse capace di coprire a fatica la prima distanza per intero, la seconda per un decimo e la terza forse per un centesimo. Fortunatamente, almeno finora, non ha dato prova di voler impostare l’impegno fisico a questo livello, come mi confermano le sue abituali fermate ogni paio d’ore.
Dopo Ellwangen una deviazione per lavori in corso ci porta fuori strada e ci costringe a fare qualche km di strada bianca, cosa che inizialmente mi preoccupa non poco: pedalare sullo sterrato con le mie sottili ruote da corsa è quasi come infrangere un tabù per le mie sclerotiche abitudini ciclistiche; ma vedendo che gli altri affrontano senza fisime né patemi il medesimo inconveniente e che d’altra parte le mie ruote paiono non risentirne più di tanto, me ne faccio una ragione.
Solo dopo vari tentativi riusciamo a tornare al punto di partenza e imboccare la via giusta: per la prima volta il Galaxy, alle cui indicazioni J. si attiene fedelmente, mostra i suoi limiti. Come già nel tratto da Konstanz a Jettingen, infatti, J. tiene incollato all’orecchio l’auricolare del suo smartphone, da cui riceve in voce infallibili informazioni sul tracciato preventivamente elaborate in rete tramite il programma komoot. Le attuali incertezze, si giustifica J., dipendono forse dalla folta vegetazione o dal tempo piovoso o dalle stradine poderali che si intersecano continuamente con incroci a tre, quattro e anche cinque vie.
Intanto i cartelli ci dicono che abbiamo lasciato il Baden-Württenberg e siamo entrati in Baviera; il paesaggio ovviamente non cambia di colpo al cambiare dei confini amministrativi, però l’impressione iniziale è di una maggior quantità di vegetazione e di latifoglie a cui la forte umidità conferisce un colore verde intenso e lucente. Ci troviamo a pedalare nel cuore della cosiddetta Romantische Straße, itinerario giustamente celebre che deve il suo nome alla bellezza dei paesaggi e alla ricchezza di spunti storici e culturali.
Dopo una serie di saliscendi in cui superiamo i 630 m. (ma quello di oggi non doveva essere un percorso prevalentemente in discesa?) raggiungiamo Dinkelsbühl e subito capisco che questa deve essere la perla culturale della tappa odierna: come Tübingen due giorni fa e Schwäbische Gmund ieri, Dinkelsbühl si presenta subito come un gioiello medioevale con gran parte di mura e torri ancora intatte e il centro storico perfettamente conservato: dalla piazza del Mercato, peraltro stranamente non pedonalizzata (e questo fa infuriare J. che probabilmente vuol mostrare soprattutto all’amico italiano me quanto il rispetto dell’ambiente, dei luoghi culturali, delle persone sia avvertito in Germania, ma non è certo un eccezione a dimostrare la fallibilità di una regola) si dipartono la Hauptstraße e le vie secondarie, il cui acciottolato grigio contrasta con la calda tonalità delle tipiche case medioevali che vi si affacciano, buona parte delle quali oggi si sono trasformate in strutture alberghiere.
Vagabondiamo qua e là, cercando l’angolatura migliore per una foto o la casa a graticcio più originale, poi ci ritroviamo davanti alla mole di S. Giorgio, la cattedrale, chiaramente una chiesa originariamente di culto cattolico, dato che è dedicata a un santo e al suo interno contiene immagini di come quelle della Vergine o di S. Sebastiano o le reliquie di S. Aurelio, mentre nella tradizione protestante non è prevista la venerazione dei santi o della Madonna; la Baviera poi è un Land a netta maggioranza cattolica. L’interno della chiesa, in stile gotico, è imponente e severo, carattere accentuato dal silenzio per l’assenza quasi totale di persone, dalle sue altissime navate, e dalle pareti disadorne se si eccettuano le vetrate di alcune finestre istoriate con scene bibliche e i quadri sugli altari. All’improvviso veniamo strappati alla contemplazione dal suono cupo e avvolgente di un organo (solo ora lo noto, enorme e moderno, alle mie spalle, sulla parete d’ingresso della chiesa) che esegue a tutto volume una fuga che assegnerei a Bach, ma è solo un’attribuzione azzardata dovuta alla mia ignoranza in materia.
Riprendiamo la pedalata, sotto una pioggerella insignificante che serve solo a inumidire l’aria, attraversando oltre a qualche piccolo borgo di cui è facile perdere la memoria, tanta campagna coltivata prevalentemente a granturco o a cereali, in un’alternanza di verde e marrone o nero, laddove dopo la mietitura le stoppie sono state bruciate.
È forse un tratto meno interessante e vario dei precedenti, ma noi ci consoliamo prontamente presso uno dei tanti Biergarten che anche fuori dei centri abitati costeggiano la strada, offrendo ombra, qualcosa da mangiare e, naturalmente, birra. Non si tratta di ristoranti, osterie o bar, piuttosto di una via di mezzo tra a birreria e lo snack all’aperto e (come gli Imbiss bavaresi e austriaci) sono una simpatica istituzione germanica capace di risolvere il problema di un rapido lunch in maniera rapida ed economica.
Ci accomodiamo al fresco sotto un pergolato e, tanto per cominciare, ordiniamo una birra “media”, poi ognuno un piatto diverso a base per lo più di würstel, io su suggerimento di J. che ci tiene a farmi assaggiare ogni volta un cibo diverso, chiedo un Käsebraten mit Brot und Salat. Arrivano intanto le birre “medie”: un boccale riempito fino alla tacca da 500 cc, un’enormità per me che ho quasi perso l’abitudine a bere alcoolici e non credo di aver raggiunto il totale di 3 litri di birra in tutta la mia vita; però è fresca, è buona e scende giù che è una bellezza. Dopo averne assaporato un po’, a cominciare dall’abbondante schiuma, mentre i miei compagni la scolano per intero e ne ordinano una seconda di altra marca, aspetto che arrivino le pietanze. E qui viene il bello: mi portano un vassoio con sopra quattro fette di pan carré, uno spicchio enorme di formaggio, brie credo, impanato e arrostito, accompagnato da una foglia di lattuga su cui è adagiata della marmellata di ribes e in un altro piatto un’insalata mista con una Käsesoße. Mi ci vuole un bel po’ per finire il cibo e la birra e alla fine, completamente sazio mi alzo da tavola, col timore però di non essere abbastanza sobrio per pedalare, mentre Lothar, che è il “birrologo” del gruppo, si fa portare un terzo boccale di birra, ma stavolta “piccolo, perché non voglio appesantirmi” (ma quanto bevono ‘sti teteschi?). In realtà le gambe girano in modo sorprendentemente sciolto, come se la birra bevuta contenesse chissà quale miracoloso additivo dopante; con la coda dell’occhio spio Lothar, che da gran bevitore e iron man qual è dovrebbe volare, ma in realtà la sua velocità è la solita e l’unico effetto visibile delle sue bevute è costituito dalle ripetute fermate tecniche che deve effettuare.
A un certo punto, uscendo da un paesino, ci troviamo di fronte un “muro”: la strada si inerpica all’improvviso su un poggio che non c’è modo di aggirare; J. consulta le informazioni raccolte sullo smartphone e ci conferma che la salita è lunga solo alcune centinaia di metri, ma si aggira intorno al 15%; poi parte per primo. A ruota gli va dietro Lothar, poi Jan che dopo qualche decina di metri decide saggiamente di scendere e farsela a piedi e infine io. Inutile prendere la rincorsa: lo slancio si esaurirebbe dopo pochi metri; perciò metto subito la combinazione più leggera di cui dispongo, il 34/28 e cerco di trovare prima possibile il ritmo giusto. Supero subito Jan e pian piano mi avvicino a Lothar sperando di tenerne il passo senza mollare, ma è lui a mollare: a metà salita appena rallenta sensibilmente, senza forzare lo affianco e lo supero, stando attento a non accelerare inutilmente, come pretenderebbe qualche barlume di antico agonismo; mi basta non perdere di vista J. che è inarrivabile, là davanti.
Pedalata dopo pedalata, mentre intravedo alle mie spalle anche Lothar spingere il suo mezzo a piedi, la pendenza diminuisce e finalmente la strada impiana: proseguo qualche centinaio di metri oltre J., che intanto è sceso di bici per scattare qualche foto a noi arrancanti inseguitori. Tornando indietro noto sull’altra corsia un cartello con l’avvertenza di un’imminente discesa con pendenza al 18%. Sono quasi euforico: è la stessa di alcuni tratti del Mortirolo! Sì vabbè, qui era di un km scarso, però con un centinaio di km nelle gambe, e poi con in più il peso dei bagagli, e poi è la prima volta che supero una salita di questo grado, e poi sono riuscito a arrivare secondo “fra cotanto senno” e poi, e poi… A interrompere questa frenesia di autoesaltazione, arriva un perentorio “ALLE DA!”, perché ormai ci siamo tutti, pronti a riprendere la marcia; ma alla ripartenza, visto che non sono previsti a breve dei bivi o dei centri abitati in cui poter sbagliare direzione, pedalo fischiettando in testa alla colonna e mi godo le discese a rotta di collo, prendendo anche qualche leggero rischio nelle curve più strette o bagnate.
L’ultima parte del percorso odierno non prevede tratti impegnativi o luoghi di particolare interesse; attraversiamo ancora qualche paese come Ammemdorf e Cadolzburg e finalmente raggiungiamo Bubenreuth alla periferia di Erlangen. L’albergo che Lothar ha prenotato qui è il Landgasthof Mörsbergei: è un 4 stelle, in cui una doppia verrebbe a costare sugli 85€, ma Lothar l’ha spuntata a una settantina soltanto, il che significa circa 35 € a testa!
A cena oltre all’immancabile birra (giù un altro mezzo litro) mi faccio portare un piatto non particolarmente originale, ma comunque una specialità del luogo e del periodo: la Pfifferlingen Suppe (una zuppa di finferli o funghi gallinacci, in versione vegetariana), seguita da insalata e dolce, una sorta di tiramisù da 10.000 Kcal a cucchiaio. Anche questa cena si rivela più che sufficiente per le esigenze caloriche, ma decisamente economica; non ricordo quanto ho speso esattamente, comunque, come resto a una banconota da 20 € ho ricevuto varie monete da 1 o 2 €; ma in Germania il costo della vita non dovrebbe essere superiore al nostro (tanto più che i loro salari medi sono più alti che da noi)?
