Ritorno in India

di Paola Ceccacci Piazza –
Come desideravo tanto dopo neanche un anno dal primo viaggio, il 27 dicembre siamo tornati in India, questa volta più preparati culturalmente ed emotivamente. Altro itinerario scelto con cura per continuare il discorso di febbraio 1999, rivolto all’arte degli edifici religiosi indiani. Un viaggio che ha significato percorrere un cammino lungo millenni e ricostruire, immortalate dalla pietra e dalle tinte degli unici dipinti in grotta dell’India, le tracce dell’influenza ellenistica assorbita all’arrivo di Alessandro Magno (326 av.Cr.), e non solo. Il viaggio sempre della durata di 18 giorni, guidato ancora dalla stessa straordinaria docente di iconografia buddhista della Ca’ Foscari di Venezia come a febbraio, questa volta è partito da Bombay, l’odierna Mumbai, nel Maharashtra, la regione famosa per la coltivazione del cotone. Orgogliosamente proclamatasi “urbs prima in Indis” Bombay è la città economicamente più importante del subcontinente indiano. E’ una delle città con Calcutta più densamente abitata (oggi più di tredici milioni di abitanti su una superficie di 300 kmq) che vive soprattutto dell’attività del grande porto e conta su una zona industriale di notevole proporzione. La sua storia parte dal 1534 quando un certo sultano cedette ai portoghesi un gruppo di isole nel Mare Arabico. Nel 1661 Caterina di Braganza, sorella del re del Portogallo Alfonso, le cedette a sua volta agli inglesi come dote in occasione delle sue nozze con Carlo II d’Inghilterra. Successivamente affittate alla Compagnia delle Indie Orientali, che si era impegnata a versare grande quantità di oro, le sette isole abitate da pescatori per la natura stessa del suolo si unirono tra loro dando vita a una nuova terraferma che man mano si popolò diventando città, per ricevere tutti i viaggiatori in arrivo dal Mare Arabico.

Le navi attraccavano dove oggi fanno bella mostra di sé il prestigioso Taj Mahai Hotel e la vistosa Porta in basalto giallo chiamata “Gateway of India”, fatta costruire nel 1911, in occasione della visita di Giorgio V e della moglie Mary. Nello stesso punto dove adesso attraccano i battellini che portano all’isola di Elephanta per la visita al grandioso santuario di Shiva. Saltabeccando da un battellino all’altro per via di un ormeggio non proprio canonico siamo partiti alla volta dell’isola che dalla costa non si vede. Un’oretta di navigazione ed ecco Elephanta o isola di Gharapuri. E’ il vero inizio del viaggio che ha per tema “La grotta e la Montagna Celeste: Rito e Arte in India” (quello di febbraio invece aveva avuto come tema “II Mahabharata”, uno dei due grandi poemi epici della mitologia hinduista). Il nome di Elephanta glielo dettero i portoghesi perché vi trovarono un’enorme elefante in pietra. Le grottetempio sono molto belle anche se tutti i siti indiani scavati nella roccia (come Ellora, Ajanta, di cui racconterò a suo tempo) hanno sempre qualcosa di terrifico. Si entra in uno spazioso mandapa, il vestibolo che collega l’ingresso al garbhagrha, (si legge garbagrikha) che è la sancta sanctorum (o grembo materno, recettacolo dell’embrione, stanza del ventre) del tempio e dove è custodita l’immagine della divinità principale, come il “linga” shivaita. La grotta più grande di Elephanta ha una sala di ventiquattro colonne finemente lavorate con capitelli a cuscino e una pianta cruciforme dove troneggia un incredibile busto di Shiva a tre teste, alto cinque metri, che rappresenta la divinità come Creatore, Protettore e Distruttore. Dal punto di vista contenutistico le immagini del tempio sono tutte riconducibili a leggende della mitologia shivaita, tramandata dai poemi Purana. Dopo la lenta decadenza del buddhismo il termine Shiva (benevolo, misericordioso) assurse con Vishnu e Brahma (la trimurti hindu) a una posizione primaria tra le divinità, perché Shiva è il dio che possiede tutte le componenti creative e distruttive dell’universo, allo stesso modo in cui Vishnu riassume l’idea e l’essenza della continuità di tutto ciò che è nel mondo e Brahma, sorto dall’Uovo Primordiale, è la prima mente cosciente dell’universo, colui che regola la legge del karma di ogni essere vivente.

