In navigazione verso il Rio de la Plata

di Eno e Isabella Santecchia –

La Principessa che non fece ritorno.

Il 22 ottobre del 1908, nei cantieri navali di Riva Trigoso vicino Genova, fu varata una nave che prese il nome della figlia secondogenita dei sovrani d’Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena: Principessa Mafalda. La nave e la principessa Mafalda di Savoia condivideranno in parte il destino.
La sua nave gemella, la Principessa Jolanda, durante il varo il 22 settembre 1907, per qualche difetto di costruzione e di distribuzione dei pesi s’inclinò improvvisamente sul fianco sinistro. Il piroscafo Principessa MafaldaOgni tentativo di raddrizzarla fu vano; imbarcò acqua dagli oblò dello scafo rimasti aperti, si capovolse e affondò nello specchio d’acqua adiacente il bacino. Il relitto non fu mai riportato a galla. Era nelle intenzioni del progettista della Principessa Mafalda mantenere la posizione di primato della nostra bandiera fra l’Italia e l’America del Sud. Questa linea passeggeri all’epoca era interessata da un forte flusso migratorio proveniente dalle nostre zone più povere. L’apparato motore era stato progettato per permettergli una traversata di quindici giorni. Piroscafo di lusso, arredato con notevole buon gusto possedeva confortevoli sistemazioni: era la nave ammiraglia del Lloyd Italiano Società di Navigazione che, più tardi,fu assorbito dalla Navigazione Generale Italiana. Alla sua entrata in servizio era la migliore nave, la più veloce a collegare l’Italia ai porti dell’America Meridionale e per tonnellaggio la più grande della nostra Marina Mercantile. Le sue dimensioni erano 141 metri di lunghezza, 17 metri di larghezza, una stazza di 9.210 tonnellate, aveva due fumaioli. I due motori di 10.000 HP ciascuno e le due eliche le consentivano una velocità di crociera di 18 nodi. Montava anche una potente stazione radio rice-trasmittente. La nave disponeva di 100 posti in classe di lusso in appartamenti e cabine esterne, 80 di prima classe, 150 di seconda e capacità di 1200 emigranti (ridotti a 756 negli ultimi anni di servizio) sistemati in ampi stanzoni e nei corridoi delle stive. L’equipaggio era composto da 280 a 290 marinai.
Sul ponte superiore di passeggiata vi erano i saloni riservati alla classe di lusso e alla prima: grande hall, sala da pranzo, salone delle feste, sale musica e da gioco, un sala per le signore, saletta bambini, un luminoso jardin d’hiver,una veranda ed ampie passeggiate coperte. I servizi di queste due classi erano stati affidati in gestione alla direzione degli alberghi Excelsior di Roma e National di Lucerna. La seconda classe, sistemata a poppa, era molto decorosa con buoni locali pubblici, passeggiate e spazi all’aperto. Anche le sistemazioni di terza classe erano ritenute per quei tempi all’avanguardia. Le tariffe di quest’ultima classe erano state fissate dal Commissariato per l’emigrazione. La pubblicità sosteneva che la nave consentiva un viaggio comodo, sicuro e gradevole, ma allo stesso tempo familiare.
La Mafalda partì il giorno 30 marzo 1909 per il suo primo viaggio, nella linea Genova – Buenos Aires con scali a Barcellona, Rio de Janeiro, Santos e Montevideo.
Dopo il viaggio inaugurale ebbe immediato successo e divenne la nave preferita dalle ricche famiglie argentine, uruguayane e brasiliane per i viaggi in Europa. Per contro trasportò negli anni migliaia d’emigranti italiani in America meridionale.
Durante il primo conflitto mondiale fu utilizzata nel porto di Taranto quale nave albergo per gli ufficiali, dove rimase quindi al riparo dai siluri dei sommergibili nemici. Alla fine delle ostilità riprese servizio.
In diciotto anni di navigazione aveva compiuto un centinaio di viaggi tra il Mediterraneo e il Rio de la Plata. Solo una volta il 22 agosto 1914, poco dopo l’inizio delle ostilità del primo conflitto mondiale, si era diretta a New York, dove aveva trasportato un folto numero di Americani del nord che si affrettavano a lasciare l’Europa. Nel 1927 la società armatrice aveva deciso di mettere in disarmo la nave poiché tecnicamente obsoleta, nel frattempo, infatti, erano entrate in servizio nuove motonavi più grandi e moderne. La Mafalda si apprestava quindi a compiere l’ultimo dei suoi numerosi viaggi oltre l’oceano Atlantico. Il destino, però non era d’accordo, aveva già deciso che, dopo tanti anni di onorato servizio, non meritava l’umiliazione di essere fatta a pezzi dalla fiamma ossidrica.

