Americhe

New York: Biting the Apple

di Francesca Pierantoni
Giorno 1: Milano – Düsseldorf – New York Gli Stati Uniti, si sa, hanno una politica di controllo immigrazione ferrea. Per entrare negli USA non si transige. Devi mettere le crocette. Ti danno un modulo dove sottoscrivi che sei sano di mente. Che non ti droghi. Che non sei mai stato comunista. Che non nutri sentimenti antiamericani. E che non stai pianificando attacchi terroristici. Ora. Come io ho mentito sulla cosa dei comunisti, chi mi dice che il tipo seduto nel sedile dietro non pianifichi attacchi terroristici? Gli americani non se lo pongono. Se metti la crocetta si fidano. Che teneroni.

Poi sull’aereo ti danno un altro modulo nel quale dichiari chi sei, dove vai, quanto stai, cosa porti, un fiorino. Poi firmi un modulo che attesta che hai compilato il modulo.
Un mio amico mi raccontava che una volta, quando facevi il militare, nel cibo ti mettevano il bromuro onde evitare esuberanze ormonali che avrebbero reso rutilante l’esperienza dei soldati di leva nelle caserme. Credo che una tattica simile l’abbia adottata anche Air Berlin: stroncandoti di cibo ogni venti minuti la compagnia cerca di indurti alla piomba più totale onde evitare che tu te ne vada in giro per il velivolo a rompere i maroni. Funziona. Dormiamo tutti con la bolla al naso e la bocca aperta. Però ora io voglio il modulo per richiedere i danni della vanificazione dei miei mesi di palestra.

Giorno 2: Yankiees.
Il nostro host ,Ty, il ragazzone che gioca a football che ci affitta una microstanza nel suo microappartamento di Harlem, che paga più di duemila dollari al mese, ci spiega che non dobbiamo avere paura degli attacchi degli scoiattoli. Siamo un po’ perplesse, la prendiamo come gag yankiee e nel dubbio ridiamo. Che umorismo della minchia, penso. Del resto sono yankiees.
Il primo pseudocappuccino assaggiato in terra yankiee contiene la quantità di zucchero consumato in Lussemburgo nei primi tre mesi del 2016. Ma l’indiano del negozio lordo sul tappo del bicchierazzo ci aggiunge anche altre tre bustine. Che non si sa mai.
Le donne che vediamo per strada prima di arrivare a Manhattan sfoggiano outfit che non si capisce se siano addette della nettezza urbana o homeless. Quindi io con la tutina sudata di Bonprix e le sneakers malandate sono diventata l’icona si stile di tutto l’east uptown. Ma tipo che mi fermano per omaggiarmi chiedere dove ho trovato quelle Converse che ora ti rubo dai piedi. Son soddisfazioni.
La mattina ci svegliamo urlando perché un’orda di scoiattoli sta battendo sulla finestra emettendo sibili allucinanti. A ‘sto punto ride Ty, e ci offre un succo di mango che contiene la quantità di zucchero consumato in Andorra in tutto il 2011. Ormai siamo amici e nel farci i complimenti per quanto vestiamo stylish, decide che ci offre un’esperienza very american e ci porta a vedere una partita di baseball della major league.
Indovinate come si chiama la squadra che gioca.

8 agosto 2016, Grund Zero
Che cosa è l’Arte? Secondo me è la pacca che ti arriva davanti ad un’Opera. La pacca può essere bella. O brutta.
C’è una piscina grigia, rigorosa, squadrata, con un buco profondo e buio al centro che inghiotte piccoli rivoli d’acqua. E tu lo sai che ogni rivolo ha un nome. George. Joseph. Benja. E tu li vedi George, Joseph, Benja, che scivolano nel buco nero e squadrato. Ne senti le grida. E quel buco si riempie della tua angoscia, della loro, dell’angoscia di chi verrà e si affaccera’ a guardare.
La pacca è arrivata fortissima. E bruttissima.
E questa e un Opera d’ Arte sublime.

