Las Vegas

di Federico – 
Premetto subito che il mio viaggio di lavoro negli States si è consumato principalmente nell’anonima Moape Town (Nevada), un luogo dimenticato da Dio (come biasimarlo) e forse anche un po’ dall’uomo. Avendo vissuto per anni in un buco di paese disperso nella pianura padana pensavo di sapere cosa sia la vita di provincia, ma negli Stati Uniti gli spazi sono così giganteschi e dilatati che in posti così piccoli si finisce davvero per sentirsi isolati. Per fortuna ci sono i colleghi e internet a ricordarti che c’è un mondo là fuori, e che quel mondo si aspetta dei risultati da te.

La prima settimana di lavoro è trascorsa senza troppi entusiasmi, tra meeting con ricchi uomini di affari che vogliono arricchirsi ancora di più e serate passate con Carlo (il mio collega) a cercare i Simpsons nei canali via cavo. L’arrivo del week end (e quindi delle prime vere giornate libere del viaggio) ci ha posti di fronte a una scelta: andare a rifarci gli occhi con i panorami della valle del deserto oppure darci a sesso, droga e rock’n roll nella non troppo distante Las Vegas? In circostanze normali penso avremmo scelto la prima opzione, ma la settimana appena trascorsa in quella specie di desolato scenario post-apocalittico ci ha inaspettatamente fatto propendere per Las Vegas, così siam montati in sella alla nostra fida vettura e abbiamo imboccato la statale 15. Fossimo stati in un film, durante il viaggio sarebbe successa almeno una di queste cose: gomma bucata, rapina a mano armata in un caffè lungo la strada, incontro con autostoppista sexy che poi si rivela ricercato dalla CIA, inseguimento della polizia. Siccome però il tutto si è svolto nella vita reale il viaggio è filato liscio, e l’unica cosa degna di nota sono gli scenari naturali incredibili che ci siam goduti per strada.



Millemila kilometri più tardi (o almeno questa è l’impressione che hai se non sei il fan numero uno dei viaggi in macchina) arriviamo a Las Vegas. Non intendo scrivere un racconto lineare, dettagliato e cronologico del viaggio: preferisco concentrarmi sulle impressioni che la città mi ha trasmesso. E fondamentalmente queste impressioni possono essere riassunte in una sola parola: troppo. Las Vegas è troppo colorata, caotica, rumorosa, festaiola, luminosa. Troppo giovane, viva, sintetica, frivola, invadente. E’ un troppo di tante cose che messe tutte insieme producono qualcosa che in Italia non c’è e (ringraziando il cielo) non potrà mai esserci, ma che dopo una settimana di quasi-isolamento era esattamente quello di cui io e Carlo avevamo bisogno per staccare. O forse per “riattaccare”. Prima di partire avevamo trovato su internet una lista di qualche buon hotel a Las Vegas, poi una volta là ne abbiamo sostanzialmente selezionato uno a casaccio e direi che ci è andata più che bene. Lasciati i bagagli (a.k.a. uno zaino minuscolo) all’ hotel ci siamo avventurati per le strade. Per visitare Las Vegas non serve una guida turistica: basta conoscere i soprannomi che le sono stati dati nel corso degli anni. Nell’ordine (trovato su Wikipedia) abbiamo: “la capitale mondiale del gioco d’azzardo”, “la città del peccato”, “la capitale mondiale dell’intrattenimento”, “la capitale delle seconde chances”, “la capitale mondiale del matrimonio”, più quello che le abbiamo dato noi alla fine della vacanza “la capitale mondiale dei malvestiti”. Visto che da bravi italiani siamo riluttanti a peccare, che i Simpsons ci avevano già intrattenuto abbastanza per tutta la settimana, che per avere delle seconde chance bisognerebbe averne delle prime e che sposarci non è nei nostri piani imminenti (soprattutto non tra di noi 😀 ) decidiamo che ci rimane una sola cosa da fare e ci fiondiamo nel primo casinò che troviamo (quello con l’insegna al neon più abbagliante) dandoci al “gambling” selvaggio.

Prima passeggiamo timidamente tra i tavoli cercando di capire come funzionano i vari giochi e troviamo intenta a giocare gente di tutti i tipi: dagli uomini di affari in giacca e cravatta che tentano di riempire il pomeriggio ai vecchietti in calzoncini imbambolati davanti alle slot machines. Andiamo a prendere delle fiches (poche, che siam poveri e abbiamo entrambi personalità tremendamente inclini alle dipendenze) e iniziamo proprio dalle slot machines. Vincite microscopiche si alternano a svariati “tiri a vuoto”, sottolineando praticamente subito quanto pallosa ma al tempo stesso ipnotica sia questa macchina infernale. Dopo una quarantina di minuti decidiamo che è ora di passare ai tavoli e abbandoniamo gli zombie delle slot machine in favore del Black Jack. Non avevo idea di come funzionasse, ma dopo aver osservato qualche manche ho afferrato il (semplice) meccanismo del gioco e ci siamo messi a giocare, dando il via al divertimento reale. Fortunatamente eravamo seduti con altri turisti e siccome nessuno stava giocando “seriamente” è stato bello prenderci in giro, scherzare e alimentare una competizione sana.

Poi uno di questi simpatici americani ci ha offerto una birra al bar ed è stato l’inizio della fine. Ci siamo improvvisamente ricordati che l’alcol è un intrattenimento più divertente ed economico del gioco d’azzardo e ci siamo uniti agli americani compagnoni per un tour dei bar LasVegasiani (?). A questo punto non chiedetemi nulla: notoriamente io mi ubriaco anche con Fruttolo alla banana, quindi dopo una birra, due apple martini e un gin tonic ero già in una realtà parallela. L’unica cosa che ricordo sono le luci intensissime dei neon che mi perforavano la cornea ogni volta che passavamo da un bar all’altro e il viaggio di ritorno del giorno dopo, caratterizzato da svariate pause-vomito lungo la strada.

Altri scritti di Federico nel suo blog personale

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