Ma nel tempio di Shiva compaiono anche altre divinità, come Ganesha, signore dei gana, le truppe divine, protettore delle grandi imprese, patrono delle lettere, personificazione della saggezza. Perché ha la testa da elefantino? Figlio di Shiva e di Parvati un giorno fa messo a guardia della sala da bagno di sua madre che voleva dedicarsi alle abluzioni. Shiva preso dal desiderio della moglie pretese di entrare ma Ganesha lo impedì: Shiva infuriato gli mozzò la testa ma poi impietosito prese la prima che passava (quella di un elefantino) e gli e la mise sul collo creando un bambino panciuto dalla testa di elefante che la religione hinduista adora con grande affetto.Tutte le sculture a lui dedicate lo raffigurano in sella al suo topoveicolo, con quattro mani per tenere un pestello, un disco, una conchiglia e un giglio acquatico, con tré occhi e una sola zanna. Ganesha il simpatico.

Aurangabad, sempre nel Maharashtra, è una cittadina graziosa che prende il nome dall’imperatore Moghul Aurangzeb e il Mausoleo di BibiKaMaqbara è una degna opera architettonica moghul del 1700 indiano, che imita il Taj di Agra. Nelle sue grotte, che si raggiungono inerpicandosi su un sentiero quasi di montagna, è conservato un consistente patrimonio di testimonianza buddhista. Sono 9 templi rupestri scavati nel tufo basaltico tra il III e il IX secolo dopo Cr. Una sola grotta è di scuola Hinayana (o del Piccolo Veicolo), le altre appartengono alla scuola Mahayana (o del Grande Veicolo). All’intemo si trovano le celle dei monaci e un deambulatorio che ha sempre di fronte una statua del Buddha con ai lati qualche bodhisattva, che nel buddhismo indica colui che, giunto attraverso stadi d’illuminazione alla soglia del nirvana, rinuncia ad entrarvi per restare nel mondo ad assistere gli altri esseri viventi. Senza essere pedante, siccome indovino che chi legge a questo punto si interrogherà su cosa sono il Piccolo e il Grande Veicolo, dò una veloce spiegazione: il buddhismo Hinayana indica la forma primigenia della dottrina del Buddha, dedita alla meditazione contemplativa per pervenire più in fretta possibile alla salvezza individuale ed è strettamente legato all’ordine monastico che si organizzò nei monasteri dopo la morte di Shakyamuni.. La corrente Mahayana invece è tutta pervasa di compassione al punto che il monaco, ignorando il suo percorso personale, intraprende il faticoso cammino del bodhisattva. Grazie alla sua saggezza che gli fa riconoscere la vacuità di tutto ciò che è mondano, egli è al riparo da ogni attaccamento alle cose terrene e può dedicarsi ad aiutare gli altri a raggiungere il nirvana. Il termine bodhisattva si riferisce anche al Buddha nelle sue vite precedenti e il bodhisattva Maitreya per i buddhisti è il prossimo Buddha che apparirà sulla Terra, segnando la fine dei tempi.