Dopo la solita passeggiata serale, buona per la digestione e lo smaltimento della birra, si va a dormire; la stanza, situata in un cottage terra-tetto, è ampia, ma risente ancora del caldo umido della giornata; però quando apro la finestra per far circolare un po’ d’aria, entrano nugoli di zanzare e J., che è particolarmente sensibile alle loro punture, mi scongiura di chiudere. Grande Paese la Germania, bello, moderno, civile; però, quando torno in Italia, bisogna che mi ricordi di inviare alla Merkel qualche catalogo di zanzariere, avvolgibili e bidet. Intanto (proviamo) a dormire.
Percorsi 142 km circa in 6h:25, superate varie alture per un totale di 900 m. in salita e 1100 in discesa
3 giorno: Bubenreuth – Hof
Notte calda e afosa, ma è il primo giorno che non piove alla partenza, anche se il cielo è uniformemente grigio, però sono nubi di calore che dovrebbero dissolversi col passar delle ore.
Prima tappa: Forchheim. Passando sul ponte sopra un corso d’acqua all’ingresso in città mi pare di leggere qualcosa come “Canale del Danubio” mi riprometto di chiedere a J. informazioni in proposito; Forchheim è un centro di media grandezza della Franconia, regione storica oggi incorporata nella odierna Baviera. Come Dinkelsbühl e altre città germaniche –mi spiega J.- fu coinvolta nella sanguinosa guerra dei trent’anni e grazie alle sue fortificazioni, poté resistere a un lungo assedio, guadagnandosi un appellativo irriverente di cui però non sono riuscito a capire né il nome né la ragione, nonostante ormai J. abbia abbandonato il suo fantasioso italiano per un buon inglese (di cui spesso sono io a fare una fantasiosa traduzione). Anche la scenografia si ripete: il centro storico è rigorosamente pedonalizzato, con strade lastricate e le solite case a graticcio che conferiscono vivacità all’ambiente e ne costituiscono una nota di colore che, pur sempre gradevole, ormai non è più una novità; a casa, riguardando le foto, tutte abbastanza simili, che sto scattando in questi giorni, avrò qualche problema a collocarle nei giorni e nei luoghi giusti.
In questo tour, ogni giorno, agli incroci con altre strade ci sfilano accanto cartelli che mescolano nomi del tutto sconosciuti ad altri più o meno noti, magari soltanto per sentito dire, che si riferiscono a fatti tra loro diversissimi: l’originario casato dei Windsor, il luogo d’origine di una casata imperiale germanica, la caccia alle streghe, le sedi di importanti industrie automobilistiche, il processo ai gerarchi nazisti, festival musicali… Ricordo Stuttgart, Hechingen, Würzburg, Coburg, Bamberg, e soprattutto Nürnberg e Bayreuth per quello che evocano della storia e della cultura non solo tedesca, ma europea.
A questi si aggiungono in infinita schiera i nomi di piccoli borghi o villaggi dai nomi difficilmente pronunciabili e soprattutto memorizzabili, a causa anche delle identiche terminazioni (-ingen, -angen, -dorf, -berg, -burg, -haus, -hof, -reuth, -itz, -ach, -au…); noi li attraversiamo, senza fermarci e spesso degnandoli appena di un’occhiata, mentre il nostro viaggio prosegue verso Est o Nord-Est: ci stiamo avvicinando, infatti, al limite nordorientale della Baviera, in direzione del confine con la Repubblica Ceca, che però non toccheremo, per salire più a Nord ed entrare in Sassonia.
Al primo Biergarten, sosta obbligatoria per i rifornimenti; dopo aver fatto fuori il mio solito mezzo litro di birra, ho ancora sete, ma non me la sento di ordinarne un’altra, anche se ho ormai constatato che non ha alcun effetto negativo sulle mie prestazioni –si fa per dire – atletiche; Jan, allora mi propone un Apfelschörle, l’accetto alla cieca, curioso della novità e scopro che si tratta di un mix di succo di frutta (mela, in genere, ma non solo) con acqua tonica e talvolta una scorza di agrumi; faccio prima a trangugiarlo e a ordinarne un altro che a impararne la pronuncia, anche perché Jan è molto esigente dal punto di vista linguistico e in particolare fonetico: dopo vari tentativi di Affenshorgle, Aftershorle, Apfelkogler, Apfelskurle, Apfel-shorgle, ognuno severamente bocciato dal mio maestrino dalla penna rossa (ma come sono pignoli ‘sti teteschi!), finalmente imbrocco la risposta giusta e mi merito la promozione; ma non posso fare a meno dentro di me di sorridere e pensare che almeno in questo noi italiani siamo un po’ più elastici: nessuno si sognerebbe di rinfacciare la sua dizione ridicola a un turista tedesco che chiedesse un piatto di “Schpaketti ai qvattro formacci” Al tempo stesso, a futura memoria, mi impegno adesso a ricordare questi miei penosi sforzi di oggi nel momento in cui mi sembrerà incomprensibile che le mie anziane e poco alfabetizzate allieve del corso di italiano per migranti trovino difficile pronunciare parole per me semplici come studenti, valigia, abito, sciogliere… Il rovesciamento delle situazioni e dei ruoli, a ben pensarci, può essere un utile esercizio di tolleranza che andrebbe ripetuto più spesso e sono contento che un banale apfelschörle me lo abbia rammentato.
Si va avanti ora in fila indiana, ora a coppia; a seconda del compagno con cui chiacchiero, io alterno la mia posizione, ma preferisco pedalare in testa, anche perché durante le discese più veloci mi trovo spesso davanti Lothar che inspiegabilmente frena e sorpassarlo ogni volta mi sembra un atteggiamento vagamente arrogante, nonché pericoloso, quando per scartarlo devo portarmi in mezzo alla carreggiata.
Generalmente seguiamo percorsi ciclabili veri e propri, cioè riservati esclusivamente alle biciclette (il che non vuol dire che siano poco trafficati da velocipedi d’ogni sorta, specialmente in prossimità dei centri abitati) e segnalati da un apposito cartello; a volte invece percorriamo stradine di campagna in cui è comunque raro trovare veicoli a motore (e si tratta per lo più di un mezzo agricolo o del pick-up di qualche contadino); pare insomma che la gran massa dei motorizzati abbia voluto lasciarci la strada libera. In realtà il traffico in Germania non è meno intenso del nostro, ma privilegia le vie di grande comunicazione (anche perché la rete stradale è più ampia), mentre per gli spostamenti locali a piccolo raggio utilizza l’auto meno che da noi, o almeno questa è la mia impressione. D’altra parte è proprio su questi tratti “tranquilli” che J. ha impostato la rotta del suo navigatore.
Mentre stiamo percorrendo una larga pista ciclabile che corre parallela ad una strada regionale, vedo sulla nostra traiettoria, 50-70 m. davanti a noi, una vettura in sosta che occupa buona parte della sede stradale. In realtà avremmo lo spazio per passare, magari rallentando un po’ per sicurezza, ma J. sfiora l’auto e deliberatamente con un pugno colpisce lo specchietto, piegandolo con forza. Il pilota, che stava armeggiando con un cellulare, colto alla sprovvista, sobbalza all’urto e borbotta qualcosa, ma J., fermatosi davanti all’auto, lo apostrofa con un torrente di parole, di cui non ne afferro nemmeno una, ma che dal tono minaccioso lasciano capire benissimo il senso generale. Lo sventurato non risponde. e mentre ad uno ad uno gli sfiliamo accanto come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, nel suo affaccendarsi a testa bassa sul cruscotto è evidente il senso di colpa che gli ha impedito di replicare. Voltandomi pochi secondi dopo, lo vedo reimmettersi sulla strada principale. Il mio plauso silenzioso va a J., vendicatore degli oppressi, ma non so se uno Zorro a pedali avrebbe lo stesso successo da noi.
Passata Ebermannstadt, dove una grossa ruota a pale è piazzata in mezzo al fiume che attraversa la città, arriviamo a Streitberg, una minuscola successione di case addossate a un poggetto sulle quali incombe minaccioso uno sperone di roccia; ma non è questo il motivo per cui ne ricordo il nome: all’improvviso ci si para davanti un’erta quale poche volte mi è capitato di vedere; se quella di ieri mi era parsa un “muro”, come dovrei chiamare questa? Ne approfitto per fermarmi e stringere la vite di regolazione del deragliatore (ultimamente la catena mi è già saltata un paio di volte da un rapporto all’altro) e per controllare l’altimetro: segna 345 m. Intanto gli altri partono; al solito J. l’affronta per primo, pedalando in agilità, ma dopo qualche decina di metri è già ritto sui pedali e si nota lo sforzo che fa per mantenere l’andatura; Lothar parte veloce, ma dopo poche pedalate ci ripensa, scende e prosegue a piedi; Jan saggiamente non ci prova neanche e si incammina tranquillo per la salita. Io inserisco immediatamente il rapporto più agile, per non dover cambiare sotto sforzo subito dopo, e mi avvio spingendo non solo con le gambe ma con le braccia, il tronco, il corpo intero; cerco di imprimere una pedalata “rotonda” spingendo con un piede e tirando con l’altro alternativamente, senza intervalli ed evitando “azioni a stantuffo” poco produttive dal punto di vista energetico. Cento metri, non accelerare, duecento, guarda avanti, trecento, respira in profondità, quattrocento, non ondeggiare, cinquecento, concentrati sulla ruota anteriore, seicento, non voltarti, settecento, non mollare, dovremmo esserci quasi. Non so se mi scoppieranno prima le gambe o i polmoni, ma quando sento un grido d’incoraggiamento, scorgo J., sul ciglio della strada con lo smartphone in mano per la foto di rito. Ce l’ho fatta, ma non mi fermo, continuo sulla stradina ormai pianeggiante in cerca di un cartello che indichi la pendenza della salita appena superata; e poche centinaia di metri dopo trovo il segnale di pericolo con sotto l’incredibile cifra di 25%! Non è possibile! Torno accanto a J. e controllo l’altimetro: segna 465 m. dunque 120 m. di dislivello in 700 m. circa, che equivalgono a una pendenza del 17%, forse con un calcolo più preciso della distanza si può arrivare a un 18%, ragguardevole ma non certo il 25%, che d’altra parte sarebbe stato onestamente impossibile per le mie forze (ma non erano precisi e infallibili, ‘sti teteschi?).
