Asia

Cambogia: più Indochine che Kampuchea

di Francesca Pierantoni
CAMBOGIA
Giorno 1:
Un gattino che gioca con un gomitolo
Eh si.
Si torna a viaggiare.
Ne sono cambiate di cose in questi due anni.

Ne sono cambiate così tante, che molte sono tornate normali.
Le code ai gate, la gente senza mascherine, i sorrisi con i denti belli in vista, nessun qrcode da mostrare per poter fare cose.

Gli strascichi ci sono ancora: il più evidente riguarda i costi dei voli, lievitati da una domanda isterica: dopo due anni di niente, ora la gente ha fame di mondo, di avventure, di storie da raccontarsi e raccontare.

Un “qui e ora” che pare aver raggiunto anche chi prima ponderava, soppesava, attendeva.

Questi due anni ci hanno insegnato che chissà che succede domani.

Quindi daje con l’oggi, che è l’unica cosa reale che abbiamo.

Questa cosa mi sta un po’ sulle palle, devo dire. Mi toglie quella mezza aura da illuminata che mi sentivo addosso: io, che ho capito come si sta al mondo, vengo raggiunta nella mia posizione filosofica sulla vita dalla mammina pancina col principino sul passeggino, che si lancia in una vacanza alle Canarie, invece di Rivabella coi nonni.

Facendo raddoppiare il costo del mio biglietto.

Eh. Come si fa a non farselo stare sulle palle.

Vabbè. Magari un ripasso di illuminazione tra i templi cambogiani mi farà avere un atteggiamento più bonario. Vedremo.

Fatto sta che, tutti a rincorre l’oggi, per poter acquistare un biglietto fino a Phnom Penh senza spendere più di 2.000 euro, sto peregrinando in un susseguirsi senza senso di tappe in giro per il mondo, tanto che se si prende una mappa e una penna, e si uniscono i puntini degli aeroporti che toccherò in questi due giorni (2 GIORNI, maledetta pancina) si ottiene un grazioso disegno di un gattino che gioca con un gomitolo.

E qui mi nasce una domanda: ma come?

Mi racconti che eh beh, sai, la guerra in Ucraina… i prezzi… il gas… il carburante…

poi se vado dritta in Cambogia, consumando, poni, un barile di greggio, spendo il doppio che a consumarne tre, saltando come un canguro epilettico tra Bologna, Zurigo, Monaco di Baviera, Bangkok e Phnom Penh?

Tu mi vuoi dire che la lobby delle Pancine è più potente di quella del petrolio?

Questo viaggio si annuncia pieno di rivelazioni.

Intanto sono arrivata sul penultimo aereo. Domani sarò a Bangkok.

Quasi sulla palla del gattino.

GIORNO 2: Phnom Penh

Del perché si ritorna sempre

Atterro nella capitale (che si chiama Phnom Penh con la P, non Fnom Penh, mica è Philadelfia) e mi arriva quella botta di Asia che è il motivo per il quale torno sempre in questa parte di mondo.

Certo, il motivo è anche che è uno dei pochi viaggi intercontinentali che mi posso permettere, visto il bassissimo costo della vita, ma c’è di più. Molto di più.

L’ atmosfera tropicale, dolce e decadente, l’eco di un passato coloniale che ancora risuona tra le colonne dei patios dei palazzi dei funzionari francesi, l’afa umida che profuma di jungla e frangipani e ti scende giù densa, nel collo e nei polmoni.

I banchetti di cibo per strada, con gli enormi pentoloni sul fuoco vivo, i tavolini e gli sgabelli per bambini su cui siedono rattrapiti gli avventori (giuro che stavolta ci vado in fondo e capisco perché non usano quelli normali). Ecco, tutto questo mi è diventato irrinunciabile.

E i colori così pieni: l’oro svettante sui tetti dei templi, l’arancio dei drappi dei monaci, il verde delle palme. Colori sfacciati. Senza paura di essere troppo.

Certo, la sindrome di Stendhal che ti coglie la prima volta, non arriva più, ed è anche per questo che ti ostini a ricercare. Che torni, e torni, e torni, ma quello sconvolgimento totale ormai è andato. Ormai lo sai che si piange di meraviglia, e non piangi più per la meraviglia di meravigliarti di meraviglia.

(Si vabbè. Questa cosa sembra scritta da Karl Valentine, e non fa nemmeno ridere, ma insomma spero si capisca).

Torno, e ritrovo quel mix di contraddizioni spettacolari che sono le capitali del Sud Est Asiatico: splendore e miseria, modernità e medioevo. Un “vorrei ma non posso” che a un occhio poco sensibile potrebbe sembrare patetico. Ma ai miei occhi è molto tenero.

Questo sforzarsi di assomigliare al mondo occidentale, senza averne le radici, la cultura, la necessità, mi ricorda la dignità delle nonne che ti dicevano: “vestiti bene di sotto, che se ti capita qualcosa e finisci in ospedale, poi che figura ci facciamo?”

E così è Phnom Penh con la P, che vista da sopra, arrivando dal cielo, con tutti i modernissimi grattacieli sembra New York. Però una New York più maraglia, con tutte le lucine che profilano ogni angolo esposto, una Grande Mela come un bazar cinese.

E così è la tua camera d’albergo, scelta con cura su Booking, tra quelle più belle e comode, perché lo sai che a causa della Maledetta Pancina arriverai distrutta da 2 giorni di viaggio. E lo trovi un bell’ambiente, come lo avevi visto online.

Poi però apri la porta del bagno e capisci quanto aveva ragione tua nonna a insistere.

E a non fare figure di merda.

Giorno 3: Phnom Penh

La Belga Sapientona

Io ho il bioritmo della gallina.

Vedo buio e mi addormento. Subito. Bam.

Dormo 8 ore, e quando mi sveglio sono in pari col fuso.

Favoloso.

Questo potrebbe essere un problema in inverno, in Scandinavia: buio. Bam.

8 ore di sonno. Mi sveglio. Buio. Bam.

Ma qui siamo in Cambogia. E il problema non si pone.

Quindi, stamattina, fresca come una rosa, mi sveglio alle 8.00, le 3 di notte in Italia, senza fare una piega.

Incontro una tipa che sta nel mio stesso albergo. Anche lei viaggia da sola, è belga. Si chiama Helen. Con o senza l’h, non ho idea.

Mi si azzecca subito.

Che fai, dove vai, anche io sono sola.

Eh, tesoro mio belga, se sono sola ci sarà un motivo. Comunque, faccio cose con il mio tuk tuk, con cui ho appuntamento dopo colazione.

“Ah dai bello, posso venire con te per un pezzo? Così dividiamo il prezzo del tuk tuk.”

Vabbè dai, facciamo che magari ci troviamo dopo colazione e decidiamo.