La nave salpò le ancore da Genova per Buenos Aires l’11 ottobre 1927, con a bordo 977 passeggeri e 287 persone di equipaggio. Aveva a bordo anche un carico di 250.000 Lire italiane oro inviate dal governo italiano per l’Argentina.
Tra gli altri s’imbarcarono anche alcuni emigranti della provincia di Macerata; uno dei quali non aveva compiuto diciotto anni. Facciamo un passo indietro di alcuni mesi per vedere cosa aveva fatto questo giovane.

Nelle lunghe sere d’inverno, mentre sul focolare crepitavano ceppi antichi, le fiamme disegnavano ampi bagliori e lunghe ombre nella stanza illuminata dalla lampada a olio, il ragazzo aveva ascoltato racconti che non riusciva a dimenticare. I genitori gli narravano che, agli inizi del 1900, si erano recati nell’altro emisfero, in Sud America, per cercare fortuna.
Il giovane, affascinato dai racconti, idealizzati dalla sua fantasia, aveva da qualche tempo due pensieri fissi. Doveva a tutti i costi rifarsi una vita lontano; perché era convinto che i luoghi in cui era nato, troppo avari, non gli avrebbero concesso nulla di quanto sperava. Aveva anche un triste presentimento. Nonostante nessuno avesse ancora dimenticato le sofferenze e i lutti della guerra del 1915 – 1918, era fermamente convinto che alcune nazioni europee avessero intenzione di riarmarsi e che ben presto quindi sarebbe scoppiata un’altra guerra. Questa volta purtroppo sarebbe toccata a lui, aveva quasi l’età giusta!
Prese la sofferta decisione e dopo diversi mesi di duro lavoro presso una fornace, riuscì a risparmiare la somma di denaro necessaria per pagarsi il biglietto del viaggio. Trovò in paese anche un emigrante disposto a garantire per lui minorenne nelle pratiche di emigrazione.
Era fermamente deciso a lasciare la famiglia, le amicizie e l’Italia alla ricerca di un lavoro e di un futuro diverso. Sperava di rifarsi una vita migliore di quella che lasciava, un po’ come tutti gli emigranti. Il giovane aveva le idee chiare, ammirevole coraggio e fermezza. Verso i primi di ottobre del 1927, quando partì da casa per recarsi a Genova per l’imbarco, salutò i genitori e fratelli lasciandoli di stucco esclamando: “Ritornerò quando pioveranno le coperte!”. Aveva con sé una valigia con qualche indumento e poche cose, ma nel cuore tanta voglia di fare e un ardente desiderio di andare a vivere in luoghi lontani dei quali aveva solo sentito parlare.