Arrivano intanto anche Lothar e Jan, pure loro provati e approfittiamo di una breve sosta per scambiare due chiacchiere. Ma è tutta così la Germania, fatta di improvvise salite assassine? Ma lontano dalle Alpi non dovrebbero cominciare le pianure? Macché, mi spiega Jan, le uniche pianure sono a Settentrione vicino alle coste del mare del Nord e del Baltico. Anzi, rincara J., oggi toccheremo la quota più alta di tutto il tour: 800 m. circa. Rassegnato riparto, pensando “Beh, almeno siamo già a quasi 500 m.”. E, infatti, la strada continua a salire dolcemente per un po’ poi, all’altezza di Wustenstein ripiomba in basso, per poi risalire e riscendere in un’altalena continua per una cinquantina di km, in cui ancora una volta si susseguono villaggi e paesi, grandi distese di grano e granturco, boschi e ruscelli.
In alto su qualche crinale, svettano a tratti gruppi di torri eoliche, mentre lungo la strada incontriamo un paio di campi in cui sono piazzati uno accanto all’altro a centinaia di pannelli fotovoltaici; in un caso, poi ci sono due gruppi di pannelli orientati a 90° l’uno dall’altro, senza un’apparente spiegazione logica, se non che si tratta di una centrale in qualche modo sperimentale. Jan mi spiega anche che negli ultimi tre anni lo sviluppo di energia solare è tanto cresciuto da andare fuori controllo per cui il governo Merkel ha deciso di ridurre o eliminare in futuro gli incentivi al fotovoltaico, causando forti proteste da parte dell’opposizione; i miei amici propendono – mi par di capire e non solo per quanto riguarda la politica energetica – per la posizione governativa, tanto più che la quota di energia prodotta dalla Germania è enorme (primo posto assoluto in Europa e il doppio dell’Italia che viene al secondo posto); anche sull’eolico ci sono forti contrasti soprattutto da parte delle comunità locali, le quali temono che l’impianto di altre centinaia di turbine, oltre a disturbare gli insediamenti umani nelle loro vicinanze, possa deturpare il paesaggio. Ma questi aspetti della questione energetica e le relative contrapposizioni politiche, al momento, sono temi condizionati dalla campagna elettorale per le imminenti elezioni di settembre.
Parlando e pedalando abbiamo raggiunto Hof senza (quasi) accorgerci della “terribile salita” che J. ci aveva prospettato e che si è rivelata sì impegnativa per la sua lunghezza, ma certo meno aspra delle altre incontrate oggi.
Hof è una città piuttosto grande e moderna, anche se conserva l’immancabile Altstadt medioevale; ricostruita nelle parti danneggiate durante la II Guerra Mondiale; per la sua posizione vicino al confine con il Land della Sassonia e con la Repubblica Ceca è stata, a quanto mi dicono, un punto di intenso transito dei fuggiaschi d’oltre cortina.
La struttura che ci ospiterà questa notte è l’Hotel Am Kuhbogen, non più un Gasthaus di paese, ma un vero e proprio albergo in centro città. Solo che al momento dell’ assegnazione delle camere, viene fuori che solo una delle stanze risulta prenotata, nonostante Lothar si affanni a produrre prove contrarie; la discussione si protrae per una buona ventina di minuti, mentre noi ce ne stiamo accampati sugli scalini davanti alla Reception, ma l’attesa mi pare poco giustificata, visto che ci sono numerose camere disponibili (ma quanto sono fiscali ‘sti teteschi!) e rimediare adesso alla prenotazione eventualmente mancante non mi pare un problema; infatti alla fine ci viene assegnata una stanza, tra l’altro molto ampia, dotata di ogni confort, caccia alla zanzara compresa, che J. non si lascia sfuggire (la caccia, perché la zanzara continuerà a ronzargli intorno tutta la sera).
A tavola mi raccomandano un piatto tipico (per la verità non proprio del posto, in quanto svevo d’origine) e particolarmente nutriente necessario dopo le fatiche della giornata: Käsespätzle (una sorta di pasta all’uovo fatta a mano con un procedimento particolarmente complesso che provano a mimare con effetti comici), seguito da un piatto di verdure grigliate e da un dolce, il tutto innaffiato dall’eterno mezzo litro di birra.
A fine cena, quasi sottovoce e con un tono fra l’ imbarazzato e il confidenziale, Jan mi esprime la sua preoccupazione (ma è anche quella degli altri, a quanto deduco dal loro annuire mentre lui parla) sul mio modo di guidare, stando nel mezzo della carreggiata o zigzagando. La cosa da un lato mi intenerisce, da un altro mi fa sorridere, da un altro ancora mi suscita qualche interrogativo: è vero che di solito, nelle strade di casa, amo la velocità e le discese a rotta di collo, non sono il massimo della prudenza, non pedalo rasentando il lato destro della carreggiata, compio dei sorpassi azzardati, insomma trasgredisco qualche regola, sempreché ciò non implichi veri pericoli per me o per altri; ma qui in Germania mi pareva di essermi comportato più che correttamente, con un’osservanza quasi pignola e pedante delle norme; oltretutto, concludo, se viaggio un po’ in mezzo di strada, è proprio per cautelarmi prudentemente dalle portiere delle auto che all’improvviso vengono aperte. Non credo di essere riuscito a convincerli e a tranquillizzarli (ma se avessero conosciuto cosa è realmente il traffico in Italia e quanto polemico ai limiti dell’ aggressività è il rapporto tra i vari utenti della strada…); comunque mi riprometto di essere (beh, provare ad essere) più cauto in futuro.
La serata si conclude con una passeggiata nella Altstadt dove troneggia suggestiva per l’illuminazione dal basso, la Marienkirche, con ai lati della facciata le sue due torri-campanile che in alto si dissolvono nel buio della notte senza luna. Ma la sera è ventosa e presto ci si ritira in camera
Inutile proporre a J. di dormire con la finestra aperta per combattere il caldo. Nel dormiveglia, lo sento combattere a cuscinate contro vere o presunte zanzare che ronzano non facendolo dormire. Mi basta questo per consolarmi della mia semi-sordità
Percorsi 124 km circa in 6h:08, superate varie alture per un totale di 1240 m. in salita e 1250 in discesa
4 giorno: Hof – Geithain
Se stanotte J. ha lottato contro le zanzare, io me la sono vista con gli scricchiolii del mio letto: la stanza era davvero spaziosa, predisposta per tre persone, solo che ieri sera, dopo aver lavato la mia roba, l’avevo appoggiata distrattamente su uno dei tre letti e, quando me ne sono accorto, questo era ormai umido; perciò mi sono trasferito su quello restante, che aveva le doghe centrali cigolanti; così ogni volta che l’indolenzimento alla spalla mi faceva cambiare posizione, iniziava un concerto di crepitii e scricchiolii.
Per fortuna una buona colazione è capace di supplire anche alla fame di sonno, per cui, mangiando per due, probabilmente mi premunisco pure contro l’eventuale insonnia della notte che verrà; detto fatto aggiungo al mio piatto anche un po’ di appetitosa insalata russa, delle fette di formaggio misterioso e perfino un uovo sodo (Lothar, di regola ne fa fuori almeno un paio…).
Così zavorrato parto per la tappa n° 4, che si concluderà a un centinaio di km da Dresda, il traguardo finale. Dovrebbe essere una tappa di lunghezza inferiore a 120 km e prevalentemente in discesa, ma ho imparato a non illudermi: fare almeno una decina di km in più è fisiologico e, anche se la quota d’arrivo sarà inferiore a quella di partenza – come mi assicura J. mostrandomi i grafici sul suo smartphone – ci sarà nel mezzo la solita dose di saliscendi; ormai ho pienamente verificato quanto sia esatto l’assioma di Paolo secondo cui in Germania non esistono pianure.
E infatti basta uscire dall’albergo che dopo una discesa a freni tirati ci tocca riprendere quota altrettanto bruscamente in mezzo allo sfrecciare di auto e moto lungo la strada principale. Usciamo finalmente dalla periferia della città e puntiamo decisamente verso Nord. Come ieri il cielo è velato e c’è un vento discretamente teso e fresco che mi fa gelare il sudore addosso; così, per cercare di scaldarmi mi metto in testa al gruppo a tirare, ma i muscoli sono ancora freddi o forse la digestione dell’ uovo sodo (e di tutto il resto) è più laboriosa del previsto. Sta di fatto che faccio parecchia fatica anche a pedalare in pianura. Ad un bivio poi, fraintendendo le indicazioni ricevute, prendo la via sbagliata e devo tornare indietro e raggiungere gli altri arrancando a lungo per una salita. Dopo tre giorni in cui le mie gambe si sono comportate egregiamente, oggi evidentemente è un momento no; beh, anche i grandi campioni hanno la loro giornata nera, no?
Costeggiamo un lago stretto e lungo (o forse sono due oppure è solo un fiume che si amplia tra due valli) e raggiungiamo la città di Plauen, ma, senza visitarla, ne attraversiamo solo la periferia. Mi limito a inviare un sms a Paolo che due mesi fa esatti, durante il suo viaggio solitario verso Capo Nord, ha sicuramente intersecato a Plauen la strada in cui mi trovo ora io. Mi sembra così di recuperare in qualche modo una briciola di quel viaggio che non ho potuto fare, anche se il suo di allora e il mio di ora non sono confrontabili per itinerario, meta finale e distanze percorse.
Siamo entrati in Sassonia già da un po’, ma i paesaggi si susseguono senza mutamenti apparenti: ancora campi di grano, boschi, altopiani, vallate, colline; è, questa, una Germania che sembra non finire mai, o forse sono io a vederla così oggi che mi sento più affaticato del solito.
A grande richiesta andiamo in cerca di un caffè o un biergarten per la pausa cappuccino di metà mattinata, ma sembra che siano tutti spariti. A un certo punto la strada si apre su un ampio lago; tra la strada e la riva ghiaiosa si stende un bosco rado di alberi ad alto fusto e querce che ospita un resort; scendiamo al lago, dove troviamo camping, bungalow, un caffè-ristorante e una decina di pedalò in secco sulla riva; ma di persone, nessuna traccia: tutto chiuso. Non ci resta che fare qualche foto al lago, che poi è un bacino artificiale costruito per produrre energia idroelettrica, e ripartire in cerca di un bar. Neanche un km dopo troviamo un’ insegna che indica un Imbiss, ma non abbiamo miglior fortuna: anche questo è chiuso. Il malumore è in linea col colore del cielo che è ora di un bel grigio plumbeo con sfumature violacee o antracite. Non c’è niente di meglio che non poter disporre di un bene per desiderarlo ancor più intensamente; se poi il bene è rappresentato da qualcosa connesso con i bisogni essenziali dell’uomo, come il mangiare o il bere, il desiderio diventa necessità, la necessità urgenza, l’urgenza crisi e la crisi panico: tutti, compreso il mio stomaco in cui fluttua ancora da qualche parte un uovo sodo, avvertono l’ impellenza di trovare quanto prima una fetta di Quarkkuchen e un cappuccino.