Giorno 3: Momenti
Vivere New York nel modo più pieno significa essere attenti ad ogni piccolo dettaglio, ogni sfumatura, ogni frammento, ogni momento. Perché è nel piccolo che si trova la pennellata di bellezza, la storia inattesa, la gioia cristallina.
L’inno americano da cantare con la mano sul cuore prima della partita.
Il vedere piano piano accendersi i grattacieli dopo il crepuscolo. Lo stirdere dei gabbiani che seguono il ferry di Staten Island.
Piccoli istanti che ti danno la misura delle differenze, dei modi, delle mode, micro lezioni di vita: la macchina che prima di passare oltre al cancello di qualche palazzo del potere viene ispezionata alla ricerca di possibili gps mediante uno specchio che viene infilato sotto il telaio. I nomi incisi a Ground. Zero. E poi le due più grandi gioie di oggi. Due momenti indimenticabili che porterò nel cuore per sempre. Due ricordi che anche a distanza di anni mi ridaranno il sorriso nei momenti più duri.
Il momento in cui ho realizzato di essere più magra della media dei manichini dei negozi di Soho ( e li mi sono commossa davvero).
E il momento in cui l’omino della riparazione cellulari sulla 116esima ha detto alla Combi che il suo cellulare si poteva aggiustare e che avrebbe potuto ricominciare a fare foto come prima, solo signorina sia gentile, non è il caso di dare in escandescenza in questo modo, lo vuole un fazzoletto? Per pietà non mi abbracci in questo modo sto solo facendo il mio mestiere. Signorina la prego è imbarazzante e mi sta sporcando di rimmel la camicia.
E la Combi ha smesso di dare di matto e ha ritrovato un suo equilibrio. Vabbe’. Insomma, è tornata come prima.

Giorno 4: Desideri.
Sebbene sia una città che in teoria ti può offrire tutto, ci sono un sacco di cose che puoi trovarti a desiderare a New York.
Un cappuccino amaro. Dormire più di 4 ore a notte. Una bici a noleggio che costi meno di un Cayenne in leasing. Una cartina autopiegante con cui andare d’accordo senza ingaggiare tutte le volte un corpo a corpo violento (oltre ad una perenne partita si scacchi in cui lei risulta sempre la più furba). Un DILF mulatto tutto tuo. Un paio di moonboot per entrare nei locali climatizzati. Un non dico armadio che non voglio esagerare, per carità, ma tipo una sedia. Che so, un panchetto. Una cassetta della frutta. Una presa coi buchini tondi. Oh. Una presa coi buchini tondi. Potrei trovarmi alla finestra sul Jefferson Park a cantare come Cenerentola “Un giorno un adattatore USA – Europa verrà”
Tanti sono i desideri che puoi sperare si avverino a New York.
Per questo il ponte di Brooklin è murato di auricolari. Si perché qui auricolare is the new lucchetto. Hai un sogno? Ti si è appallottolata la cartina? Hai freddo ai piedi? Passi sul Ponte, esprimi un desiderio e frughi nella borsa per lasciare un obolo agli Dei che sovraintendono la distribuzione di mulatti e cappuccini potabili. L’offerta più gettonata pare essere la cuffietta, a metà strada tra un’offensiva salvietta che irriterebbe gli dei, e un braccialettino o un oreccchino che magari non ne vuoi mezza di abbandonare un tuo braccialettino o un orecchino. Cosi sacrifichi la cuffietta e speri nel miracolo di trovarti il tuo adattatore e riuscire finalmente ad asciugarti i capelli.
Che la speranza è l’ultima a morire.
La Combi invece desidererebbe tanto parlare qualcosa di diverso dal suo imbarazzante grammelot che la porta a pronunciare “Managgia” invece che “Manhattan”. Ma lì hai voglia a cuffiette.