La fregata Presidente Sarmiento era una nave-scuola della marina da guerra argentina che stava effettuando un viaggio d’istruzione intorno al mondo. Due militari il capo mitragliere Juan Santoro e il marinaio Anacleto Bernardi si ammalarono di polmonite; fu quindi disposto il loro rientro in patria per trascorrervi la convalescenza. Scesi a Genova, s’imbarcarono sulla Mafalda. Di navi come il Titanic si è scritto molto, invece sulla Principessa Mafalda le notizie sono poche e frammentarie. Per cercare di squarciare le nebbie dell’oblio e far quanta più luce possibile sull’accaduto proviamo ad utilizzare anche le testimonianze di alcuni passeggeri. E’ una verità scomoda!
Sembra che le difficoltà tecniche siano iniziate alla partenza da Genova che fu rinviata di cinque ore per riparazioni alle macchine. Il personale di bordo tranquillizzò i passeggeri che trascorsero l’attesa conversando sugli argomenti di attualità dell’epoca: il charleston, Maurice Chevalier, Alvear ecc. e sulle condizioni del tempo. A Barcellona in Spagna ci fu una sosta forzata di 24 ore per riparare una pompa. Nel mar Mediterraneo le macchine si fermarono otto volte. Anche a Dakar in Africa furono eseguite delle riparazioni.
La traversata dell’oceano Atlantico fu fatta con una caldaia a vapore che funzionava male e una pericolosa inclinazione della nave. Infatti, qualcuno asserisce che l’inclinazione era talmente elevata che a colazione non si riusciva ad appoggiare le tazze con il caffè perché si rovesciavano.
Nonostante i problemi, la vita a bordo scorreva tranquillamente. In occasione del passaggio dell’equatore, sul ponte principale fu organizzata una gran festa con musica dell’orchestra e un’enorme torta. Una bambina di due anni Doly Negrete, figlia di un chirurgo argentino, fu eletta reginetta della nave.
Martedì 25 ottobre 1927 era un tiepido giorno primaverile, il cielo era limpido il mare tropicale era calmo; la nave stava navigando in direzione sud ovest a circa 85 miglia al largo delle coste dello stato brasiliano di Bahia. Il tratto più lungo del viaggio era stato compiuto, restavano ancora alcune ore di luce naturale. Nel pomeriggio, verso le ore 17.00 accadde un incidente, un rumore sordo scosse la nave che si fermò. Il rumore inquietò i passeggeri che, dopo le solite spiegazioni degli ufficiali, ritornarono ai loro impegni. L’orchestra riprese a suonare, quelli della prima classe continuarono a gustare il the, altri ripresero la passeggiata in coperta nell’attesa della cena.
Questa volta, però, non si trattava dei soliti inconvenienti cui ormai quasi tutti i passeggeri erano abituati.
Si era sfilato l’asse portaelica di sinistra. L’acqua entrò da un portello di comunicazione fra i tunnel delle eliche e dal portello del locale del servomotore del timone.
Le paratie stagne, ormai vecchie, non si chiusero a tenuta d’acqua. Il personale di bordo fece il possibile, ma non riuscì a tamponare l’acqua, e nel giro di poco tempo, la sala macchine fu invasa dalle acque. Il volume d’acqua che penetrò era così grande che, le caldaie si spensero e non esplosero, come invece si temeva. Con ciò smise quindi di funzionare anche il generatore di energia elettrica. Poiché la nave non disponeva di una dinamo d’emergenza, venne a mancare a bordo l’energia elettrica.
Il segnale di S.O.S. era stato lanciato e ricevuto da diverse navi, ma non fu poi possibile comunicare con le navi soccorritrici. Dall’esterno non si era ben capito cosa fosse veramente successo a bordo della Mafalda, così alcune navi non si avvicinarono troppo, per paura che scoppiassero le caldaie.
Il comandante della nave, capitano di lungo corso Simone Gulì ordinò l’evacuazione della nave e rimase in coperta a dirigere le operazioni con il revolver in pugno urlando a pieni polmoni: “Donne e bambini prima!”.
Gli ufficiali e l’equipaggio, con l’uso della forza, riuscirono inizialmente a contenere il panico che si stava rapidamente diffondendo e organizzare un ordinato abbandono della nave. L’inclinazione della nave si accentuò ulteriormente: decine di oggetti rotolarono sui ponti.
L’opera di salvataggio, divenne poi sempre più difficoltosa a causa dell’oscurità della notte e della forte inclinazione dello scafo, che impedì di ammainare correttamente tutte le lance di salvataggio disponibili. Alcune di esse, infatti, si danneggiarono urtando contro la murata prima di essere calate in acqua. Tra le varie difficoltà per un ordinato salvataggio, il panico fece la parte del leone. S’impadronì di tutti, ma soprattutto dei passeggeri della terza classe che si sentivano intrappolati nelle parti più basse della nave. In particolare di cento siriani che si riversarono nella seconda classe, travolsero la vigilanza invadendo le altre coperte e seminando il panico. Quelle che seguirono furono quasi cinque ore segnate da scene incredibili: un pandemonio.
I salvagente e le lance di salvataggio, rappresentavano qualcosa che separava la vita dalla morte. Per riuscire a salire a bordo di una lancia occorreva condurre una lotta feroce con gli altri passeggeri.
Quattro ufficiali, che si dirigevano in coperta con alcuni salvagente, furono letteralmente assaliti dai passeggeri disperati che poi continuarono a lottare tra loro per il possesso degli indispensabili dispositivi di salvataggio. Le lance di salvataggio furono abbassate senza capi-lancia con donne e bambini. Poiché molte persone, qualcuna addirittura con la valigia, sfuggendo al controllo dell’equipaggio, si gettarono su di esse, alcune si capovolsero e molti annegarono. Colme al di là del limite, incapaci di galleggiare, alcune facevano acqua o, semplicemente spezzandosi, altre seminavano il mare di uomini e donne che sparivano immediatamente sotto le acque.