Intanto si è messo a piovere all’improvviso, sorprendendo tutti senza darci modo di indossare in tempo mantelline e copri zaini. Sulla strada viscida e sferzata da un vento obliquo, procediamo lentamente per vari km battendo la campagna e i (pochi) paesini che incontriamo alla ricerca di qualche Cafe; ma non dev’essere il giorno fortunato, oppure questo tipo di esercizi prevede il turno di chiusura di mercoledì.
Finalmente troviamo un centro urbano più grande, dal nome impronunciabile (di quelli con 6 o più consonanti di fila), Netzschkau. Speranzosi vi entriamo prendendo in direzione del centro una strada a senso unico ma contrario, io e Lothar su un marciapiede (che spesso in Germania viene usato lecitamente come alternativa alle piste ciclabili), J. e Jan sulla carreggiata, fidando nel fatto che dove c’è la “zona 30” le bici possono procedere contromano; ma la strada oltre che scivolosa è anche in ripida discesa e oltretutto con una stretta curva in fondo. È sufficiente che un’auto salga su tagliandola al centro e che J. l’affronti allargandosi un po’ troppo baldanzosamente e, schriiik, l’evitabile diventa inevitabile. Nessuno si fa male, ma dall’auto un ottuagenario esce zoppicando e con la testa fasciata; lì per lì la mia esterofilia mi fa attribuire la fasciatura alla rapidità ed efficienza dei servizi sanitari tedeschi, poi diventa chiaro che l’omino era messo male di suo già da prima; comunque stare fermo in mezzo di strada sotto la pioggia non è che gli faccia molto bene, tanto più che il danno si risolve in una strisciata nera causata dal nastro del manubrio e subito sparita con l’aiuto della pioggia e di un fazzolettino e in un’ ammaccatura men che millimetrica, praticamente invisibile. J. resta imperturbabile e fornisce i dati personali e della sua ciclo-assicurazione (ma come sono previdenti, ‘sti teteschi!), ma la moglie dell’omino esce dall’auto e anziché curarsi del marito, rimasto bloccato e immobile sotto l’acqua, inizia a questionare – peraltro in forma teutonicamente rispettosa, ma decisa – usando molti termini pieni di K, TZ, STR, NZ, W,F, KL, SCH, che rendono tanto espressiva e musicale la lingua tedesca. La scena è surreale, ma anche un po’ bagnata e finalmente sul teatrino cala il sipario e l’improvvisata compagnia si scioglie.
Riprendiamo il cammino con un po’ più di prudenza, ma anche di umidità e fame; d’altra parte ormai si è fatta davvero l’ora di pranzo. Dopo essermi fatto attrarre, come Odisseo dalle sirene, dall’insegna accesa del Ristorante “Roma”, chiuso, finalmente approdiamo ad una minuscola pasticceria che riempiamo completamente con le nostre persone e gli zainetti. Seduti all’unico tavolino ci saziamo a volontà di cappuccini e dolci, scegliendo tra pretzel, krapfen, käsetorte, gugelhupf, schokoladenbrezel, schwarzwalder kirschtorte, e chissà che altro, in cui l’ingrediente più light sembra essere la panna, ma abbiamo bisogno di calorie e io personalmente non mi tiro indietro, anche se J. si sente in dovere di precisare che non tutti sono prodotti tipici della pasticceria sassone, come se io davanti a dei dolci, oltretutto affamato, fossi il tipo da farmi certi scrupoli.
Avanti ancora; dopo pochi km, a Mylau, incontriamo un’altra salita micidiale, che un cartello preannuncia al 18%, ma io non ci casco più e infatti a fine salita la verifica mi dice che la pendenza si attesta poco oltre il 10%.
Dopo Mylau, Werdau, Crimmitschau, Glauchau, etc. (dev’essere di moda il suffisso –au, da queste parti) arriviamo a Weidensdorf. Qui una serie di lavori in corso ci costringe a delle deviazioni, facendoci compiere qualche giro di troppo e fermandoci spesso a chiedere: lo smartphone di J. si è ammutolito misteriosamente e non gli dà più indicazioni a voce, forse per un guasto all’auricolare oppure a causa della pioggia presa. Jan allora tira fuori una cartina dalle sue borse e si mettono tutti e tre a consultarla, ma senza gran successo, evidentemente, se alla fine sono costretti a telefonare ad amici e parenti perché cerchino sui loro pc la strada giusta e gliela comunichino. Così J. sul Samsung pesca come può il nome di una località, lo passa a Lothar che tramite cellulare chiede, probabilmente al fratello a Dresda di verificarlo, poi restituisce le informazioni sul percorso a Jan, che le verifica sulla cartina; se va bene il turno passa nuovamente a J., altrimenti stop e ritorno alla casella di partenza. In questo strano gioco dell’oca, non comprendo una parola di quel che dicono, ma dai toni concitati, vedo che sono un po’ tesi; l’unico che, oltre a non capire niente, non fa nemmeno niente, anzi ridacchia sotto i baffi per questa inaspettata defaillance della tecnologia, sono io, consapevole di sfruttare passivamente gli sforzi altrui e di essere un ingrato nei confronti di quel povero smartphone che finora ci ha risolto ogni problema. Finalmente uno del posto ci dà una mano e ci toglie dall’impasse, spiegando da dove passare. Si riparte più sereni, ma intanto Uomo batte Macchina 1 – 0 !
Altri villaggi, altri appezzamenti coltivati, altri prati, altri scollinamenti; tutto sembra ripetersi senza particolari novità, o forse sono io che, ormai al sesto giorno di Germania, mi sono assuefatto. Eppure qualcosa di diverso c’è: forse le colline si sono arrotondate, forse i tratti pianeggianti sono aumentati,o forse sono i colori caldi della terra riarsa, dopo la mietitura, a dominare; ma non sono convinto. Poi arrivando in un villaggio senza nome, quattro casupole nel folto di un bosco che potrebbero andar bene per ambientarci la fiaba di Hänsel e Gretel, capisco cosa c’è che non va: queste costruzioni e quelle viste di recente sono diverse, non tanto per le dimensioni o la forma, quanto per l’aria dimessa che hanno: sono tutte intonacate di un colore grigio spento, lo stesso degli infissi, quasi mai affiorano dai muri le travi di legno della struttura a graticcio, scarseggiano i vasi da fiori e manca del tutto qualunque elemento decorativo; insomma l’impressione generale è quasi di abbandono o miseria. Mi spiega J. che questa è in effetti una zona povera, che a differenza di altre non si è ancora risollevata dalla condizione di arretratezza in cui versavano città e campagna sotto il regime comunista della DDR: prima del 1989 era raro che un privato potesse permettersi di restaurare e curare periodicamente la struttura in legno delle case medioevali o comunque molto vecchie, per cui preferivano adottare la situazione meno costosa di coprire il legno con cemento o intonaco; ed anche questi erano disponibili in un solo colore, il grigio appunto, che era il più economico, ma rendeva tutte le costruzioni uguali e monotone. Solo dopo l’unificazione e con grande sforzo economico la ex Repubblica Federale Tedesca ha potuto risollevare – e non ancora dappertutto – le condizioni di vita della ex-Germania Est. Nelle parole di J. Lothar e Jan vibra ancora la commiserazione, se non la rabbia per quel periodo oscuro e greve della loro storia, che probabilmente noi italiani, facciamo oggi fatica a comprendere appieno.
Prima di lasciare quest’area depressa e deprimente, ho l’occasione di vedere per la prima volta da vicino, quello che è stato il vanto (si fa per dire) della limitata industria automobilistica della DDR; nel cortile interno di una abitazione mi colpisce una insolita macchia di colore: è una mitica Trabant, di colore blu, tirata a lustro; dev’essere stata, almeno agli inizi, l’orgoglio del suo proprietario, anche se oggi la cilindrata, le prestazioni e le dimensioni ridotte (ricorda, ma non in meglio, la nostra vecchia “Bianchina” degli anni ’50-60), insieme alla carrozzeria in plastica e ad un discutibile livello di affidabilità (vituperato forse più di quanto meritasse) ne fanno il bersaglio dell’ironia e dello scherno di molti contemporanei.
Sono già le 14 passate e insieme alla batteria del Samsung che si è definitivamente scaricata, è ormai a secco anche il nostro stomaco, perciò torniamo cercare un biergarten, in cui mangiare un boccone, ma l’impresa si rivela impossibile: ci segnalano il ristorante-pizzeria “Dolce Vita” gestito ovviamente da un italiano (come i tre quarti di questi esercizi in Germania) quasi omonimo del nostro Capo dello Stato, ma lo troviamo irrimediabilmente chiuso. Alla fine – e siamo fortunati – ci dobbiamo accontentare di un chioschetto davanti a un centro commerciale, dove gli altri rimediano un hot-dog e io un piattino di patate arrosto ripassate –pare- nella pancetta. J. si sente responsabile del fatto che io debba venir meno ai miei principi alimentari, ma lo rassicuro: non sono un talebano del vegetarianismo e per una volta, in situazione d’emergenza, posso fare un’eccezione, tanto più, poi, che la pancetta è invisibile, seppure c’è. Da bere Apfelschörle per tutti. Intavoliamo una chiacchierata sull’essere vegetariani, argomento a cui J. si mostra sensibile e forse, ma è solo un’impressione, sente scalfito quel complesso di superiorità che spesso i popoli anglosassoni hanno nei confronti degli italiani, dei quali amano il Paese, il clima, i paesaggi, l’arte, ma ammirano assai meno gli abitanti, secondo l’icastica espressione “un Paradiso abitato da diavoli” che viene erroneamente attribuita a Goethe. Perciò, quando spiego che le mie scelte dietetiche non derivano da necessità sanitarie o da preferenze del gusto, ma dal cercare a modo mio, di mettere in pratica dei principi, pur tra mille contraddizioni e soprattutto senza la pretesa di avere la verità in tasca, lui risponde un po’ esitante, come impreparato, scusandosi di “dover” mangiare carne (“e comunque molto meno che in passato”) e ho quasi il dubbio che gli secchi che almeno su certe questioni etiche il piccolo italiano abbia convinzioni più ragionate delle loro.