Aurangabad è la cittadina più vicina alle famosissime grotte di Ellora e a quelle di Ajanta, definite dall’Unesco nel 1983 patrimonio dell’Umanità. Quelle di Ellora, descritte con fantasia anche da Salgari, comprendono addirittura 34 templi di fede buddhista, jaina e hinduista, scavati nella roccia più di mille anni fa. Gli artisti giunti dai luoghi più remoti hanno saputo modellare interi monumenti trattando la pietra viva con tecniche mirabili. L’opera che lascia sbalorditi è il tempio di Kailash, dal nome della mitica montagna dimora di Shiva e di tutti gli altri dei indiani (si può fare un riferimento all’Olimpo greco). Questo tempio, ricavato da un enorme blocco rettangolare di roccia vulcanica nera, in soli venti anni, è (per chi ama le cifre) alto 90 metri e si estende per 1700 mq; tanto è vero che visitandolo si perde il senso dell’orientamento perché è tutto un salire, scendere gradinate, entrare nelle celle, attraversare tempietti come quello che ospita il toro Nandi, veicolo di Shiva, percorrere spaziosi atri. Il tempio nelle sue decorazioni esteme è una sorta di grande libro illustrato con il tema di tutta la mitologia hinduista, episodi dal Mahabharata e dal Ramayana, raffigurazioni tratte dal poema epico Purana. L’immagine di culto ospitata nel garbhagrha dietro il linga (che in sanscrito significa segno distintivo) è quello di Shiva Mahesvara, suo triplice aspetto, quello sereno, quello truce e quello creativo, come ho già raccontato parlando delle grotte di Elephanta.



Le 29 grotte buddhiste di Ajanta sono a circa 100 km. da Aurangabad e sono uno dei monumenti più preziosi dell’India perché oltre a sculture contengono gli unici affreschi rupestri esistenti, ancora in buonissimo stato nonostante le grotte siano state dimenticate per secoli. Soltanto nel XIX secolo, possiamo dire due secoli fa, furono scoperte da ufficiali_in glesi durante una battuta di caccia alla tigre. Le 29 grotte, databili dal II sec. a.Cr. al VI d.Cr., scavate una accanto all’altra sul ripido versante semicircolare delle colline Indhyan, a picco su un torrente sono tutte buddhiste ma si differenziano per l’utilizzo che i monaci ne facevano. Quattro sono dette “caitya” cioè luoghi destinati alla preghiera, le rimanenti sono “vihara”, vale a dire alloggi per i monaci. All’intemo si resta incantati per la bellezza degli affreschi nei quali dominano le colorazioni del rosso e del bruno. Molti affreschi sono ancora leggibilissimi e narrano di cortei reali in adorazione davanti all’albero della bodhi, l’albero sotto il quale Buddha ebbe l’illuminazione, di prodigi, come il sogno di Maya che preannunciava la nascita di Shakyamum, episodi tratti dalle precedenti vite del Buddha Gautama, Siddhartha con la moglie Yasodhara prima di lasciare il suo magnifico palazzo reale e la vita di corte, il suo incontro con la malattia, il dolore la povertà e la morte. La grotta 19 resta impressa per il suo impianto architettonico: la sala ha il soffitto a volta e oltre venti colonne la dividono dal corridoio della deambulazione; al centro un grande e massiccio stupa a forma campaniforme sul quale manca il parasole di legno, segno buddhista di dignità e di onore. Sulla facciata le finestre che mandano luce all’interno hanno la ricorrente forma a ferro di cavallo. Dopo un comodo viaggio in treno della durata di otto ore con cestino preparato dall’albergo di Jalgaon, tenuto da un nobile sikh con moglie bella e fiera siamo arrivati a Bhopal per festeggiare tra di noi il passaggio del millennio e visitare lo stupa di Sanchi forse il monumento più straordinario del viaggio. La cittadina è ancora nota per un disastro ambientale provocato nel 1984 dalla rottura di un serbatoio della società americana Union Carbide la fuoriuscita di 15 tonnellate di metilisocianato, gas tossico usato per la produzione di pesticidi fece gran numero di vittime, ma oggi è un centro di scarsa importanza che guadagna dal poco turismo in visita alla collina di Sanchi. Fu l’imperatore Ashoka, convinto assertore e divulgatore del buddhismo a gettare nel III sec.a.Cr. le fondamenta di questo grandioso stupa. Percorrendo il sentiero rituale che corre intorno alla vedika, la maestosa balaustra alta quasi cinque metri dello stupa, si compie la stessa deambulazione, seguendo il tragitto del sole, che ogni devoto buddhista deve fare per tré volte di seguito. Questo incredibile monumento voluto da Ashoka, ha quattro gigantesche porte che introducono però solo alla vedika perché lo stupa non ha vie di accesso essendo soltanto un reliquiario buddhista. Questi quattro torana, lavoratissimi scolpiti e intagliati come se fossero di avorio, narrano la vita del Buddha, le sue vite precedenti, le mirabili storie dei suoi discepoli. Sanchi emana una serenità senza pari e tutto il nostro gruppetto (eravamo solo in 10) avrebbe voluto sostarvi più a lungo per assaporare questa pace. Era il 1 gennaio 2000 e la collina era frequentata da ragazzi e ragazze in vacanza scolastica rapiti dal luogo, educatissimi e vestiti a festa, sorridenti verso di noi e auguranti con affetto 1 happy new vear; abbiamo stretto tante mani e passato un pomeriggio stupendo, indimenticabile.