In risposta alle richieste di soccorso inviate via radio, giunsero le navi: Alhena, Avelona, Empire Star, Formosa, Hellen, King Frederick, Krissanty, Moselle, Pantera, Piauhy, Rossetti, Solen. Appena si avvicinarono al luogo dell’incidente, abbassarono le lance di salvataggio, soccorsero le persone che si erano gettate a mare e raccolsero i naufraghi che si trovavano nei natanti.
L’oscurità della notte era appena rotta dai riflettori delle navi soccorritrici che illuminavano uno spettacolo dantesco: corse, lotte senza quartiere, nonché grida, richieste d’aiuto e lamenti che s’intrecciavano in tutte le lingue. Chi non aveva trovato posto in qualche barca, nuotava, altri si afferravano disperatamente a qualsiasi oggetto galleggiasse.
In acqua un ragazzo di circa quindici anni afferrò la gamba di un uomo in possesso di salvagente dal quale ricevette un calcio, dopodiché finirono entrambi inghiottiti dalle acque. Nella lotta disperata per salvare la propria e l’altrui vita ci furono numerose vittime, ma anche esempi d’altruismo e abnegazione. Alcuni giovani volenterosi collaborarono attivamente con l’equipaggio alle operazioni di evacuazione e soccorso a bordo della Mafalda. Tra gli altri, due marinai argentini convalescenti Juan Santoro e Anacleto Bernardi si presentarono dal capitano offrendo volontariamente la loro collaborazione. Essi prelevarono dai compartimenti diversi passeggeri svenuti o impauriti che non volevano uscire in coperta.
Ad un certo punto, gli occhi esperti dei marinai delle navi giunte in soccorso notarono fendere le acque dell’oceano, ormai divenute scure, le inconfondibili e minacciose sagome delle pinne dorsali degli squali. Immagine-incubo di tutti i naufragi. Così, parecchi naufraghi che nuotavano o che galleggiavano aggrappati a salvagente, scomparvero divorati dalla frenesia alimentare di questi pesci antichi 450 milioni di anni.
Dopo aver soccorso numerose persone, il ventenne Anacleto Bernardi, al quale era stato assegnato il salvagente, aspettava con calma il suo turno per gettarsi in acqua. Un uomo anziano, Giovanni Fasano che non sapeva nuotare e non aveva trovato posto in nessuna barca, chiedeva aiuto. Il giovane senza esitare gli fece indossare il suo salvagente, si gettò in mare insieme a lui, poi cercò di arrivare fino alla più vicina barca, ma fu aggredito da un pescecane. Da una lancia il soccorritore Juan Santoro si rese subito conto che il marinaio sul corpo aveva squarci enormi, infatti, poco dopo morì.
Quando i sopravvissuti raccontarono quest’episodio si commosse l’intera Argentina. All’eroico marinaio nel suo paese natale Entre Rios è stata intitolata una scuola, a Buenos Aires una via e il suo busto si trova di fronte alla sede della marina argentina.
La signora Teresa Foglia accompagnò il suo piccolo di due anni dalle guance paffute ad una lancia che stava per essere ammainata. Si rese conto che poteva prendere freddo e fece una corsa affannosa in cabina per cercare il cappotto, ma quando ritornò avevano già abbassato la barca. Fortunatamente qualcuno si era preso cura del piccolo Mario Olivero che fu tratto in salvo sulla nave Formosa, la madre trovò invece soccorso sull’Athena. Non ci soffermiamo sul pianto disperato della donna, che fortunatamente riuscì a riabbracciare il figlioletto a Rio de Janeiro, quando lo credeva ormai scomparso. Madre e figlio giunsero a Buenos Aires il 7 novembre 1927 dove alloggiarono all’Hotel de Inmigrantes, la porta dell’Argentina. Questa vecchia pensione, restaurata di recente, si trova nei pressi del porto della capitale federale.
Alle ore 22.10 il comandante gettò il sigaro che stava fumando e diede due lunghi fischi con il suo fischietto: era la fine la nave alzò la prua al cielo e s’inabissò. La Mafalda aveva impiegato più di quattro ore e mezza per colare a picco. Il capitano, rimasto al posto di comando a dirigere le operazioni di evacuazione fino all’ultimo, anziché salvarsi, preferì seguire la sua nave in fondo all’oceano. Lo seguirono, alcuni ufficiali, i macchinisti e i due marconisti che rimasero nella cabina inviando segnali di richiesta soccorso fino alla fine.
Nel naufragio perirono 314 persone: 9 membri dell’equipaggio e 305 passeggeri; di questi molti a causa dell’attacco degli squali. Tra le specie di squali che pote-vano esserci in quelle acque tropicali: lo Squalo bianco (Carcharodon carcharias), lo Squalo tigre (Galeocerdo cuvier) e il Longimano (Carcharhinus longimanus). Dell’aggressione di Anacleto Bernardi si può supporre che sia stata opera dello Squalo Bianco. Esso, dopo il devastante attacco, si allontana aspettando che la preda muoia dissanguata, invece lo Squalo tigre dopo il primo attacco non si ferma.
Oggi la nave Principessa Mafalda riposa nelle acque dell’oceano Atlantico ad una profondità di oltre 1.400 metri, a circa 80 miglia da Porto Seguro e 90 miglia dalle isole Abrolhos. Non si sa se il suo carico di monete d’oro fu portato in salvo.
Il nostro determinato emigrante rimase aggrappato per ore ad una tavola di le-gno e si salvò miracolosamente dall’attacco degli squali. Fu fatto salire a bordo di una delle navi soccorritrici per ultimo, perché la precedenza nei soccorsi spettava alle donne, bambini e anziani. Sbarcò a Rio de Janeiro da dove poi proseguì per l’Argentina con la nave italiana Duca degli Abruzzi. A Buenos Aires un giornale fece una raccolta di fondi in favore dei naufraghi che avevano perso tutto; un commercian-te donò ad ogni famiglia un servizio di piatti. Il giovane si rifece una vita, si sposò ebbe dei figli e non si pentì mai delle sue decisioni. Rivide l’Italia solo una volta negli anni cinquanta, nel corso di un breve viaggio.
Il comandante Conte Carlo Bardesono di Rigras nel suo libro “Vocabolario marinaresco” edito nel 1932 parlando di navi in generale scrive: “… il mare è feroce verso gli ingordi che per avidità di guadagno sovraccaricano le navi o fanno navigare quelle che dovrebbero invece essere demolite. … le sue vittime sono innocenti!…“.