Dopo un paio di falliti tentativi di percorrere una ciclabile, non potendo contare sul navigatore per orientarsi a ogni piè sospinto nella ragnatela di incroci e stradine, decidiamo di utilizzare Landesstraßen e Bundesstraßen, che in effetti compensano l’essere più brevi, diritte e scorrevoli col pericolo di un traffico intenso e veloce. Infatti, anche se procediamo in fila indiana sul bordo destro della strada, veniamo continuamente investititi dalle masse d’aria che soprattutto gli automezzi più grossi ci rovesciano addosso sorpassandoci a tutta velocità. Il timore di incidenti e la concentrazione sulla guida sono tali che non mi accorgo nemmeno di aver superato i 1.500 km dalla partenza da casa.
Fortunatamente Geithain, la nostra meta di oggi, non è lontana e la raggiungiamo in tempi relativamente brevi. L’ Hotel Leipziger Land è semplicemente superbo: camere spaziose (calcolo, a occhio, 35-40 mq), luminose (una vetrata occupa un’intera parete e una striscia del soffitto) e fornite d’ogni confort, dai cioccolatini sul letto, all’acqua in frigo e, per la prima volta,perfino di bidet. Nella hall una parte della parete è occupata da scaffali su cui sono coricate bottiglie di vini pregiati molti dei quali italiani: Amarone, Corvo, Negramaro, Sassicaia…
Dopo la sistemazione delle nostre cose in camera e le docce di routine, ci incamminiamo verso il ristorante indicatoci dal maitre: è l’ Athen, un ristorante greco (nel campo della ristorazione i greci, al secondo posto dopo gli italiani, sono abbastanza numerosi) in una stradina della parte più bassa di Geithain. Appena seduti, tanto per gradire, un brindisi con un bicchierino di ouzo, poi antipasti e focaccine e per me un vassoio di insalata con feta e olive, ovviamente, greca, seguita da dolci greci e innaffiata da birra (presumibilmente) greca ma comunque in quantità tedesca. Al momento di alzarsi il colpo di grazia sono altri due bicchierini di ouzo. C’è da stupirsi se all’uscita dal ristorante l’andatura è un po’ barcollante? Ad abbassare il tasso alcolemico comunque ci pensa la camminata di ritorno all’albergo: il passo è sostenuto, la salita che porta dal ristorante alla strada soprastante è erta e, in particolare, l’aria è frizzantina, per non dire quasi gelida, a causa di un vento asciutto e teso che ha spazzato via le nubi e mostra in tutta la loro silenziosa lucentezza il pigolio di stelle di questa notte senza luna. Ci si para davanti la scura mole della chiesa di S. Nicola, massiccia e severa con le sue due torri-campanile. La costeggiamo in silenzio, immersi ognuno nei propri pensieri, così come mezzora prima soltanto eravamo loquaci e briosi. Per un minuto avverto – ed è la prima volta in questo viaggio – quella sensazione un po’ agrodolce di solitudine, di lontananza, di nostalgia di un altrove indefinito che sicuramente si trova in uno dei mondi paralleli negatici dal caso o da un dio capriccioso che si diverte a giocare ai dadi con le possibili combinazioni delle situazioni umane …
Poi la luce dei primi lampioni e la strada diritta che conduce all’albergo mi riporta coi piedi per terra. In camera mi addormento con le mani intrecciate sotto la nuca e negli occhi lo spicchio di cielo stellato che intravedo attraverso i vetri sulla parte e il soffitto.
Percorsi 128 km circa in 6h:07, superate varie alture per un totale di 700 m. in salita e 900 in discesa
5 giorno: Geithain-Weißig
Il risveglio, come spesso accade, è meno poetico dell’assopimento, specialmente se avviene all’alba per un raggio di sole che cerca insistentemente di scassinarti le palpebre, quando avresti ancora tanto da dormire; ma, a parte maledire l’imperdonabile mancanza di tapparelle, non mi rimane altro da fare che alzarmi, lavarmi e anticipare il rito della colazione. In bagno ho l’occasione di registrare un’altra imperfezione: c’è, sì, il bidet, ma l’acqua non esce evidentemente a causa dell’uso ridottissimo e della mancata manutenzione che ne ha favorito l’accumulo di calcare. Meglio così: la realizzazione di un mondo troppo perfetto, ordinato, disciplinato, impeccabile e infallibile sarebbe più inquietante che auspicabile (e i Tedeschi ne sanno qualcosa). Per fortuna (?) è un rischio che noi Italiani non corriamo.
A controbilanciare queste insignificanti defaillances, comunque, ci pensa la sala della colazione; sono le 6:35 quando vi arrivo, è già apparecchiata, ma non c’è nessuno; in effetti – ricordo – il maitre aveva spiegato che la colazione era disponibile dalle 6:45. Mi metto allora a curiosare e osservando i tavoli del buffet trasecolo: allineati in bell’ordine (in prima fila i veterani, cioè i barattoli già aperti, in seconda i rincalzi, quelli ancora da aprire, nell’ultima le truppe di riserva, i doppioni di quelli più richiesti) ci sono la bellezza di 57 barattoli di marmellate, confetture, composte, gelatine, mostarde, ottenute da ben 26 tipi di vegetali diversi, tra cui pomodori, cipolle, zucca, carote, peperoncini, melanzane, menta, ortica, mosto, bacche o fiori o radici di rosa, di acacia, di sambuco, di rabarbaro… Sugli altri tavoli la stessa sfacciata sovrabbondanza di confezioni di yoghurt, the, tisane, preparati a base di cacao e simili; e poi ancora fiocchi d’avena, corn-flakes, müsli… A trattenermi dall’esaminare i tavoli dei formaggi, degli insaccati etc. è il rumore della porta delle cucine che si apre: entra la signorina addetta alla colazione portando con sé una folata di profumo, da svenimento, di croissant e dolci appena sfornati. Guardo l’orologio: sono le 6:45 spaccate, inappuntabile precisione! L’ora successiva è dedicata a far pentire il gestore dell’hotel dell’usanza del breakfast included o quanto meno della colazione a buffet; ma a onor del vero, quando io e gli altri tre compari ci prepariamo i panini da portarci dietro, non abbiamo bisogno di farlo di nascosto, come spesso accade in Italia, dove magari ti guardano male se prendi più di un cappuccino o di un croissant o ti fanno pagare il supplemento, anzi il maitre, che è sceso a domandarci se ci siamo trovati bene, sembra quasi incoraggiarci ad assaggiare questo e quello. E pensare che dovrebbe essere il nostro Paese a saper trattare meglio di ogni altro i turisti, considerando l’importanza che il turismo riveste nell’economia nazionale!
Questo è stato il nostro ultimo pernottamento in hotel, visto che oggi è il giorno conclusivo del tour e stasera dormiremo a casa del fratello di Lothar. Dato che ogni mattina ciascuno di noi a turno ha pagato l’albergo per tutti, facciamo i conti e calcoliamo i rimborsi: la spesa media finale risulta inferiore ai 35 €. Anche considerando che alcune sono state delle vere “occasioni” last- (o first-) minute di cui va a Lothar tutto il merito, non credo proprio si possa dire che il rapporto qualità/prezzo delle strutture tedesche sia mediamente peggiore di quelle italiane equivalenti e lo stesso discorso si può fare per cafè, imbiss e biergarten: ricordo bene le stanze + colazioni squallide a prezzi superiori ai 40 € in troppe città e paesi del nostro “Paradiso” e troppi “diavoli” esercenti di bar, ristoranti o negozi che si credono furbetti autorizzati a spellare il turista “gonzo”, senza accorgersi che i veri gonzi sono loro che così facendo danneggiano la propria categoria, un settore economico essenziale e l’immagine all’estero del loro stesso Paese.
Alle otto siamo in strada, pronti per l’ultima tappa. Anche in questo quinto briefing J. assicura che le salite sono praticamente finite e che nel centinaio o poco più di km che ci separano dal traguardo si passerà dall’attuale quota 300 ai 100 m. di Dresda, salvo la collinetta dove abita il fratello di Lothar; “praticamente”, “poco più” e “collinetta” sono espressioni che non mi rassicurano molto, ma preferisco non indagare. Il vento è calato, c’è il sole sopra un cielo intensamente azzurro e fa già discretamente caldo; ma quali che siano le condizioni climatiche e quelle del percorso, la mia mente pedala già in discesa, sentendo avvicinarsi la fine del tour, con quel misto di nostalgia, allegria e curiosità che si manifestano al concludersi di un’impresa.
La funzione navigatore del Samsung di J. è nuovamente attiva e non abbiamo problemi a lasciare la città e a inoltrarci nella campagna. Nel primo paesino che incontriamo ci fermiamo a osservare una strana stele in pietra rossastra, con delle scritte in caratteri gotici sotto un ricco stemma e simile ad un’altra che avevo intravisto poco prima dell’ingresso a Geithain. Jan spiega che si tratta di una PostSäule tipica della Sassonia cioè di una colonna che riportava i tempi di percorrenza a seconda delle distanze fra le varie località, ad uso dei servizi postali. Le aveva introdotte nel 1700 (quella che ho davanti reca la data 1727) il re di Sassonia Augusto il Forte che aveva fatto percorrere tutte le strade dello Stato (allora più esteso del Land odierno) da dei topografi muniti di una sorta di carriola conta-miglia.
Dopo una buona mezzora, attraversiamo Colditz; ci fermiamo nella piazza principale quel che basta a narrare la storia del suo castello, una bella costruzione rinascimentale adibita a supercarcere durante la II Guerra Mondiale dai nazisti; questi vi avevano rinchiuso alcuni ufficiali inglesi, francesi, americani e polacchi per evitare che potessero fuggire. In realtà vi furono centinaia tentativi di evasione, alcuni riusciti e molti avventurosi e ingegnosi al limite dell’incredibile (dal classico tunnel alla discesa lungo le mura con corde di fortuna, alla costruzione di un rudimentale aliante), la cui storia è stata riportata più volte sul piccolo e sul grande schermo.