A Varanasi sono arrivata con raffreddore e forte tosse: sono rimasta in albergo nel tardo pomeriggio quando Nicoletta, Julian e sei del gruppo sono andati al Gange. Vi avevamo sostato anche a febbraio e l’emozione che mi aveva dato era per fortuna ancora tutta dentro di me. Il fiume e la ragion d’essere di Benares, gli hìndu devoti dai palazzi e dalle campagne, da ogni dove dell’India desiderano morire vicino a queste sacre sponde: vecchi, malati si fanno trasportare a Benares dalla famiglia che dopo la morte del loro caro torna via. Quasi tutte le strade e il dedalo dei vicoli porta al fiume venerato: attraverso un intrico di viuzze i miei amici e Gian Carlo sono arrivati sui ghat, le scalinate che scendono fino all’acqua. Tra un via vai di indiani, mi hanno raccontato, hanno raggiunto per merito di un ragazzo che si era offerto come guida, il Manikarnika Ghat, luogo di cremazione per eccellenza. Questo ghat è sovrastato dal tempio di Tarakesvara, dietro al quale si trova un bacino: un mito hindu racconta che sarebbe stato scavato da Shiva mentre cercava un orecchino che sua moglie Parvati aveva perduto, e poi riempito del sudore del dio.C’erano già tré pire che bruciavano i loro defunti e un altro rogo era in attesa di essere acceso: in quel momento è arrivata una piccola processione guidata da un brahmano che portava il tizzone sacro, il fuoco che deve restare sempre acceso, e anche la quarta pira ha iniziato a bruciare. Il silenzio regnava sovrano e lo scoppiettio dei tronchi che mandavano scintille non disturbava la religiosità del momento. I parenti stavano intorno alla loro pira immobili, dignitosi.come distaccati e solo uno, quasi nudo per via del forte calore, versava sui legni olio e particolari aromi per medicare l’acre odore della cremazione. Nessuno ha badato al gruppetto di turisti attoniti; “abbiamo assistito ad un funerale ma quanto sono differenti le nostre credenze con quelle di questa gente sulla separazione e sull’estremo addio” mi ha confidato Mirella, molto scossa da quella toccante serata.