Giorno 5: Food and Drugs Administration
In giro per the Big Apple ciondolano vari user. C’è quello fatto di boh che si vomita sulla maglietta (deve costare poco perché ce ne sono un botto), c’è quello che si piglia malissimo e fa facce cattivissime rabbiosissime che tu povera agnella ti caghi sotto e capisci che sei di provincia perché i veri New Yorker non li filano di pezza. Ci sono quelli che ti aspettano fuori dalla metropolitana e non si sa come si reggano in piedi, ci sono le signore anziane (sta cosa delle signore anziane è particolarissima) che stanno davanti alle porte dei negozi con gli occhi chiusi poi magicamente si accorgono che devi entrare e aprono insieme gli occhi e la porta così magari tu gli dai una monetina.
Poi ci sono i fatti di burro. O di zucchero. O di fritto nello strutto. Dipendenti da cisterne di robazza ghiacciata e gassata. Abusatori seriali di hot dog e piramidi di crocchette di pollo sormontate da festoni di patatine stuccate insieme da cazzuolate di maionese.
I grandi obesi sono la maggioranza della popolazione, soprattutto nei quartieri un po’ meno glamour.
Per forza la santità non può essere statale. Questi affossano il pil in 24 ore a forza di lavaggi del sangue e cure per l’ipertensione. Fatto sta che solo i più ricchi hanno cura della propria salute. Ad Harlem, dove stiamo di casa noi, la vita non è patinata come a downtown.
E qui entra in ballo la Combi. Lapidarie le sue perle brianzole che riassumono tutto il concetto: “Figa, qui il più sano c’ha su due ginocchiere.”
Che PornoPippi avrà pure le sue difficoltà con l’idioma (“Non mi fare parlare a me che se no me rimandan en Puerto Rico” ) ma quanto a saggezza non la batte nessuno. Tanto che ha deciso di fingersi sordomuta.

Giorno 6: All for the Show
No vabbe’. Non ci potete credere a cosa ha fatto oggi la Combi #=€*&AAZGBFHJ@GD ADESSO BASTA!! SONO “LA COMBI” E QUESTA NON È UN’ ESERCITAZIONE… HO SEQUESTRATO TEMPORANEAMENTE IL DIARIO DELLA VOSTRA BENIAMINA PER SVELARE ALCUNI SUOI LATI OSCURI CHE SI GUARDA BENE DAL POSTARE.
Io ammetto il mio problema con l’idioma ma la nostra amata globe trotter ne ha altri, ben più gravi.
Nell’ordine:
Attira casi sociali livello pro: vecchissimi latin lovers, aspiranti rapper malavitosi per ora solo malavitosi, lebbrosi senza il naso.
Beandosi del suo slang veramente yankee parla in maniera prolissa e ci mette un quarto d’ora per chiedere una semplice informazione: “giacché trovavamoci a passare per questi luoghi, rapite dalla complessa composizione dell’urbanistica, perdemmoci. Riuscite, di grazia, ad indicarci la via che ci porti alla nostra bramata destinazione?”
Ha grosse incertezze di coordinazione oculo manuale nei tornelli della metro: no strisci, no parti.
Non ha capito le regole del baseball e abbiamo rischiato il linciaggio dopo che ha esultato per un fallo subito dagli Yankees Prega in posti imbarazzanti che lei chiama “Templi Buddisti” e che invece sono ristoranti cinesi di bassa lega con tanto di Budda gigante di cartongesso circondato da luci al neon… E questo è solo l’inizio. Non un ricatto, suvvia.
Vi pare che potrei minacciare la mia amicona Barbie Sparaminchiate?

Giorno 7: Go Shakespeare Go!
Sulla 114 East ci stanno due amiche, due pazze, due attrici che si stanno mangiando la Grande Mela a grossi bocconi. Il boccone di oggi è rappresentato dalle bici. Una dignitosissima City Bike e lo Scassone Messicano. Lo scassone Messicano lo vinci con un’ipocrita moina tipo “ma no dai lo prendo io” “no dai tu hai lo zaino sulle spalle” e dopo un elegante ed inutile balletto la più furba o la meno accondiscendente si defila via veloce con la City Bike. E l’altra arranca 4 blocks indietro. Dopo un milione di miles in giro tra uptown e downtown, stasera City e Scassone ci portano al Central Park dove ci aspetta “Troilous and Cressida”. Gratis. Perché questa è New York, baby. Che ad onore del vero, fatta una media con The Lion King di ieri a Broadway fa una discreta sommetta ugualmente. Ma ieri abbiamo visto uno spettacolo che ci ha fatto piangere di commozione dalla prima nota, quindi va bene così.
Sulla 2 ave allora, stracciamo i semafori rossi al grido di “Go Shakespeare Go!” che la cultura ci autorizza la strafottenza stradale. Go Shakespeare Go, che questa mela che abbiamo addentato la stiamo succhiando con curiosità profonda e perpetuo attonimento. Go, che qui ogni minuto, ogni metro, ogni morso, capisci un po’ di più del mondo, impari, valuti e vivi. E vedi cose bellissime e terribili, come lo sguardo della donna che è stata portata via dalla polizia davanti ai nostri occhi. E quello sguardo vale di più di mille ore di masterclass di recitazione. Dentro lì c’era tutta la sua vita. E’stato un attimo solo, ma c’era tutto rimpianto, l’amarezza, la compassione per se’ stessi, la paura e la rassegnazione del mondo.
Allora bravissimi gli attori di “Troilous and Cressida”. Bravissimi davvero. Bravissimi e bellissimi, di una bellezza così distante dalla nostra, così ultra terrena che capisci che la strada da fare per arrivare a quel livello non la potrai percorrere in tutta una vita.
Ma oggi però la Vita batte il Teatro 1 – 0.
Poi domani vi racconto cosa ha fatto ieri la Combi che ora con questo post filosofico e profondo si è distratta. Vi do solo un piccolo anticipo: LA COMBI FOTOGRAFA I NANI!!!!!