Uscendo dalla cittadina, al bivio prendiamo in direzione di Leißnig e di Meißen, lasciando a sinistra la strada per Leipzig. La giornata è davvero splendida e rende giustizia ai colori del cielo, dei boschi e dei prati, grandi distese erbose, interrotte spesso da corsi d’acqua di varia grandezza sui quali si affacciano graziosi villaggi e qualche castello; alcuni di questi, come quelli di Podelwitz o Leißnig, con le loro mura bianche, i torrioni e i tetti conici coperti di ardesia bluastra, evocano le miniature medioevali e rinascimentali. L’impressione di povertà e trascuratezza avvertita ieri in alcuni villaggi si è completamente dissolta: davvero è stupefacente come le scenografie, al pari del clima, siano mutevoli in questa parte della Germania; ma, devo supporre, anche nel resto, se penso all’armoniosa natura della valle del Reno e alle coste sferzate dal vento del Mare del Nord, allo skyline dei grandi centri industriali moderni e all’atmosfera sospesa fuori dal tempo di piccoli centri come Heidelberg, alla quiete un po’ ripetitiva della vita nelle campagne e alla febbrile proiezione verso il futuro di metropoli come Berlino.
Jan (che, se ho ben capito, ha un qualche incarico alle dipendenze di un ministero equivalente ai nostri Beni Culturali), a proposito dell’impressione di minore prosperità della ex Germania Est, si premura di precisare che questa è ancora giustificata in alcune zone soltanto e sempre meno estese: dopo la riunificazione del 1990, infatti, lo Stato tedesco ha investito una notevole quantità di risorse per portare al livello “occidentale” le condizioni di vita e di lavoro della Sassonia e degli altri Länder provenienti dalla ex DDR: i decenni di “socialismo reale” che avevano reso molto bassi e poco competitivi i livelli di produzione economica e costretto i cittadini a una vita austera oltre che limitata sul piano delle libertà civili, avevano creato un notevole divario tra le due Germanie. Il nuovo governo dovette perciò colmare questo divario con ingenti sacrifici finanziari ed economici (dalla conversione alla pari del marco orientale in quello occidentale), alla chiusura o riconversione delle aziende meno produttive, allo spostamento di grosse quantità di capitali verso Est per favorirne il risanamento industriale, ma anche ambientale. Mi piacerebbe chiosare che la Germania, per superare parte delle difficoltà economiche dovute alla riunificazione, ha ricevuto aiuti consistenti dalla Comunità Europea, anche da quei Paesi dai quali attualmente pretende cure da cavallo per risanare i propri deficit; ma poi non ne faccio di niente, per non sembrare polemico.
È stata la Germania occidentale –conclude con un pizzico di orgoglio Jan- a assumersi il maggior peso dei sacrifici per la riunificazione, ma il gioco è valso la candela: quando un tedesco oggi può ammirare ad es. la Frauenkirche di Dresda ricostruita pietra su pietra, dopo le distruzioni belliche e anni d’abbandono da parte del regime comunista, probabilmente pensa a quanti dei suoi soldi e delle sue tasse sono finiti lì, ma subito dopo ne è fiero. “Io non li rimpiango davvero – conclude Jan – ne è valsa la pena. Del resto anche voi dopo l’unificazione dell’Italia avrete dovuto affrontare costi e sacrifici, no?” Non so se la domanda sia ingenua o maliziosa, ma ancora una volta lascio cadere l’argomento per non affrontare temi che da sempre agitano la scena politica italiana, come la questione meridionale di ieri o le velleità secessionistiche di oggi.
Chiacchierando e pedalando in tutta tranquillità, ci imbattiamo in un grande complesso di fabbricati cinto da mura; ma “imbattiamo” non è il termine esatto, dato che nessuna delle località visitate finora è stata “scoperta” per caso, ma è sicuramente frutto dell’attenta pianificazione da parte di J. che voluto alternare soste di natura logistica ad altre storico culturali o naturalistiche. Si tratta del monastero di Klosterbuch che, dei suoi tradizionali edifici, ha adibito la cucina e il refettorio col giardino prospiciente a biergarten. Ed è appunto qui che ci soffermiamo per la consueta pausa cappuccino, divenuta ormai un pretesto per far fuori qualche fetta di torta e il solito barile di birra. Per quanto riguarda me, sempre alla ricerca di nuovi sapori “mi accontento” di una möhntarte (un’ottima torta ai semi di papavero) e di un apfelschörle a cui ne segue un altro all’ holunder (cioè ai fiori i sambuco). Degli altri locali, oltre a quelli di tipo religioso o amministrativo, molti sono occupati da laboratori artigianali in cui lavorano giovani senza tonsura (per la verità non ho scorto nessun monaco finora). Oltre la porta che dà sul retro del monastero si apre un ampio spazio verde delimitato da un rio che scorre placido sotto l’ombra degli alberi: la scena è idillica, ma a me e a Lothar, assai più prosaicamente interessa un gigantesco susino che saccheggiamo a più non posso.
Ripartiamo costeggiando un ampio corso d’acqua: è il fiume Elba che ci farà compagnia fino a Dresda
Dopo averne avvistate da lontano le alte guglie, raggiungiamo la città della porcellana, Meißen, il cui “oro bianco” sotto forma di vasi, tazze, animali etc. ha conquistato l’Europa. Mi spiega J. che questa città può gloriarsi di aver dato vita alla più antica manifattura di ceramica del continente; vorrei replicare che forse è Faenza a poter vantare tale primato, dato che col suo nome francesizzato, faience, viene oggi designato questo materiale in gran parte del mondo; ma forse faccio confusione tra maiolica e porcellana.
In cerca di un locale in cui mangiare un gelato, saliamo bici alla mano lungo la strada che porta nel cuore della Altstadt; prima di raggiungere il centro storico noto una riga con delle cifre che corre orizzontale lungo gli edifici della Hauptstraße. Ne chiedo conto ai miei compagni: è il segno –rispondono- dell’esondazione che nel giugno di quest’anno ha colpito la regione e molte delle città che si affacciano sull’Elba. Ora sembra un fiume lento e tranquillo, ma due mesi fa le sue acque sono uscite violentemente dall’alveo e hanno portato distruzione nelle campagne e sommerso le abitazioni fino a parecchi metri. Mi torna ora in mente di aver letto o saputo dai telegiornali che una imponente alluvione ha colpito quest’area all’inizio di giugno, proprio pochi giorni dopo che vi era passato Paolo nel suo viaggio verso il Grande Nord (lui infatti mi aveva parlato di piogge continue e di strade allagate). Qui, però, a parte quel segno sui muri, nulla fa pensare a tale disastro: le autorità locali e federali, infatti, si sono prodigate da subito nella riparazione dei danni, nei risarcimenti e nella riattivazioni delle attività economiche e dei servizi pubblici. Potrei fare parecchi confronti e commenti, ma per amor di patria mi mordo la lingua.
Prima di ripartire da Meißen, sul selciato della piazza principale noto una placca di bronzo che ricorda come nella primavera dell’89 un gruppo di coraggiosi cittadini si sia riunito qui per protestare contro la mancanza di libertà, dando il via a quella rivoluzione pacifica che portò in breve tempo alla caduta del muro. A ben riflettere, in pochi minuti ho ricevuto un chiaro esempio di come alla base della democrazia concorrano da un lato la sensibilità di governanti che operino non per la conservazione del proprio potere ma per il benessere della società, dall’altro il senso civico (e in questo caso anche il coraggio) dei singoli cittadini, disposti a lottare e a rischiare per degli ideali. Mi pare quanto meno doveroso inserirla nell’ideale bagaglio di foto, annotazioni, ricordi, esperienze, che riporterò a casa al termine del viaggio.
Pedaliamo paralleli all’Elba sull’omonima radweg, affollata di ciclisti, pattinatori e pedoni, specialmente in prossimità di campeggi, biergarten, imbarcaderi, spiaggette. Nel frattempo ci ha raggiunto in bici Norbert, il fratello di Lothar, che è appena smontato dal lavoro e ci è venuto incontro per guidarci fino a casa sua , a Weißig, un sobborgo di Dresden; intanto ci fornisce dettagli sull’alluvione di due mesi fa. Attraversiamo l’Elba e poco oltre, presso il villaggio di Niedergohlis, notiamo le evidenti conseguenze del disastro: tutti gli appartamenti a piano terra sono disabitati e privi di mobili, mentre qua e là alcuni muratori stanno rintonacando le stanze e nei giardini spogli vengono ricollocate o seminate nuove piante. Su un dosso a lato della strada troviamo una panchina, vi salgo sopra in piedi e estendendo al massimo il braccio, sfioro il cartello posto in cima a un palo: recita “Pegelstand – 6 June 2013” e indica il limite delle acque a seguito dell’esondazione. Anche qui, obbligatoria una foto.
Pedaliamo avendo a sinistra il fiume, ingannevolmente mansueto, e a destra terrapieni, siepi o qualche filare di alberi, a determinare uno scenario davvero riposante (quasi come il nostro ritmo di marcia): non per niente, ci ricorda Jan il lungofiume da qui fino a Dresda è stato dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
E finalmente, a 600 km da Tübingen e a oltre 1500 dalla partenza, si cominciano a intravedere le prime propaggini di Dresda. Siamo arrivati? chiedo a J. “Sì, quasi”, mi risponde. Bene, dico tra me, per una volta i km programmati corrispondono a quelli effettuati; sento che non dovrei fidarmi delle rassicuranti approssimazioni di J., ma se quel “quasi” lo interpreto come se fosse un “proprio”, la colpa è solo mia. Davvero si crede solo a ciò a cui si vuol credere. Il fatto è che comincio ad avvertire la pienezza, se non la stanchezza, di queste due settimane lontano da casa.
Ormai la ciclabile scorre a ridosso della città di cui intravedo prima i sobborghi, poi l’inconfondibile silhouette del ponte Marienbrücke con l’altstadt sulla destra e i suoi monumenti dorati, cupole di vetro, statue alate, guglie e pinnacoli d’ogni tipo. Arriviamo sotto il ponte, ma proseguiamo, lasciandoci man mano sulla destra viali, piazze, giardini, chiese e palazzi monumentali in successione: le mura esterne dello Zwinger, il teatro Semperoper e la cattolica Hofkirche, la Frauenkirche, l’Accademia delle Belle Arti e l’Albertinum, la Brülsche Terrasse e la mole asimmetrica della nuova sinagoga. Di buona parte di esse Jan mi spiega nome e caratteristiche, ma sono talmente tante notizie, e date in così breve tempo, che temo di dimenticarne o confonderne buona parte, anche se approfitto delle frequenti soste per trascrivere frettolosamente un nome o un’informazione. So, comunque che domani andremo tutti insieme in visita alla città e avrò quindi l’occasione di ammirare più da vicino questa che a buon ragione viene definita la Firenze del Nord; il parallelo tra Firenze e Dresda, confermato dalle numerose tracce di arte e cultura italiana trapiantate in quest’area (compresi i cipressi e le ville curiosamente in stile toscano) e sancito ufficialmente anche da un gemellaggio di una trentina di anni fa, risulta perfino rafforzato dalle drammatiche vicende legate allo straripamento dei rispettivi fiumi.