Magari nel frattempo cambia idea…

Trovo un posto carino, molto turistico, a pochi passi dall’albergo, non ho molto tempo. Decido di fare colazione lì.

Dopo 3 minuti, arriva anche lei.

Mi guarda con schifo.

Ma che vuoi, chi ti conosce? Comunque anche meglio così, se ti sto sul cazzo non ti azzecchi.

Prende una sedia e si siede.

“Ah. Vabbè. Caffè espresso. Come in Italia.

Io invece ho mangiato un amok al baracchino qui di fianco.”

A’ cosa. Sentimi a me. Tu mangi quello che vuoi e io non ti rompo il cazzo. Io bevo quello che voglio e tu non mi rompi il cazzo.

E se pensi che io non sappia cos’è l’amok, tenerella, sappi che lo so benissimo. Ma non mi va di buttarmi a bomba (giacché sono arrivata solo ieri sera) a mangiare riso in salsa di pesce fermentato la mia prima mattina. Lo assaggero’ come e quando mi pare a me. Chiaro?

E comunque non credo che tu voglia venire con me col mio tuk tuk. Perché mi faccio portare ai Killing Fields e al Tuol Sleng.

“Cosa sono?”

Mi chiede cosa sono.

Questa Elen, con o senza l’h, mi giudica perché faccio colazione in un bar per occidentali, fa la figa viaggiatrice solitaria, si mangia l’amok a colazione come i nativi, poi mi si azzecca per smezzare il tuk tuk.

E non sa un cazzo della Cambogia.

Beh, sono cose fondamentali da vedere, se vieni in Cambogia. (Questo è fondamentale. Non mangiare a colazione le zozzerie che mangi tu. Ma non gliel’ho detto. Nella mia testa avevo già vinto game, set e match).

Comunque ok, se ti va possiamo andare insieme. Poi quando siamo li, ognuno per la sua strada.

(Ti voglio vedere raggelare. Voglio vederti il terrore negli occhi. Voglio che scappi via. Non col mio tuk tuk. Con uno che ti paghi da sola).

I Killing Fields sono a 15 km da Phnom Penh, che nel traffico del Sud Est Asiatico è un trasferimento di una certa durata.

Così io e la Belga chiacchieriamo un po’. Fa la fisioterapista. È qui per un convegno internazionale che comincia domani, è stata in Vietnam, con un viaggio totalmente organizzato da un tour operator, ed è qui che ha sviluppato un feticismo per le zozzerie mangiate nei posti più immondi. Perché in Vietnam glielo facevano fare.

Fra una gimkana e l’altra, il tipo del tuk tuk schiva con maestria centinaia di pazzi alla guida di scooter kamikaze (tutti con la mascherina sul naso. Ma nessuno col casco. Strano rapporto con la morte) e intanto, in un inglese traballante, anche lui si mette a parlare con noi.

Ci racconta che lui c’era, sotto il regime di Pol Pot. Era un bambino di 7 anni. Fu strappato alla sua famiglia e fu mandato con gli altri della sua età ai lavori forzati nelle risaie. Mangiava un pugno di riso al giorno, sotto costante minaccia di morte. Picchiato selvaggiamente.

Poi un giorno riuscì a scappare attraverso la jungla. Teneva a distanza le tigri bruciando pezzi dei suoi abiti.

Lui c’era. E lo sa cosa è stato. Si ricorda la puzza dei cadaveri. Scuote la testa.

Poi siamo arrivati.

Ora prendo qualche ora per sedimentare.

Per non scrivere di pancia quello che ho visto, ed elaborare meglio.

La Belga si chiama Ellen, senza l’H e con due L. L’ ho scoperto dopo quello che abbiamo visto insieme oggi.

Ora condividiamo l’amicizia su Facebook, e un’esperienza che ci lascerà un segno per sempre.

Giorno 4: Phnom Penh

Piastrelle ocra e bianche

Prima di partire sapevo a malapena chi fosse Pol Pot.

Sapevo che era un dittatore sanguinario, ma io ero troppo piccola, e la Cambogia troppo lontana per essere curiosa.

La storia dei Khmer Rossi era rubricata come “cosa del passato che boh”.

Poi, quando decido di andare, ovviamente mi pongo la domanda: che successe? Chi erano questi qui? Che hanno fatto?

Ho cominciato a cercare le prime notizie online. Poi ho letto libri. Ho visto film.

Mi sono fatta un’idea della brutalità di un regime che voleva resettare tutta la società precedente per farne nascere una nuova, più egualitaria, in nome del comunismo.

Peccato che il progetto prevedesse lo sterminio di ogni funzionario di stato, ogni intellettuale, ogni voce fuori dal coro. Poi, siccome non era abbastanza, ogni straniero, ogni giornalista, ogni professore, ogni medico, ogni persona che SAPESSE LEGGERE.

Non è un’iperbole. Ti mettevano davanti a uno scritto. Se lo leggevi eri morto.

Se eri molto bravo a fingere magari ti salvavi. Ma forse era meglio se morivi subito.

Se non morivi, ti mandavano come schiavo nei campi di riso, dove morivi di fatica, di fame, di malaria, di malattia.

Ovviamente nessuno ti curava. Perché avevano ucciso tutti i medici.

Se per caso uno era riuscito a mentire facendo finta di essere analfabeta, non è che ti veniva a curare a te.

Se ne stava zitto zitto a vederti morire.

Perché?

Il perché è lo stesso che ci rispondiamo noi europei riguardo al Nazismo.

Un’ idea di cambiamento orribilmente malata, che per essere applicata ha bisogno di una violenza inimmaginabile.

I Khmer Rossi di Pol Pot volevano una “repubblica democratica socialista agraria” dove loro comandavano e facevano quello che gli pareva.

E gli altri, secondo una logica feudale, lavoravano.

Anche i bambini. Che, come il mio autista di tuk tuk, fu strappato alla famiglia e mandato nei campi.

Anche i suoi genitori finirono nei campi di lavoro. Ma diversi. Non è che ti facevano stare insieme. Che è, una vacanza?

I bambini più dotati intellettivamente venivano rieducati:

“Mamma e papà sono delle spie della CIA, quindi, se non ci sono, non si piange.

Anzi, se per caso ti vengono a cercare, questa è una pistola, tieni, tu li vedi e gli spari.

E già che hai la pistola, fai quello che vuoi. Spara. Si. Bravo. Spara a quel bambino lì, che si è fermato a masticare una radice, invece di lavorare.”

I bambini non hanno passato. Non hanno memoria. Non hanno rimpianti. Non fanno paragoni.

Sono perfetti per il disegno criminale di questi qua.

Poi, il Vietnam invade la Cambogia, e quello che di solito sarebbe un atto di guerra, diventa la salvezza dei Cambogiani superstiti.

Un quarto di tutta la popolazione, nel frattempo, 3 milioni di persone, erano morte.

Morte male. Malissimo. Morte peggio che in tutto il resto della storia dell’uomo.