Da Varanasi saremmo dovuti partire alla volta dell’Orissa con il DelhiPuriExpress ma il treno o per via dei 14 elefanti bianchi scappati proprio quel venerdì dal Rajaji National Park e dispersi sulla strada ferrata, o di una bomba in un altro Express che aveva provocato il ferimento di ventidue persone (tutto letto sul Thè Industan Times)i non è mai arrivato alla stazione di Moghul Sarai che il nostro gruppo non dimenticherà più nella vita. Per continuare il viaggio abbiamo preso un aereo per Delhi, quindi abbiamo proseguito, tornando indietro con altro aereo, per Bhubaneshwar. Già nel percorso dall’aeroporto alla città abbiamo visto i segni disastrosi del ciclone dei primi di dicembre: gigantesche palme sradicate, grossi rami di enormi banyan tree spezzati, casupole contadine schiacciate sul suolo, carcasse di animali. Ma la gente non sembrava dare impor tanza a queste rovine: tutto era calmo, la vita nei villaggi scorreva lenta e serena come sempre. In un villaggio abbiamo sostato a lungo, chiacchierando con i ragazzi già a casa da scuola. Abbiamo scoperto che un barbiere va da loro una volta alla settimana e loro lo ripagano con tré chili di riso che lui vende per procurarsi rupie e fare dell’altro. Il capo della piccola comunità ci ha mostrato con grande orgoglio il piccolo orto vicino allo stagno, il bestiame di proprietà, il forno tandoor fatto di creta, le pitture murali sulle pareti di fango e paglia delle casette, eseguite dalle donne con la calce. Un villaggio operoso, come quelli che desiderava Gandhi, convinto assertore che il benessere dell’India sarebbe venuto solo dalle campagne, dove le ragazze, tornate da scuola, fanno lezione di ripasso ai più piccoli, gli fanno fare i compiti e ricamano a punto catenella deliziosi animaletti su strisce di tessuto che poi vendono al mercato. Bhubaneshwar e le vicine Konarak e Puri sono le città dei templi più belli dell’Orissa, splendori d’arte di grande fascino.Il tempio per gli hindu è il luogo predisposto ad accogliere il Dio e per ogni fedele ci vuole un linguaggio appropriato. Infatti tutto il tempio è la metafora dell’universo intero e dell’essere che l’ha generato. Il fedele a suo piacere deve poter scegliere una lettura verticale, in salita verso il sikhara, la sommità del tempio, attraverso segni e sculture, oppure una lettura orizzontale che può essere fatta con la circumambulazione, fino ad arrivare al garbhagrha dove è posta la divinità principale, per un rito di sacrificio che ogni volta porta alla trasformazione di sé a livello più alto. Sembra che a Bhubaneshwar, dove Indirà Gandhi tenne il suo ultimo discorso prima di essere uccisa (un monumento la ricorda, alta, fiera, mentre scende una gradinata) ci fossero un tempo settemila templi, intorno al suo lago: oggi ne è rimasto qualcuno in piedi, e quelli in perfetto stato sono dei templi attivi, molto frequentati dai fedeli hindu. In uno di questi templi abbiamo assistito alla preparazione del cibo sacro a base di verdure solo locali e riso, che viene cotto da uno stuolo di cucinieri in ambienti protetti ai lati del tempio, poi portato all’interno per la benedizione del brahmano e a sera venduto ai fedeli che a basso costo possono sfamarsi. Il ricavo consente di rimborsare chi ha comprato la materia prima, remunerare chi ha lavorato, in una sorta di consumismo indiano alimentato anche dalla Religione, come ha rilevato Gian Carlo, dato che la Chiesa in India non esiste. I templi di queste cittadine sono in arenaria rossa e gli artefici di questi straordinari monumenti misero grande attenzione nel sikhara, la sommità della torre, visibile anche da molto lontano. Konarak sorge vicino al mare e i primi navigatori la indicavano col nome di Pagoda Nera. L’impressione davanti al tempio dedicato a Surya la cui struttura riproduce quella del carro del Sole, con dodici coppie di gigantesche ruote, è stata più che di stupore. Chi avrà ideato simili bellezze, quanti artisti vi avranno lavorato? sono domande che vengono alla mente senza avere grandi risposte: si può sapere chi ha ordinato simili capolavori (Surya per esempio è stato voluto dal rè Narasimha Deva I nel 1238, e alcuni momenti della sua vita sono raffigurati dai rilievi che decorano le pareti del tempio) ma nessuno saprà mai i nomi degli architetti e degli scultori che anno dopo anno, giorno dopo giorno hanno creato queste ricche costruzioni coperte di sculture, intagli, decorazioni geometriche e floreali, altorilievi e bassorilievi. All’entrata il tempio del Sole ha conservato la sala delle danze, chiamata natamandir, alla quale si accede con una scalinata e dalla quale si domina la facciata dello stupendo complesso architettonico.