Giorno 8: Siamo 2 gran [PUGNINO] califfe Facciamo parte della grande famiglia di East Harlem da quando la prima mattina che siamo scese in strada ci hanno detto “Stay safe girls, welcome to our comunity”.
Siamo diventate così amiche del padrone di casa che noleggia macchine di lusso per portarci al mare solo perché lo facciamo ridere.
Frequentiamo una pasticceria di cinesi che fanno finta di essere colombiani. Andiamo dalle parrucchiere latinas che dopo un primo momento di incredulità ci han fatto dei capelli che lllevati.
Carichiamo le bici sulla metro che manco il più consumato New Yorker.
In quanto Italiane vere siamo state accolte come ospiti d’onore alla parata “O Giglio di Gioventù” di Santa Maria Assunta.
Non ci spaventa il caldo, né i topi, né l’aria condizionata.
Ci salutiamo col pugnino.
Siamo amalgamate.
Il fatto che la Combi mi porti a vedere le vetrine dei negozi dove girano i peggio reality del mondo, tipo le Spose di Kleinfield, o fotografi i nani [“Cri cazzo fai?!?! Ma ti pare fotografare una famiglia di nani?!”
“Tu non puoi capire l’emozione!! Loro sono i nani di Piccolo grande amore!! È meglio che vedere Johnny Depp!!”] il fatto che stia studiando la cartina per trovare il Boss delle Torte non significa nulla.
Siamo due gran califfe.
Mh. Meglio di Johnny Depp.
Una califfa e la sua amica strana, dai.
Pugnino.

Giorno 9: La Resa dei Conti
Io ci ho provato a darle fiducia. Ci eravamo dette “quel che succede a New York rimane a New York”. E invece no…prendere in giro dei diversamente alti e guardarmi con sdegno gridandolo a tutto il mondo mentre chiedevo l’autografo ai miei idoli televisivi…è troppo.
SI..SONO “LA COMBI”. Pronta a svelare nuovi inquietanti retroscena della vostra beniamina.
Potrei parlarvi di ore preziose perse ad allestire pseudo set fotografici nella nostra minuscola stanzetta per scattare foto carine da mandare al maschio lontano… oppure della sindrome da Robocop che si impossessa di lei quando è sopra una bici ” mi piace il vento in faccia” grida sfrecciando velocissima come un partecipante alla Red Hook… mentre io dietro arranco…sullo SCASSONE.
E oggi? Dopo una mattina meravigliosa a sentire i cori gospel ad Harlem… ci siamo ricascate…un pomeriggio intero tra metro e vari autobus per giungere nel lontano Queens a vedere “un magnifico tempio induista”. Lascio alla documentazione fotografica qui sotto il vostro giudizio.
Mi fermo qui. Per ora.