Peggio che ad Auschwitz?

Peggio. Cioè uguale. Senza esperimenti medici, ma con con molte più torture fisiche. Tantissime torture fisiche.

Intollerabile sapere quante.

C’è un posto a Phnom Penh che prima del 1975 (il 1975, Cristo, non il medioevo) era un’università.

Poi divenne la prigione S-21.

E c’è un pavimento in questo posto. Un pavimento particolare, a piastrelle ocra e bianche.

Tra una piastrella e l’altra, tra le fughe, si vede ancora l’ombra scura del sangue.

Stanze, e stanze, e stanze, stanze che sembrano non finire mai, con quell’ombra tra le fughe.

Torture. Indicibili. Intollerabili da dire.

Un silenzio che è carico di urla.

Indicibili. Intollerabili da immaginare.

E foto.

Centinaia, migliaia di foto.

Di uomini prima vivi.

Poi di corpi contorti dal dolore.

Poi di cadaveri, finalmente.

E davanti a quelle foto di bocche spalancate nella morte, tu, col tuo zainetto in spalla e la Belga Sapientona di fianco, provi sollievo.

Per fortuna sei morta, bellissima ragazza coi capelli a caschetto.

Per fortuna sei morto, uomo con gli occhi terrorizzati.

Io quelle piastrelle non me le dimenticherò mai.

Mai.

Giorno 5: Koh Rong

Cani e zuppe

Sono arrivata stamattina su quest’isola tropicale, nonostante il monsone che rendeva le strade impraticabili per la pioggia.

Ho detto: io ci provo. Se il tempo fa schifo, amen. È agosto, è normale.

Infatti il tempo fa schifo.

E sì. Me la sono cercata.

Almeno ha smesso di piovere, e vado a rilassarmi sulla spiaggia.

Appena sdraiata sul lettino arriva un randagione che mi limona e mi si sdraia sopra.

Ehi ho trovato un cane! Ho un cane tutto mio anche in Cambogia!

No aspe’. Sono due. Sono tre… sono cinque!

Colonizzano il mio ombrellone, prendendosi tutte le sdraio.

Insomma, divento la loro padrona in un attimo.

Il pomeriggio passa ozioso tra letture e bagni in un’acqua salatissima che costringe a farsi la doccia col bagnoschiuma, tanto che pizzica una volta uscita.

Poi è ora di cena. Ho preso un bungalow molto bello in un resort sulla spiaggia: una decina di palafitte reggono le camere, tutte di legno, incastonate tra il verdissimo degli alberi. Un posto incantevole.

Il ristorante è rinomato. E decido di provare qualche piatto tipico della cucina khmer (che sarebbe la maggiore etnia dei Cambogiani).

Già nei giorni scorsi avevo assaggiato diverse cose, ma non me la sentivo ancora di esprimermi.

Ecco. Parto da un’osservazione di un’amica , che guardando le foto di tarantole fritte, cavallette in umido e spiedini di serpente, scrive che questo è il posto giusto per cominciare una dieta.

Temo sia esatto.

Non perché ci siano solo quelle zozzerie lì da mangiare, ovvio che no. Ma perché il cibo della tanto celebrata cucina khmer io personalmente ancora non l’ho capito.

Non si può dire che non sia buono.

Perché si sente che è cucinato bene, che i sapori sono equilibratati. Il problema sta nel fatto che è tanto diverso dal nostro.

Ma non diverso, che ne so, come il cibo indiano, che è speziato, strano, particolare, ma in qualche modo riconoscibile.

Qui si mangiano cose che io non ho mai assaggiato né visto da nessuna parte.

E ripeto, non sono “cattive”.

Sono infingarde.

Tipo, vedi sul menù la foto di un piatto che si chiama tom yum: una sorta di brodetto di latte di cocco con dentro gamberi e varie verdure.

Lo ordini. Arriva profumato e fumante, con tutte le verdure… i pomodori, il basilico, le melanzane, le penne (le penne?? Mo veh…) le patate arrosto (nella zuppa…? Vabbè…) Prendi il cucchiaio e versi un po’ di zuppa sulla tua montagnetta di riso bianco.

E assaggiamo queste penne col riso…

Non sono penne.

È una roba dura, che si scheggia sotto i denti.

Fai conto una cannuccia di bambù tagliata in diagonale. Come le penne.

Si mangia? È una decorazione? Sta lì a fare brodetto come le conchiglie delle cozze?

Devo farmi forza e masticare?

Facciamo che no.

Passiamo alla melanzana, che qui andiamo sul sicuro.

Orcatro’… che è ‘sta roba?

Non è cattiva, è buona. Sa di fungo champignon e ne ha la stessa consistenza.

Solo che è fatto come una melanzana.

Questo provoca una dissonanza cognitiva che ti manda in tilt.

Scoordina occhi e papille gustative in un modo buffissimo, che non avevo mai provato.

Proviamo con le patate arrosto.

Che sono tocchi di zenzero abbrustoliti grandi così, che ti fulminano le mucose.

Eh. Se i giapponesi lo zenzero lo tagliano fino fino, ci sarà un motivo, non trovate, o Cambogiani?

Ho paurissima a mettermi in bocca quella roba che sembra un pomodoro.

Mi faccio coraggio.

Minchia.

È un pomodoro!

Dentro mi rimbombano delle voci che si sovrappongono:

PAISANO!! Funiculì Funiculà! MARCIELLO COME HERE! Lasciatemi cantareeeee! L’ ITALIA È IL PAESE CHE AMO! Uno, due, tre, alza il volume nella testa è qui dentro la mia festa, baby Dai, forza pendiamone un altro e mettiamoci sopra il basilico!

Sa di limone, il basilico. Di limone, Chreesto.

Non è cattivo. Ma è una fatica porca resettare le percezioni ad ogni boccone.

Infatti a questo punto il mio cervello mi fa:

Basta. Hai rotto il cazzo.

Non hai più fame.

Ma è buono!

No. Mi hai rotto le palle.

Mh. In effetti non ho più fame.

Manfatti.

Insomma. Lascio mezzo tom yum. E mi dispiace, perché riconosco che è un ottimo piatto, ma, vacca giuda, non ho più fame.

Solo che pare brutto lasciare il cibo in questo ristorante dal buon nome.

Allora chiamo i miei cani, che girellano tra i vari tavoli.

Provo con le penne.

Mi guardano come mi guarderebbe una mucca se le tirassi una pallina.

Provo con lo zenzero.

Mi guardano come mia madre quando prendevo 2 in greco.

Provo col basilico.

Se ne vanno da un cinese che sta mangiando una pizza.

Ingrati.

“Is it ok your food, Madame?”

” Yes, it’s delicious, but my brain told me… vabbè non ti sto a spiegare, but I’ ve had enough.”

E per non tradirmi lascio anche la coca cola appena aperta.