Giungiamo infine sotto un ponte metallico di colore cinerino: <<Lo riconosci?>> mi chiede Jan, ammiccante. Dovrei? È la prima volta che vengo a Dresda, gli rispondo. <<Sì, ma questo è il Blauand!>> mi fa lui con quella sua voce baritonale che mi lascia capire una parola su tre, stupito come se davanti al Colosseo avessi chiesto se è una piccionaia. “Aaaah!” È la mia risposta dal tono ipocritamente ammirato di chi vuol far intendere di conoscere benissimo e di apprezzare qualcosa che nemmeno sa cosa sia. Mi ci vuole un po’ a capire che il famoso “Blauand” altro non è che il Blaues Wunder o Blue Wonder o Meraviglia Blu, come gli abitanti di Dresda hanno ribattezzato il Loschwitzer Brücke. Questa specie di Nona Meraviglia del mondo, che pare costruita da un megalomane con un milione di scatole del meccano, in effetti ricorda in qualche modo nel materiale, nella struttura e nel periodo di nascita una Tour Eiffel sdraiata sul fiume e deve il suo nome al colore con cui era stata verniciata (anche se –racconta Jan- in origine era verde, poi misteriosamente tramutatosi in blu).
Appena siamo riuniti in gruppo coi ritardatari, lasciamo la radweg e saliamo sul ponte, attraversando così ancora una volta l’Elba. Il traffico è notevole, ma per fortuna il ponte prevede sui due lati un percorso pedonale e uno ciclabile;.una volta sull’altra riva comincio a guardarmi intorno in attesa che mi venga annunciato l’arrivo a casa di Norbert, ma gli altri continuano a pedalare e chiacchierare imperterriti come se il tour fosse appena iniziato. Oltretutto la strada comincia a salire: sapevo che non potevo fidarmi di J. e dei suoi “Siamo quasi arrivati”. <<Stanco?>> mi fa dopo un km di salita; <<No, perché?>> gli rispondo (fossi stato Pinocchio, il naso mi si sarebbe infilato tra i raggi) e accelero raggiungendo Norbert che guida il gruppo. La strada è larga e presenta lo spazio anche per le rotaie del tram, eppure sale decisa e sembra non finire mai; anche se cerco di nasconderlo, ho il fiatone, ma non mi va di mollare, perciò stringo i denti per non perdere la prima posizione. L’altimetro mi segnala che abbiamo lasciato l’Elba 150 m. più in basso, ma si continua a salire. Due, tre, quattro km, ma si va avanti. Finalmente una sosta… macché è solo per fare una telefonata; avanti di nuovo. Penso a Norbert che tutte le mattine che Dio manda in terra, va in ufficio in bici (lavora nella zona nord di Dresda) e il pomeriggio torna su, affrontando la discesa (e il gelo, d’inverno) e poi la salita (e la canicola, d’estate). Finalmente la strada impiana. Cinque, sei km. Siamo nel verde della zona residenziale di Dresda, anzi non è neppure più Dresda, precisa Lothar, bensì Weißig. Sette, otto km; finalmente ci fermiamo, stavolta siamo arrivati davvero.
Baci, abbracci, saluti, presentazioni; poco dopo arriva anche Gabi che è partita ieri da Jettingen in auto, portando tra l’altro tutto quello che avevo lasciato a casa di J. e in più un grosso cartone da ciclista in cui impacchettare il mio bolide per caricarlo sull’aereo. Il primo volo della Ryan Air per Pisa parte domattina presto da Leipzig, a oltre 150 km da qui; ma non ce la farei a fare la prenotazione dell’aereo, preparare le mie cose, imballare la bici e partire stasera stessa cercando un qualche alloggio di fortuna in prossimità dell’aeroporto, né è pensabile che possa arrivare in tempo all’imbarco partendo domattina. Domani d’altra parte è prevista la visita di Dresda e dintorni (a cui sono interessati anche J. e Gabi che la conoscono poco) e non avrebbe senso essere venuti fin qui senza poi cercare di conoscere un po’ la meta finale del viaggio. Vuol dire che prenderò il prossimo volo lunedì mattina; quindi faccio qualche calcolo e prevedo di partire da qui sabato mattina in bici, raggiungere Leipzig nel pomeriggio, cercando un alloggio vicino all’aeroporto e impiegare la domenica visitando la città. Quando lo comunico a J. & C, i miei amici lo escludono tassativamente e mi espongono l’alternativa che hanno già elaborato e che è una “proposta che nun se pò rrifiutare”: resterò con loro fino a lunedì mattina, quando all’alba J. mi porterà all’aeroporto in auto. Mi pare eccessivo e stavolta mi oppongo io; dopo una lunga contrattazione ottengo di farmi accompagnare lunedì mattina alla stazione di Dresda e lì prendere un comodo treno per l’aeroporto. Sopraffatto dalla loro gentilezza, prendo possesso della mia stanza, vicino a quella di Lothar e J. nel seminterrato: sulla porta è affisso un disegno a pastello in cui campeggia un cuore e la scritta “Herzlich willkommen”, nel caso che mi fossero rimasti dubbi sull’ospitalità tedesca; la stanza è ampia, provvista di letto, tavolo da studio, divano e cyclette & tapis roulant (che non ho nessuna smania di adoprare) e si affaccia anch’essa sul giardino, ripetendo a grandi linee la struttura dell’abitazione di J.
Dopo la doccia, necessaria più che mai, l’appuntamento per tutti è nel giardino dove su un tavolo addobbato con ghirlande e festoni, Magda, la moglie di Norbert, ha apparecchiato due torte gigantesche “BIKERS WELCOME IN DRESDEN”, sta scritto sulla prima, “FOR THE HARDEST BIKERS” sulla seconda. Immancabili, c’è bisogno di dirlo?, i boccali di birra.
Secondo l’usanza germanica, in casa tutti stanno senza scarpe, usando zoccoli o restando a piedi nudi. Anch’io mi adeguo depositando le scarpe nel vestibolo all’ingresso e giro con i calzini ai piedi. Quando ci hanno chiamato a raccolta in giardino non ho considerato che il pratino era bagnato, così mi sono inzuppato ben bene i calzini che hanno aggiunto un delizioso profumo di funghi porcini alla mia già sofferta e ascetica figura di pedalatore transalpino, ma non potevo certo abbandonare la compagnia (e le torte) per una prosaica questione di calzini umidicci. Scorrono le birre e inutilmente scelgo quelle di gradazione meno alta; il tasso alcolemico si innalza bruscamente quando assaggio Hugo (un cocktail a base di Prosecco, Holunder, cioè succo di sambuco, acqua brillante, ghiaccio e una foglia di menta). Per fortuna non devo pedalare e posso rimanere seduto. Non facciamo in tempo a digerire le torte, che inizia la cena. In onore della nazionalità dell’ospite straniero arriva un fumante vassoio di spaghetti (perfettamente al dente!) al pomodoro e parmigiano a cui faccio onore quanto posso, ma non più che al successivo piatto di patate in salsa acida e gurken, cioè cetrioli. Veramente buono, me ne farò dare la ricetta da Magda o da Gabi, come pure di qualche altro piatto assaggiato qui in Germania. Il bello di un viaggio fuori d’Italia è anche il gustare pietanze sconosciute o inusuali: non ho mai capito quegli italiani che all’estero , per “non rischiare” o semplicemente per ottuso nazionalismo culinario, frequentano solo ristoranti italiani o si limitano a ordinare pizza, spaghetti o bistecca e patatine evitando accuratamente i piatti locali.
Nonostante le zanzare e l’aria fresca della sera (ma anche l’indolenzimento del fondo schiena, che è rimasto attaccato per ore prima al sellino e poi alla panca del tavolo in giardino) restiamo a chiacchierare fino a tardi, parlando un po’ di tutto e soprattutto di Italia: Lothar, J. e Gabi, da insegnanti, si mostrano interessati al nostro sistema scolastico e alle sue politiche di integrazione dei portatori di handicap e degli alunni svantaggiati (e qui, magari esagerandone un po’ i meriti, mi faccio forte della mia esperienza di insegnante in una scuola sperimentale che tra le prime in Italia ha innovato in questo settore).
Ma poi, quando le birre e l’ora tarda abbassano le difese della discrezione e della delicatezza, un po’ tutti finiscono per mostrarsi interessati a quell’ immagine dell’Italia che maggiormente intriga lo straniero: riuscire a capire come nel Paese di Leonardo e della Montalcini, di Marconi e di Galilei, di Machiavelli e di Einaudi possano prosperare certi personaggi, come certi comportamenti pubblici e privati vengano non solo tollerati, ma addirittura premiati col voto o, più semplicemente, con la notorietà e il plauso presso noi concittadini.
Certo i miei amici non fanno di tutte le erbe un fascio, sono lontani dalle generalizzazioni superficiali o dall’identificazione, sulla falsariga dello “Spiegel” di qualche decennio fa, dell’Italia con le tre M di Mafia-Mandolino-Maccheroni; ma troppo vistose per ignorarle sono alcune recenti vicende di cronaca italiana, tanto più quando vengono in qualche modo coinvolti i Tedeschi: ad es. lo smaltimento dei rifiuti napoletani in Germania, le truffe alla Comunità Europea, la strage di ‘ndrangheta a Duisburg, o il naufragio della “Costa-Concordia” (su cui erano imbarcati oltre 500 passeggeri tedeschi). Del resto, il comportamento del comandante Schettino è solo un esempio di cialtroneria, quasi un pretesto per poi spostarsi, in modo fin troppo scoperto, nel campo dei personaggi politici; e tra questi ultimi chi sia il primus sine paribus è fin troppo evidente, considerando anche la ruggine tedesca nei suoi confronti per gli inqualificabili epiteti da lui rivolti a “frau Angela”; ma anche Grillo risulta ben piazzato nella loro Shit-Parade dei nostri politici: l’ estemporaneità e il populismo, di qualunque colore, che da noi sono spesso considerati con indulgenza e simpatia, quasi un’ espressione del genio italico, vvengono visti con apprensione dal disciplinato e concreto civis Germanicus medio, tanto più se un tantino conservatore come i miei interlocutori.