Giorno 10: Ironaugust
Ty, il padrone di casa, ci ama moltissimo, a me and my friend girls beautiful, man watch we per la street. Non sappiamo esattamente il perché, ma crediamo sia per una sorta di riscatto sociale. Girare per gli Hamptons, che sono la zona più ricca di tutti gli Stati uniti, e dunque del mondo, con un grosso macchinone a noleggio, abbracciato a noi due, bianche e bionde, deve rappresentare un’affermazione del proprio valore difficile da capire per noi europei. Gli facciamo status.
Fa te, è la prima cosa che mi viene da pensare paragonando le mie infradito di gomma e il vestito a righe marinare agli outfit delle white chicks dei video dei rapperoni. Del resto contento lui… il problema si pone quando in un ristorante sul mare che si permette di non avere il Wi-Fi, con modelle plurilaureate come cameriere e con la fila delle aragoste volontarie davanti al pentolone pronte ad immolarsi per la gloria che manco i kamikaze a Pearl Harbour, il black man che e in lui prende il sopravvento sull’architetto di grido e comincia a dimenarsi, ridere sguaiato, fare il simpaticone con i vicini di tavolo, miliardari mummificati, vestiti tutti in bianco, orrificati da tanto progresso. A quel punto vorresti metterti in fila con le aragoste, ma poi ripensi a quello che Ty ti ha raccontato nelle due e passa ore di Mercedes. Che il suo cognome è Austin, come la città del Texas dove i suoi antenati furono portati come schiavi. Che lui, professionista di altissimo livello e ricercatore all’ università di Boston guadagna bene, ma non come un bianco. Che se sei nero, nero rimani, anche con Obama presidente.
Allora sorridi alle mummie con gusto, mostrando denti naturali e quella lieve benevolenza che si riserva a chi non potrà mai capire.
E senti di voler bene a questo ragazzone intelligente e ingenuo che disegna ospedali, progetta musei e abbandona di corsa la terrazza del ristorante se di sotto passa un pokemon. Questo bisonte sorridente che ringrazia Dio prima di abbuffarsi di cibo immondo, che se la tira, ‘che lui è bello ma poi in realtà non si leva la maglietta perché è grasso. Che non ammette ironie sui neri, che è generoso e gentile, ruvido e delicato. Che canta con la mano sul cuore e se ti sfiora una coscia per sbaglio va in panico e chiede perdono. Che affronta continuamente radicali cambiamenti di vita e vacilla davanti a un rossetto rosso.
Puro. Come solo i fessacchiotti americani sanno essere.
E allora capisci il valore della Verità, supremo baluardo della società americana per la quale la menzogna è una macchia indelebile. E capisci quella cosa ridicola dell’ESTA con le sue crocette, quelle domande imbecilli, per te, italiano furbetto e sgamato, e un po’ te ne vergogni. Che quello sguardo limpido tu non ce lo avrai mai.
Poi, per finire la giornata, dopo che in auto la mia amica è bombing sleep, arriviamo sgasando a Coney Island: tutta un’altra America, fatta di latinos e immigrati dell’est. Ma proiettano un film sulla spiaggia. Gratis, per tutti. C’è Prince sullo schermo. Un attimo dopo parte Purple Rain e la gente tira fuori accendini e cellulari. Un attimo magico.
Cioè all a thing tipo cry con real lacrime, capito?
Io capito. Ty non credo.