Quando dopo poco mi è tornata fame ho ordinato un milk shake all’ananas.

“What’s inside?”

“Sorry, Madame?”

“What you put in the pineapple milkshake?”

“… pineapple and milk…”

“And that’ s it?”

” You want to add sonething?”

“NO NEED! Just milk and pineapple.”

E devo ancora provare l’amok della Belga Sapientona.

Mado’, torno in Italia magra e figa, regaz.

Nel frattempo, ho perso i miei cani, che delusi, ora hanno un nuovo padrone.

Il cinese con la pizza.

Giorno 6

Questioni di soldi

In Cambogia costa tutto pochissimo!

In Cambogia vivi con 10 euro al giorno!

In Cambogia ti tratti da regina tirando fuori due spicci!

Adesso, non è che mi voglia lamentare, perché sarebbe immorale, però diciamo che la situazione non è quel Paese dei Balocchi che si narrava.

La vita costa decisamente meno rispetto all’ Europa, ma sensibilmente di più che, ad esempio, in India o in Birmania.

Almeno fino qualche anno fa quando sono andata io.

Intanto la prima difficoltà da affrontare è quella della moneta locale, il riel.

Il riel non vale niente. Ma sul serio.

Per fare un euro ce ne vogliono 4.000.

Le monete non esistono (hanno solo banconote): avrebbero valori infinitesimali.

In più, questi furboni dei Cambogiani si sono inventati un escamotage formidabile: i pochi bancomat in giro per il paese erogano solo dollari americani. Così tu ritiri dollari, paghi in dollari, e loro il resto te lo danno in riel.

In questo modo, obbligandoti a fare una doppia conversione ad ogni acquisto, ti fanno una specie di giochino delle tre carte per disorientarti:

Questo è il tuo spray per le zanzare, questa è la tua banconota da 5 dollari, 5 dollari meno lo spray fa 8.220 riel. Giusto, Madame?

No aspetta n’attimo. Allora, lo spray costa…

Attenzione, Madame. Qui c’è lo spray. Qui ci sono i riel: dove sono i dollari?

E ho detto un attimo!

Ecco i riel. Ecco i dollari. Dov’è lo spray?

Minchia, un secondo, che sto aprendo il convertitore di Google…

Madame. Qui c’è lo spray, lì c’è la fila, questi sono i riel di resto: li vuoi o no?

E VABBÈ DAMMI STO RESTO!

Una mazzetta alta due dita.

Esci. Conti. Converti. E immancabilmente ti accorgi che qualcosa ti hanno fregato, poco, qualche centesimo. Mezzo dollaro al massimo. Perché non è che il cambio possa essere proprio preciso. Si arrotonda.

Però, guarda caso, ci perdi sempre tu.

Se fosse tutto in dollari o tutto in riel sarebbe molto più facile: lo spray costa 10.250 riel? De ne do 11.000 e mi dai il resto di 750. Facile, no?

È pur vero che se devi andare a cena, o se devi pagare un albergo, diventa problematico.

Si. perché ogni pagamento elettronico è un’atroce invettiva contro Dio, e ogni carta è percepita come figlia dello dimonio.

Only cash, Madame.

Quindi o ti presenti con una ventiquattr’ore piena di riel in contanti come un narcotrafficante, o tiri fuori un’unica carta da 50 dollari e festa finita.

Anche se poi la ventiquattr’ore ti serve per portarti via il resto.

E questo è il discorso della doppia conversione.

Poi c’è l’altra questione. Quella dei prezzi. Perché è vero che tu hai Google, e lo usi contro di loro.

Ma anche loro hanno Google, e lo usano contro di te.

Ma andiamo per ordine.

In tempi non connessi dovevi andare, metti, alla stazione degli autobus.

Fermavi un tuk tuk.

” Quanto vuoi per portarmi alla stazione degli autobus?”

” Oddio, Madame! Ma è lontanissimo. Ci vorrà un’ora! Facciamo 10 dollari”

(che poi glieli davi ed eri pure contento. Che stai un’ora in taxi a Bologna, e vedi).

Oggi chiami un tuk tuk;

” Quanto vuoi per portarmi alla stazione degli autobus?”

” Oddio, Madame! Ma è lontanissimo. Ci vorrà un’ora! Facciamo 10 dollari”

” Certo, Fenomeno. Come no. Guarda qui su Maps. Sono 5 minuti. Ti do due dollari e siine felice”.

Non ti fregano più. E lo vedi che gli rode di brutto. Li senti che masticano bestemmie nella loro lingua, e tra le bestemmie senti un suono tipo “gugol”.

Poi però te la fanno pagare.

In tempi non connessi ti pagavi una cena completa 1 euro e mezzo:

Antipasto. Riso bianco. Enorme piatto di verdure. Acqua.

Ora ti siedi. Loro vanno in cucina a googolare, e il tuo piatto di riso con la melanzana che è un fungo lo paghi 6 euro e mezzo. Che per carità, mai e poi mai lo troveresti a questi prezzi in Europa.

Però rispetto a qualche anno fa è un bel salto.

Io non solo odio ogni paragone nostalgico, ma credo fortemente che la tecnologia della comunicazione ci abbia semplificato tantissimo la vita.

Quindi va benissimo così, anche se ci siamo persi parte del fascino del viaggio.

Giorno 7: Sihanoukville

Umidità

È noto che n Sud Est Asiatico esistano 2 stagioni: la stagione delle piogge e la stagione secca.

È altresì noto che quella in cui riesco a partire io sia sempre quella delle pioggie.

Ormai ho una discreta esperienza del clima monsonico, tanto che posso darvi delle dritte di massima, casomai decideste di avventurarvi pure voi ad agosto a queste latitudini.

La cosa da ricordare sempre è di non mettere le scarpe, e meno che mai i calzini.

Sempre e solo infradito di gomma. Buone, non quelle dei cinesi, che al primo fango che ti ingloba, il pirullo centrale ti esce.

Per lo stesso motivo è opportuno vestirsi sempre il meno possibile.

Meno ti vesti, meno ti bagni.

Illudersi di contrastare il fenomeno con qualsiasi abbigliamento tecnico fa tenerezza come Fantozzi quando va a sciare.

È utile anche sapere che tutto ciò che si bagna nella stagione monsonica si asciugherà solo una volta tornati in Italia.

In hotel puoi avere tutta l’aria condizionata che vuoi ma il costume da bagno te lo rimetti bagnato. L’asciugamano non ne parliamo proprio. I braghini di jeans faranno un sentiero di gocce fino ai taxi fuori dal Marconi.

Stamattina, partendo dall’isola di Koh Rong diretta a Sihanoukville, ho preso il monsone perfetto.

Un’ acqua così mai nella vita.

Avevo il kway e l’ombrello.

Il kway l’ho buttato. L’ombrello sto provando a rianimarlo. Ma è accanimento terapeutico.