Messo alle corde dalle loro domande quasi accorate, annaspo un po’, mi sento nudo nella mia italianità e, in qualche modo, complice anch’io delle malefatte del “caro leader”; provo a spiegare, a distinguere, mi rifaccio alla storia di un’Italia ancora troppo giovane (ma è una mossa sbagliata, visto che l’unità nazionale tedesca è posteriore alla nostra di un decennio), ai troppi poteri o interessi, occulti o criminali, che sono dietro a mezzo secolo di trame, stragi e depistaggi, (però mi rendo conto che gli ingredienti della mia narrazione sembrano quelli di un noir di serie B), all’eccesso di devozione al proprio “particulare” e alla mancanza di senso dello Stato (ma è proprio quello che dovrei spiegare ed è tautologico usarlo come giustificazione), alla troppa credulità verso i vari demagoghi e uomini della Provvidenza. Lothar ammette che sì anche loro si sono fatti colpevolmente trascinare da Hitler, poi però da quella tragedia hanno imparato, dando vita a un Paese e a una coscienza nazionale completamente differenti, decisi a non ripetere gli errori del passato e a non seguire più nessun pifferaio. Già in altre chiacchierate, del resto, hanno dato prova di onesta autocritica e condannato senza mezzi termini ideologia e prassi aberranti del nazismo.
Alla fine, distrutto anche dalla fatica di dover tradurre concetti complessi in una lingua non mia, mi arrendo, ben consapevole di non essere riuscito a convincerli del tutto con questa mia accalorata ma sconnessa arringa difensiva; però vengo nuovamente tirato in ballo dalle domande se anche a noi Italiani, come ai Greci, piacerebbe “vedere impiccata la Merkel” e cosa si pensa in Italia della politica del rigore e della spending review e perché poi un politico “serio, onesto e competente” come Monti (è l’unico –mi par di capire- che gli va a genio) sia durato solo un anno, e come mai i rifiuti di Napoli o Palermo vengano dirottati a caro prezzo in Germania e perché… Nessuna di queste domande è avanzata con tono saccente, accusatorio o malevolo, ma col sincero desiderio di capire qualcosa di un mondo per loro incomprensibile; ciò non toglie che il mio imbarazzo, nel ruolo non richiesto di ambasciatore del mio Paese, sia più che evidente; tanto che a un certo punto, forse spinti da un intento riparatorio, spostano la conversazione sui problemi della Germania e sulle colpe del comunismo così evidenti nella ex DDR; anzi riconquisto un mio momento di gloria quando si accorgono che conosco e apprezzo film come “La vita degli altri” e “Goodbye, Lenin”. Poi, finalmente, giunge l’ora di andare a dormire.
Mentre mi rilasso prima di prendere sonno, ripenso a questa quindicina di giorni fatta di pedalate, sudore e fatica, sì, ma pure di incontri, di luoghi sconosciuti, di sole e nuvole anche metaforiche, di lunghi silenzi e di grandi chiacchierate. Al termine di un’esperienza ci si chiede cosa si è imparato, in che modo si è arricchita la nostra interiorità; io so di aver visto molto, sicuramente di aver appreso qualcosa, magari di essere una briciola più saggio di quando sono partito, ma ci penserò forse domani. Dopo tante parole e ore spese stasera a discutere di cose serie, per conciliarmi il sonno con leggerezza mi voglio divertire a elencare, così come mi vengono in mente, tutte le piccole, banali infrazioni alle mie abitudini quotidiane a cui mi ha spinto questo tour: fare a meno del PC per più di due giorni di seguito, parlare una o più lingue straniere, alzarsi e partire molto prima del solito, mangiare insalata, formaggio e uova sode a colazione, indossare i pantaloncini da bici senza slip, viaggiare leggero con pochissime cose, vivere con maggior lentezza e minor nevrosi un’esperienza di viaggio in bici, fare ampio uso di piste ciclabili, percorrere senza stravolgermi anche tratti di sterrato, rinunciare a borse e portapacchi a favore dello zaino, pedalare sotto la pioggia, scoprire bevande e cibi nuovi, bere birra a litri, dormire con un coltrone al posto del lenzuolo anche ad agosto, dormire in camere senza tapparelle… a proposito di dormire, buonanotte!
Percorsi 118 km circa in 5h:27’, superate varie alture per un totale di 600 m. sia in salita che in discesa
Epilogo
Il venerdì, il sabato e la domenica sono stati giorni intensi, se non addirittura turbinosi, in cui i miei anfitrioni hanno cercato di rimpinzarmi stomaco e mente di tutte le prelibatezze culinarie, architettoniche, artistiche e paesaggistiche che il soggiorno poteva offrire: oltre a una grandinata di piatti e bevande i cui nomi o ricette mi hanno riempito il taccuino (Apfel-, Holunder- o Wein- schörle, Waldmeisterschnaps, Hugo, Most, Radlerbier, Suppen, Spätzle, Salat, Eintopf, Schmand, Quark, Gebäck, Kuchen, Torten…), ho battuto a tappeto il cuore dell’Altstadt di Dresda partendo dal luogo simbolo della città, lo Zwinger fino al Neumarkt e ai giardini oltre la Brühlsche Terrasse, è stata poi la volta della Neustadt notturna con la sua movida e le sue birrerie in cui far le ore piccole; ho visitato lungo l’Elba il parco di Pillnitz (che porta ancora i segni della devastazione delle acque di due mesi fa) con il caratteristico castello barocco, che i sovrani sassoni raggiungevano in gondola (!) da Dresda per trascorrervi le vacanze estive; ho compiuto escursioni a piedi, più brevi ma non meno impegnative di quelle in bici, in alcuni parchi nei dintorni di Dresda e perfino una a Hrensko, nella vicina Repubblica Ceca, intervallata da un percorso in barca nelle gole Edmundova Sout?ska. A chiudere il cerchio di queste due movimentate settimane, non poteva mancare una mini percorso ciclistico (una dozzina di km appena, con tanto di salita e discesa al 10%) compiuto sotto un allegro acquazzone estivo il pomeriggio antecedente alla partenza.
Infine, la mattina del ritorno, dopo una levataccia all’alba e una colazione in cui Magda ha fatto trovare oltre al solito ben di dio, anche un panino, un frutto e una stecca di cioccolata per il viaggio, io e J. siamo partiti in auto, diretti alla stazione ferroviaria di Dresda; qui il treno è arrivato con 45 secondi di ritardo (il che ha indotto J. a scusarsi di questa macchia imperdonabile sulla proverbiale puntualità tedesca!); abbiamo caricato il grosso scatolone di cartone in cui la sera prima avevamo impacchettato la bici e le borse e ci siamo salutati fraternamente, dandoci appuntamento all’anno prossimo, magari per un tour in Italia. Il treno è partito puntualmente e puntualmente è arrivato a Leipzig; qui, con un po’ di fatica ho trascinato il mio voluminoso bagaglio fino al treno per l’Aeroporto. Al check-in e al gate d’imbarco sono riuscito a fare abbastanza confusione tra verifica del biglietto, consegna dello scatolone e ricerca dei documenti che si erano infilati tra le pagine di un libro, ma insomma, in un modo o nell’altro ce l’ho fatta a salire su quel benedetto aereo e a raggiungere Pisa dove sono stato subissato di baci e uggiolii, rispettivamente di moglie (a cui la mia lunga assenza evidentemente aveva fatto capire di quale grand’uomo era stata privata) e cane (che mi rimproverava di avergli telefonato troppo poche volte).
Percorsi con J., Lothar e Jan 625 km in 5 giorni (29h:26’) alla media di 21 km/h. superato un dislivello totale di 4.500 m. circa
Percorsi in tutto il viaggio 1528 km in 11 giorni (70h:33’) alla media di 21,6 km/h superato un dislivello complessivo di 11.500 m. circa
Conclusioni
Spesso, durante un viaggio, nei momenti più difficili, quando senti di non farcela più e pensi di essere sul punto di rinunciare, ma anche prima di partire o dopo l’arrivo, mi sono domandato quello che più o meno esplicitamente ti chiedono tutti quando affronti l’argomento: “Ma chi te lo fa fare? Cosa è che ti spinge veramente a questo tipo di imprese? Cosa vuoi dimostrare? E a chi? E perché?” La risposta non l’ho mai trovata, perlomeno una risposta unica, solo tante possibili, parziali risposte tutte variamente collegate tra loro: bisogno di raschiarsi di dosso la pelle morta della routine quotidiana, di affermare la propria individualità, di mettersi alla prova nel fisico e, attraverso questo, nella mente, di trovare il modo per restare solo con se stesso, di aggiungere un valore, un senso alla propria esistenza, di affrontare il brivido dell’ignoto, di sentirsi vivo in un’avventura, di sconfiggere i fantasmi dell’età, di affermare un modo diverso, più ecologico, più umano, di fare vacanza.
Sono tutte, a ben vedere, risposte soggettive e che attingono alla sfera personale, con limitate proiezioni verso il mondo esterno, quasi ego-centriche, in quanto marchiate dal senso della propria solitudine individuale anche in un mondo pieno di gente
Ma ce n’è un’altra, di segno opposto, scoperta nel ciclo-pellegrinaggio a Santiago e confermata in quest’ultimo viaggio in Germania: il bisogno di riscoprire l’umanità e la fraternità, cioè quanto di noi c’è negli altri e degli altri in noi e di tener viva la fiammella che al di là delle differenze di lingua, usanze e credo religioso o politico, ci fa avvertire meno il freddo della nostra esistenza effimera, ci fa sentire meno soli, ci accomuna rendendoci partecipi dello stesso Progetto, sia questo di origine divina o solo determinato dal Caso. Con l’ottimismo della volontà, continuo a credere che perfino nell’efferato nazista dei campi di sterminio di ieri o nel più ottuso talebano di oggi, arda, pur se repressa e confinata da qualche parte, la medesima fiammella di umanità e, per quanto mi riguarda, ringrazio il fatto che un viaggio, tanto meglio se “lento”, possa tenerla viva con le sue occasioni di incontri e riflessioni.
Tutte le foto del viaggio e altri racconti nel sito di Pierluigi
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