Giorno 11: SuperMukkadiprato
Oggi sono diventata un supereroe. Che uno potrebbe dire: ma alla tua età fai i giochi dei supereroi?
Allora, intanto non c’è un’età di riferimento per decidere di votarsi al Bene. E poi il verde mi dona moltissimo.
Ma procediamo con ordine. Colazione dalla cinese incazzosa che dopo 10 giorni ancora non ha capito che la Cri il croissant lo vuole caldo. Poi subway, che significa passare dalla foresta pluviale con 39 gradi e umidità al 200% dell”esterno, alla taiga finlandese coi lupi, le renne e tutto. – 4° fissi e bocchettone dell’aria condizionata sparato sempre dove sei più sudato (pare che gli Europei si riconoscano dal maglioncino o dalla tosse cavernosa).
Solito esame di ingegneria applicata per capire dove minchia si deve scendere.
E siamo a Brooklyn. Entriamo nel negozio. Il primo cartello che leggo dice: “i mutanti più alti di dieci piedi sono pregati di entrare dalla porta sul retro”. Ok. È il posto giusto. I superpoteri acquistabili sono moltissimi. Scelgo l’Onnipotenza che mi sembra onnicomprensiva. Vorrei anche un barattolo di immortalità, ma è finita e bisogna aspettare che lo riconsegnino. Questa cosa mi contraria: non essendo ancora immortale, l’attesa mi sembra un paradosso indisponente.
Opto per la super ispirazione che quella serve sempre, e per un vasetto di antidoto generico. Praticamente l’aspirina dei superpoteri: va bene un po’ per tutto. Poi passo alla prova mantello. Salgo su una griglia metallica con sotto un ventilatore, scelgo il mio mantello; verde. Come i miei occhi e come il prato. Ventilatore on. Vola benissimo. Sono fighissima. Ultimo step, il giuramento: Io, Francesca, prendo il nome di SupeMukkadiprato e prometto di usare i superpoteri che ho teste’ acquistato solo per perseguire il bene e lottare contro i cattivi con coraggio e perseveranza. Ed ora sono ufficialmente l’Eroina Bovina che si batte per il libero pascolo e l’abolizione del divieto di entrata ai cani. Raddrizzatrice di coleotteri cappottati, consolatrice di bestiole legate davanti ai supermarket, sbriciolatrice di pane secco per i piccioni. La silhouette di SuperMukkadiprato ora si staglia sullo skyline di Manhattan, volo col mio mantello verde per acchiappare prima che si spatascino sull’asfalto le uova che cadono dai nidi per riportarle alle mamme uccelline. Che incredibile ultima notte.
A New York succede anche questo. A New York tutto è possibile.
Vabbe’ insomma più o meno. Che tipo la Combi voleva il poliglottismo. Ma il nerd minorato che stava alla cassa ha detto che quello era un negozio di superpoteri mica la grotta della Madonna di Lourdes.

New York Blues: che cosa ho imparato
Un viaggio, a differenza di una vacanza, ti insegna qualcosa. E io ho imparato un sacco. Ho imparato che è inutile portarsi dietro libri perché tanto non li leggi, che’ se sei davvero in viaggio, qualunque altra storia non ti può interessare.
Che i dolci dei latinos sono tantissimi, hanno nomi esotici e forme strabilianti ma rimangono sempre uguali alle ciambelle di mia nonna.
Ho imparato che le prediche delle messe gospel sono pezzi di cabaret, che i fedeli ridono e sono pieni di gioia, e che le funzioni dei neri sono molto più animiste che cristiane, e questa cosa è bellissima.
Ho imparato a pronunciare “tired” che non si dice “taired” come dicevo io ma “taiard” e a levare qualche “o” quando dico “c’mon” [e questo mi sia d’ insegnamento visto che giusto un anno fa prendevo in giro il gaaaaa maaaaa dei thailandesi].
Ho imparato che per non far innamorare disperatamente un americano, che pur con grande rispetto poi ti si appiccichera’ al culo come una cicles su una panchina, è meglio evitare di coordinare rossetto e smalto.
Ho imparato a leggere la mappa della metro. E son soddisfazioni.
Ho imparato a non schifare il mio paese perché qui da noi le finestre si posso aprire e il weekend non lavoriamo.
A non esultare accazzo alle partite di sport di cui non conosci le regole.
Ho imparato che tutto il mondo è paese e che i cinesi stan sul culo un po’ a tutti. Simpaticamente parlando.
Ho imparato la gentilezza di chi devia dal suo percorso per accompagnarti per un pezzettino se ti vede con la cartina in mano.
Che i ragazzi americani sono i più belli che io abbia mai visto.
Che le americane invece sono mediamente dei bidoni vestiti male (e qui la riflessione scatta spontanea: dunque coordino smalto e rossetto, trovo un ragazzo fotonico e mi trasferisco. Poi però ti torna in mente quella cosa che le finestre non si aprono e soprassiedi).
Ho imparato che meno ti aspetti da un posto, più questo posto ti sorprenderà e lo amerai per la distanza tra ciò che credevi e ciò che è.
Che viaggiare da soli è bellissimo ma che con la Cri ti faranno male gli addominali dal ridere.
Che tornare fa sempre piangere.
Ma che a casa c’è un cagnolino che salta su e giù dalla tavola dalla felicità e quindi è bellissimo così.
Infine, ho imparato che nonostante i buoni propositi, il souvenir del fesso a New York è inevitabile, che la maglietta alla fine te la compri.
Si, perché porco cane I love NEW YORK !


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