Insomma, arrivo a Sihanoukville bagnata come un pulcino, solo per aver fatto i metri che mi separavano dalla banchina d’attracco della barca alla prima tettoia del molo.

Poi trovo riparo in un locale con l’aria condizionata. Tutta bagnata così è un freddo porco, ma almeno l’aria è asciutta e non aggiunge umidità a umidità.

Sono le 11, e devo stare qui a Sihanoukville fino alle 19, orario in cui parte il mio bus notturno per Siem Reap.

Escludo di stare chiusa al Luna Cafe tutto il tempo.

Fuori sembra di stare sotto il tubo per le piante.

Che faccio?

Mi vengono in mente due opzioni.

Il cinema lo scarto subito. Non sono abbastanza radical chic per un film cambogiano in cambogiano.

L’altra opzione è la spa. Che bella la sauna! Caldo secco, finalmente!

Chiamo un tuk tuk sotto il diluvio e mi faccio portare in questo centro trovato su Agoda, un Booking di queste parti.

Mille stelle. Posto fighissimo. Recensioni top.

Andiamo!

10 minuti dopo sono davanti a quella che sembra l’entrata di servizio della lavanderia di un hotel alla buona sulla Riviera Adriatica.

Mi ricorda il deposito dove con le amiche andavamo a prendere le bici a Valverde.

5 dollars, Madame, e dietro una tendazza di plastica da doccia mi si spalanca la spa a mille stelle.

Allora. Non è che io sia così invornita da credere alle recensioni online.

Ma qui si sta esagerando.

Questo è dolo.

Questo è dire alla tua amica: “ti presento uno che è troppo uguale a George Clooney” poi le porti tuo nonno, che manco è brizzolato, è calvo proprio.

Una cantina a Scampia ha più dignità di questa luxury spa.

Comunque che faccio?

Fuori diluvia. Qui hanno la sauna bella caldina, secca secca… io ho bisogno di asciugarmi e respirare qualcosa che non sia acqua.

Entro.

Lo spogliatoio non c’è.

Ti tiri la tendazza e ti spogli tra i vibrioni neri attaccati sopra.

Poi prendi un pareo da metterti addosso per coprire le nudità, stranamente pulito (ma era marrone scuro, poteva nascondere inside) e vai verso la sauna.

La prima cosa che ti salta all’occhio è che la finestrella della porta che dovrebbe stare ad altezza viso sta ad altezza ginocchia.

O è fatto apposta perché i cambogiani sono mediamente abbastanza bassi, oppure la porta è montata al contrario.

Vabbè, alla fine a me che me ne frega.

Entro.

La sauna è nera di muffa.

Macomecazz…

Eh certo. La porta montata al contrario non si chiude bene. Rimane aperto uno spiraglietto che subito trasforma questo angolo di Finlandia in uno scolo di Calcutta.

Mi siedo nel piano meno ammuffito che trovo e giro la clessidra.

La sabbia non scende

È bagnata.

E amen.

Faccio la mia sauna, che più che una sauna è un hammam. Ma va bene lo stesso. Alla fine, anche questa è un’esperienza.

Poi doccia, ammuffita pure quella, poi asciugamano, ovviamente umido.

La tipa che sta lì a seguire i clienti, io e una ragazza cambogiana, ci porta due bricchi di roba calda da bere.

Intuisco che sia una tisana relax.

Ma la tipa non porta bicchieri.

La Cambogiana beve direttamente dal bricco. E mi fa segno di fare lo stesso.

Ooookkk…

Paese che vai…

La tisana è allo zenzero. Fortissima. Calda. Buona.

Ha smesso di piovere, nel frattempo.

Mi rivesto, coi vestiti umidi sulla pelle umida, e niente.

Sono di nuovo coi piedi nell’acqua delle strade allagate.

Non si vince contro il monsone.

Il monsone accade e basta.

E tu lo prendi e basta.

Non lo schivi. Non lo aggiri.

E qui gli esseri umani, gli animali, le piante, semplicemente, stanno.

Non si arrabattano a cercare soluzioni.

Aspettano che passi.

Accettano la natura delle cose.

Si impara molto sotto il monsone.

Quando un’amica mi ha chiesto “ma cosa fai quando piove?” mi è sembrata una domanda strana. So che non lo è, so che per noi è normale pensare “che due palle”.

Eppure, se ci sei dentro a questo mondo, se lo vedi da vicino, senti che è così dolce, che è così facile lasciare che sia.

Perderò tutta questa consapevolezza, appena sarò tornata a casa.

Ma, se ho imparato qualcosa, lascerò che sia.

Tornerò occidentale, come è nella natura delle cose.

Giorno 8: Siem Reap

Françoise

Ok.

Diario molto zen: che ti sta capitando, Franz?

Boh. Non lo so.

Continuate a leggere solo se avete una incrollabile fiducia in me e nelle mie facoltà intellettive. Sono sempre io.

Vi ho avvisati.

Vi è mai successo di sentirvi appartenere a qualcosa che in realtà non vi appartenente affatto?

Di sentire un legame con qualcosa con cui non avete alcun legame?

Non sto parlando di situazioni o luoghi nei quali stiamo inaspettatamente a nostro agio, o che amiamo incondizionatamente fin dal primo momento.

Queste sono situazioni di benessere, che ci fanno sedere e dire: questo posto è “il mio posto”.

Vi sarà capitato. Anche a me e capitato diverse volte, di sentirmi “chiamata” senza motivi pregressi da situazioni totalmente nuove.

Qui mi sta capitando una cosa diversa. Difficile da spiegare, da capire, da accettare.

Noi siamo così razionali, così pragmatici. Così scientifici.

Eppure, io appartengo, in parte, a questo mondo.

E non è una bella sensazione.

È un dolore. Una nostalgia struggente. Un rimpianto che mi spinge a piangere.

E non mi era capitato mai.

È successo in un momento preciso. Ascoltando una vecchia canzone francese sotto il diluvio dell’isola di Koh Rong.

In quel momento mi si è aperto un cassetto di ricordi non miei. Ma che ho sentito fortissimo.

Stanze ombreggiate. Odori di cibo e incenso. La sensazione di una stoffa più ruvida della canotta di Tezeniz che avevo addosso. E quella musica.

Ero lì, in una stanza in penombra, era tanto tempo fa, forse ero francese, credo, non so.

Ho cominciato a piangere come una fessa.

Che cazzo c’entro io con tutto questo?

Perché mi fa questo effetto?

Vite precedenti? Tempo circolare che ritorna?

Suggestione?

Ma suggestione de che? I miei ricordi sono legati ad altri suoni, odori, luoghi.

Mi posso commuovere a pensare ai librini che mi leggeva la nonna in vacanza a Riccione.

Cosa c’entro io con l’Indochine?

Poi mi viene in mente un altro strano indizio.