L’impatto con Calcutta è stato durissimo anche perché venivamo da piccole e serene cittadine, da campagne ridenti coltivate a lenticchie e a ceci, distese di cotone e di riso dove la silhouette delle donne in sari si stagliava con grazia pittorica, da visite a grandiosi monumenti inseriti in una natura benigna. Per Calcutta mi piace riportare una frase di Pasolini che scrive:”La vita in India ha i caratteri dell’insopportabilità” e quella di Manganelli che dice “In India il mostro è” a casa, in questo Paese che non conosce l’orrore, l’uomo dell’orrore può uscire dai nostri ghetti mentali, dai nostri incubi e trascinarsi ai nostri piedi”. Così è a Calcutta, la città di Madre Teresa che per una di quelle strane vie del destino cominciò a raccogliere i Destitute Dying, i morenti abbandonati dei marciapiedi di Calcutta, in uno stanzone sul retro del tempio attivissimo della dea Kali, affollato di lebbrosi e sporco di sangue dei capretti decapitati in suo onore. Perché Kali a differenza della versione salgariana, è una divinità che abita il sangue ma anche la pietà, la ferocia senza dimenticare la dolcezza e nella sua miscela di amore e terrore è degna come nessun’altra dea di devozione per il popolo hindu. Calcutta fu fondata dal responsabile della sede sul fiume Hoogly della Compagnia delle Indie. Poi divenne proprietà della Corona britannica, che vi fece il quartier generale dell’amministrazione inglese in India e quando nel 1911 la capitale dell’India britannica fu portata a Delhi attraversò un periodo di decadenza. Oggi Kalikata, nome antico, con più di dieci milioni di abitanti è considerata, con Bombay, una delle più grandi città indiane, molto attiva dal punto di vista economico per via delle sue inquinanti acciaierie ma soprattutto dal punto di vista culturale.
I maggiori scrittori indiani vivono a Calcutta, sono attivissime le case editrici, accanto alla casa dove nacque e morì lo scrittore di lingua bengali, Rabindranath Thakur, anglicizzato Tagore (1861-1941), c’è una biblioteca molto nota anche all’estero e lo Young Bengal Movement. Del poeta e musicista a Calcutta parlano ancora con grande riverenza e ricordano la famosa Scuola di Santiniketan, situata in campagna, che Tagore fondò nel 1901 per mettere in pratica i suoi ideali pedagogici. Per far studiare i bambini e gli adolescenti a diretto contatto con la natura le lezioni consistevano in conversazioni all’aperto, al modo dell’India antica. Ma un enorme problema assilla questa grande città alle foci del Gange: ed è l’invasione giornaliera di migliala di hinduisti fuoriusciti dal Pakistan e dal Bangladesh, che arrivano pieni di speranza di trovare un lavoro e vivono in condizioni di totale indigenza e degrado sui marciapiedi intorno alla grande stazione ferroviaria, dando luogo a quella misera e fatiscente “City of Joy”, descritta da Dominique Lapierre nel libro omonimo. Girando per la città britannica si ammirano monumenti inglesi importanti come la Cattedrale di St. Paul e il Victoria Memorial, inaugurato nel 1921 dal futuro Edoardo VIII, il Race Course, l’ippodromo più grande dell’India orientale nel quale ci sono anche i celeberrimi campi di Polo, ma niente riesce a togliere dagli occhi e dall’animo la sofferenza umana che si percepisce e si vede a Calcutta nei quartieri miserandi. Madre Teresa, piccola e rigida contadina serba che ha cambiato il suo nome con quello della santa di Lisieux, non ha paragone altrove, per quel che ha fatto in questa città: ha creato un orfanotrofio, il Ninnala Shishu Bhavan, una casa per i lebbrosi, la casa dei moribondi dove operano non solo le suorine dal candido sari di cotone bordato di azzurro ma anche giovani volontari da tutto il mondo, che si fermano con incredibile slancio a Calcutta per tre mesi. Ora tutte le confessioni dell’India, brahmani e mussulmani, sikh e parsi, hindu e jaina le rendono onore con le loro ghirlande di petali freschi, grandi foglie colme di fiori di ibisco, calendule e pezzi di noce di cocco, con il suono dei campanelli e i loro mantra.. L’ho potuto toccare con mano trovando nel negozietto del tempio sikh di Calcutta in vendita, la statuina da presepe di Madre Teresa. “Questo labirinto di devozioni attorno alla minuscola suora sacramente poderosa è una esperienza indimenticabile, uno dei tanti impossibili di questa terra impossibile” dice ancora Manganelli.