Molto e’ cambiato nella sicurazza navale in un secolo: nelle immagini di Eno Santecchia che compaiono nel testo, sono visibili le lance di salvataggio e i gommoni gonfiabili automaticamente (appena cadono in mare) in dotazione alla “Costa Classica” costruita nel 1991.

Mafalda di Savoia

Sono trascorsi quasi sedici anni la guerra, che il nostro emigrante a tutti i costi temeva, era scoppiata, aveva coinvolto l’Europa, anzi era diventata la seconda guerra mondiale. Per l’Italia stava volgendo al peggio e non solo; dopo la caduta del fascismo si erano create delle spaccature da guerra civile. La principessa Mafalda di Savoia aveva sposato il principe tedesco Filippo d’Assia e quindi divenuta langravia d’Assia. Dal matrimonio aveva avuto quattro figli. Verso la fine di agosto 1943 si recò in Bulgaria per prestare assistenza alla sorella Giovanna, poiché il marito Re Boris era gravemente ammalato. Quando arrivò, il Re era già morto e dopo i funerali decise di rientrare a Roma preoccupata per la sorte dei suoi figli. Nel frattempo in Italia c’era stato l’armistizio dell’8 settembre con tutte le sue conseguenze, ma nessuno l’aveva seriamente messa in guardia circa quei gravi sconvolgimenti. Al rientro, confidando nel fatto di essere cittadina tedesca, commise il fatale errore di avvertire l’ambasciata tedesca. Per ordine di Hitler e con l’operazione Adeba fu arrestata dai tedeschi, tradotta in Germania a Monaco, Berlino ed infine internata nel lager di Buchenwald.
Giovedì 24 agosto 1944, gli alleati eseguirono l’unico bombardamento aereo al campo di concentramento; crollò la baracca e la principessa riportò varie ferite. Solo alla sera del 28 agosto, dopo quattro giorni, fu trasportata all’ospedale dove fu operata dal direttore un chirurgo delle SS. Non superò l’estenuante operazione e non rivide più l’Italia. I nazisti, che avevano già privato Mafalda della sua vera identità, scrissero sulla fossa “donna sconosciuta”.

Molto e’ cambiato nella sicurazza navale in un secolo: in queste immagini, di Eno Santecchia, sono visibili le lance di salvataggio e i gommoni gonfiabili automaticamente (appena cadono in mare) in dotazione alla “Costa Classica” costruita nel 1991.

Copyright © 2001 Eno Santecchia
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Alberto Ferraro
Alberto Ferraro
6 anni fa

Sono il nipote di una delle vittime del principessa Mafalda, chiedo con cortesia se possibile la lista dei nomi delle vittime fra cui mio nonno FERRARO SALVATORE