Mi ricordo che il film “L’ Amante”, tratto dal libro della Duras, mi colpì tantissimo. Ma non la storia. Le finestre. Di quelle finestre mi ricordo i dettagli infinitesimali.

Mi ricordo quell’atmosfera, che io credevo mi avesse rapito per la bellezza delle immagini, come una cosa inspiegabilmente familiare.

Io non lo so che è ‘sta roba. E ripeto, non è divertente, né facile da gestire.

Perché ogni tanto vedo, o sento, o odoro una roba a caso e mi devo mettere gli occhiali da sole, anche se è tutto nero, sennò mi vedono zigare come una cretina.

Basta la vecchia foto coloniale appesa fuori, sul pianerottolo della mia stanza.

Basta un palazzo, un’ombra, spesso una musica (qui di musica tipica ce n’è tanta, si sente molto per le strade) o un silenzio.

Adesso te dimmi perché a volte un silenzio mi commuove.

A volte no, eh? Attenzione.

Certi silenzi mi commuovono. Solo alcuni.

Allora forse ho trovato il perché ritorno qui. Forse inconsciamente stavo cercando qualcosa.

Ora l’ho trovato?

Anche questa cosa che tutti, sempre, da sempre, in questa parte di mondo mi scambiano per francese può essere un indizio?

Non lo so.

Giuro, è talmente strano che non me lo spiego. Non mi fa paura, non mi fa riflettere, non mi fa cercare.

So perfettamente che, almeno in questa vita, io non ho niente in comune con questo mondo. E non voglio un legame più stretto di quelli che ho, razionalmente, con la Cambogia.

Guarda che cosa pazzesca. La parola Cambogia non mi dice nulla.

La parola Indocina mi smuove una piccolissima cosa dentro.

Ma io lo sento che è diverso.

Minchia.

Sono una colonialista di merda.

Oppure, come dice la mia amica Monica , è la menopausa.

Giorno 9: Angkor Wat

Grandezze

Se si viene in Cambogia, per forza, si passa per Angkor Wat.

Tutti abbiamo negli occhi templi che sorgono nel fitto della jungla. Tutti ricordiamo le avventure di Lara Croft. Tutti sappiamo più o meno cosa sia questo posto.

Chi non c’è ancora stato non sa però QUANTO sia questo posto.

Allora, visto che sono qui, provo a darvi due consigli in diretta.

La prima cosa che sicuramente non vi aspettereste è quanto è grande questo posto.

Si, certo, sulle guide lo leggete che con la bici si va poco lontano, meglio avere un mezzo a motore.

Ma detto così non ci si rende conto uguale.

Me ne sono accorta il primo giorno che sono arrivata qui, quando sono andata a fare il biglietto nel centro visitatori, indignandomi di aver fatto i kilometri con un robino elettrico che mi ero presa a noleggio.

Ma quarda tu che disorganizzazione. Mettere la biglietteria così lontana dall’ingresso dei templi.

Peccato che non ci sia un ingresso.

L’area è così ampia che non è possibile recintarla.

Così, qui sono organizzati in vari check point: ogni tempio ne ha uno, e si mostra il biglietto prima di entrare.

E per fortuna che ci sono i check point, perché sennò mica li vedresti certi templi. Che mica sono a vista. Eh no. Troppo facile. Dove sta l’avventura, allora?

Vedi il controllo, scendi dallo scooterino, ti incammini.

Cammini. Cammini. Cammini, magari sotto la pioggia, o coi piedi nel fango, e nell’attimo preciso in cui ti domandi se per caso hai sbagliato strada, perché il dubbio ti è già venuto 5 minuti fa, ma ancora la domanda non te la eri posta precisa, eccolo. Lo vedi. Il Tempio.

Per farvi un esempio pratico: da dove si lascia il mezzo, per arrivare all’ entrata dell’Angkor Wat, proprio il tempio, quello più famoso, quello che è anche sulla bandiera, c’è un km abbondante da fare.

Sotto la pioggia, o sotto il sole la fatica è uguale: la pioggia ti ammazza e il sole ti uccide, non cambia nulla.

Una volta che sei all’entrata devi attraversare un lago, su un ponte fatto di taniche incastrate l’una all’altra: una soluzione provvisoria perché il ponte vero è in restauro.

Da lì ad arrivare al tempio, e a percorrerlo tutto fino in fondo, è una passeggiata tipo tra Porta San Felice e Porta San Vitale.

Che devi fare tutto bello coperto, soprattutto se sei femmina, per contrastare il fenomeno delle influenZer che ci venivano a fare le fotazze tuttignude per avere un’allure très sauvage, e riempire il feed di carisma e sintomatico mistero.

Mavvaffanculova.

Avete costretto tutto il mondo a schiattare di caldo. Maledette.

Quindi consiglio nr. 1: portatevi un foulard leggero, che se almeno lo dovete tenere sulle spalle non vi uccida. Occhio alle ginocchia. Se vi vedono le ginocchia siete delle influenZer e non vi fanno entrare.

Consiglio nr.2, riallacciandomi agli spazi siderali dei luoghi: appena entrati, subito, senza perdere tempo, cercate l’uscita.

Ci vorrà un paio d’ore, nelle quali vagherete in tutto il tempio visitandolo a fondo.

Questo succede perché i templi sono spesso fatti ad aree concentriche e simmetriche.

Sono veri e propri labirinti per il senso dell’orientamento di un cristiano normale.

Roba che ti fai due km convinto di trovare il tuo robino elettrico, ma sei uscito dal lato sbagliato.

Così ti tocca tornare indietro, perché per passare da fuori, dal perimetro, allungherebbe ancora la strada: fuori ci sono i giardini, il lago, l’area si fa sterminata, poi arrivano le scimmie e si incazzano se non gli dai del cibo.

Altro consiglio da tenere a mente: occhio ai guardiani dei templi. Cercano di farvi da guida, ovviamente vogliono dei soldi, e soprattutto vi si azzeccano e vi parlano. Tantissimo.

Ma di dove sei? E come ti chiami? Ma sei da sola? Perché sei da sola?

Lo sai cos’è questo?

È un bassorilievo ordinato dal re Salcazzo che voleva ringraziare il Dio Blabla per avere vinto la battaglia di Staminchia.

Senti amico. Se sono da sola c’è un motivo. Sarà che voglio stare da sola?

Eh si. Non mi sembrava difficile.

Non mi interessa la storia del bassorilievo, perché tanto del re Salcazzo non so nulla, quindi comunque non capirei il contesto.

E non voglio che mi spieghi niente, perché voglio stare in silenzio, da sola.

In più, l’energia cerebrale che sto impiegando a capire il tuo inglese bestiale potrebbe, nel caso, farmi prendere una laurea in semiotica dei bassorilievi Khmer, ma, guarda un po’, non ora. Quindi mollami e fammi meravigliare nella mia assoluta ingnoranza e in silenzio.