Ma è tempo che io faccia la mia riflessione su cosa mi hanno dato 36 giorni in India in uno stesso anno, senza perciò lasciare il tempo agli occhi, al cuore e alla mente di dimenticare. Al centro di mille sofferenze e fatiche enormi l’India scopre ogni giorno i segreti della fisicità che l’occidente ha perduto: il silenzio che cade verso sera sui ghat di Benares, i mille mestieri artigiani svolti all’aperto, basta un rasoio e si è barbieri, basta un ferro da stiro e si apre una piccola stireria; il profumo delle frittelle cotte nell’olio bollente in botteghini improvvisati, la bellezza dei sari stesi ad asciugare uno accanto all’altro sul greto dei fiumi dopo la fatica di insaponare, sbattere e torcere nell’acqua putrida; il giovane e il vecchio col volto tranquillo che correndo a piedi nudi o pedalando sgangheratamente si trascinano dietro un risciò carico di gente con un karma migliore, il colore dei petali da infilare per farne ghirlande da portare al tempio, i sorrisi dei bambini, delle ragazze, dei giovani dai denti bianchissimi, i movimenti leggiadri delle danzatrici, in certi momenti simili a guizzi d’insospettata armonia: questo e altro fa parte delle immagini dell’India che scuotono le nostre certezze tecnologiche e vivaddio, ci regalano profondi sentimenti umani che credevamo di non più possedere.
Tagore rispose a Mircea Eliade, giovane scrittore in visita a Calcutta che gli chiedeva cosa può insegnare l’India agli occidentali: “Io sono un poeta indiano e canto come vivere, come opporsi alla morte e alla morte dell’io interiore. La vita spirituale per noi indiani è gioia e voluttà, è densa come la pioggia del monsone, è alta come le vette dell’Himalaya. Noi realizziamo questo stato d’animo mentre in Europa la conoscenza del sé è alterata. La lettura di un libro sacro per noi è una drammatizzazio ne che si realizza nell’animo del lettore, e migliora il lettore stesso attraverso l’emozione che lo porta a un livello più alto”.

Percorrendo l’India in questi due affascinanti viaggi tutto questo l’ho avvertito con emozione ed è questo che mi fa dire che qualcosa è già cambiato in me.
Se l’India, che secondo il display sempre aggiornato collocato in una piazza di Delhi, ha già raggiunto il miliardo di individui, riuscirà a salvare la sua identità, forse ce ne verrà qualcosa anche a noi, che potremo ritrovare il nostro tempo e non essere più posseduti dal tempo tiranno; potremo rigenerarci in un’autentica e tollerante cultura della diversità come templi e grotte ci hanno indicato, e nel continuo e assordante rumore dei clacson, nel fetore delle mille fogne a cielo aperto, nell’aria avvelenata delle mostruose concentrazioni urbane, riceveremo quel fortissimo scossone alle nostre sicurezze, così salutare.
La nostalgia già mi riprende.

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