Non ce l’ho mica fatta a dirgli così. Sorridevo con la furia negli occhi e basta.

Se non vi interessa, siate tranchante.

Oppure, questo l’ho provato più volte e funziona di brutto: “sono andata un attimo in bagno, scusa devo raggiungere il mio gruppo!”

E quando finalmente sarete soli, potrete cercare di stare in questa magnificenza.

A me non è stato facile, il primo giorno.

Troppo.

Troppo grande il posto, troppo rigogliosa la foresta, troppo grandi le distanze, troppo grandi i templi, troppo grande la fatica di fare km a piedi in questo umido insopportabile, troppo grandi le aspettative.

Ho fatto una specie di scudo per non lasciarmi travolgere da tutto quel troppo.

Non sono nuova a questo tipo di esperienze, ma per la prima volta mi sono sentita intimorita da questa mole massiccia di roccia grigia, piena di storia e muschio.

Da queste teste colossali, questi volti grandi come il mio appartamento, che con gli occhi severi fanno la guardia al loro mondo.

Come facessero quelle a stare nude, io veramente boh.

Devi essere impermeabile a qualunque coscienza del bello vero. A qualsiasi finezza dell’anima, alla seduzione del magico, al rispetto dell’immenso.

Ho provato a fare foto. Ma tutta quella roba nelle foto non ci stava.

Non ci sta davvero, non è una metafora.

Tu fotografi una cosa che lì davanti a te è maestosa, imperiosa, eterna, poi apri la foto e non si vede nulla. Un ammasso di sassi istoriati.

Fotografi la nuda materia, non la fiaba che sta tutta intorno, tangibile.

Questa roba qui non ci sta a farsi catturare e portare a casa.

Mi vuoi? Vieni da me.

Come una regina vera, questa terra si mette sul trono a farsi baciare l’anello.

Appena lo capisci metti via la macchina fotografica, il telefono, quello che hai, e cominci ad esplorare. A guardare. A stare.

Qui e ora.

La magia di Angkor Wat credo stia qui.

Provare a raccontarla sarebbe fare un torto a una simile sovrana.

Si può solo dire che è più di un posto incredibile.

È un incantesimo ancora potente.

Venire qui è farne parte.

Assorbirne un po’ ti connette con un tutto molto più grande.

Così grande che a girarlo mi è finita la batteria del robino elettrico.

E sono ferma in mezzo alla jungla, e si è messo a piovere.

E ci vogliono 7/8 pedalate poderose per fare un metro.

E sono al almeno 20 km dal noleggio, che non posso chiamare perché quelli non capiscono una minchia di inglese neanche a gesti, figurati al telefono.

Allora fermo un tuk tuk, sfodero il mio gattamortismo, che stavolta ha un fine nobilissimo, e mi gioco la carta della fanciulla in difficoltà.

Così il tizio si carica il robino a scavalluzzo del tuk tuk, io dietro col robino, a tenerlo coi piedi, che non caschi di sotto.

Il tutto per una cifra pari al noleggio giornaliero del robino. 7 dollari.

È un furto, ma mi lascio turlupinare perché davvero non sapevo come fare.

Tanta grandezza merita uno scooter vero, a benzina. Quello che non mi hanno voluto noleggiare subito, cani infami.

Vedendo una donna mi hanno detto che bastava il robino.

Domani arrivo con un enduro, impennando tra il fango.

Nuda.

Giorno 10: Siem Reap

Dieci cose che la vostra Lonely non vi dirà

Siamo arrivati all’attesissimo appuntamento con le dritte di nicchia per viaggiatori che non si vogliono limitare all’utile.

Quando si ha il superfluo, infatti, si è ben oltre al necessario.

Quindi via alla solita carrellata di tips di colore ma insipienti che comincia così:

1) Nascondete la vostra abbronzatura. Essere coloriti è il segno dell’infamia, tipo in Francia nel ‘700. Se sei abbronzato sei un contadino, quindi l’ultimo anello della catena sociale.

Lavorare la terra qui è un mestiere vero.

Mica come da noi che ora fare l’agricoltore è diventata un’attività più radical chic che il critico d’arte. Conosco gente che ha lasciato lo studio di architectural light designing per avviare un’azienda biodinamica di lupini.

Ma qui questi salamelecchi non attaccano.

Contadino è contadino.

Abbronzatura = indigenza.

COROLLARIO al punto 1): se partite dall’Italia senza crema idratante perché avete solo il bagaglio a mano e non ve la fanno portare, pensando “tanto la trovo là” sappiate che no. Cioè si, ma solo SBIANCANTE.

Che chissà cosa c’è dentro. Paurissima.

Io ho risolto peregrinando di negozio in negozio fino a trovare la crema post bagnetto della linea Bebe’ Bijou.

2) Non lo ripeterò mai abbastanza: occhio ai cambi e ai resti! Vi fregano di brutto.

Io ci avrò lasciato 50 dollari in resti dati male.

Che poi mi prende la spocchia imperialista e dico: “guarda Ciccio lo so che mi hai fregato. Ma fa lo stesso. Io sono superiore a queste vili questioni di denaro. Tienteli. Godi”.

Io non sarò mai ricca. Mai.

3) Qui va di moda un botto uscire col pigiama.

Più è imbarazzante più è fashion. Portatevelo dietro, quello che vi ha regalato la nonna con le Super Chicche: spopolerete, e finalmente darete soddisfazione a casa quando, tornando, mostrerete le foto.

4) Non impressionatevi troppo quando vedrete in giro decine di mutilati in ogni parte del corpo. Sono il frutto ancora vivo della guerra civile dei Khmer Rossi. Che avevano minato tutto il paese.

Ora stanno sminando. Ma ancora di zone a rischio ne rimangono. E soprattutto rimangono i feriti.

Per lo stesso motivo, non fatevi spaventare dai tanti “pazzi” che girano per le strade.

Gente con tic ossessivi, gente che parla da sola. Anche questa è un’eredità atroce del genocidio, ancora troppo recente perché possa non lasciare tracce.

5) Fa un caldo porco. Inutile negarlo. Quindi appena arrivati avrete l’urgenza di comprarvi i pantaloni tipici, di cotone leggerissimo. Con quelle fantasie opinabili, tipo caroselli di elefanti, o corone di fiori e Buddah dormienti.

Sappiate che quei pantaloni lì sono lo stigma dello straniero in vacanza: nessun locale si metterebbe mai un capo del genere (eh certo, loro hanno il pigiama).

È come comprarsi il cappello da gondoliere a Venezia.

Fa subito citrullo occidentale da acchiappare.

Con quelle braghe lì addosso, state attentissimi ai resti.

6) Il durian, un frutto tipico, è bandito da tutti luoghi chiusi per via del fetore insopportabile che emana. Se proprio vi pungesse vaghezza di assaggiarne uno, sappiate che lo potete fare solo in strada. Il che ci porta direttamente al punto nr.

7) Il cibo qui è particolarmente fuori dall’ ordinario per i nostri canoni: insetti, serpenti, rane, lumaconi, tartarughe, coccodrilli… qui si mangiano di tutto. Non rischiate di assaggiare queste prelibatezze per sbaglio, perché sono ben segnalate sui menu.

Il consiglio infatti è LEGGETE BENE I MENU.

E qui si torna al discorso della dittatura, quando la fame era tale, che la gente di nascosto incideva il collo delle mucche nelle stalle per succhiarne il sangue.

Una tarantola fritta è come brodo grasso, per i Cambogiani.

8) Io non credo che qualcuno abbia voglia di assaggiare il coccodrillo per motivi meno nobili di quello che sto per dirvi, ma per semplice schifo.

Comunque, i coccodrilli sono allevati nelle crocodile farms. Dove vengono trattati malissimo.

Evitate di essere complici di questa cosa.

E non comprate mai, da nessuna parte nel mondo, pellame di coccodrillo.

9) Ci sono tantissimi cani in giro per tutto il paese. Stanno mediamente bene. Sono pasciuti, a parte certe femmine che hanno dei brutti prolassi nei genitali.

Comunque, stanno molto meglio che in altri paesi che ho visto.

Qui ogni famiglia ha un cane, o meglio, ogni cane ha una famiglia di riferimento che in qualche modo se ne occupa.

Se tentate di farvi seguire, o se date loro del cibo, arriva padrone che vi sgrida.

10) Nelle pagode è uso lasciare delle offerte in denaro, in cibo, o in articoli per l’igiene e la bellezza. Troverete i canonici recipienti di metallo lavorato pieni di banconote, dentifrici, fiori, rossetti, banane e mascara.

Che è una cosa bellissima, a pensarci bene.

Pensate se lo facessimo noi cristiani: invece di accendere un cero alla Madonna di San Luca, arrivare su con un fard e dire:

“Soccia Mary, sei un po’ smunta oggi. Tieni. Ti ho portato il pesca 03 di Kiko. Che te che sei dell’armocromia Estate ti sta da Dio. Cioè no, da Madonna, insomma ci siamo capiti”.

Prendiamo esempio. E portiamo questa usanza nelle nostre chiese così cupe!

Ecco qui la mia selezione.

Ne sapete come prima della Cambogia?

Non sono mica la Lonely.

Che volete da me.

Giorno 11: Phnom Penh

E allora Grazie

Oggi lascio Siem Reap con lo strazio nel cuore, e torno nella capitale per il mio ultimo giorno in terra cambogiana.

Poi inizierà il mio lungo viaggio di ritorno, che prevede due giorni di sosta in India, a Delhi, città che non ho mai visto, ma solo toccato tra un volo e l’altro.

I miei giorni a Siem Reap sono stati troppo pochi, solo quattro. Quattro giorni pienissimi che avrei voluto fossero almeno il doppio, ma come si fa: bisogna trovare un compromesso tra soldi, giorni di ferie, impegni, cani, famiglie.

Dopo questi 10 giorni così intensi cosa mi rimane?

Un’ esperienza così viva tocca tutti e cinque i sensi. Voglio appuntarmi quello che ho sentito più forte.

Il caldo appiccicato addosso, il collo bagnato di sudore. La camicia di lino sempre umida.

Il piccolo peso della borsetta sulla spalla sinistra.

Il profumino della baby crema mischiato al repellente per zanzare. L’ aroma dolciastro dei banchetti che cucinano in strada. La puzza dei mercati. L’odore della bottega all’angolo che faceva una specie di bombolone fritto con dentro la crema di yogurt e il mango.

Il rumore violento degli scrosci sulle enormi foglie della jungla. Una vecchia canzone francese. I richiami notturne di animali sconosciuti. La cantilena contorta tra inglese e khmer che finisce con “Madame”.

Il sapore meraviglioso del succo di mandarino, i piccoli ananas già sbucciati da mangiare a passeggio. Il pepe sopraffino. La rivelazione dell’insalata di papaia con la menta.

Le piastrelle, le cataste di teschi. Le stanze piene di foto, che ci sono ma che non puoi guardare, e di urla, che non ci sono, ma che puoi sentire.

Il verde pazzesco della vegetazione. Le scimmie che si rincorrono tra gli antichi monumenti. Il mio scooter bianco e rosso. I dettagli chic del mio albergo bellissimo.

E poi c’è il Sesto Senso. Quello che qui mi è esploso. E non mi ha cambiata. Mi ha dato una consapevolezza. Come a scuola, quando studi geografia, e impari i confini, le capitali.

Non è che quella cosa lì ti cambia.

Però ora la sai. Prima non la sapevi.

È una cosa che ti accompagnerà per sempre.

Il mio quarto giorno a Angkor Wat sono tornata nel tempio principale. Per un ultimo giro. Un ultimo saluto. Mi è salita una gratitudine immensa solo per fatto di esserci.

Di stare bene, di essere forte e sana, ed essere lì.

Una gratitudine piena per aver vissuto anche momenti di inspiegabile malinconia, quella nostalgia assurda che mi ha fatto capire che stavo tornando.

Dove, come, perché… non lo so.

È stata un’esperienza anche questa.

Non so cosa voglia dire. Ma me la tengo cara.

Una volta che mi dovessi trovare a dover piangere in scena, nella mia testa mi dirò “bienvenue à nouveau à Indochine, Madame” e ciaone. Singhiozzi da Oscar proprio.

Quindi grazie Cambogia. Grazie dal profondo del mio cuore.

Sappi che ti amo, con i tuoi templi potenti, con gli scoli di acqua lurida.

Ti amo con i tuoi vestiti lasciati appesi fuori casa, perché dentro è troppo umido.

Ti amo con i tuoi grovigli di fili elettrici, con il caldo di quando viene il sole, ma anche quando è tutto grigio, e piove, e io amo la tua pioggia. E aspetto.

Ti amo così. Non arretrata come la Birmania e non occidentale come la Thailandia.

Povera ma dignitosa.

Ferita e ancora tremante.

In viaggio.

Come me.

Ci sarebbero state foto bellissime da fare. Sguardi profondissimi. Uomini, donne, bambini nel pieno di una vita che offre scorci unici.

Ma io non riesco a scattarle.

Mi vergogno a violare la vita degli altri.

Un uomo con una maglietta gialla, disteso su un’amaca bluette davanti alla sua casa di legno. La porta aperta su un interno spoglio e buio.

Sarebbe stato un attimo da cogliere.

Ma io non ce la faccio a portare via questa anima così intima.

Così mi terrò il ricordo. Fino a che tornerò.

Ancora una volta.

Sono già tornata.

E tornerò ancora.

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Marco

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